Copertina
Autore Kevin Phillips
Titolo La teocrazia americana
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Saggi , pag. 608, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x4,3 cm , Isbn 978-88-11-74063-6
OriginaleAmerican Theocracy [2006]
TraduttoreStefania Cherchi
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe paesi: USA , politica , religione , storia contemporanea , economia politica , energia
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Indice

Prefazione                                                         7


PARTE PRIMA - PETROLIO E SUPREMAZIA AMERICANA


1. Petrolio e potere nazionale                                    23

Breve storia della «benzinamania» dell'Occidente, 28;
La scomoda eredità dei passati successi, 35;
L'infrastruttura energetica dell'America è obsoleta, 43;
La crisi dei giganti automobilistici e petroliferi
    americani e le premesse del riscatto mediorientale, 54

2. Politiche di dipendenza petrolifera negli Usa                  63

Ruolo del petrolio e politiche di partito, 66;
Le grinfie del petrolio sulla presidenza degli Stati Uniti, 71;
L'eccezionale ruolo del petrolio nella politica estera Usa, 84;
Petrolio, cultura automobilistica e scelte politiche
    statunitensi nel XX secolo, 91;
La coalizione degli idrocarburi e le elezioni del 2004, 100

3. Trombe della democrazia, campane della benzina                115

La guerra dei cent'anni per il petrolio, 117;
La vera mappa dell'Iraq, 124;
Il petroimperialismo americano si precisa meglio, 128;
Centcom, Eurcom - o Oilcom?, 137;
Iraq: bacini elettorali multipli e conti alla rovescia, 141


PARTE SECONDA - TROPPI PREDICATORI


4. Il radicalismo religioso americano come la torta di mele      159

La dinamica settaria nella religiosità americana, 164;
Il «settore risvegli» è in perenne espansione, 169;
Religione, politica e guerra, 187;
Gli Usa: un popolo e una nazione di eletti, 192

5. Sconfitta e resurrezione: la meridionalizzazione dell'America 201

L'asse Nord-Sud dello scontro culturale in America, 203;
Dalla guerra civile alla resurrezione, redenzione e
    rinascita del Sud, 213;
Convenzione battista del Sud: la chiesa di stato
    dell'ex Confederazione?, 222;
Il Grande Sud e il futuro della repubblica, 236

6. Gli Usa nella Dixie Cup. Nuovi campi di battaglia
   religiosi e politici                                          251

I repubblicani e il Sud: il grande capovolgimento, 255;
Il primo partito religioso d'America, 266;
Repubblicani «rinati»: il 2004 e la nuova carta
    politico-religiosa degli Usa, 280;
Undici settembre: cogli l'attimo fondamentalista, 292;
La teocrazia repubblicana emergente?, 298

7. Chiesa, stato e declino nazionale                             311

L'eccezionalismo, ovvero l'illusione che gli Stati Uniti
    siano diversi, 314;
Il disilluminismo americano del XXI secolo, 329;
Teologizzazione della politica americana: sintomi e cura, 334;
Sulle orme dei crociati: il tallone d'Achille degli
    angloamericani, 352


PARTE TERZA - UNA PROSPERITĀ A CREDITO


8. Aumento del debito, incertezze politiche e
   «finanzializzazione» negli Usa                                371

L'infida traiettoria del debito americano, 377;
Debito e complesso industrial-creditizio, 390;
Una società debitrice, una nazione delle carte di credito, 402;
L'avidità umana e la bolla creditizia del 1995-2005, 412

9. Il debito: la storia insegna, ma noi non vogliamo imparare    415

Settore finanziario: il finale di partita dei campioni, 417;
Precarietà delle culture redditiere, 426;
L'importanza dell'industria pesante, 432;
La settecentesca mano invisibile del mercato nella strategia
    americana del XXI secolo, 438

10. Bolle di sapone e creditori esteri. Le difficoltà
    dell'America e le grandi occasioni dell'Asia                 441

Le famiglie americane sono indentured?, 447;
La finanza, «piede invisibile» del mercato?, 454;
E adesso in Asia..., 460;
Guerra: la disfatta militare ed economica delle grandi
    potenze, 466;
Previdenza sociale e Medicare, 473

11. La maggioranza repubblicana errante                          477

Il dopo Iraq: petrolio, debito, dollaro, 479;
La coalizione repubblicana e la religione, 484;
La banconota verde con le spalle al muro, 491;
Fondamentalismo culturale e politico: la teologia della
    politica interna ed estera degli Stati Uniti, 498;
La finanzializzazione: una Götterdämmerung volckeriana?, 514;
Laicismo, politiche sclerotizzate e delusioni varie, 524

Postfazione. La coalizione elettorale repubblicana e i suoi
             mutamenti                                           533
Ringraziamenti                                                   542
Note                                                             543
Indice delle carte e delle tavole                                589
Indice analitico                                                 591

 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Il popolo americano non è stupido. Per questo negli ultimi quarant'anni i sondaggisti che hanno domandato alla gente se gli Stati Uniti fossero sulla strada giusta o su quella sbagliata hanno spesso ottenuto la seconda risposta: decisamente sulla strada sbagliata. E la cosa si è ripetuta alla fine del 2005.

Dato però che i sondaggisti non si avventurano quasi mai sul terreno delle spiegazioni causali, questo libro proverà ad avanzarne qualcuna. La sconsiderata dipendenza da un approvvigionamento petrolifero sempre più scarso, un ambiente dominato dal radicalismo religioso (fin troppo influente in politica) e il fatto di vivere di denaro preso in prestito - l'indebitamento, sempre più spropositato e causa di un grave deficit sia interno che internazionale - sono i tre pericoli principali che incombono sugli Stati Uniti del XXI secolo.

Non dovrebbero esserci anche la guerra e il terrorismo, nella lista? Sì, di fatto ci sono. Ma facciamo un passo indietro. Guerra e terrorismo derivano buona parte della loro attuale virulenza dalle ricadute incendiarie delle politiche petrolifere e del fondamentalismo religioso sia nel mondo islamico sia in quello occidentale. Nonostante gli appelli a diffondere libertà e democrazia, di fatto sono stati il petrolio e la relativa geopolitica a dominare per un intero secolo l'attività angloamericana in Medio Oriente. Su questo punto la storia non potrebbe essere più chiara.

Gli eccessi del fondamentalismo caratterizzano l'America e Israele tanto quanto le ovvie depredazioni dell'islam radicale. I predicatori televisivi dell'assunzione in cielo, della fine del mondo e dell'Armageddon potrebbero tranquillamente tenere testa a qualsiasi ayatollah sciita, e con le ultime due elezioni presidenziali il GOP [Grand Old Party, il partito repubblicano degli Usa, n.d.t.] si è trasformato nel primo partito religioso della storia degli Stati Uniti.

La finanzializzazione che ha trasformato l'economia statunitense negli ultimi tre decenni - negli anni Novanta il peso dei settori finanziario, immobiliare e assicurativo ha raggiunto e superato quello del settore produttivo nella formazione del prodotto interno lordo - è già di per sé un pessimo auspicio, e oltretutto si accompagna a livelli di indebitamento da record e a un poderoso emergere del complesso industriale del debito-credito. Nel XXI secolo l'eccessivo indebitamento potrebbe diventare per gli Usa il quinto cavaliere dell'Apocalisse accanto a guerra, pestilenza, carestia e incendio.

Il titolo di questo libro, La teocrazia americana, riassume il drastico cambiamento intervenuto nelle scelte di politica interna e internazionale degli Usa - la nuova prepotenza politica della religione e i suoi effetti sulla proiezione della potenza militare americana nelle terre bibliche del Medio Oriente -, un cambiamento che la maggior parte della gente comincia solo ora a comprendere. Anche prima d'oggi, in Nordamerica, ci sono stati dei regimi teocratici - nel New England puritano e più tardi nello Utah dei mormoni - ma tranne che nella fase iniziale essi non hanno mai avuto l'intensità di quelli europei, come la Ginevra di Calvino o la Spagna cattolica dell'età dell'inquisizione.

La maggior parte delle teocrazie cristiane analizzate dagli storici ha in comune due caratteristiche particolari che bastano a definirle. La prima è che sono sempre state molto piccole quanto a estensione geografica. La seconda, più importante, è che demograficamente sono nate da una migrazione di credenti. Nel XVI secolo la popolazione della Ginevra calvinista era gonfiata dai rifugiati protestanti scappati dalla Francia, mentre i calvinisti riformati d'Olanda avevano ricevuto un'analoga trasfusione di profughi fiamminghi provenienti da Anversa, allora in mani spagnole. Anche Bay Colony, nel Massachusetts, nacque in seguito a una migrazione di puritani inglesi, e i mormoni che nel XIX secolo popolarono Utah sono un altro caso di esodo legato al mito di Sion. Quanto alla Spagna, nonostante il cattolicesimo militante e l'infame capitolo dell'inquisizione, si tratta di una nazione troppo grande e variegata per il modesto ordine di grandezza richiesto dallo schema di sviluppo di un regime teocratico: nel XVII secolo infatti tutti i tentativi di chiudere teatri, case da gioco e bordelli si risolsero in un fallimento, e l'età d'oro dell'arte e della letteratura spagnola - da Cervantes a El Greco - fiorì a Toledo e a Madrid sotto il patrocinio della corte, della chiesa e della nobiltà a dispetto delle frequentissime denunce per omosessualità e degli scandali d'altro tipo che l'inquisizione non perseguiva certo con eccessiva severità.

