Copertina
Autore Telmo Pievani
Titolo La fine del mondo
SottotitoloGuida per apocalittici perplessi
Edizioneil Mulino, Bologna, 2012, Intersezioni 394 , pag. 184, cop.fle., dim. 12,5x20,5x1,1 cm , Isbn 978-88-15-24043-9
LettoreRenato di Stefano, 2013
Classe ecologia , evoluzione , natura , storia , scienze della terra , scienze improbabili , natura-cultura , inizio-fine
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Indice


    Prologo. Voltaire e l'asteroide                           7

I.  Catastrofe (le cose cadono a pezzi e non smettono mai
        di cadere)                                           15

    In tanti ce lo avevano detto                             16
    Profezie sbagliate generano nuove profezie               21
    La catastrofe si è inceppata                             25
    Il determinismo dell'astrologia: storie che ci piacciono
        da pensare                                           29
    L'attraente non senso del 21 dicembre 2012               34
    I mercanti di millenarismo                               38
    La freccia del tempo e il ciclo del tempo                41

II. Disastro (cattive stelle: l'invenzione della calamità
        «naturale»)                                          45

    La natura non è un'autorità morale                       46
    Il paradosso della profezia di sventura                  49
    Perché una previsione scientifica non è un vaticinio     54
    Supereruzioni e terremoti: il disastro ineluttabile,
        per cause interne                                    58
    Asteroidi e supernove: il disastro ineluttabile,
        per cause esterne                                    63
    Giocare con il clima: il disastro per cause interne,
        con complicità umane                                 70
    L'effetto «palla di neve»                                75
    Pandemie della paura                                     78

III. Nemesi (comunque sia, è colpa nostra)                   83

    Nemesi, il disastro per propria mano                     84
    Homo sapiens Stranamore                                  87
    E se il più grande bioterrorista fosse la natura?        91
    Noi i devastatori, noi i salvatori?                      95
    Andare ostinatamente incontro alla catastrofe           100

IV. Estinzione (siamo i figli della fine del mondo
        degli altri)                                        107

    La rimozione del catastrofismo                          107
    Estinti, zombie e redivivi                              111
    Qualcosa non torna al tramonto del Cretaceo             114
    La morale del dinosauro                                 118
    La sopravvivenza del più fortunato
        (e forse del più flessibile)                        122
    Quella volta che la vita per un pelo non finì           126
    La tempesta perfetta                                    129
    Una specie catastrofica                                 133

V.  Apocalisse (che fare dopo che il mondo, anche questa
        volta, non sarà finito)                             141

    Contro l'argomento del giorno del giudizio              142
    La fine è sempre relativa                               147
    Un'apocalisse dai mille sensi                           150
    Una rivelazione alternativa: il mondo senza di noi      154
    Con tragico ottimismo                                   161


    Riferimenti bibliografici                               171
    Indice dei nomi                                         181


 

 

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Pagina 7

Prologo


Voltaire e l'asteroide



                Esiste una teoria secondo la quale se qualcuno scoprisse
                esattamente il motivo di essere dell'Universo e perché esso sia
                qui, quello istantaneamente scomparirebbe e sarebbe sostituito
                da qualcosa di ancora più bizzarro e inspiegabile. Esiste poi
                un'altra teoria secondo la quale tutto questo è già accaduto.

                D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 2000



Il più grande spettacolo dopo il Big Bang cominciò senza preavviso. In un'epoca primordiale che nessuno ricorda, un bolide roccioso di dieci chilometri di diametro si affacciò dallo spazio profondo e piombò in mezzo al mare, al largo della costa dello Yucatán. Una scia di fuoco illuminò ogni cosa. Fu come se milioni di bombe atomiche scoppiassero in un sol colpo, deflagrando nella più potente esplosione di tutti i tempi. In un battito di ciglia un'enorme palla di luce, più incandescente del Sole, vaporizzò l'oceano, aprendosi un cratere di 180 km di larghezza nella crosta terrestre. La superficie del pianeta si increspò e il fronte sismico fece più volte il giro del globo, innescando terremoti in ogni dove. L'onda d'urto si propagò a 30 km al secondo radendo al suolo in pochi attimi un'area grande come il Nord America. Tsunami colossali si alzarono per centinaia di metri, si misero a correre in tutte le direzioni e nelle ore successive si abbatterono sulle coste fino in Europa e in Africa. Le correnti d'aria impazzite fomentarono enormi uragani. L'atmosfera fu squarciata dall'alto e centinaia di trilioni di roccia fusa furono scagliati di rimbalzo nei suoi strati più esterni. I cieli si addensarono di rosso fulvo, di fuliggine e cenere. Ben presto le polveri velenose impregnarono l'aria e schermarono la luce del Sole in ogni angolo della Terra. Il primo trauma durò poco perché dal buio ridiscese ben presto un inferno di fiamme. Le rocce schizzate in atmosfera nell'esplosione furono di nuovo attratte verso il basso e cominciarono a piovere, infuocate, sulla superficie, disseminandola di incendi devastanti. Questi aumentarono ulteriormente la quantità di fumo e di polveri nell'aria. Un quarto della materia vivente venne ridotta in cenere. Foreste, boschi e praterie furono carbonizzati su tutti i continenti. Poi, con l'oscurità, il freddo prese il sopravvento. Le temperature medie del pianeta scesero di 15 gradi centigradi, come in una velocissima era glaciale. Le piogge acide avvelenarono gli oceani, estinguendo un'enorme quantità di specie marine. Le piante soffocarono e la fotosintesi fu ridotta al minimo. I grandi erbivorí sopravvissuti all'impatto morirono progressivamente di fame, trascinando con sé gli equilibri delle catene alimentari globali. I ghiacci avanzarono, unendosi agli effetti mefitici dello zolfo e dell'anossia. Dopo anni di improvviso inverno glaciale — un tetro inverno cosmico — le polveri lentamente si posarono, ma non vi fu sollievo per i vivi perché ebbe inizio una subdola primavera ultravioletta. Il Sole colpiva ora inesorabilmente la superficie senza più la protezione dello strato di ozono, lacerato dagli effetti delle sostanze chimiche immesse in atmosfera dall'impatto. La carne viva degli organismi fu esposta a radiazioni letali e scottata nuovamente dal calore più insopportabile. Il fuoco e il freddo si alternarono per secoli, come piaghe bibliche. Nulla fu mai come prima. Più della metà delle specie, di ogni ordine e fattezza, dal plancton al dínosauro, non sopravvisse alla maledizione piovuta dal cosmo. Perché il mondo tornasse a respirare, ci vollero migliaia, forse milioni, di anni.

Dinanzi a uno scenario di questo tipo [McGuire 2003], è stupefacente che una qualche forma di vita sia riuscita a superare la lunga notte del Cretaceo. Eppure questa fine del mondo, avvenuta 65 milioni di anni fa, ha avuto un ruolo preciso nella nostra fortuna. Ha distrutto le speranze dei dominatori del momento, i grandi rettili, e ha aperto la strada per nuove diversificazioni tra i sopravvissuti, in particolare i mammiferi (decimati soltanto per un terzo) e un ramoscello dei dinosauri che stava dando vita agli uccelli. Si è trattato di una spettacolare e contingente staffetta evoluzionistica, con il testimone affidato a forme viventi che diventeranno i nostri lontani antenati. Noi Homo sapiens, dunque, siamo figli di questa catastrofe orrenda. Dobbiamo essere grati a quel mostro letale di dieci chilometri di diametro che ha tagliato l'atmosfera e ha portato l'inferno sulla Terra. Dovremmo onorarlo nei secoli a venire, perché ha decretato la fine del mondo degli altri, e un nuovo inizio per chi proprio non se l'aspettava.

Θ ironico pensare che il beneficiario di questa fine del mondo (degli altri) sia oggi così ossessionato dalla fine del mondo (il proprio). Quasi fosse un vizio, abbiamo inflitto la stessa sorte, per nostra mano intenzionale, a milioni di specie viventi, estinte a causa della sempre più ingombrante presenza umana. Quasi fosse un contrappasso per la nostra miopia, ora cominciamo a temere che si possa noi stessi fare la fine dei dinosauri, prima o poi. Ma il senso di colpa e un inveterato antropocentrismo impregnano le umane menti. Così siamo riusciti ad addomesticare anche la fine del mondo, a immaginarcela come il culmine di un disegno, come una rivelazione, come una giusta punizione per chi se la merita (e c'è sempre qualcuno che se la merita), come la realizzazione di un destino già scritto fin dall'inizio. Con la recondita convinzione, sotto sotto, che alcuni ce la faranno e gli eletti daranno battesimo a un nuovo corso. Più consapevoli dei dinosauri e di chi li aveva preceduti in altre colossali estinzioni, noi esorcizziamo la fine del mondo continuando a parlarne, comportandoci voracemente come se fosse dietro l'angolo, sommergendola di significati impropri, deprivandola del suo sottile messaggio, il più radicale e tutto sommato rinfrancante: l'indomabile imprevedibilítà della storia naturale, che ha fatto a meno di noi per 3,8 miliardi di anni.