La teocrazia americana appartiene a questo filone minore. Gli Stati Uniti sono troppo grandi e diversificati per somigliare alla Bay Colony di John Winthrop, alla Ginevra del XVI secolo o allo Utah del XIX. Una potenza di livello mondiale come gli Usa, con quasi trecento milioni di abitanti e immense responsabilità internazionali, si avvicina già quanto è possibile al modello teocratico quando presenta le sventurate caratteristiche che si sono date nel 2005 a Washington: un presidente eletto convinto di parlare per conto di Dio, un partito politico di maggioranza che rappresenta i «veri credenti» e si sforza di mobilitare le chiese, i molti elettori del partito repubblicano secondo i quali il governo dovrebbe farsi guidare da principi religiosi e soprattutto l'adozione, da parte della Casa Bianca, di agende di politica interna e internazionale informate a motivazioni religiose e a una visione biblica del mondo. Di questi fattori e di altri ancora discuteremo nella Parte seconda del libro.

I tre elementi di rischio che abbiamo evidenziato in queste pagine sono già di per sé minacce serie alla vita della repubblica, ma la storia ci fornisce un ulteriore livello di conferma. Risorse naturali, fanatismo religioso, guerre e indebitamento nazionale sono tra le cause principali che hanno innescato il declino delle precedenti potenze economiche mondiali. In questo senso gli Stati Uniti non sono affatto i primi: il che ci mette nella fortunata condizione di poter approfittare degli insegnamenti ricavabili dagli esempi storici di paesi in cui qualcosa, a un certo punto, non è andato per il verso giusto.

Nel XX secolo, come sappiamo, il petrolio è stato il propellente che ha permesso agli Stati Uniti di ascendere al ruolo di prima potenza mondiale. Già nel secolo XIX la Gran Bretagna aveva conquistato l'egemonia grazie al carbone, e ancora prima, nel XVII secolo, l'Olanda aveva costruito la sua fortuna imbrigliando vento e acqua. A un certo punto però, quando il mondo è progredito verso un nuovo regime energetico, queste due nazioni non sono riuscite a mantenere la loro leadership economica globale. A dispetto delle affermazioni contrarie, gli odierni Stati Uniti organizzano ovviamente buona parte del loro impegno militare estero attorno al petrolio e alla necessità di proteggere impianti d'estrazione, oleodotti e piattaforme marittime.

Ma l'attenzione con cui gli Stati Uniti guardano al Medio Oriente ha almeno due dimensioni: oltre a preoccuparsi del petrolio e del terrorismo, infatti, la Casa Bianca corteggia i teologi della fine del mondo e il relativo elettorato, che da sempre considerano la Terra Santa un campo di battaglia cruciale per i destini della cristianità. Entrambi i temi, petrolio e aspettative bibliche, impongono a Washington di muoversi con un livello di dissimulazione che taglia i ponti con la tradizionale responsabilità del governo di fronte all'elettorato informato.

Il corollario politico di tali manovre - affascinante, ma al tempo stesso preoccupante - è la trasformazione in atto nella coalizione presidenziale repubblicana. Fin dalle elezioni del 2000, e a maggior ragione da quelle del 2004, sono tre i pilastri centrali della politica presidenziale: 1) il binomio petrolio-sicurezza nazionale, con i molteplici e pervasivi interessi che vi sono legati; 2) la destra religiosa, con i suoi imperativi dottrinali e il suo vasto bacino elettorale; 3) il settore finanziario legato al debito, i cui confini vanno ben oltre il vecchio simbolismo di Wall Street. Nel dicembre del 2004 il «New York Times» ha coniato il termine «complesso industrial-creditizio» per indicare il motore finanziario che ha permesso al debito al consumo di espandersi fino alle dimensioni attuali.

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Pagina 16

La religione era ancora altrettanto importante negli Stati Uniti degli anni Sessanta e seguenti, quando gli attivisti della secolarizzazione, fermamente decisi a sbattere fuori il cristianesimo dalla sfera pubblica, hanno provato con tutti i mezzi a cancellarla: un errore che diede il via a quella sorta di controriforma evangelica, fondamentalista e pentecostale in qualche misura ancora in atto ai giorni nostri. Come vedremo nella Parte seconda del libro, forti pressioni teocratiche agiscono ancora sulla coalizione repubblicana e sulla leadership nazionale del partito, mentre la grossa fetta dell'America cristiana che crede nell'Armageddon e nell'infallibilità della Bibbia ha trasformato il GOP nel primo partito religioso della storia americana.

Si tratta di una religiosità che pervade ogni ambito della vita nazionale, dalla politica interna agli affari esteri. Oltre a fornire un appoggio fondamentale all'invasione dell'Iraq, paese nel quale i predicatori televisivi riconoscono la nuova Babilonia della Bibbia, l'ostilità della coalizione repubblicana nei confronti della scienza ha suscitato una dozzina di controversie che vanno dal rifiuto dell'evoluzionismo darwiniano (contrapposto alla narrazione biblica) all'indifferenza per i dati sul riscaldamento globale, dalla confutazione delle spiegazioni geologiche sull'esaurimento dei combustibili fossili al rifiuto di qualsiasi strategia tendente a limitare la crescita della popolazione mondiale, dal disprezzo per i diritti della donna alla proibizione della ricerca sulle cellule staminali e così via. A quanto pare la società e la politica statunitensi stanno per gettarsi ancora una volta in uno scontro che ricorda da vicino quello con Scopes del 1924. Quello scandalo ebbe l'effetto di tenere a bada il fondamentalismo per un'intera generazione; ma non possiamo essere sicuri che un test analogo condotto all'inizio del XXI secolo si concluderebbe allo stesso modo.

I frequentatori di librerie sanno che, negli Usa, i titoli capaci di vendere due-trecentomila copie in edizione rilegata sono piuttosto insoliti. Non rari, solo insoliti. Bisogna quindi interrogarsi molto seriamente sul successo di vendite del predicatore apocalittico Tim LaHaye, già abile fondatore (nel 1981) del Consiglio per la politica nazionale di Washington, che a partire dal 1994 ha avuto un immenso successo come coautore di una serie di libri sull'assunzione in cielo, sulle tribolazioni e sulla via per l'Armageddon che hanno venduto circa sessanta milioni di copie nei vari format (a stampa, in video e in audiocassetta). L'evangelico Jerry Falwell l'ha definito il più importante evento di editoria religiosa dopo la Bibbia stessa. Vari titoli della serie «Left Behind» sono stati in cima alla classifica del «New York Times» dei libri di fiction più venduti, e la serie nel suo insieme ha raggiunto i quindici-venti milioni di elettori. Tutti gli assistenti e i consiglieri politici dello staff di Bush devono averne letto più d'uno, anche solo per sentire il polso all'elettorato.

In questo senso possiamo dire che si tratta di testi altamente istruttivi, che forniscono spunti di riflessione difficilmente reperibili nelle più serie pubblicazioni che si interrogano sul perché, per esempio, nel 2002-2003 l'appello di George W. Bush alla guerra in Iraq contenesse toni sarcastici all'indirizzo dell'Onu, insistesse tanto sul carattere diabolico del regime di Baghdad e pretendesse che alla base della scelta bellica ci fosse l'esigenza di esportare la democrazia e non quella di procurarsi il petrolio. Quel plot LaHaye l'aveva creato quasi dieci anni prima. Il suo perfido Anticristo, che si fa aiutare da un consigliere finanziario francese e si impadronisce del potere attraverso l'Onu, ha il suo quartier generale proprio nella Nuova Babilonia, cioè in Iraq, non lontano dalla Baghdad di quel cattivissimo Saddam Hussein che per anni ha tolto il sonno alla famiglia Bush. La sua Tribulation Force, che ovviamente combatte in nome di Dio, rappresenta il bene assoluto e non ha niente a che vedere con il petrolio, il quale non è altro che una pedina nel gioco dell'Anticristo.

Vent'anni fa il «New York Times» non avrebbe mai preso in considerazione LaHaye nella sua classifica dei best seller, e il mio scenario, che vede i suoi scritti influenzare addirittura la Casa Bianca, sarebbe stato solo una volgare caricatura. Oggi però le cose non stanno più così. In un discorso della fine del 2004 Bill Moyers, giornalista televisivo oggi in pensione e pastore battista, ha rotto i ponti con tutte le convenzioni della buona educazione dicendo chiaramente davanti a una platea di studenti di medicina di Harvard: «Uno dei più grandi cambiamenti cui ho assistito in vita mia è che oggi l'illusorio non è più marginale. Si è spostato dalle frange verso il centro del sistema, fino a occupare la principale poltrona del potere nello Studio Ovale e molti scranni al congresso. Per la prima volta nella nostra storia ideologia e teologia monopolizzano il potere a Washington».

Io lo direi con parole solo leggermente diverse. Questi sviluppi hanno modificato il partito repubblicano e la sua coalizione elettorale, hanno ridotto i democratici al silenzio e sono diventati una grave minaccia per il futuro dell'America. Nella storia moderna nessuna potenza di livello mondiale è mai caduta nemmeno in parte nelle grinfie di un infallibilismo biblico di questo tipo - acqua di riflusso, non corrente principale - che può permettersi di guardare con disprezzo alle conoscenze d'avanguardia e alla scienza; l'ultimo esempio di una situazione del genere risale all'inizio del XVII secolo, quando il papato, con l'appoggio dell'inquisizione spagnola, cercò di impedire a Galileo Galilei di dire che al centro del nostro sistema solare c'è per l'appunto il sole e non la terra.

I «veri credenti» dell'ala conservatrice si fanno beffe di questi ragionamenti, dicendo che gli Stati Uniti sono una paese assolutamente sui generis, una nazione unica, un popolo eletto. Ciò che è accaduto a Roma, all'impero spagnolo, alla repubblica olandese o alla Gran Bretagna è del tutto irrilevante. Ma c'è un tranello: anche quelle grandi nazioni del passato credevano di essere uniche e irripetibili, e sentivano che Dio era con loro. La scoperta che evidentemente Lui non esisteva non fece che aggiungere un ulteriore elemento di debolezza alle ultime fasi del loro declino. Le guerre, i terremoti, le epidemie e gli sconvolgimenti di questo inizio di XXI secolo sono forse senza precedenti, ma anche i fedeli del passato leggevano come segnali millenaristici inondazioni, epidemie, carestie, comete e invasioni turche e mongole.

Negli ultimi venticinque anni ho accennato a questi precedenti politici, economici e storici (ma non religiosi) in vari libri, il più recente dei quali è Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano (Garzanti, Milano 2005). Un concentrarsi della ricchezza in poche mani, come quello che si è verificato negli Stati Uniti durante la lunga fase di rialzo di borsa del 1982-2000, ha caratterizzato anche lo zenit delle precedenti potenze economiche mondiali, indipendentemente dal fatto che le loro élite si ingozzassero fino a vomitare nelle ville del Mediterraneo o si godessero gli eleganti fasti delle case di campagna dell'Inghilterra edoardiana.

Questo libro, però, tratta soprattutto di qualcosa di diverso dalla mera ricchezza. Gli ultimi capitoli della Parte terza analizzano i pericoli connessi al debito, che pure genera un notevole surplus finanziario. Come vedremo, ricchezza e debito sono cresciuti insieme anche nella parabola storica delle precedenti potenze economiche mondiali. Nei primi anni di vita di una nazione l'indebitamento collabora in modo vitale e creativo all'espansione economica, mentre nelle fasi più tarde diventa ciò che mister Hyde era per il dottor Jekyll: uno stato d'animo prepotente che arriva a distorcere i lineamenti. Gli Usa dell'inizio del XXI secolo si sono già addentrati parecchio sulla via dell'indebitamento, al punto che alcuni critici - in modo estremamente plausibile - affermano che la bolla di sapone del mercato azionario scoppiata nel 2000 è stata semplicemente sostituita da un'insostenibile bolla creditizia.

Sfortunatamente, come si può dedurre dal sottotitolo di questo libro, tra i principali elementi di debolezza che si possono osservare nel declino delle passate potenze mondiali ci sono proprio il fanatismo religioso, l'invecchiamento o il declino della base industriale ed energetica e la finanzializzazione e l'indebitamento della nazione (a causa soprattutto delle eccessive spese militari all'estero). Gli esempi del passato sono chiari, e saranno il filo rosso delle analisi svolte in questo libro. Fino a che punto questa fatale convergenza sia da addebitarsi alle scelte politiche statunitensi - e soprattutto a quelle della coalizione repubblicana al governo - non è tanto l'argomento principale del libro quanto la sua vera raison d'ętre.

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Pagina 115

3. TROMBE DELLA DEMOCRAZIA, CAMPANE DELLA BENZINA



Per decenni il petrolio ha letteralmente dominato la politica estera e quella della sicurezza. Già alla svolta del secolo ha provocato la spartizione del Medio Oriente successiva alla prima guerra mondiale; poi ha spinto Germania e Giappone ad allungare i tentacoli oltre i loro confini geografici; infine ha causato l'embargo petrolifero dei paesi arabi, la guerra Iran-Iraq e la guerra del Golfo. Tutto ciò è chiarissimo.

Bill Richardson, segretario all'Energia degli Usa, 1999


Basta dare un'occhiata alla carta geografica. Non è certo un caso se la mappa del terrorismo in Medio Oriente e in Asia centrale è praticamente sovrapponibile a quella del petrolio. Là c'è da fare Giustizia Infinita, Libertà Duratura... e Profitti Infiniti.

«Asian Times», 2002


L'imperativo di controllare il petrolio iracheno è profondamente intrecciato alla difesa del dollaro. L'attuale forza della nostra divisa si basa sul fatto che i paesi dell'OPEC (in base a un accordo segreto fra Stati Uniti e Arabia Saudita) devono prezzare il loro petrolio in dollari.

Peter Dale Scott, 2003


Egli [Karl Rove, consigliere anziano di George W. Bush] per il 2 novembre ha mobilitato milioni di soldati di fanteria, molti dei quali hanno fatto dell'Apocalisse una forza trainante della politica statunitense. [...] Per queste persone l'invasione dell'Iraq non è che un esercizio di riscaldamento predetto dal libro dell'Apocalisse. [...] La guerra in Medio Oriente contro l'islam non è qualcosa di cui dobbiamo avere paura, ma un avvenimento da accogliere con gioia - una conflagrazione essenziale sulla via della redenzione.

Bill Moyers, 2004


Ognuna delle citazioni di questa pagina sintetizza un aspetto dell'invasione irachena del 2003. Aspetti fra loro tutt'altro che incompatibili, perché dietro l'attacco, che pure aveva come scopo ultimo l'accesso al petrolio e la difesa della supremazia mondiale degli Stati Uniti, c'erano anche altre intenzioni. Per esempio quella di camuffare gli obiettivi petroliferi dietro la guerra mondiale al terrorismo. O di rafforzare l'egemonia del dollaro sui mercati petroliferi internazionali, e di conseguenza nell'economia mondiale. O di esplicitare gli scopi dell'invasione in modo abbastanza aperto da permettere alla destra cristiana più rigidamente infallibilista di riconoscervi almeno in parte la distruzione della Nuova Babilonia vaticinata dalla Bibbia, tappa fondamentale sulla via dell'Armageddon e della redenzione.

Ma nessuna di tali motivazioni può scusare la disonestà di fondo dei politici angloamericani. Il 6 febbraio 2003, parlando a nome di George W. Bush, l'addetto stampa della Casa Bianca Ari Fleischer ripeteva che «se tutto ciò avesse a che fare con il petrolio, gli Stati Uniti si limiterebbero a togliere le sanzioni in modo da permettere al greggio iracheno di scorrere di nuovo liberamente. Ma tutto ciò non ha a che fare con il petrolio, bensì con la necessità di salvare delle vite umane e di difendere il popolo americano». Analogamente, nel novembre del 2002 il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha dichiarato che «tutto ciò non ha niente a che vedere con il petrolio: letteralmente niente a che vedere». All'inizio del 2003 anche il primo ministro inglese Tony Blair, rivolgendosi ai membri del parlamento, ha detto: «Vorrei poi dire due parole sulla teoria "dietrologica" secondo cui tutto ciò avrebbe in qualche modo a che fare con il petrolio. Mi sembra impossibile negare che, se il problema fosse il petrolio, sarebbe infinitamente più semplice mettersi d'accordo con Saddam».

Queste tre dichiarazioni, che ben presto si sarebbero ritorte contro chi le aveva formulate, erano pure e semplici menzogne. Il petrolio era un fattore cruciale della guerra. L'esile, parziale verità contenuta in queste negazioni - molto esile e molto parziale - sta nel fatto che indubbiamente c'erano anche altri, più generali elementi di preoccupazione: per esempio, come vedremo, l'amministrazione Bush sapeva fin troppo bene che la crisi connessa al raggiungimento dei picchi petroliferi costituiva un fattore di rischio strategico molto più grave di quanto il suo governo fosse disposto ad ammettere pubblicamente. Anche il ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale dipende dal petrolio. A parte questo, se fossero riuscite a impadronirsi dell'Iraq e a farne una base militare e petrolifera privata, le truppe Usa avrebbero finalmente potuto lasciare la vulnerabile Arabia Saudita, dove la loro prolungata presenza fomentava ormai da tempo il malcontento e l'appoggio al terrorismo.