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Pagina 13

Nel breve viaggio delle pagine che seguono esploreremo insieme alcuni risvolti di questa fortunata icona del tempo contemporaneo: la fine del mondo. Lo faremo evocando cinque parole chiave e interpretandole in una prospettiva evoluzionistica. Smontando la pletora di pregiudizi esoterici che circondano il 2012 e gli incolpevoli maya, la struttura argomentativa ci porterà a una tesi filosofica finale che potremmo definire di «contingenza umanistica». Cominceremo con catastrofe — lo scioglimento dell'intreccio drammatico nella tragedia greca — per capire perché il mondo non smette mai di finire e sembra condannato a ripetere all'infinito la minaccia del suo stravolgimento. Dopo che anche questa volta il mondo non sarà finito, proseguiremo con disastro — la cattiva stella — e passeremo in rassegna le possibili cause reali di una fine del mondo (come lo conosciamo) per forze naturali, con qualche sospetto di complicità umane e con non pochi dubbi su ciò che normalmente intendiamo per «naturale». Sarà poi la volta di nemesi — la vendetta, il castigo meritato — per dire di tutte quelle volte in cui proprio le miopi pretese umane, e non gli elementi naturali, hanno creato le condizioni per una fine del mondo, piccola o grande, nostra o di altri. A tal proposito non mancherà estinzione — la scomparsa irreversibile di una forma vivente — per mostrare come noi sedicenti Homo sapiens, figli dell'estinzione catastrofica altrui, ora la infliggiamo ai nostri simili e così facendo impoveriamo quegli ecosistemi che garantiscono, gratuitamente, il nostro benessere. Volgeremo al termine affrontando apocalisse — la rivelazione, il disvelamento — ma interpretandola in modo rispettosamente eterodosso: ciò che la fine del mondo potrebbe svelarci non è il senso ultimo della storia, ma il fatto che la storia un senso non ce l'ha e che la biosfera può benissimo fare a meno della presenza contingente di un bipede invasivo. Da ciò non derivano tuttavia, come molti frettolosamente concludono, né rassegnazione amorale, né lo sguardo cinico del misantropo, né alcun temuto nichilismo o relativismo radicale. Al contrario ne consegue, con un «tragico ottimismo» non privo di ragionevoli speranze, che il massimo compito umanistico è quello di far proseguire con dignità l'esperimento naturale che ha prodotto, tempo fa, una specie cosciente.

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Pagina 15

Capitolo primo


Catastrofe
(le cose cadono a pezzi e non smettono mai di cadere)



                            Non temere che il mondo possa finire oggi.
                            In Australia è già domani.

                            Charles M. Schulz



Il mondo non ha mai smesso di finire. Con tutto vantaggio, si direbbe, per chi ne ha erroneamente presagito la scomparsa. L'attrazione fatale per come il tutto finirà non è infatti prerogativa umana particolarmente recente. Fu Dio stesso a cominciare, preannunciando in Genesi, ma anche nell' Epopea di Gilgamesh, che un'inondazione finale ci avrebbe travolti insieme ai nostri peccati. Qualcosa di simile era forse già successo, poco prima del 3000 a.C., quando un asteroide creò il cratere di Burckle nell'oceano Indiano, sollevando uno smisurato tsunami. In una tavoletta assira del 2800 a.C. il mondo viene già dato per spacciato: c'è troppa degenerazione e corruzione, la fine dei tempi sta per giungere. Lo scontro cosmico finale tra il bene e il male era previsto anche dai zoroastriani in Persia. I greci, da Esiodo in poi, furono ossessionati da un'incombente età dell'oro alle loro spalle e dal sospetto che il tempo stesse invecchiando, che il futuro fosse cioè decadenza e caduta. Per gli stoici l'universo avrebbe attraversato cicli di distruzione e di rinascita nel fuoco palingenetico.

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Pagina 21

Profezie sbagliate generano nuove profezie

L'angelo della storia è sempre sul punto di colpire, eppure in tanti sono morti e continuano a morire con il cruccio di non aver avuto l'occasione di pronunciare, con la più inutile delle sicumere, il proverbiale «ve lo avevo detto». L'intera storia della modernità occidentale può essere riletta attraverso la lente delle idee millenaristiche [Baumgartner 1999]. Charles Manson si concentrò sul 1954 come anno fatidico. Il teologo evangelico Herbert W. Armstrong ci provò con il 1936, il 1943, il 1972 e il 1975. Il fondatore della Christian Coalition, Pat Robertson, si buttò sul 1982, predicando invano. Lo stesso anno (come pure già nel 1919) ci fu un insignificante allineamento di pianeti, l'«effetto Giove», che non sortì alcun effetto tranne che sulle vendite di alcuni bestseller apocalittici. Edgar Cayce predisse la riemersione di Atlantide, con cambiamento delle correnti oceaniche e catastrofi globali, per il 1968, anno in cui cambiarono piuttosto le correnti di pensiero. Venature apocalittiche, figlie della Guerra Fredda, erano peraltro ben presenti nella controcultura americana [Hall 2009]. Ronald Reagan scelse come sottosegretario agli Interni un pentecostale che sosteneva fosse inutile impegnarsi nelle lotte per la salvaguardia dell'ambiente, dato che il mondo sarebbe finito senz'altro prima di vederne qualche effetto positivo. Da qui al secondo avvento le risorse petrolifere sarebbero state più che sufficienti.

Nel novembre del 1978 ben 909 americani, convinti che l'olocausto nucleare fosse imminente, si suicidarono con il cianuro, seguendo le direttive maniacali del reverendo apocalittico Jim Jones, fondatore dell'omonima comunità di Jonestown in Guyana. I criminali del «Peoples Tempie» avvelenarono prima i bambini (303, un terzo), poi i genitori e in ordine gerarchico gli altri, in una macabra messinscena della follia umana. Nel 1992 la fine del mondo venne predetta da un profeta coreano di sedici anni, Bang-Ik Ha, e molti non mancarono di credergli, anticipandola di propria mano. I sopravvissuti, rinsaviti, presero i forconi e per i sacerdoti del profeta furono momenti difficili. Raeliani e migliaia di altre sette apocalittiche in ogni dove promettono da decenni di portarci verso dimensioni superiori e di includerci nella lista dei salvati, pagando beninteso la nostra quota in denaro al capo carismatico.

Ma se la fine sta per arrivare comunque, perché perdersi lo spettacolo da quaggiù? Nel 1997 trentanove adepti della setta Heaven's Gate di Marshall Applewhite — mescolando millenarismo da cartone animato, fantascienza e New Age — si diedero la morte perché convinti che un'astronave, nascosta dietro la coda della cometa Hale-Bopp, stesse per venirli a prendere per ricongiungerli, una volta separatisi dalla loro prigione corporea, con una civiltà extraterrestre superiore. Nell'ultimo messaggio lasciato scritto a chi restava in questa valle di lacrime dissero che erano «venuti dal Livello Superumano nel lontano spazio» e ora erano usciti dai corpi che avevano «indossato» per il loro «compito terreno»: «siamo venuti con lo scopo di offrire una via d'accesso al Regno di Dio alla fine di questa civiltà, la fine di questo millennio» [Gould 1999, 66]. Così l'astronave della morte, ben racchiusa nelle loro allucinazioni diurne, se li portò via per davvero. Se nel rito suicida non fossero rimasti vittime anche alcuni innocenti plagiati, questi esaltati meriterebbero a furor di popolo il Darwin Award, assegnato periodicamente a coloro che si sono autoestinti nel modo più stupido.

Fallì il pronostico persino Nostradamus, che sembrava aver detto qualcosa di funesto circa il settimo mese dell'anno 1999, per mano di un certo Re del Terrore. Come sempre, la quartina cinquecentesca del nostro è talmente vaga e barocca da essere compatibile con qualsiasi corso degli eventi. Ma poi venne il 2008, l'anno della definitiva distruzione degli Stati Uniti secondo il reverendo Ronald Weinland della God's Church. E soprattutto il 2011, anno particolarmente bersagliato dalle cabale catastrofiste, al quale siamo tutto sommato sopravvissuti, crisi permettendo.

A conti fatti il cambio del secondo millennio andò in modo assai più banale e deludente del previsto, benché secondo l'arcivescovo Ussher la fine del mondo dovesse proprio cadere intorno al 2000 d.C., cioè seimila anni esatti dopo la creazione del 24 ottobre 4004 a.C. a mezzodì. Ma la confusione fu somma anche in questo caso, per via del celebre errore di quattro anni, nel calcolo della nascita di Cristo, commesso nel VI secolo dal monaco Dionysius Exiguus, che non si era reso conto che Erode era morto nel 4 a.C. Dunque Gesù, che pure nel Vangelo di Marco accenna in un discorso all'apocalisse senza prevederne la data, è nato nell'anno quarto «prima di se stesso». Inoltre, il monaco aveva fatto partire il tempo dal 1° gennaio dell'anno uno e non dell'anno zero (come avrebbe dovuto, ma non si usava lo zero allora). Quindi nel momento in cui Gesù compiva un anno il sistema di calcolo del tempo basato sulla sua nascita segnava già due anni.

Matematicamente, il terzo millennio in cui siamo ora — come avevano suggerito nel 1968 Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick scegliendo puntigliosamente l'anno della loro odissea nello spazio — è cominciato non il 1° gennaio del 2000, ma il 1° gennaio del 2001. Né in un caso né nell'altro il mondo è finito, ma queste incertezze (unitamente al politically correct) stanno inducendo alcuni scienziati ad abolire la dicitura «a.C.» e a sostituirla con quella più neutra di B.P. (before present). Tuttavia, dato che il tempo passa, quest'ultima ha l'inconveniente di dover specificare ogni volta quale sia l'anno a cui ci riferiamo con «present»!

Ginepraio delle datazioni a parte, nell'anno giubilare più prosaicamente le nostre ansie si concentrarono sulle possibili conseguenze di una cattiva interpretazione delle ultime due cifre della data (00 per 1900 anziché per 2000) da parte dei computer di tutto il mondo, con il rischio paventato di flussi finanziari impazziti, interessi bancari alle stelle, telecomunicazioni interrotte, macchinari fermi, metropoli senza elettricità, centrali nucleari fuori controllo, aerei senza bussola, ospedali al buio, gente bloccata negli ascensori, missili in libertà. A ridosso di questa nuova, imminente fine, nacque negli Stati Uniti anche un movimento «Teotwawki», che stava per «The End Of The World As We Know It». Il Millennium Bug o Y2K, costato miliardi di dollari preventivi, non produsse alcunché di tutto ciò e la «bomba tecnologica» annunciata da analisti e governanti in cerca di paure da strumentalizzare non produsse alcun blackout. Tuttavia, la temuta apocalisse tecnologica fu un ottimo catalizzatore per angosce millenaríste, guru, telepredicatori e affari d'oro di futurologi e cartomanti. Ma il medioevo prossimo venturo fu rinviato anche quella volta.