Al tempo stesso i bacini elettorali più sensibili alle argomentazioni bibliche si sarebbero allontanati se l'amministrazione avesse detto troppo esplicitamente che si faceva la guerra per il petrolio o per salvare la moneta nazionale dai rischi connessi al petrolio stesso. Nella fortunata serie «Left Behind», che il leader della destra religiosa Jerry Falwell ha definito i libri più autorevoli dopo la Bibbia stessa, gli eroi eletti da Dio non hanno assolutamente niente a che fare con il petrolio; solo il perfido Anticristo è legato all'oro nero, e non per nulla risiede nella Nuova Babilonia. Tutto ciò conferma che Stati Uniti e Inghilterra non sono affatto entrati in guerra per il petrolio, Dio ce ne guardi!, o per impedire ai paesi dell'OPEC o ai leader islamici di quotare il greggio in euro, bensì per esportare in Medio Oriente la libertà e la democrazia. Un'ambizione che, oltre a essere fritta e rifritta (se si pensa che il suo pedigree risale al primo dopoguerra e al lessico politico di Woodrow Wilson e di lord Curzon, allora ministro degli Esteri del Regno Unito), in realtà c'entra ben poco con gli ultimi cento anni di presenza angloamericana nella regione.

Nel 2002 e all'inizio del 2003, mentre i tamburi di guerra dell'invasione irachena cominciavano a risuonare, regnava il massimo della confusione anche perché quasi niente della vera posta in gioco o delle vere motivazioni politiche della guerra veniva ammesso esplicitamente; né il petrolio, né le preoccupazioni per il ruolo internazionale del dollaro e nemmeno le aspettative della destra religiosa. Ma il secolo di petroimperialismo nel Golfo Persico stava per giungere a una svolta decisiva.

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Gli eventi successivi al 1973 sono abbastanza noti. Nel 1979 i radicali iraniani rovesciarono lo scià e presero in ostaggio cinquantatré dipendenti dell'ambasciata statunitense a Teheran. La missione degli elicotteri di salvataggio voluta dal presidente Carter fallì, ma gli ostaggi furono comunque rilasciati nel 1981, proprio il giorno in cui Ronald Reagan pronunciava il suo discorso d'insediamento. Fra il 1980 e il 1988, mentre Iraq e Iran combattevano fra loro per ragioni di confine, ma anche per motivi legati alla geografia petrolifera, Stati Uniti, Inghilterra e altri paesi vendevano spensieratamente le armi a entrambi. In quegli stessi anni Washington e Londra siglavano accordi clandestini per mandare al leader iracheno Saddam Hussein alcuni materiali a doppio uso che gli avrebbero permesso di dotarsi di un arsenale di armi chimiche, biologiche e nucleari. William Safire, repubblicano, editorialista del «New York Times» ed ex assistente della Casa Bianca, coniò per le attività organizzate in quella fase da Stati Uniti, Inghilterra e Italia il temine di «Iraqgate», e nel 1992 si rifiutò di collaborare alla campagna per la rielezione di George H.W. Bush proprio perché era coinvolto in questa intricata vicenda.

A guardarle retrospettivamente, le due guerre irachene del 1991 e del 2003 mostrano parallelismi anche troppo evidenti. Sia sull'Iraqgate del 1991 sia sul pasticcio del 2002-2003 relativo alle fantomatiche armi di distruzione di massa ci sono state solo indagini approssimative da parte di Washington (tramite organismi congressuali) e di Londra (attraverso la camera dei lord), che non hanno condotto a risultati significativi. Entrambi gli interventi militari sono stati resi possibili da pure e semplici menzogne: nel primo caso le presunte minacce dell'Iraq contro l'Arabia Saudita e la montatura secondo cui gli invasori iracheni avevano strappato dalle incubatrici dell'ospedale trecento neonati kuwaitiani; nel secondo l'inverosimile storia delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. L'ex ufficiale della CIA Pelletière, che pure non si dilunga molto sulla faccenda, afferma che il comportamento di inglesi e americani nella preparazione delle due guerre ricorderebbe in modo allarmante la «grande menzogna» con cui i tedeschi provocarono la seconda guerra mondiale. In ultima analisi possiamo solo dire che i due governi hanno mentito alle «rispettive opinioni pubbliche, e nei loro confronti si sono comportati in modo estremamente manipolatorio».

La stessa cosa che, come abbiamo visto, era già accaduta un secolo prima: anche quando promettevano al popolo arabo libertà e autodeterminazione, i governi inglese e statunitense si muovevano in realtà sulle note di Avanti, soldati cristiani! - o meglio, Avanti, produttori di petrolio! - accompagnate dal basso continuo dei raid aerei punitivi. Forse l'ultima parola va lasciata al defunto Edward Said: «Ogni impero, nei suoi discorsi ufficiali, dichiara di non essere come tutti gli altri, di vivere in circostanze del tutto speciali, di avere la missione di illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia, e di ricorrere alla forza solo come risorsa estrema».


La vera mappa dell'Iraq

Al Museo Nazionale di Baghdad, quello che nel 2003 i pianificatori della guerra statunitensi, incuranti del suo valore, hanno lasciato in balia dei saccheggiatori, decine di carte geografiche murali illustravano le grandi imprese del paese, culla della civiltà mondiale: l'invenzione della scrittura e della ruota, la nascita della matematica, l'adozione del primo codice di leggi scritte (il Codice di Hammurabi). Secondo quasi tutti gli archeologi, quel Museo e la Libreria Nazionale erano istituzioni di livello mondiale che custodivano un patrimonio assolutamente unico.

Eppure il primo palazzo importante che i soldati americani hanno circondato e occupato era quello dove c'erano le sole mappe e i soli manufatti che per loro avessero davvero importanza: la sede del ministero del Petrolio, nei cui archivi sono conservati migliaia di profili sismici dei campi petroliferi del paese, chiave sotterranea per i giacimenti di Majnoon, North Rumaila, West Qurna e via dicendo. L'opinione pubblica mondiale non si era ingannata sulle priorità degli Usa.

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Undici settembre: cogli l'attimo fondamentalista

Per molti mesi, dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre, il panico, l'anomia e la paura del primo momento sono rimasti come sospesi nell'aria. Poi, a poco a poco, insonnia e stress sono lentamente scomparsi; ma, ancora a un anno di distanza dai fatti, il 50% degli statunitensi adulti interrogati per un sondaggio di CBS News dichiarava di sentirsi «in qualche modo a disagio» o «a rischio di attacco terroristico», e il 62% diceva di pensare spesso all'11 settembre. Man mano che l'attenzione dell'opinione pubblica si spostava sulla guerra preventiva contro l'Iraq di Saddam Hussein, qualche studioso ha poi cominciato a esprimere una nuova preoccupazione: possibile che la paura e l'angoscia del paese fossero state manipolate in modo tale da favorire l'irrigidimento dello schema «forze del bene contro impero del male» - ovvero «chi non è con noi è contro di noi» - in una nuova ideologia a stelle e strisce segnata dalla crisi e fatta di religione, patriottismo e rispetto per l'autorità costituita?

Vorrei citare qui la testimonianza di alcuni esperti. Con gli anni ho costruito io stesso uno schema interpretativo basato sul lavoro di autori di chiara fama: Martin E. Marty e R. Scott Appleby, curatori del multidisciplinare Progetto fondamentalismo; Charles Kimball, presidente del dipartimento di religione alla Wake Forest University e autore di When Religion Becomes Evil: Five Warning Signs (2002); Bruce Lincoln, docente di religione alla University of Chicago e autore di Holy Terrors: Thinking About Religion After September 11 (2003); David S. Domke, docente associato di comunicazione alla University of Washington e autore di God Willing? Political Fundamentalism in the White House (2004); e Bruce B. Lawrence, professore di studi islamici alla Duke University e autore qualche anno fa di Defenders of God: The Fundamentalist Revolt Against the Modern Age. Tutti studiosi secondo i quali ci sono forti ragioni di preoccupazione.

In Fundamentalism Observed, Marty e Appleby parlano delle «analogie e somiglianze» che è possibile riscontrare fra le religioni forti del mondo: a cominciare dal fatto che «i fondamentalimi compaiono in tempi di crisi, reale o percepita. La sensazione di dover fare fronte a un cambiamento può essere prodotta da condizioni sociali, economiche o politiche opprimenti e minacciose; ma la crisi è sempre percepita come crisi d'identità da coloro che hanno paura di estinguersi come popolo». All'inizio degli anni Novanta Marty e Appleby ipotizzavano che il paese potesse aver paura del cambiamento perché riteneva che gli Usa fossero in piena decadenza morale: purtroppo però gli eventi dell'11 settembre corrispondono molto meglio alla definizione.

Bruce Lawrence elenca i cinque sintomi del fondamentalismo, fra i quali ci sarebbe anche la tendenza a imporre ad altri popoli la volontà di Dio (l'unica vera fede), l'intolleranza verso ogni forma di dissenso e la fiducia nell'infallibilità di un testo sacro come fonte d'ideologia e di autorità. Tutte caratteristiche presenti nella Casa Bianca del dopo 11 settembre.

Charles Kimball identifica poi le cinque tendenze perverse del fondamentalismo: 1) richiamarsi a una verità assoluta («quando la gente presume di conoscere Dio, abusa dei testi sacri e ne propaganda un'interpretazione particolare»); 2) riferirsi a un «tempo ideale», come chi predice cataclismi imminenti o annuncia l'imminente fine del mondo; 3) incoraggiare l'obbedienza cieca; 4) usare i fini per giustificare i mezzi (per esempio la morte altrui o i cosiddetti «danni collaterali»); 5) lanciare «guerre sante» come ai tempi delle crociate (e come fino a un certo punto è accaduto nel 1991 con la guerra del Golfo).

«Malaugurata» è il termine che meglio descrive la presenza di tali tendenze. Marty, Appleby e Lawrence, che scrissero i loro lavori anni prima dell'11 settembre, avevano già colto con precisione quei tratti dell'amministrazione Bush che dopo l'evento traumatico del 2001 si sono andati affermando sempre più chiaramente. A un raduno interreligioso del 2004 a Baltimora, Kimball ha espresso preoccupazione per i molti indizi da cui si poteva dedurre che la Casa Bianca si sentisse detentrice di una verità assoluta, e per il fatto che George W. Bush crede gli sia stata affidata una particolare missione divina.

Per citare un secondo approccio, Lincoln e Domke hanno analizzato i discorsi pronunciati nel 2001-2005 da alcuni alti funzionari dell'amministrazione Usa - e in primo luogo da Bush stesso -, sia per ciò che è stato effettivamente detto sia per gli obiettivi religiosi e politici sottintesi. Nel 2002 Lincoln ha studiato il discorso alla nazione che Bush aveva pronunciato nell'ottobre 2001 per giustificare la risposta militare agli eventi dell'11 settembre, arrivando alla conclusione che la retorica del presidente non era poi molto diversa da quella di Osama bin Laden: entrambi infatti «parlano in termini manichei di uno scontro fra figli della luce e figli delle tenebre, nel quale tutti e ciascuno sono tenuti a schierarsi su un lato della barricata senza possibilità di assumere posizioni neutrali, di esitare o di indugiare su un territorio intermedio». Anche se le parole del presidente Usa erano meno apertamente religiose di quelle di bin Laden, secondo Lincoln Bush utilizzava un «doppio codice» per comunicare agli attenti lettori della Bibbia la condivisione di temi scritturali, usando per esempio frasi tratte dall'Apocalisse di San Giovanni (6,15-17, dove si parla dell'ira dell'Agnello) e da Isaia (sui malvagi che si nascondono nelle grotte e sul cammino solitario del senza Dio).

Lincoln ha poi sottoposto a questa analisi del doppio codice anche il discorso pronunciato da Bush alla convention nazionale repubblicana del 2004 per accettare ufficialmente la candidatura. Oltre a prendere esplicitamente posizione contro l'aborto e i matrimoni gay, «Bush parla di "colline da scalare" e di "vedere la valle di sotto", velate allusioni alla fuga degli ebrei dalla schiavitù d'Egitto e alla visione che Mosè ebbe della terra promessa (Deuteronomio, 34)». Parlando di Afghanistan, Iraq, guerra al terrore ed economia, il presidente «dice che tutte le perdite saranno superate grazie alla speranza, alla fermezza e alla fede». Nel passo culminante del suo discorso, continua Lincoln, Bush «afferma esplicitamente il suo modo di vedere la situazione d'insieme: "Perché fintanto che il paese resterà in piedi il popolo vedrà la resurrezione di New York e tutti diranno 'Qui sono caduti i palazzi, qui si è risollevata la nazione'". Resurrezione: la parola si applicava forse al centro di Manhattan, ma sicuramente non solo a esso». Nel discorso di Bush Lincoln ha contato dodici volte l'espressione «io credo», e in due casi per «giustificare le sue guerre come guerre sante. Il primo caso - "Io credo che l'America sia chiamata a guidare la causa della libertà nel nuovo secolo" - solleva una domanda implicita: chiamata da chi? Il secondo risponde alla domanda: "Io credo che la libertà non sia un dono che l'America può dare al mondo: è un dono che l'Onnipotente ha concesso a tutti gli uomini e a tutte le donne"». L'uomo seduto nello Studio Ovale della Casa Bianca si stava trasformando nel predicatore in capo degli Stati Uniti.

In God Willing? e in altri commenti successivi Domke afferma che Bush stava sommando «una visione del mondo religioso-fondamentalista e il relativo linguaggio politico per creare un nuovo fondamentalismo politico» che fosse accettabile per gli americani «nella fase immediatamente successiva all'11 settembre». Per Domke, nelle parole del presidente, libertà e democrazia diventano un principio istituito da Dio e per il quale gli americani sono chiamati a combattere sia in Iraq sia nella più generale guerra al terrorismo: questo, per Bush, è l'unico rimedio risolutivo alla paura e al terrore. La Casa Bianca, sempre secondo Domke, stava lanciando sul mercato «il vangelo universale della libertà e della democrazia», benedizione che per il presidente viene direttamente da Dio: quindi il messaggio implicito - ma a tratti quasi esplicito - era che Bush stesso e il governo degli Stati Uniti stavano realizzando la volontà di Dio sulla terra.

In un'altra analisi del discorso pronunciato nel settembre del 2004 da Bush al momento di accettare la candidatura del GOP, Domke evidenzia lo stesso tipo di appello: «Io credo che l'America sia chiamata a guidare la causa della libertà nel nuovo secolo». Quattro mesi dopo, nel discorso sullo stato dell'Unione del gennaio 2005, Domke rileva che il presidente Bush ha usato, in una forma o in un'altra, per ben trentaquattro volte le parole freedom e liberty, dopo le quarantanove volte del secondo discorso inaugurale pronunciato solo due settimane prima. «Il collegamento che il presidente istituisce fra libertà e volontà divina», conclude Domke, «indica quanto sia centrale la concezione evangelica del mondo nella sua idea del ruolo degli Stati Uniti nel mondo dopo l'11 settembre. [...] Il governo degli Usa sta realizzando la volontà di Dio sulla terra».

Tutte queste testimonianze hanno il denominatore comune di un forte disagio riguardo al senso della missione religiosa che Bush ritiene esser stata affidata all'America, e al fatto che il presidente sembra convinto di parlare per conto di Dio. Nel 2003 Martin Marty scriveva che «dopo 1'11 settembre e la decisione di attaccare l'Iraq, un tipo di discorso che gli altri paesi trovavano semplicemente ridicolo o presuntuoso è diventato improvvisamente pregnante sul piano internazionale e storico». Appleby si dice preoccupato che, in realtà, il vangelo della libertà e della democrazia predicato da Bush possa essere nient'altro che «la versione teologica della vecchia teoria del destino manifesto». Kimhall è preoccupato per il senso della missione che Bush ritiene di avere, e Lincoln deplora che «George W. Bush sia convinto di essere stato scelto direttamente da Dio come presidente degli Stati Uniti. Ovviamente nessuno gliel'ha sentito dire esplicitamente, ma è questo il messaggio che viene regolarmente trasmesso allo zoccolo duro del suo elettorato, la destra religiosa». Domke aggiunge che «la fusione di prospettiva religiosa e di politica amministrativa patrocinata da Bush costituisce un impressionante cambio di marcia retorico. Altri presidenti hanno chiesto la benedizione e la guida dell'Altissimo, ma Bush si presenta come un profeta che parla in Suo nome».

A metà 2004, mentre George W. Bush faceva campagna elettorale nella Pennsylvania centro-meridionale tra gli amish «del vecchio ordine», il «Lancaster New Era» ha pubblicato un articolo secondo il quale il presidente, parlando a un raduno, aveva detto: «Io credo che Dio parli attraverso di me. Se non lo credessi non potrei fare il mio lavoro». Quella stessa estate il «Time» scriveva: «Anche se il presidente ripete spesso che l'islam è una religione di pace, le sue argomentazioni a favore della guerra ormai ricorrono meno a raffinate ipotesi geopolitiche e più all'idea che la terza divisione di fanteria possa essere utilizzata dalla volontà divina per far arrivare il dono della libertà a tutti i popoli della terra». L'analisi del particolare intreccio fra stato e Bibbia che si è affermato a Washington non può prescindere da questo cumulo di prove e interpretazioni.