Quanto al terzo e giovane millennio, pare faccia sul serio. Sembra uscito direttamente dal Libro di Daniele. Θ cominciato l'11 settembre 2001 imprimendo in modo indelebile nella nostra memoria le immagini della più perfetta delle apocalissi. Una rivelazione, appunto: la capitale dell'impero della modernità sotto scacco; il nemico suicida che piomba dall'alto; le torri che un tempo toccavano il cielo, ora ferite e sanguinanti, collassano su se stesse; donne e uomini che si lanciano nel vuoto e cadono, cadono, non smettono di cadere nel loro ultimo gesto di libertà; la gente che fugge cosparsa di cenere e polvere; il volto di un presidente, attonito, imbambolato e manifestamente inadeguato. Emerse così in tutta la sua portata il paradosso del possibile nella storia: ciò che sembrava tanto impossibile da essere impensabile, se non nella fantapolitica, si verificò, mostrando così di essere possibile; più precisamente, mostrando che gli eventi che precedettero quella catastrofe contenevano già la sua possibilità. Se per una qualche ragione contingente il piano terroristico fosse fallito sul nascere, continueremmo a ritenerlo impossibile. Il che ci fa supporre che anche ciò che consideriamo adesso impossibile, rispetto al corso attuale degli eventi, potrebbe in realtà aver già maturato le sue condizioni di possibilità [Dupuy 2011]. Eppure nemmeno quella fu «la fine del mondo»: fu bensì la fine di una certa illusione di sicurezza e la fine di un'impossibilità, che tale aveva smesso di essere.

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La narrazione apocalittica, con la sua immediatezza, si esprime dunque in un linguaggio comprensibile, intuitivo, familiare. Inserisce l'apparente casualità degli eventi terreni in un grande disegno universale che riempie di significato ogni cosa e rende, per contrasto, fortemente controintuitiva ogni spiegazione scientifica che restituisca ai cieli e alla terra una propria immanente logica di funzionamento, le cui leggi e i cui ritmi sono del tutto indifferenti alle sorti di un primate di grossa taglia che abita il terzo pianeta di un sistema solare periferico.

Noi vogliamo fortemente credere che una meteora o un allineamento di pianeti ci stiano dicendo qualcosa di esoterico: deve esserci sotto qualcosa, una trama che sfugge, un senso recondito della storia. Che il ritorno di una cometa sia dettato soltanto dall'eccentricità della sua orbita non ci basta. Sarebbe dunque un errore pensare che queste strutture interpretative che alimentano la nostra immaginazione siano soltanto residui di un'età infantile del mondo, stupide superstizioni sopravvissute alla secolarizzazione. Al contrario, esse sono espressione di vincoli cognitivi profondi che tutti ci portiamo appresso. L'indagine sul loro funzionamento ci permette quindi di spiegare, anche se non di giustificare, l'attrazione che proviamo per questo passato che non passa.

Ecco perché i maya sono perfetti. Come primo passo, si parte da un dato di fatto acquisito nella letteratura di riferimento, in questo caso archeologica: le eccellenti conoscenze astronomiche sviluppate dal popolo maya e testimoniate dai pochissimi testi sopravvissuti (tre soli Codici rinvenuti finora), da iscrizioni e sculture, nonché dalla conformazione architettonica degli insediamenti. I maya furono in grado di prevedere realmente una notevole quantità di fenomeni astronomici. Escogitarono un modo univoco per indicare la data di un qualsiasi evento celeste, alla stregua di ciò che in Occidente accadrà soltanto nel XVI secolo con l'invenzione del giorno giuliano. Si stabilisce un inizio arbitrario del conteggio del tempo, valido per tutti, e poi si calcolano i cicli temporali assoluti in base alle regolarità astronomiche (anno solare, mese lunare, e così via). Secondo quanto desunto dall'interpretazione più attendibile del Codice di Dresda e delle sue tabelle astronomiche, nei maya il calendario religioso si sincronizzava ogni 52 anni con il calendario astronomico osservato, che consisteva di 365 giorni suddivisi in 18 mesi da 20 giorni ciascuno, più 5 giorni residuali che non venivano calcolati in quanto ritenuti sfortunati.

Esisteva tuttavia un «lungo computo», a partire da un giorno zero che corrispondeva al nostro 11 di agosto del 3114 a.C., che permetteva di attribuire a ogni giorno una datazione assoluta [Diamond 2005]. Con un sistema ingegnoso a tre simboli (un ovale per 0, un punto per 1 unità, una linea per 5), a ogni data corrispondeva una notazione numerica che includeva giorno, mese, anno, cicli di 20 anni e infine 13 cicli di 400 anni. Quindi i giorni contenuti in un «grande ciclo» dei maya sono 20 x 18 mesi x 400 anni x 13, cioè l'equivalente di 5.128,76 anni. Il 21 dicembre 2012 (traslato nel nostro calendario) è il giorno conclusivo dell'attuale grande ciclo del tempo. Un giorno importante, non c'è che dire, purché si accetti l'arbitrarietà dell'inizio del computo e dei cicli interni.

Il dato acquisito rende plausibile il contesto di discussione e viene poi associato, in modo apparentemente corretto, a un'interpretazione storico-culturale. Ecco il secondo passo: ovvero, per questi popoli gli astri e i loro movimenti rappresentavano la modalità privilegiata per accedere a quello che consideravano il mondo ultraterreno, popolato di dei, di spiriti e di antenati. Dunque il calendario astrale e i suoi momenti topici — come eclissi, presunti allineamenti di pianeti, passaggi di comete, solstizi ed equinozi, la fine di un grande ciclo — assumevano significati religiosi legati al succedersi delle stagioni, alla fecondità e al futuro benessere delle comunità secondo la volontà delle divinità.

Come è normale che sia per chi impara a conoscere le regolarità dei movimenti celesti, il calcolo di un periodo di rivoluzione o di un ciclo astronomico implica automaticamente la possibilità, irresistibile per la curiosità umana, di fare previsioni su eventi che si verificheranno nel futuro, anche in un lontanissimo futuro. Dobbiamo imporre un ordine al caos, così come alle profondità del tempo. E quelle dei maya sono previsioni molto accurate, che svelano l'interessante paradosso del determinismo dell'astrologia. Mentre il pensiero scientifico è da secoli alle prese con la consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e con strategie probabilistiche per rendere intelligibile il comportamento di sistemi imprevedibili, dai tempi dei caldei fino alla versione ellenistica di impronta stoica l'astrologia è un'antica struttura interpretativa che associa posizioni astrali e destini umani in modo fatalistico. In essa la profezia ha funzione di monito e di memoria, ma non di sostanziale cambiamento dei comportamenti.

La sua efficacia deresponsabílizzante la rende assai attraente, potendo incasellare fortune, temperamenti e predisposizioni in etichette preconfezionate che escludono dall'orizzonte della spiegazione il caso e la contingenza. Il suo ascolto innesca meccanismi di autoavveramento della profezia, che conferma se stessa giacché, fin dall'inizio, era espressione di un'aspettativa inespressa. Le paure e le angosce trovano un senso, le inquietudini si placano. Nei fondi del caffè, nelle viscere degli animali o nelle geometrie di volo degli uccelli si materializzano pronostici che rivelano il nostro bisogno di un futuro necessario, scritto fin dall'inizio nel cosmo e nella natura.

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La natura non è un'autorità morale

Per questi approcci consolanti al problema del male, vale il rinvio a un passato lontano, a una causa remota che ci distolga dal presente, dall'ordinaria banalità con cui il male si esplica nelle piccole cose. Allo stesso modo, si presuppone che almeno idealmente possa esistere (o possa essere esistita) una condizione libera dal male, che esso sia cioè estirpabile, che lo si possa arginare conquistando spazi di verginità. La sorpresa attonita con cui accogliamo i disastri naturali, in un misto di paura atavica (se ci riguardano) e di anestetica distrazione (se riguardano mete esotiche), si inserisce in questa sensibilità devitalizzata e ambivalente rispetto alla presenza del male, nel mondo umano, in quello naturale e in tutti i loro intrecci. Ma come, proprio ora, proprio qui, proprio a noi? E perché punire, sotto le macerie o annegati, proprio i più fragili, gli indifesi, i bambini?

La natura, che non è un agente intenzionale né un'entità personale ma un campo di fenomeni e di relazioni che ci include e che ha una storia, ovviamente non ascolta queste invocazioni, né si lascia influenzare dalle maledizioni. Ci appelliamo a essa come serbatoio di indicazioni etiche, facendone un'autorità morale. Le assegniamo arbitrariamente valori di «equilibrio», di «armonia», di ordine e pacificazione [Pollo 2008]. Gli stessi aggettivi «naturale», «organico» e «biologico» hanno assunto edificanti connotazioni etiche. Ci piace pensare che la «Natura» sia il luogo della stabilità, la solida roccia sulla quale poggiare i nostri convincimenti, la dimensione universale capace di metterci tutti d'accordo (dal teologo all'ambientalista) in materia di norme morali. Purtroppo, non è così. Come scrive Jean-Pierre Dupuy, dal terremoto di Lisbona del 1755 allo tsunami asiatico del dicembre 2004 è «come se dal male non avessimo imparato niente» [2006, 29].

Il mondo naturale è del tutto indifferente ai nostri interrogativi morali, e proprio per questo ci lascia liberi di elevarli sulla base delle nostre capacità, delle nostre propensioni e dei nostri limiti (tutte caratteristiche peraltro evolutesi nel corso della storia naturale). La sua norma, se proprio vogliamo trovarne una, è quella della diversità delle soluzioni adattative e comportamentali, dell'esplorazione contingente di possibilità. La selezione naturale, come notò Darwin (conscio dei pericoli della sua personalizzazione), non ambisce alla perfezione, ma a fare quel che si può in un contesto ambientale cangiante, con il materiale a disposizione, trovando compromessi tra spinte antagoniste, mirando al qui e ora della sopravvivenza e della riproduzione.