Fin dall'inizio, nei sondaggi d'opinione questo gemellaggio di religione e politica ha pagato ottimi dividendi politici grazie ai discorsi presidenziali che mantenevano vivo il binomio paura-aggressività stigmatizzando i nemici come «gente malvagia», grazie alla martellante pubblicità riservata alle varie indagini dell'antiterrorismo e alle oscillazioni dei livelli di minaccia terroristica comunicati per mezzo dei colori: prima giallo, poi arancione, poi di nuovo giallo. Nella retorica di Washington il terrorismo islamico e Osama bin Laden si intrecciavano talmente spesso con le allusioni a Saddam Hussein e al cattivissimo Iraq che, come vedremo, per buona parte dell'elettorato religioso le due cose hanno finito col confondersi in un'unica, cupa minaccia che gravava sul futuro degli Stati Uniti. Nel 2004-2005 i dibattiti della campagna presidenziale, il deteriorarsi della posizione americana in Iraq e l'intervento della Casa Bianca sul caso Terri Schiavo (e sul «diritto di morire»), fortemente voluto dalla destra religiosa, hanno fatto emergere con maggior precisione i contorni del cambiamento di clima in atto negli Stati Uniti. Oltre a modificare la natura stessa dello scontro fra democratici e repubblicani, la meridionalizzazione del governo e della religiosità nazionale sta trasformando radicalmente il panorama ideologico del paese ed erodendo la separazione fra stato e chiesa. Come vedremo tra poco, la teologia che pervade ormai tutti i campi della politica americana sta assumendo tinte teocratiche.


La teocrazia repubblicana emergente?

Negli Usa la teocrazia - il fatto che in un certo stato sia la religione, in qualche misura, a governare la cosa pubblica - è sempre stata vista come il fumo negli occhi. Ma la confusione che domina le tendenze in atto all'inizio del XXI secolo può essere chiarita, se non risolta, grazie a una semplice domanda a risposte multiple. Secondo voi, negli Stati Uniti, la teocrazia è: 1) un timore assolutamente legittimo, come sostengono alcuni liberal; 2) uno scherzo, dati la continua crescita del laicismo, le oscenità e le violenze che ci propina Hollywood, i bordelli e i casinò del Nevada e i matrimoni gay di San Francisco; 3) l'inquietante tendenza di alcuni importanti bacini elettorali e gruppi di pressione vicini al GOP; oppure 4) tutte queste cose assieme? La risposta giusta, ovviamente, è l'ultima. I conservatori vedono solo le provocazioni di certi settori della società, e non gli evidenti eccessi della contromarea neopuritana e destrorsa; i liberal invece commettono l'errore opposto, levando alti lamenti contro la minaccia religiosa e ignorando le provocazioni dei laici. L'entità dei due pericoli contrapposti, comunque, è stata completamente ridefinita dall'impetuosità del contrattacco settario sferrato nell'era Bush.

Per essere del tutto sinceri dobbiamo dire che, se mai arrivasse a dominare gli Stati Uniti, la teocrazia americana avrebbe ben poco in comune con stereotipi del passato come la Ginevra cinquecentesca di Giovanni Calvino o la Bay Colony di John Winthrop, il cui sistema di governo retto dai ministri della chiesa, come abbiamo visto, fu reso possibile da migrazioni religiose piccole quanto alle dimensioni numeriche, ma ad alta intensità di fede. In una nazione di quasi 300 milioni di abitanti, che geograficamente si estende da un oceano all'altro, la semplice differenziazione interna basterebbe a garantire un esito diverso. Ma niente ci impedisce di riflettere sulle trasformazioni che hanno portato le chiese evangeliche e fondamentaliste a giocare nel partito repubblicano lo stesso ruolo organizzativo di primo piano che altri gruppi - mondo degli affari, classe operaia, settore agricolo, movimenti pro o contro la schiavitù - hanno avuto nei cicli presidenziali del passato. Una svolta che ha spinto le convention repubblicane degli stati «rossi» a proclamare che gli Usa sono una nazione cristiana, a chiedere che nella costituzione siano introdotti emendamenti contro l'aborto e contro i diritti degli omosessuali e a caldeggiare il ritiro del paese dall'Onu perché, secondo i fondamentalisti, sarebbe un'organizzazione dominata dall'Anticristo. Tutte queste cose sono realmente successe.

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A tutt'oggi, delle cinque o sei proposte di legge di stampo teocratico avanzate dalla destra religiosa e presentate dai suoi sostenitori al congresso - Atto di rimessa in vigore della libertà di espressione religiosa, Atto di rimessa in vigore del primo emendamento, Atto di restaurazione della costituzione e così via - nessuna è riuscita a passare; ma forse è solo questione di tempo. (Di questi e di altri provvedimenti analoghi all'esame del congresso si parla con grande soddisfazione sul sito web della Coalizione cristiana.) Il «politically correct» della sinistra è un gioco da bambini in confronto al suo corrispettivo teologico di destra, e il 2005 ha visto il primo parlamentare repubblicano alzarsi in piedi e dirlo apertamente: alla fine di marzo infatti il deputato Christopher Shays del Connecticut ha mestamente ammesso che «il partito repubblicano di Lincoln è diventato un partito teocratico».

Il corollario culturale di queste ambizioni è che negli anni Novanta teoria e letteratura della fine del mondo, potendo contare su un pubblico di cento milioni di americani, sono diventate uno dei business più lucrosi degli Stati Uniti, capace di rendere multimilionari decine di predicatori fondamentalisti e carismatici autori e protagonisti di libri, video, sermoni televisivi e trasmissioni televisive e radiofoniche sulla Bibbia. Dunque non ci stupisce particolarmente apprendere che molti di questi personaggi sostengono appassionatamente la necessità di ridurre le tasse e la regolamentazione economica, anche se in realtà alla stragrande maggioranza delle loro pecorelle stanno a cuore soltanto la morale, la salvezza eterna, i precetti biblici, le eventuali assunzioni in cielo e l'imminente secondo avvento di Cristo. Pii bacini elettorali che vorrebbero solo che il «governo» - per il breve tempo che gli resta da vivere - fosse retto in misura sempre maggiore dalle istituzioni religiose e benedetto dalla presenza di un presidente disposto a rappresentare almeno temporaneamente l'autorità divina sulla terra.

Questo mix di teologia, cultura popolare e teocrazia ha già prodotto, per ricorrere a una suggestiva antinomia, un certo disilluminismo americano, con effetti visibili nella scienza, nella climatologia, nell'approvazione dei farmaci a livello federale, nella ricerca biologica, nella lotta ad alcune malattie e, non ultimo, nelle ricorrenti tensioni fra teoria dell'evoluzione e spiegazioni religiose alternative (il creazionismo e la cosiddetta teoria del disegno intelligente). Alcuni commentatori ne hanno parlato come della più pericolosa minaccia che la religione abbia posto alla scienza da quando, nel 1633, la Chiesa cattolica fece arrestare Galileo Galilei, accusandolo di eresia per aver detto che la terra gira attorno al sole. Probabilmente qualcuno si sta preparando a fare di meglio. I falchi della guerra santa, la sostituzione della ragione con la fede e l'ossessione missionaria che si stanno impadronendo degli Stati Uniti hanno già cominciato a diffondere il contagio ereditato dalle potenze economiche del passato, Roma, Spagna e Gran Bretagna. Ma è venuto il momento di tornare alla teologizzazione della politica americana e agli sfortunati precedenti storici che essa richiama alla mente.

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11. LA MAGGIORANZA REPUBBLICANA ERRANTE



Ci sono delle tendenze inquietanti: grossi squilibri, instabilità, rischi, chiamali come vuoi. Nell'insieme la situazione sembra più pericolosa e difficile di quanto sia mai stata a mia memoria. [...] Non so se il cambiamento avverrà con un'esplosione o con un rantolo, fra poco o più avanti; ma così come stanno le cose è più probabile che a innescarlo siano le crisi finanziarie che non la lungimiranza politica.

Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, «The Washington Post», 2005


Non solo stiamo subappaltando alla Cina la produzione di beni materiali e all'India quella di servizi, ormai siamo riusciti a subappaltare all'Asia anche la finanza.

Stephen Roach, economista capo della Morgan Stanley, 2004


A quanto ne so, nessun piano di contingenza in via di attuazione o ancora in fase di elaborazione da parte di un qualche think tank mondiale ha saputo proporre un modello plausibile di gestione del mondo dopo che il petrolio dell'Arabia Saudita avrà raggiunto il picco. In sintesi, è proprio questa totale mancanza di «pensiero degli scenari alternativi» a rendere tanto allarmante un evento pur inevitabile come questo.