In natura troviamo la più insopportabile crudeltà, il sadismo, la ferocia intraspecifica, l'infanticidio e molti altri «delitti» efferati, accanto a commoventi gesti di cooperazione e di altruismo diffusi in migliaia di specie. La matrice naturale è dunque quella di una radicale ambivalenza morale, o detto altrimenti della totale neutralità etica. Anche se il nostro senso morale, come precondizione abilitante, si è sviluppato in modo continuativo nel corso della nostra storia evolutiva, sembra vano cercare lì, direttamente, la giustificazione specifica per una norma morale o per un giudizio morale.

Dunque il «male» che osserviamo in natura, e che la natura ci infligge, è una nostra proiezione emotiva e cognitiva, non una categoria corretta di analisi dei fenomeni naturali che consideriamo «catastrofici» per noi. Lo dimostra il fatto che ogni asserzione circa la bontà o la malvagità di un fenomeno naturale è sempre relativa al punto di osservazione di una specie: ciò che per alcuni organismi è un disastro quasi sempre è un vantaggio insperato per altri. Da un punto di vista decentrato e quantitativamente ineccepibile, la presenza stessa di Homo sapiens sulla Terra ha rappresentato, almeno negli ultimi 40 mila anni, la fine del mondo, letterale, per centinaia di migliaia di altre specie, che abbiamo estinto intenzionalmente o senza nemmeno accorgercene.

Aprire altre miniere di coltan nella foresta congolese, per estrarre il tantalio che serve per produrre i condensatori dei nostri telefonini (giacché sentiamo l'insopprimibile necessità fisiologica di cambiare i modelli a ogni Natale), significa decretare in pochi anni la fine del mondo dei gorilla di montagna, ridotti ormai a meno di 800 individui selvatici. Anche questa è una fine del mondo, silenziosa e per lo più ignorata. Chissà quali fantasie apocalittiche si staranno facendo quelle pacifiche scimmie antropomorfe vedendo strani cugini bipedi e glabri, armati di fucile (alcuni) e di pala (tutti gli altri), mentre scavano nudi dentro le sabbie nere radioattive per estrarre una polvere metallica, o mentre abbattono alacremente intere regioni di foresta per vendere il legname dei nostri parquet.

Se il male è una categoria della conoscenza umana, se come tale ci appare onnipresente in natura e ne impregna la sostanza, se ogni creatura vivente è sottoposta al dolore, alla malattia e alla morte, se noi stessi siamo figli di quel «male», che ci viene inflitto (per esempio, da virus e batteri) o infliggiamo, la domanda circa le sue presunte origini viene a essere una domanda di pertinenza anche scientifica, e non più esclusivamente filosofica o religiosa. Se il male è già da sempre presente nella logica degli eventi naturali per come li conosciamo – la stessa logica che ci ha portato fin qui – significa che ne siamo figli ma che possiamo ribellarci a esso, lottare contro i suoi effetti. Θ male ciò che noi associamo all'imperfezione, alla subottimalità e alla neutralità morale della natura, di cui siamo uno dei prodotti. Anche ciò che chiamiamo «male fisico», per distinguerlo da quello morale, è in realtà una nostra proiezione normativa sui fenomeni naturali. In quanto naturale, non vi è nulla di «male» nel terribile mestiere darwiniano che fa un virus dentro il nostro corpo.

Il male percepito discende quindi da un conflitto tra l'indifferenza morale dell'universo, la nostra comprensione di essa come un'ingiustizia crudele e le nostre (evolutivamente recenti) categorie sociali di interpretazione dei comportamenti dei nostri simili. Θ male l'infrazione di regole di convivenza che ci siamo dati, ma che non sono giuste di per sé in quanto «naturali»: sono giuste perché umane. La natura non è mai stata un'età dell'oro e non conosce la categoria dell'innocenza. E ci sono montagne di scheletri nei nostri armadi di specie ominina cosmopolita invasiva nata in Africa 200 mila anni fa. Di nostro, in quanto sapiens, abbiamo aggiunto semmai il male gratuito, il male stupido, il male pianificato su larga scala con meticolosa sistematicità, il male istituzionalizzato nella guerra, il male che si fa con le migliori intenzioni, nonché una certa crudeltà concettuale: tutti comportamenti che nel resto della natura, dove vige una più spiccia e pragmatica economicità, compaiono assai raramente.

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Perché una previsione scientifica non è un vaticinio

In questo senso comune contemporaneo della catastrofe, proliferano dunque le ambiguità fra naturale e culturale. Non sono naturali, chiaramente, le catastrofi che derivano direttamente, o come effetti collaterali intelligibili, dalle tecnologie umane (catastrofi prodotte da industrie inquinanti, armi di distruzione di massa, incidenti nucleari, armi batteriologiche, e così via). Ma a ben guardare non sono del tutto «naturali» nemmeno le catastrofi che noi attribuiamo solitamente ad agenti atmosferici o biologici o a fenomeni parossistici come eruzioni vulcaniche, terremoti, uragani, tsunami, inondazioni, dissesto idrogeologico. La responsabilità umana diretta o indiretta, in ciascuna di queste catastrofi, è infatti legata al grado di rischio e di vulnerabilità che noi accettiamo nell'esporci a esse.

L'argomento di Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona conserva quindi una sua validità. Si tratta di catastrofi soprattutto sociali, culturali, artificiali, catastrofi di imprudenza, di cattiva politica, di miopia ed egoismo. Catastrofi umane. Soprattutto, catastrofi perfettamente prevedibili sul piano razionale (come lo è costruire interi quartieri alle pendici di un vulcano quiescente e a carattere esplosivo) e tuttavia sofferte come ineluttabili. Θ un dato di fatto che se le coste dell'oceano Indiano non fossero state private delle barriere coralline e delle foreste di mangrovie lo tsunami del 2004 non avrebbe avuto effetti così devastanti. Il rifiuto di questa evidenza, e delle responsabilità che ne conseguono, risolleva l'«uscita di sicurezza» escatologica: la tragedia, la catarsi, l'apocalisse, la punizione. Θ colpa di Dio, della natura, del turismo. Gli esempi, nel linguaggio dei commentatori e dei politici, sono numerosi e recenti. Katrina, Haiti, tsunami nell'oceano Indiano, terremoti e inondazioni: la trama interpretativa è sempre impregnata di immaginario fatalistico, apocalittico o punitivo. Non usciamo da questi schemi teleologici.

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Pandemie della paura

Esiste infine una categoria di nemici microscopici che appena diventano visibili scatenano l'intera gamma delle emozioni apocalittiche. Anch'essi traggono profitto dai nostri comportamenti. Le malattie infettive hanno plasmato la storia umana [McNeill 1977], ma il primo decennio del nuovo millennio è stato caratterizzato da un'inusitata sequenza di allarmi connessi a epidemie (e potenziali pandemie) di varia natura. La cadenza è stata così serrata da creare quasi un effetto di assuefazione. Nel 2000 tutto cominciò con il morbo della «mucca pazza» (la sindrome di Creutzfeldt-Jakob), una variante dell'encefalopatia bovina spongiforme (prodotta dall'incauta somministrazione a questi erbivori di farine animali in allevamenti intensivi) capace di attaccare gli esseri umani dopo un lungo e inquietante periodo di incubazione. Pochi giorni dopo l'11 settembre si diffuse la psicosi delle buste all'antrace, sulle prime interpretate come prodromi di una guerra batteriologica a base di carbonchio e poi rivelatesi invece l'impresa solitaria di un ricercatore militare frustrato e paranoico, morto suicida nel 2008. Nella primavera del 2003 fu la volta della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), una polmonite asiatica atipica e infettiva, causata da coronavirus, partita dalla Cina e diffusasi poi con alcuni focolai a Toronto. Di nuovo dall'Estremo Oriente venne poi l'aviaria, nell'autunno del 2005, l'influenza H5N1 portata dai volatili e subito equiparata alla micidiale influenza spagnola che nel 1918 falcidiò milioni di persone. Infine, nel maggio 2009, fu il momento dell'influenza A (H1N1), originariamente battezzata «suina» per la sua provenienza dai maiali.

Ciascuna di queste emergenze sanitarie è stata accompagnata da previsioni iniziali molto pessimistiche, diffuse non soltanto da organi di stampa in cerca di notizie sensazionali, ma anche da autorevoli organizzazioni internazionali e da testate autorevoli pronte a diffondere in esclusiva i contenuti di rapporti confidenziali provenienti da varie fonti non sempre disinteressate [Kerbaker 2010]. Avrebbero dovuto essere 136.000 i morti per la mucca pazza secondo le stime di «Nature» e di numerosi esperti britannici, ma i letali prioni dopo alcuni mesi avevano colpito un centinaio di persone (un dramma comunque visti gli effetti della malattia, ma non una pandemia planetaria dato che per il 90% è rimasta in Gran Bretagna). Dopo il terrore iniziale, le buste all'antrace infettarono 21 persone, con cinque decessi, e più nessuna contaminazione dopo poche settimane. La SARS ha colpito circa 8.000 persone, con una mortalità del 10%, e si è spenta dopo tre mesi in Asia e a Toronto, anche se ha condizionato profondamente con le sue quarantene i viaggi aerei e il turismo. L'influenza aviaria, dopo le previsioni iniziali di milioni di contagiati dal pollame infetto, si stima abbia raggiunto in Asia meno di 400 persone, uccidendone 234, e non riuscendo a diffondersi in Europa. Dimensioni analoghe si riscontrano per l'influenza A, che si è diffusa sì in tutto il mondo rapidamente ma con tassi di mortalità inferiori allo 0,02% dei contagiati. A conti fatti, le pandemie influenzali recenti, rientrate dopo pochi mesi, hanno avuto cifre di mortalità equiparabili alle normali influenze stagionali, al netto delle concause dovute ad altre patologie debilitanti. L'aviaria non pare essere riuscita a trasmettersi tra umani.

Tra contagiosità e mortalità effettiva (due parametri ben distinti), il paradosso informativo dell'allarmismo è ben noto. Se le autorità competenti non danno notizie o si mostrano reticenti, si ingenerano sospetti che ben presto alimentano la psicosi collettiva e i deliri da complotto, ingigantendo la minaccia. Se gli organi di informazione e le istituzioni preposte scelgono invece la trasparenza e diffondono tutti gli aggiornamenti su un'epidemia in corso – come ha fatto negli ultimi anni l'Organizzazione Mondiale della Sanità – a causa della rapidità e della capillarità di diffusione delle news a livello mondiale monta rapidamente l'ansia nell'assistere in diretta alle tappe del contagio. L'untore può diventare un maialino d'allevamento, come anche un uccellino morto sul marciapiede. Se, altresì, si opta per una prudente astensione dal giudizio e si manifesta la propria incapacità di previsione, il pubblico percepirà una debolezza negli esperti e si preoccuperà oltremodo. Comunque la si metta il panico collettivo è garantito, e con esso la mancanza di serenità di giudizio.

Non convincono del tutto le risapute argomentazioni che vedono in questa politica dell'allarmismo una precisa strategia di visibilità e di interesse economico. In fondo, un'epidemia può essere un buon affare per alcuni (quelli che producono e commerciano vaccini) e un pessimo affare per altri (produttori e commercianti di carne bovina e di pollame, imprenditori del turismo, fra gli altri). Dunque allo scoppio di un nuovo contagio dovremmo aspettarci che un equilibrato conflitto di interessi economici contrapposti aleggi sui media mondiali: qualcuno avrà interesse a ridimensionare e smorzare ogni allarme per timore di colossali perdite di affari; altri a soffiare sul fuoco con lo stillicidio di stime e di documenti ufficiali. Nel mezzo, per i non addetti ai lavori è difficile districarsi tra le informazioni contraddittorie e farsi un'idea attendibile di quanto stia avvenendo.

Le colpe dei media e degli «analisti» in cerca di visibilità sono note e il campionario delle previsioni sbagliate, tra crisi economica e pandemie, in questi anni si è allargato. Eppure, forse è più plausibile che la spiegazione per questi fenomeni ricorrenti di allarme generalizzato sia il bisogno di individuare un nemico, anche se silenzioso e generico, unito al desiderio un po' perverso di avere paura per sentirsi vivi e vigili. Tuttavia, tra le opportune analisi sociologiche non deve sfuggire una domanda essenziale: anche se finora ci è andata abbastanza bene, quelle minacce a base di agenti patogeni erano reali?

Ebbene, pur escludendo qualsiasi panico e nonostante la prudenza d'obbligo, la risposta è affermativa. Le armi batteriologiche esistono davvero e sono un grande pasticcio da apprendisti biotecnologici. Il carbonchio è un morbo terribile. La sindrome di Creutzfeldt-Jakob pure. I virus, da veri campioni dell'evoluzione darwiniana, faranno altri salti di specie e nulla esclude che possano sviluppare mutazioni tali da permettere loro di diffondersi da un essere umano a un altro. I cordoni sanitari, le condizioni igieniche e i vaccini sono stati finora un buon argine, ma tutto dipende dalla velocità della prossima evoluzione di queste semplicissime creature letali il cui mestiere è penetrare i nostri sistemi immunitari. Θ bene tenere alta la sorveglianza epidemiologica. Nonostante le evidenti speculazioni sul terrore, trattare tutto questo come una bufala mediatica, prodotta ad arte da un'internazionale della paura, rischia di essere un atteggiamento imprudente.

Eppure, se diciamo che una determinata situazione (lo scoppio di un'epidemia inedita) è compatibile con scenari diversificati – alcuni rassicuranti (i più probabili) e altri apocalittici (i meno probabili, ma non impossibili in linea teorica) – l'attenzione del pubblico si concentrerà quasi esclusivamente sul corso degli eventi peggiore, quello fatale. Così il virus diventa un'altra espressione della stessa ipocondriaca paura collettiva, e della nostra insopprimibile volontà di sentirci in pericolo. Il mondo sta per finire, siamo terrorizzati: e dunque siamo ancora vivi. La paura della fine del mondo è soltanto una delle possibili manifestazioni della paura dell'ignoto. E il timore reverenziale verso ciò che è certo ma indeterminato, cioè un evento che sappiamo di sicuro avverrà, ma non sapremo mai quando.

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Capitolo terzo


Nemesi
(comunque sia, è colpa nostra)



                            Che cosa pensavano gli abitanti dell'isola di
                            Pasqua mentre tagliavano l'ultimo albero?

                            J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono
                                        di morire o vivere, 2005



Per i nativi americani la fine del mondo arrivò via mare, da un punto lontano nell'orizzonte dove nasce il Sole. Sbarcò da navigli imponenti irti di alberi e pennoni, foreste di vele spiegate che sembravano proprio le temibili astronavi di un altro pianeta. La fine del mondo scese sbuffante a cavallo, ornata di pennacchi, bei tessuti e stendardi, armature luccicanti, spade affilate, e crocefissi di ogni foggia. Costruì villaggi malsani, coprì gli ignudi, depredò l'oro, portò schiavitù, avidità e corruzione. Spostò la frontiera ogni volta più in là, perché al contrario per lei il mondo non doveva finire mai. Era furba, vorace e senza scrupoli, la loro fine del mondo. Aveva alleati silenziosi, che straziavano i corpi e decimavano le tribù al loro passaggio: nuove malattie, senza scampo, si diffondevano. Alcuni spiriti degli amerindi lo avevano predetto, o così almeno sembra. In ogni caso non poterono alcunché contro gli sciami di cavallette ben armate.

Il loro mondo era condannato e non sarebbe mai più tornato. Nel caso dei maya, l'impero mesoamericano era già finito tra il IX e il X secolo d.C. sotto i colpi combinati dei mutamenti climatici, della crescita demografica, dei danni ambientali, dello stato di guerra e della mancanza di lungimiranza [Diamond 2005]. Eppure, cinicamente, cominciava un altro mondo, di conquistatori, avventurieri e pionieri. Le culture umane si sono estinte l'un l'altra fin da quando il possesso del territorio è diventato un'esigenza. Talvolta si sono estinte da sole. Tuttavia, è possibile che l'aggressività, l'ingordigia e la miopia umane conducano non un singolo popolo, bensì l'intera umanità, sul ciglio della fine?

Abbiamo fin qui esaminato i disastri ineluttabili esterni, quelli per i quali, quando giungeranno, ci sarà forse ben poco da fare. Poi abbiamo passato in rassegna i disastri per cause ancora «naturali», ma lungamente assecondate dal nostro probabile zampino. Ora è tempo di esaminare i disastri interamente umani, e ciò che ne consegue in termini di sensi di colpa e incomprensioni. Avvengono quando coltiviamo la nemesi nel nostro giardino: le macchine cominciano ad evolvere indipendentemente, diventano ostili e prendono il sopravvento (è il timore che aveva già Samuel Butler riflettendo sarcasticamente sulla teoria darwiniana); malefici nanorobot fuori controllo distruggono ogni cosa; oppure soccombiamo sotto i colpi di guerre e di olocausti nucleari, della sovrappopolazione fuori controllo, dei disastri ambientali prodotti dall'inquinamento, di sconvolgimenti climatici, di pandemie. L'annientamento di sé prima o poi arriva, si tratta di trovare i mezzi necessari. La nostra attitudine a preoccuparci a dismisura per disastri improbabili non dimostra infatti che una catastrofe umana sia necessariamente impossibile.


Nemesi, il disastro per propria mano

Il paradigma de Il dottor Stranamore di Kubrick ha assunto oggi un valore generale nella cultura. La scienza e la tecnologia — nelle mani di visionari o criminali — deragliano e ci portano dritti alla catastrofe, sotto forma di una guerra o di un incidente nucleare, di robot impazziti, di perfide intelligenze artificiali che prendono il sopravvento, di esperimenti genetici fuori controllo, di insidiose nanotecnologie militari che ci penetrano nella pelle. Gli astrofisici che nel 1984 su «Nature» ipotizzarono l'esistenza di una stella compagna del Sole, responsabile delle perturbazioni gravitazionali nella nube di Oort che ciclicamente farebbero piovere comete sui pianeti interni seminando distruzione, scrissero:

Se e quando la stella compagna sarà trovata, noi suggeriamo di chiamarla Nemesi, dal nome della dea greca che senza posa persegue chi è eccessivamente ricco, orgoglioso e potente. Temiamo che, nel caso in cui la stella non venisse trovata, questo articolo sarà la nostra nemesi [Davis, Hut e Muller 1984, 717].

In effetti, finora nessuno l'ha vista. Forse però Nemesi non è una fantomatica gemella minore del Sole, ora in allontanamento ma fra qualche milione di anni in procinto di tornare con il suo carico di morte che piove dal cielo. Nemesi potrebbe essere un'invenzione tutta terrena, una torsione del progresso, la serpe in seno, insomma una ben più veloce fine del mondo per implosione umana.

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I casi più emblematici in tal senso provengono dalle nuove tecnologie genetiche. Come hanno scritto recentemente Helga Nowotny e Giuseppe Testa, lo «sguardo molecolare» sta cambiando le nostre vite, e c'è un intero futuro da ripensare [2012]. Se nel dibattito pubblico confondiamo un clone con un gemello, o condanniamo la fecondazione eterologa in vitro quasi fosse un tradimento coniugale, è perché l'essenza genetica è diventata per noi molto più importante dell'ambiente di sviluppo, naturale e sociale, di un individuo. I geni, invisibili molecole della vita, sono stati messi a nudo. L'immagine lineare del DNA, icona di casualità e destino, di speranza e condanna al contempo, ha permeato la società.

Così svelandosi, queste entità microscopiche si sono trasferite in altri ambiti del discorso sociale, dalla pubblicità alla cosmesi. Hanno smesso di essere soltanto frammenti materiali di un complesso continuo di interazioni da cui scaturisce la vita, per divenire agenti intenzionali, essenze senza tempo, attori determinanti e inquietanti. Il risultato è che i geni, trasfigurati in essenze senza contesto, appaiono più potenti di quanto sono. Alla fine, qualsiasi interferenza tecnologica in questa sorta di «oracolo interno» viene percepita come una minaccia. La paura genera resistenze irrazionali e così ci rifugiamo nella finzione di una naturalità ideale, come se la natura fosse buona di per sé.