Matthew Simmons, Twilight in the Desert, 2005


Pur essendo solo un insieme di corpi celesti in una costellazione marginale [di gruppi d'interesse repubblicani], l'estremismo religioso è una galassia potente. Per questo le agenzie federali respingono i rapporti scientifici sull'ecologia, sulla ricerca sulle cellule staminali, sulla contraccezione e sull'aborto e preferiscono sostenere non solo credenze sociali basate sulla fede, ma anche guerre basate sulla fede, una scienza basata sulla fede, una pubblica istruzione basata sulla fede e una medicina basata sulla fede.

Garry Wills, «The New York Review of Books», 2005


Nessuna delle tesi sostenute in questo libro - per spiegare la nostra vulnerabilità petrolifera, l'eccessivo indebitamento del paese e i cedimenti nei confronti del radicalismo religioso - può prescindere dal fatto che tutte le tendenze in atto sono state attivamente favorite dal partito repubblicano e dalla sua coalizione elettorale, soprattutto dopo il 2000. Storicamente, gli eccessi della politica e la dedizione cieca a un preciso bacino elettorale si sono sempre sviluppati attorno a scelte politiche rigide e stagnanti che sopravvivevano alla loro stessa utilità per il paese. Uno schema purtroppo ben consolidato negli Stati Uniti, che hanno visto ciascuno dei due maggiori partiti politici monopolizzare la gestione del potere per lunghi cicli politici.

In realtà non è importante stabilire con precisione quale dei tre fattori in esame abbia avuto un ruolo primario in un dato momento. Basterebbe una crisi improvvisa a risolvere bruscamente la questione: una guerra, lo scoppio di una bolla finanziaria, un evento religioso, un nuovo, grave attacco terroristico, la benzina a cinque dollari il gallone. La storia tende comunque a correlare gli eventi fra loro, e tutti i pericoli che ai fini dell'esposizione abbiamo trattato separatamente nella realtà sono sempre più intrecciati: petrolio e scricchiolii del sistema debito-credito; religiosità dei veri credenti e sostituzione della scienza e della strategia nazionale con la lede.

Quella coalizione elettorale repubblicana che mi stava tanto a cuore quarant'anni fa, quando scrissi The Emerging Republican Majority, somiglia sempre di più alle sfibrate maggioranze che, nella nostra storia passata, hanno perso la bussola portando il paese alla deriva: i democratici militanti e meridionalizzati del decennio successivo al 1850; il GOP stregato dal mercato e seguace di Elmer Gantry degli anni Venti; i prepotenti liberal degli anni Sessanta, con la loro ingegneria sociale, il «pantano vietnamita» e quella New Economy che avrebbe dovuto addomesticare per sempre i cicli economici. Adesso la parte del cattivo tocca di nuovo ai repubblicani.

La maggioranza repubblicana emergente si è trasformata nella teocrazia repubblicana emergente: un mutamento difficile da cogliere e da spiegare. Basti dire che le difficoltà in cui stiamo annaspando devono molto alla fedeltà della maggioranza repubblicana errante ad alcuni dei suoi più importanti bacini elettorali. Sicuramente anche l'inadeguatezza dei democratici - che ogni quattro anni fanno pensare a quel «Not Ready for Prime Time Players» che rese famoso, trent'anni fa, il programma televisivo Saturday Night Live - non aiuta a migliorare le cose, ma i difetti altrui non sollevano i repubblicani dalla responsabilità per ciò che sono diventati: un veicolo di interessi particolaristici aggrovigliati in fedeltà e pregiudizi, che ai fini della politica, risultano paralizzanti. In questo capitolo ci occuperemo dell'interazione fra questi bacini elettorali e i favoritismi che ne derivano, in un processo di formazione delle decisioni politiche che per le sue stesse dinamiche induce a perseverare nell'errore.


Il dopo Iraq: petrolio, debito, dollaro

Il legame fra dollaro e petrolio, che negli ultimi anni è stato sottoposto a tensioni sempre più estreme, ha una storia ormai lunga. Se nella prima guerra mondiale gli alleati sono arrivati alla vittoria cavalcando un'onda di petrolio americano, come scrisse uno statista europeo, bisogna dire che anche il dollaro beneficiò di una spinta di galleggiamento che gli ha permesso di sostituire la sterlina come valuta egemone a livello mondiale. La seconda guerra mondiale, altra vittoria ottenuta grazie al petrolio, ha poi sancito definitivamente il predominio dell'America e fatto del dollaro la valuta di riserva di tutti i paesi del mondo.

Fra il 1973 e il 1981, mentre dai disordini mediorientali nasceva un nuovo regime petrolifero mondiale, Washington si impegnò parecchio affinché l'oro nero continuasse a lavorare a favore della supremazia del dollaro. Grazie ai buoni uffici dell'Arabia Saudita l'OPEC accettò di quotare il greggio in dollari; così anche il Belgio e il Perù, per fare un esempio, se volevano comprarlo dovevano procurarsi grossi quantitativi di bigliettoni verdi. Poi, ed è una cosa altrettanto importante, i paesi produttori di greggio, soprattutto quelli del Golfo Persico che risentivano dell'influenza Usa, hanno preso l'abitudine di depositare buona parte dei loro incassi petroliferi - i cosiddetti petrodollari - nelle banche statunitensi. E di investire una quantità non irrilevante di tale ricchezza in buoni del Tesoro Usa. In questo modo nemmeno lo spostamento del baricentro della produzione petrolifera fuori del Nordamerica, avvenuto fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ha potuto detronizzare il dollaro, che ha continuato a beneficiare del suo aggancio privilegiato al petrolio.

Nel frattempo gli Stati Uniti cominciavano a spendere come un marinaio ubriaco, senza porre alcun vincolo a un universo finanziario che permetteva loro di giocare un ruolo di primo piano in tutti i Manias, Panics, and Crashes del mondo. Negli anni Novanta, come abbiamo visto, i servizi finanziari, trainati dalla crescita del debito, sono diventati il settore in più vertiginosa crescita dell'economia statunitense. E hanno continuato a ingrassare anche all'inizio del Duemila, nonostante il crack di borsa del 2000-2002, in un tripudio di possibilità offerte dai bassi tassi d'interesse, dalle infinite varianti di carte di credito, dalle più esotiche formule di debito ipotecario, da strumenti derivati del credito, hedge funds, e varie ricombinazioni del debito da far impallidire le «piramidi» di Charles Ponzi.

A metà decennio, però, ai dati del debito crescente si sono aggiunti quelli della calante produzione petrolifera. Dinamiche che si alimentavano a vicenda: gli esperti hanno cominciato a domandarsi se, man mano che il 2010 si avvicinava, anche il costo delle importazioni di petrolio e derivati (potenzialmente fra i 6 e gli 8 miliardi di barili all'anno, a un prezzo previsto di 50-70 dollari al barile o anche di più) si sarebbe avvicinato a un totale di 400 miliardi di dollari l'anno. Un salasso tale da provocare lo sganciamento del dollaro dal suo puntello petrolifero, perché una crisi economica di queste dimensioni potrebbe convincere i produttori di petrolio che non c'è più ragione di farsi pagare in dollari e che sono meglio gli euro, o una qualche valuta asiatica, o anche un paniere di valute diverse. Gli economisti stanno rimuginando sulle predizioni di Paul Volcker e di altri, e hanno cominciato a disegnare vari scenari possibili.

Quella del fallimento dell'invasione irachena, almeno per quanto riguarda i rifornimenti petroliferi, è una delle storie meglio nascoste dai media dell'intero decennio. Lungi dall'aver raggiunto le finalità occulte che abbiamo analizzato nel capitolo 3 - inondare i mercati mondiali di economico petrolio iracheno, spezzare le reni all'OPEC, installare la ExxonMobil nei ricchi giacimenti di Majnoon e vivere per sempre felici e contenti con il petrolio a 20-30 dollari al barile e tutto il combustibile che ci serve per i nostri rombanti suv e le nostre grandi case superaccessoriate - l'impresa ha prodotto effetti a dir poco disastrosi. In seguito ai sabotaggi e ai continui attacchi dei ribelli iracheni contro i principali oleodotti del paese, la produzione di greggio dell'Iraq è crollata. L'OPEC sta meglio che mai, e il prezzo del petrolio è salito vertiginosamente. Nel 2005 ci si è messo anche l'uragano Katrina, che ha devastato gli impianti petroliferi del Golfo del Messico aggravando ulteriormente la situazione energetica degli Usa; ma il fallimento cruciale dell'amministrazione Bush resta quello in Medio Oriente.

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La finanzializzazione: una Götterdömmerung volckeriana?

Nel 2005, mentre i guru della grande ricchezza finanziaria e gli ex presidenti della Federal Reserve - i vari Warren Buffett, Paul Volcker e via dicendo - erano assorti in wagneriana contemplazione dei mercati mondiali, quasi si aspettassero di veder entrare in scena una grassa signora pronta a cantare, nessuno negava che sul paese incombesse una crisi economica potenzialmente drammatica. Perfino Alan Greenspan aveva denunciato le «esotiche formule ipotecarie a tasso variabile» e gli imprevedibili pericoli che possono celarsi negli hedge funds.

Per alcuni solo un vero miracolo poteva salvare il sistema finanziario statunitense dalla crisi inevitabile, perché ormai i politici della Casa Bianca di Bush, il congresso dominato dai repubblicani e una Federal Reserve un po' troppo partigiana avevano commesso troppi errori (che andavano dai drastici tagli alle tasse agli impressionanti deficit di bilancio, dalla deregulation selvaggia alla crescita di un'enorme bolla del settore creditizio). In una situazione già così gravemente compromessa c'erano poi cinque o sei pratiche - che forse un giorno diverranno oggetto di un libro sulla falsariga di Manias, Panics, and Crashes - che si distinguevano per la loro esplosiva potenzialità.

In primo luogo i nuovi strumenti derivati del credito. Le obbligazioni di debito collateralizzato (CDO), popolarissime fin dalla fine degli anni Novanta, coniugano un debito al consumo senza precedenti nella storia - la gente prende soldi in prestito per gli scopi più svariati, dall'acquisto di barche o automobili alla chirurgia plastica - con gli innovativi talenti di packaging del settore finanziario. In estrema sintesi, banche e società d'investimento prendono tutti i debiti che i vari prestatori possono voler cedere a terzi, in qualsiasi forma si presentino, e li impastano insieme in CDO del valore di parecchi milioni di dollari. I pacchetti così confezionati vengono poi «affettati» - Wall Street preferisce dire «divisi in tranche» - e rivenduti a prezzi diversi a seconda del livello di rischio, calcolato grazie a modelli matematici che permettono di prevedere come potrebbe comportarsi ciascuna fetta dell'insieme. Laddove il livello di rischio è maggiore, ovviamente, anche i profitti sono maggiori. Nel 2005, per esempio, una società d'investimento ha dovuto mettere da parte un fondo spese legali da 100 milioni di dollari per affrontare un intervento federale sulle security teso a verificare come avesse fatto a determinare il giusto valore e a fissare il prezzo di un certo pacchetto di CDO. In quel momento quello dei CDO era un mercato gigantesco, del valore di molti trilioni di dollari. Comunque, trattandosi di un oggetto piuttosto complicato e che può essere venduto solo da un istituto a un altro, i più scettici parlavano già di una pericolosa illiquidità in caso di panico.

Un secondo strumento derivato del credito, i cosiddetti credit default swaps (CDS), è stato spiegato come segue dal direttore di una banca d'investimento: «I CDS sono un modo per "cortocircuitare" i bond di una certa società, scommettendo sul fatto che perderanno valore, ma senza pagare l'elevato costo di farsi prestare il denaro necessario a comprarli davvero per poi rivenderli. Ma sono anche un modo per vendere e comprare il rischio creditizio percepito di una certa impresa senza far passare di mano i bond societari su cui quel rischio insiste». Anche i CDS sono cresciuti da qualche nocciolina a metà anni Novanta ai vari trilioni di dollari di meno di un decennio dopo.

Negli Usa, quello che nel 2005 è diventato un mercato fuori borsa dei derivati del credito da 5 trilioni di dollari è quasi del tutto privo di regolamentazione. In Inghilterra, invece, un'Autorità per i servizi finanziari estremamente vigile ha detto con chiarezza che ormai queste tipo di contratti ha raggiunto un volume tale che le banche non riescono più a documentare e confermare i complessi termini coinvolti. Purtroppo la lezione che si può trarre dalla storia finanziaria - ricca di episodi in cui la crisi ha origine proprio dagli aspetti meno testati dell'innovazione, come nel caso Enron del 2001 e in quello del cosiddetto portafoglio assicurativo del 1987 - è che i derivati del credito potrebbero contribuire parecchio a gettare il paese in una situazione davvero difficile. Warren Buffet, come abbiamo visto, li ha definiti «una bomba a orologeria».

Il che ci porta dritto agli hedge funds, un'allegra brigata di furbetti che fanno soldi a palate giocando in maniera troppo rischiosa per qualsiasi istituzione dotata di regole. Gli hedge funds, infatti, di regole non ne hanno. Ma tra il 1990 e il 2005 si sono moltiplicati come conigli, passando da qualche centinaio soltanto a circa 8.500 nei soli Stati Uniti: alcuni hanno addirittura invaso il campo da gioco dei derivati del credito. A metà 2005 la compagnia Fitch di credit rating ha pubblicato un rapporto speciale intitolato: Hedge funds: una forza emergente sui mercati creditizi mondiali. Calcolando che il 30% degli 8,4 trilioni di dollari del mercato dei derivati del credito è controllato da questo tipo di fondi, Fitch ritiene ci sia il potenziale per «una stretta creditizia di vasta portata e una dislocazione dei prezzi attraverso vari mercati creditizi causata proprio dalla presenza degli hedge funds».

Anche dall'interazione fra gli hedge funds e le banche da cui si fanno prestare i soldi può partire una scintilla: questi fondi infatti hanno bisogno di così tanti soldi in prestito per perseguire le proprie strategie che spesso diventano i migliori clienti dei grandi istituti di credito. I quali con loro si comportano con estrema indulgenza: alcune banche sono state talmente tenere con la Enron da sfiorare la collusione.

Quanto al mercato immobiliare e ipotecario, soprattutto dopo il 2001 ha trovato molti modi di mescolarsi al grande calderone della finanzializzazione americana, quasi tutti poco rassicuranti. Per farla breve potremmo dire che, per molte persone, il comprar casa è diventato un modo per finanziare il ménage familiare - «La casa è il mio castello» ha ceduto il passo a «La casa è il mio sportello bancomat». In quanto tale, grazie alle manovre della Federai Reserve, la casa e diventata un asset finanziario a tutti gli effetti tranne che ai fini statistici. Nonché uno strumento di finanza speculativa, nel senso che le persone che assumono un'ipoteca o la rifinanziano possono scegliere fra un ventaglio di opzioni davvero vertiginoso, che spesso promettono prestazioni molto allettanti nei primi mesi o anni (un po' come le pubblicità delle carte di credito). Nel giugno del 2005 il presidente Greenspan ha condannato duramente alcune di tali formule dicendo che «il notevolissimo aumento dei prestiti interest only, come anche l'introduzione di altre forme relativamente esotiche di ipoteche a tasso variabile, sono sviluppi tali da destare preoccupazioni».

Di fatto, scrive il «Washington Post», sul mercato esistono circa duecento tipi di prodotti ipotecari diversi, che si differenziano per piano di pagamento degli interessi, requisiti per il riscatto, scadenze di rimborso, commissioni ed eventuali penali. Douglas Duncan, economista capo dell'Associazione banche ipotecarie, ha detto sempre al «Washington Post» che probabilmente le «esotiche» ipoteche di Greenspan sono «ipoteche con l'opzione tasso variabile», che permettono ai debitori di decidere loro stessi quanto pagare, in quanto tempo rimborsare il prestito e quando convertire la loro ipoteca da un tasso fisso a uno variabile e viceversa.

Perfino le carte di credito, ormai, fanno parte del ramo speculativo della finanza. Per molti anni le società emettitrici ne hanno pubblicizzate alcune collegate a linee di credito basate sulla proprietà della casa. E tutto ciò è avvenuto proprio mentre l'acquisto di una casa e l'accensione di un'ipoteca assumevano caratteri speculativi.

L'idea che gli Stati Uniti possano aver sostituito la bolla del mercato azionario, ormai scoppiata, con una nuova bolla creditizia ancora più grande, come ogni altro argomento ha i suoi siti web dove è possibile monitorare gli ultimi sviluppi e le più lievi sfumature della vicenda con aplomb professionale o con individuale trepidazione.

Questi esempi, che pure rappresentano solo gli strati più superficiali della cipolla speculativa (e chissà quale panorama emergerebbe se la tagliassimo in due per vedere davvero che cosa c'è dentro), bastano però a coglierne l'aroma di fondo. Fra il 2000 e il minimo storico di borsa del 2002, quando i titoli statunitensi hanno perso 7 dei loro 15,5 trilioni di dollari di valore complessivo, i prezzi delle case hanno dapprima tenuto e poi sono schizzati in alto. Per le voci critiche questa manovra di salvataggio del patrimonio immobiliare in realtà ha fatto gonfiare una nuova bolla. Se questa seconda fase fosse seguita da un crack del settore creditizio e finanziario, come temono Volcker e altri, presumibilmente il valore dei titoli e quello delle case affonderebbero insieme, e dei due crolli quello del settore immobiliare sarebbe il più disastroso. L'implosione del debito al consumo e i duri provvedimenti del nuovo codice federale sulla bancarotta sommerebbero allora i loro effetti per schiacciare i debitori della classe media in quella condizione semi-indentured vaticinata dai democratici più pessimisti.

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