Mentre un tempo la dissezione era materia per il teatro anatomico, nei prossimi anni schiere di genomi saranno squadernate su web all'insegna della trasparenza e potremo navigare al loro interno con Google in cerca di mutazioni e predisposizioni. Ma alla chiarezza crescente dell'osservazione scientifica che penetra nei recessi della vita non sembra corrispondere una chiarezza decisionale: i valori e gli interessi si scontrano, nuove forme di vita irrompono nella società, concetti classici come uguaglianza e dignità sono rimessi in discussione. Ciò accade, notano giustamente Nowotny e Testa, perché comprendere un sistema biologico significa modificarlo, perturbarlo, intervenire attivamente al suo interno. E viceversa: manipolarlo, scomporlo e ricomporlo è il solo modo per scoprirne aspetti prima nascosti e per trarre nuove applicazioni. La scienza non è più, se mai lo è stata, un neutrale sguardo da nessun luogo. Noi conosciamo perché interferiamo con il sistema osservato, poniamo domande alla natura, non certo mettendoci passivamente in ascolto di quanto essa ha da dirci.

La privatizzazione dei dati biologici, il progetto di screening genetico di massa degli islandesi, la biologia sintetica, cioè l'ingegnerizzazione della materia vivente al fine di produrre «sistemi biologici artificiali» (che non è più un ossimoro), sono tutti esempi di grandi sfide bioetiche future. Tra nuove possibilità scientifiche, inedite scelte di vita e istituzioni da ripensare, l'etica e la politica saranno sempre più chiamate a far convivere una pluralità di valori eterogenei. In fondo le biotecnologie sono ulteriori esplorazioni dei limiti e delle possibilità umane, che richiederanno saggezza e solidità sociale. Discontinuità forti e nascenti diritti (come quello di procreare dopo la propria morte) si mescolano così alla continuità di antiche pratiche, cominciate con la domesticazione di piante e animali. L'evoluzione della natura umana (biologica e culturale) prosegue con altri mezzi.

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Noi i devastatori, noi i salvatori?

Lo scandalo dell'ingiustizia e della disuguaglianza su scala globale è la premessa di ogni questione ambientale. Milioni di bambini potrebbero essere salvati da atroci sofferenze, ogni giorno, semplicemente diffondendo nei loro paesi le vaccinazioni più elementari. La fine del mondo per propria mano ha a che fare anche con il limite oggettivo della finitudine del nostro pianeta: le risorse e le materie prime non rinnovabili sono in quantità finita e non possono essere sfruttate indefinitamente per la produzione e la crescita economica. Allo stesso tempo, l'impatto umano ha un limite di tollerabilità sugli ecosistemi oltre il quale bisogna aspettarsi che il sistema terrestre produca reazioni e riorganizzazioni che non necessariamente garantirebbero le stesse condizioni di vivibilità per la specie umana. Esiste un confine oggettivo oltre il quale la pressione produttiva e riproduttiva umana non è sostenibile, e ci si divide sull'eventualità che sia stato già raggiunto oppure no. Queste sono le premesse della finitudine evoluzionistica oggettiva.

Da un piccolo gruppo di 25 mila pionieri in Corno d'Africa siamo diventati sette miliardi sparsi ovunque. Le proiezioni demografiche sembrano convergere verso un picco di espansione intorno a nove miliardi di individui, tra il 2050 e il 2070, dopo il quale ci sarà una stabilizzazione o una lieve flessione della popolazione mondiale. Saremo sempre tantissimi, ma non più di un certo limite fisiologico. La biosfera sarà comunque sottoposta a pressioni fortissime, per sfamare una tale quantità di nostri simili, ma secondo alcuni scienziati sarà il divario intergenerazionale a creare í maggiori problemi. Il picco popolazionale unito all'innalzamento dell'aspettativa di vita produrrà un «futuro grigio», con la metà della popolazione, si stima, sopra i 60 anni. I grandi problemi ecologici del futuro saranno affrontati da moltitudini con i capelli bianchi.

Con l'ambientalismo romantico della wilderness ottocentesca e quello più cupo novecentesco, la catastrofe assume dunque le vesti della Nemesi, della punizione superiore per la nostra incapacità di rispettare le soglie che ci sono date. Occorrono – si dice – limiti alla crescita, conversioni ideologiche, cambiamenti di costumi, interventi radicali e rigidi principi di precauzione, se non vogliamo correre dritti verso il disastro. Anche questa però è a suo modo una catastrofe rimandata, costantemente annunciata, proiettata in un futuro variabile. Le previsioni allarmistiche di «verità scomode» non sono più appannaggio di millenaristi o capi religiosi, ma di scienziati, uomini politici e intellettuali laici.

A ben vedere, però, dall'invenzione della domesticazione di piante e animali la specie umana è sempre stata tendenzialmente «insostenibile» e la Terra, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ne ha già viste di tutti i colori. Tale constatazione di fatto non rappresenta un alibi per un vano scetticismo ambientale o per un negazionismo irresponsabile, bensì rivela come paradossalmente anche questa accezione ecologista della catastrofe sia al suo cuore antropocentrica (nostra è la colpa del disastro e da noi ora dipende uscirne) e sia per noi cognitivamente attraente, o quasi psicologicamente consolante. Nel bene come nel male, siamo noi i padroni della situazione, i nocchieri del pianeta, il quale, dopo essere stato minacciato e turbato da noi, sempre da noi attende ora di essere eroicamente salvato. Accorgerci della Nemesi incombente ci fa sentire migliori. Permane insomma anche in questo caso un valore edificante della catastrofe, della minacciata fine del mondo.

Se le sorti di madre natura sono nelle nostre mani, allora siamo davvero importanti. Eppure non si direbbe che la biosfera sia un sistema così fragile. Non ci piace ammetterlo, ma la vita continuerebbe comunque, anche dopo la peggiore catastrofe nucleare generabile dalla follia umana. L'imperativo ecologico, «salvare il pianeta», forse può essere declinato più umilmente nel senso di salvare le condizioni di possibilità per la nostra sopravvivenza come specie umana e per quella dei nostri compagni di viaggio in questo scorcio di evoluzione. La necessaria, e per ora disattesa, «coscienza globale» circa la fragilità del nostro destino è un tema filosofico che dovrebbe ricevere più attenzione.

Persino nell'ecologismo meglio intenzionato sembrano allora nascondersi le perversioni indotte dal senso di colpa e le tentazioni contrapposte dell'autoflagellazione e dell'autoesaltazione. Siamo immersi in un lacerante doppio vincolo. Il paradosso è lampante: dovremmo consumare di più per «far girare l'economia», per «rilanciare la crescita», per dare sviluppo; ma consumando di più, e in questo modo dissennato, sappiamo che corriamo dritti verso la crisi ambientale, come innumerevoli segnali inascoltati ci indicano da decenni. Si ha così l'impressione di essersi costruiti addosso una gabbia: il nostro unico, indiscusso – imperfetto ma insostituibile (così si dice) – modello di sviluppo economico-finanziario ci nutre e insieme stringe il cappio attorno al collo, lasciando dietro di sé una scia di ineguaglianze.

Da qui, per reazione, una filosofia della catastrofe che scatta in avanti e propone uno stravolgimento concettuale ed etico: dobbiamo decrescere, emanciparci radicalmente da questa concezione fuorviante di crescita cumulativa e quantitativa, dal delirio della crescita per la crescita. Torna sotto traccia l'auspicio di Friedrich Hφlderlin («Ma là dove c'è il pericolo, cresce / anche ciò che salva» – Patmos, vv. 3-4): la specie umana saprà reagire e cambiare solo dinanzi al pericolo estremo, sulla soglia di quel baratro che ormai è all'orizzonte. Ad estremo pericolo, soluzioni estreme, per una conversione finale all'urgenza di inceppare questo sviluppo e sostituirlo con un altro, più umano e qualitativo. Ecco di nuovo trapelare, sotto altre spoglie, una riconversione seppur laica delle menti, una catarsi politica, una Nemesi minacciata e un'escatologia salvifica per via terrena. Ma è una filosofia della catastrofe intrinsecamente punitiva, neoreligiosa, edificante. Siamo stati arroganti, abbiamo oltrepassato i nostri limiti a causa dello strapotere della tecnoscienza e ora è giunto il momento di fermarsi.

Vi è naturalmente molto di vero in questa denuncia e in questo invito alla smobilitazione, a una saggia frugalità. Ma come convinceremo «gli altri», quelli che finora ci hanno visto correre in avanti e che adesso galoppano a ritmi di crescita vertiginosi per raggiungerci, a darsi una calmata per non consumare il pianeta come formiche? Con quale diritto noi occidentali ora inventiamo ed esportiamo la cultura della decrescita, giusta per molti aspetti, dopo aver alimentato per alcuni secoli la nostra crescita con le risorse degli altri? Non esiste alcun argomento valido per impedire, a chi desidera il nostro tipo di sviluppo, un cammino analogamente insostenibile. Rischiamo altrimenti di trasformare l'ambientalismo in un lusso per ricchi. Se le risorse del pianeta sono in quantità finita e una crescita illimitata è insostenibile, la decisione su quali modelli di sviluppo intraprendere, che siano plurali ed ecosostenibili, spetta a tutti. Ma questo scatto decisionale internazionale è irrealistico dinanzi agli egoismi nazionali, alle intollerabili diseguaglianze sociali ed economiche che affliggono il pianeta, al rifiuto di politiche di redistribuzione delle ricchezze. Il ricorrente fallimento delle più recenti assise internazionali sul cambiamento climatico, tra veti incrociati e compromessi estenuanti e vanificanti, ne è la riprova.

Forse anziché una decrescita «felice», potremmo intanto ipotizzare una riduzione dell'infelicità dei due terzi del pianeta che vivono nell'indigenza, prospettando insieme a loro una crescita più intelligente e più equa. Potremmo anche capire meglio cosa intendiamo per felicità e benessere di un paese, considerando anche parametri sociali e culturali, il vivere bene insieme in un tessuto di relazioni sociali. Anziché accarezzare nostalgie di tempi perduti e di inesistenti età dell'oro, potremmo insegnare fin dai primi anni di scuola che l'innovazione scientifica e tecnologica è il segreto cruciale per individuare modalità più sostenibili e avanzate di sfruttamento delle risorse primarie, di utilizzo di energie rinnovabili, di produzione e distribuzione del cibo, di smaltimento dei rifiuti, di riduzione delle emissioni di gas serra, di salvaguardia del territorio e del paesaggio, di conservazione della biodiversità. Non vi è per esempio alcuna insuperabile contrapposizione di principio tra lo sviluppo della ricerca biotecnologica e la difesa dei prodotti locali e delle culture tradizionali.

Oggi molti studiosi cominciano a esplorare un approccio che potremmo definire «ambientalismo scientifico», cioè un'analisi del futuro del pianeta che sia rigorosamente ancorata a evidenze scientifiche verificabili, quantificabili e precise, che sia in grado di soppesare sempre i rischi e le opportunità, di proporre priorità e soluzioni pragmatiche, che faccia ricorso ai modelli più realistici e fondati. Un approccio non presuntuosamente neutrale, ma nemmeno velleitariamente salvifico: un ambientalismo eticamente motivato e consapevole dei gravi rischi ecologici e antropologici che stiamo correndo, che non scade però nell'ostilità verso la scienza e le tecnologie ma si affida a esse, criticamente, come a strumenti indispensabili per trovare soluzioni innovative. Se scienza e tecnologia sono state e sono senza dubbio una parte del problema, soprattutto se sviluppate privatamente, esse rappresentano anche una parte indispensabile della soluzione.

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Capitolo quinto


Apocalisse
(che fare dopo che il mondo,
anche questa volta, non sarà finito)



                            In quei primi anni le strade erano affollate di
                            profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti
                            da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul
                            bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole
                            piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito.
                            Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di
                            uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul
                            selciato come nomadi in una terra febbricitante. La
                            rivelazione finale della fragilità di ogni cosa.
                            Vecchie e spinose questioni si erano risolte in
                            tenebre e nulla. L'ultimo esemplare di una data cosa
                            si porta con sé la categoria. Spegne la luce e
                            scompare. Guardati intorno. Mai è un sacco di tempo.
                            Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è
                            l'assenza di qualsiasi tempo.


                            C. McCarthy, La strada, 2006




Se esiste l'inferno, c'è da sperare che non sia abitato da studiosi di esoterismo ed esperti dell'occulto, perché sono di una noia mortale. I cerchi nel grano sono gli stessi da decenni. Così pure la ricerca del Santo Graal, le avventure dei templari, i rapimenti alieni, le scie chimiche, i sogni premonitori, i mostri nascosti nei laghi e, va da sé, la fine del mondo imminente prevista da ignare civiltà del passato. Da una parte i misteri affascinanti della scienza, dall'altra il mistero ripetitivo dell'umana paranoia. Ma di fine del mondo si può e si deve discutere anche scientificamente e filosoficamente. La velocità di rotazione della Terra sta diminuendo, quindi il nostro pianeta potrebbe subire una lentissima morte geologica, dovuta all'indebolimento della geodinamo interna che genera il campo magnetico terrestre. Giorni lunghissimi si alterneranno a notti interminabili, finché lo scudo magnetico non si spegnerà. Il mondo finirà poi per certo fra cinque miliardi di anni circa, quando il Sole si espanderà fino ad inghiottirci nella sua bolla infuocata. Ma forse già prima la nostra galassia avrà iniziato a scontrarsi con quella di Andromeda, in una meravigliosa danza stellare che durerà milioni di anni e alla quale nessun umano, forse, potrà assistere.

Se a quel punto non avremo trovato un modo per rifugiarci in altri sistemi solari, contaminandoli con la nostra stirpe di bipedi inventori, per l'umanità la storia sarà finita. Ben prima tuttavia potremmo aver trovato già da noi stessi il modo di interrompere l'esperimento naturale terrestre chiamato Homo sapiens. Per propria mano o con il contributo di catastrofi geofisiche, la nostra specie, figlia di ripetute ecatombi del passato, potrebbe non riuscire ad assistere al botto finale. Del resto, come scriveva magnificamente Erwin Schrφdinger in Che cos'è la vita?, la fine è inscritta nella ragione più profonda di ogni processo vitale [1995]. La vita è un delicato tentativo, a termine, di resistere alla tendenza universale verso il disordine crescente. In questo flusso incessante, dobbiamo prima o poi restituire all'universo l'ordine strutturale che abbiamo assorbito e prodotto.


Contro l'argomento del giorno del giudizio

Come prevedere, allora, il momento in cui si realizzerà questo evento sicuro? La fine fa parte del futuro remoto o è un «destino prossimo», come ha argomentato il filosofo canadese John Leslie? Un modo possibile, per quanto speculativo, di calcolare la vicinanza della fine del mondo si basa sulla probabilità. Un cosmologo di Cambridge, Brandon Carter, formulò nei primi anni Ottanta del secolo scorso una celebre tesi pessimistica chiamata «argomento del giorno del giudizio». Se immaginiamo che la specie umana sopravviva e si riproduca per altri milioni di anni, dobbiamo dedurne che noi, vivi nel 2012, facciamo parte di una frazione infinitesima di popolazione umana che sta assistendo alle primissime fasi dell'infanzia di Homo sapiens. Questo, da un punto di vista meramente statistico, è altamente improbabile, anche senza considerare tutti i pericoli che stiamo correndo o nei quali potremmo improvvidamente infilarci. Ci troveremmo infatti nel primo millesimo o centomillesimo della popolazione umana di tutti i tempi. Ma noi adesso siamo dentro il 7% di tutta la popolazione umana di tutti i tempi, considerando che siamo sette miliardi su un totale stimato di 100 miliardi di esseri umani vissuti dall'inizio della nostra storia di specie. Θ quindi assai più probabile che il numero totale di umani di tutti í tempi non sarà di molto superiore a questi 100 miliardi (altrimenti torneremmo nel caso precedente, cioè nell'eventualità altamente improbabile di trovarci ora nel primo millesimo della popolazione umana di tutti i tempi). Di conseguenza, la fine del mondo non è lontana.

Diciamolo in un altro modo. Se la specie umana si estinguerà tra poco, significa che noi adesso siamo in una fetta pari al 7% di tutti gli umani di tutti i tempi (maggiore probabilità). Se la specie umana si estinguerà fra tanto tempo e nasceranno molti miliardi di nuovi individui, significa che noi adesso siamo in una fetta infinitesimale di tutti gli umani di tutti i tempi (minore probabilità). La seconda sarebbe una condizione eccezionale, mentre la prima sarebbe piuttosto ordinaria. Secondo Carter e Leslie, un ragionamento scientifico deve preferire la prima opzione, per non ipotizzare scenari improbabili quando ne esiste uno più probabile [Leslie 1996]. Dunque, gli umani sarebbero in procinto di estinguersi. E se anche non fosse così, aggiungono i due, un pizzico di pessimismo in più non potrà che aiutare nell'essere più vigili a fronte dei rischi che corriamo.

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Nei calcoli andrebbero poi considerate le differenti tipologie di «fine del mondo», le imperscrutabili scoperte future dell'umanità, il carattere indeterministico della storia, nonché il grado di improbabilità che un evento drammatico possa estinguere in un colpo solo ben sette miliardi di persone. La perdita di centinaia di milioni di esseri umani e persino lo stallo o l'involuzione della nostra civiltà tecnologica, per quanto eventi terribili e traumatici, non sarebbero infatti «la fine del mondo», ma crisi globali dalle quali potremmo lentamente risollevarci.

Secondo Bill McGuire [2003] la locuzione «fine del mondo» è da intendersi in quattro modi: 1) la totale distruzione del pianeta Terra e di tutti i suoi abitanti (sicuramente fra cinque miliardi di anni); 2) la distruzione di cui sopra, ma non quella dell'umanità, rifugiatasi nel frattempo altrove (ipotesi di scuola, del tutto irrealistica al momento, nonostante la scoperta di centinaia di pianeti extrasolari, alcuni dei quali abitabili); 3) il rovescio, cioè la fine completa dell'umanità ma non del pianeta né della sua biodiversità (ipotesi assai meno irrealistica, anche se improbabile; è lo scenario risultante per esempio da un conflitto nucleare generalizzato); 4) la «fine del mondo per come lo conosciamo», cioè una crisi gravissima che annienta un gran numero di persone, frantuma l'economia e ci riporta indietro di secoli, obbligandoci a una lenta e faticosa rinascita dalle macerie (uno scenario compatibile, secondo McGuire, con eventi geofisici globali che già sono avvenuti in passato e che certamente avverranno in futuro). La trattazione fin qui esposta si è occupata soltanto dei casi terzo (di norma) e quarto (come caso limite), cioè di un'accezione tutto sommato relativa di «fine del mondo». Come ha ammesso Leslie [2010], l'argomento del giorno del giudizio resta valido soltanto come «ammonimento probabilistico» a non essere troppo acriticamente fiduciosi circa la lunga durata dell'umanità, ma per questo forse non serviva scomodare il calcolo bayesiano.


La fine è sempre relativa

La catastrofe dunque impregna la nostra storia e la nostra stessa natura. Ne siamo parte e ne siamo figli, ma la sua determinazione ci sfugge. Questo ci urta, perché non fa altro che richiamare la nostra finitudine, la nostra marginalità. Il fascino della catastrofe deriva certamente anche da una sublimazione di questa paura. Noi moriremo, e prima o poi tutto morirà. La fine globale si riverbera su quella individuale e su quella della nostra comunità, e viceversa. Un tempo «la fine del mondo era altrettanto ineluttabile e certa come la propria stessa fine» [Flori 2010, 9]. Giocare oggi con la catastrofe significa invece dissimulare e rinviare ad altri — e a una dimensione troppo generale e troppo indefinita per fare male per davvero — il non senso scandaloso e inaccettabile della nostra fine individuale. Come ha scritto giustamente Ian McEwan, l'accelerazione di cambiamenti sempre più imprevedibili sortisce l'effetto psicologico di comprimere il futuro, tanto che non riusciamo più a immaginare come sarà il mondo tra pochi decenni. Questo meccanismo ansiogeno crea una relazione angosciosa con il tempo e fioriscono i millenarismi più irrazionali [McEwan 2008]. Così nell'immaginario popolare, consolante e salvifico, imponiamo a noi stessi che vi sia sempre un «dopo la catastrofe», un nuovo inizio umano dopo la prossima fine del mondo, per illuderci che almeno quella dissoluzione non sarà irreversibile e irrimediabile ma anzi porterà alla luce una nuova stirpe di esseri umani.

Per Immanuel Kant, che scrisse a proposito di questo in un piccolo saggio della vecchiaia, La fine di tutte le cose [2006], la congiunzione dei due pensieri della fine (individuale e collettiva) porterebbe la ragione umana sull'orlo di un abisso senza ritorno, a causa di un paradosso insanabile legato al tempo: il pensiero ha intrinsecamente bisogno del tempo per svolgersi e la fine stessa del tempo lo ammutolirebbe. La fine assoluta è uno scacco per il linguaggio e per ogni concettualízzazione e non è confrontabile con quella di un essere individuale e fenomenico che muore e trapassa in un ordine ultramondano del tempo, che è pur sempre tempo sotto altra forma, tempo che si protrae all'infinito.

La fine assoluta è dunque impossibile da pensare per noi, in quanto al di fuori delle nostre capacità di concettualizzazione. Dinanzi a quell'istante abissale in cui il finire stesso smetterà di finire e un'estrema unità di tempo naufragherà nella fine del tempo, ogni logica incontra aporie insanabili, giacché, per esempio, «l'inizio» di un mondo atemporale è una contraddizione. La fine, quella vera, è impensabile. Ponendosi essa al di fuori del tempo, possiamo solo descriverla per metafore e allusioni.

Non resterebbe dunque che affidarsi ad altre possibilità ed energie della mente: all'immaginazione in Kant, verso una dimensione ulteriore che percepisca il carattere sublime della fine e torni a dare un senso e uno scopo al mondo; all'incantesimo del mito in Platone, soglia narrativa dove ogni concetto fallisce; o forse a una sensibilità teologica per le cose ultime [Tagliapietra 2010]. Ebbene, non è di questa fine assoluta, o noumenica, che abbiamo parlato fin qui. Essa anzi appare come una concezione fortemente antropocentrica, laddove associa la fine del pensiero e del linguaggio (contingenti evenienze dell'evoluzione terrestre) alla fine di tutto quanto, la fine assoluta e impensabile di Kant. Ma la fine dell'umanità, per quanto importante, non sarà la fine del mondo. Persino quando pensiamo alla nostra fine come specie, rischiamo di darci troppa importanza.

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Per smentire ogni «argomento del giorno del giudizio», non serve dunque rifugiarsi in escatologie salvifiche, ma cogliere il valore della contingenza storica e del suo contenuto di imprevedibilità intrinseca, in negativo come in positivo. Un buon punto di partenza potrebbe essere quello di accettare la fragilità e la provvisorietà delle nostre conoscenze sul mondo. La cruda realtà è che non abbiamo minimamente gli elementi per sapere se il mondo finirà, e quando. Θ già difficile fare qualche proiezione sensata su ciò che accadrà nei prossimi decenni, benché la futurologia sia uno dei nostri sport preferiti. Il futuro è indomabile, almeno quanto lo è stato il nostro imprevedibile passato. Ed è indomabile per la semplice ragione che non sappiamo quale, fra le infinite nostre minuscole azioni, sarà capace di influenzarlo oppure no. Gesta altisonanti forse non lasceranno traccia, mentre azioni apparentemente insignificanti potranno fare la differenza. L'esistenza stessa di una predizione sul futuro, le cui suggestioni si stampano nel nostro immaginario, implica una leggera perturbazione del futuro reale, che non sarà più come prima.

Su considerazioni simili si fonda quello che Stephen J. Gould definiva «tragico ottimismo» [Gould 1999, 29]. Tragico, perché diveniamo consapevoli della nostra irredimibile finitudine, individuale e collettiva. Tragico, perché accettiamo di non poter dominare il processo, noi che siamo figli contingenti di alcuni dettagli fortunati dell'evoluzione della Terra. Tragico, perché con le parole di Leopardi nello Zibaldone sappiamo che il nostro giardino è un instancabile brulicare di mascelle. Ma pur sempre ottimismo, perché lo abbiamo capito e abbiamo le conoscenze e le possibilità pratiche per cambiare in meglio, se lo vogliamo, il mondo che abbiamo avuto in consegna. Esito di una storia naturale senza progetto, di cui non sappiamo prevedere la fine, Homo sapiens può gettare dentro il futuro le sue intenzioni e i suoi progetti, senza garanzie di successo ma con qualche ragionevole speranza. Può cioè decidere in libertà di riflettere sulla vita, anziché sulla morte: «Nulla v'è su cui l'uomo libero mediti meno che sulla morte; e la sua saggezza sta appunto nel meditare non sulla morte, ma sulla vita» (Spinoza, Etica, IV, 67).

Vi sono almeno tre ragioni evoluzionistiche di ottimismo. La prima risiede proprio nell'imprevedibilità, che vale anche per le prognosi infauste. Non esistono conferme sperimentali di tendenze macroevolutive «prevedibili» che metterebbero in relazione alcune caratteristiche delle specie con la loro longevità e con la prossimità o probabilità di estinzione. Tali correlazioni riguardano solitamente l'eccesso di specializzazione etologica ed ecologica, il tasso di speciazione nelle famiglie e nei generi, il grado di «complessità» (ammesso che se ne indichi una formulazione misurabile e comparabile), la taglia e il ritmo di sviluppo. Si tratta, tuttavia, di modelli semplificati che oltre ad avere spesso un carattere speculativo (e un soverchiante numero di eccezioni) sembrano talvolta in contraddizione con il carattere ampiamente non progressivo e altresì irregolarmente ramificato delle filogenesi più avanzate che oggi si possono ricostruire. Se gli eventi evolutivi non hanno una direzione, anche tempi e modi dell'estinzione appartengono al dominio della contingenza storica.

La seconda ragione è legata al fatto che siamo una specie giovane e piena di potenzialità, capace finora di stabilire un'anomalia ecologica senza precedenti e un assetto comportamentale inedito, cambiando persino le regole del gioco evolutivo in virtù dei propri riadattamenti ingegnosi. Nulla esclude che queste potenzialità delle nostre facoltà cognitive specie-specifiche non potranno essere in grado in futuro di rimediare alla minaccia incombente di un'implosione della convivenza umana.

La terza ragione è data dalla flessibilità adattativa. Per fare un esempio, l'allungamento neotenico del periodo di crescita e di apprendistato è stato molto rischioso per la nostra specie, esposta a lunghi anni di fragilità e di dipendenza dei cuccioli. Eppure questo apparente «disadattamento» deve aver messo sulla bilancia della selezione naturale ben più ponderosi vantaggi, in termini di apprendimento sociale e di trasmissione culturale. Nell'equilibrio instabile di costi e benefici, l'evoluzione trova di volta in volta compromessi onorevoli con il materiale a disposizione e con la storia pregressa. Certo, fino a prova contraria, cioè fino all'esito prima o poi inevitabile dell'estinzione. Ma nel frattempo chissà quali altre invenzioni sapremo estrarre dal cilindro.

Vi è poi una considerazione aggiuntiva a favore di un ottimismo nonostante tutto. Guardare in faccia la contingenza crudele e insensata della nostra sorte, come scriveva Voltaire a proposito del terremoto di Lisbona, è l'atteggiamento in ultima analisi più «compassionevole». Quando contempliamo come intrepidi spettatori i naufragi altrui, scrive nel Poème sur le désastre de Lisbonne, cerchiamo in tutta pace le cause, incolpiamo la natura o Dio, ci rifugiamo nell'idea contraddittoria del migliore dei mondi possibili, oppure ci consoliamo pensando che è tutta responsabilità dell'uomo, con la segreta speranza che forse un giorno un qualche «uomo nuovo» saprà risollevarci e farci tornare a una nostalgica naturalità. Θ solo quando sentiamo davvero vicini i colpi della sorte nemica, quando guardiamo dentro la voragine del nonsenso che diventiamo più umani e piangiamo insieme, patiamo insieme. Crollate le giustificazioni escatologiche e le finte consolazioni, il nostro essere esposti tutti insieme alla contingenza della fine del mondo ci fa ritrovare le basi del sentimento morale: la simpatia darwiniana, la compassione volterriana, la ginestra leopardiana, il condividere un percorso accidentato e incerto, consapevoli della nostra finitudine come individui e come specie. Da una fragilità, le basi per uno scatto di dignità, per un tragico ottimismo, per un'etica della finitezza.

La fine del mondo, per un apocalittico scettico, non significa quindi consegnarsi al nichilismo, a filosofie ciniche e antiumanistiche, a un relativismo rinunciatario e conformista. Al contrario, significa proporre un'etica solidaristica rivolta al futuro, un'etica laica basata sull'umiltà evoluzionistica e al contempo sulla consapevolezza di essere una novità evolutiva senza precedenti, nel bene e nel male. L'evoluzione è un processo continuativo e il futuro dipende anche dalle nostre scelte adesso. Dato che nessuno verrà a salvarci, ne usciremo con «l'invincibile impulso alla curiosità, vero marchio dell'indipendenza mentale» [McEwan 2008]. Alla luce del vastissimo numero di individui e dell'indubbia adattabilità umana, è piuttosto improbabile che un evento naturale o una sciagura umana siano in grado di estinguere l'intera umanità e di interrompere il nostro esperimento evolutivo una volta per tutte, né il 21 dicembre 2012 né a breve termine. In questo (e nell'imprevedibilità della storia) possiamo trovare un minimo sollievo, ma non certo di tipo morale. La contabilità delle ipotetiche vittime future è macabra e inutile. Come recita il Talmud, salvare una sola vita significa salvare il mondo.

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