Copertina
Autore Margherita Pillan
CoautoreSusanna Sancassani
Titolo Il bit e la tartaruga
Sottotitoloelogio dello stile contro le patologie della comunicazione
EdizioneApogeo, Milano, 2004, Cultura digitale , pag. 180, cop.fle., dim. 145x215x11 mm , Isbn 978-88-503-2178-0
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe comunicazione , informatica: sociologia , design
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Indice

 IX Introduzione  Dal cucchiaio alla città (digitale)
  X Ringraziamenti

  1 Prima parte   Lo stile come necessità


  3 Capitolo primo   Stile e digitale

  4 Demoni digitali
 13 Lo stile come necessità
 15 Le funzioni sociali dello stile
 18 Lo stile e la comunicazione digitale
 21 L'equivoco tecnologico

 27 Capitolo secondo   Una Rete per altrove

 28 In cerca di altrove
 34 I territori dell'altrove digitale
 37 Un altrove per chi?
 43 Gli stili dell'altrove

 47 Capitolo terzo   L'arte di comunicare (in digitale)

 49 Pernici ripiene vs roastbeef all'inglese
 54 Bello e intelligente
 57 Una bella esperienza
 59 Questioni di gusti
 61 Grattacieli o undergound digitali
 65 Aere perennius?

 69 Capitolo quarto   La forma del byte

 72 Forme ideali e comunicazione digitale
 74 Chimere digitali
 77 Di tutte le cose misura è l'uomo...
 79 Caratteri tipologici dell'altrove digitale

 85 Seconda parte   Verso un design della comunicazione


 87 Capitolo quinto   Artefatti, ambienti, sistemi

 89 Artefatti, ambienti, sistemi
 94 Progettare l'interazione
100 Industria culturale e comunicazione digitale

109 Capitolo sesto   Comunicazione strategica

109 Usare la comunicazione
114 Etnie digitali
118 Lo spazio del progetto

121 Capitolo settimo   Style Aware Design

124 Costruzione di un contesto style aware
124   Soggetti e processi della comunicazione
128   Anatomia dello stile comunicativo
131 I registri dello Style Aware Design
132   Schema comunicativo rigido o flessibile?
136   Trasparenza o opacità?
142   Logica monocanale o multicanale?
146   Potere accentrato o decentrato?
148   Contenuti predefiniti o estemporanei?
150 Lo stile del progetto e la difficoltà del racconto

153 Capitolo ottavo   Un caso di studio: l'atelier online

157 Cogliere lo stile: la tecnica degli archetipi
        relazionali
161 La scoperta della dimensione relazionale dell'atelier
        online
164 L'interazione comunicativa nell'atelier online

171 Conclusioni   Verso un design della
        comunicazione digitale

 

 

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Pagina VII

Introduzione

Dal cucchiaio alla città (digitale)


Fotografie digitali, sms, documenti elettronici, siti Web, email...

Fiumi di dati e segnali digitali, silenziosi, invisibili, intangibili, ma non per questo meno invasivi e pervasivi: presenze ormai immancabili nella giornata e nell'esperienza di ciascuno di noi.

Fermiamoci tuttavia un attimo a riflettere sulle nostre esperienze nella dimensione digitale: chi di noi le ha mai considerate esperienze di qualità? Le abbiamo trovate utili, stimolanti, divertenti, ma tutti sospettiamo che qualità e digitale abbiano ben poco a che spartire. Non si tratta solo dell'irritazione che proviamo ogni volta che ci troviamo di fronte a un sito Web confuso o farraginoso, alla povertà di gran parte dei contenuti digitali, oppure all'idiozia di un call center che ci obbliga a procedure estenuanti per avere una risposta: si tratta di una sensazione più generale di perdita di qualità nel passaggio dalla comunicazione fisica all'esperienza digitale. Non è un caso che, da qualche tempo, ci venga sempre più spontaneo attribuire automaticamente l'etichetta di "seconda scelta" a tutto ciò che ha a che fare con il digitale: dalle azioni in borsa ai prodotti editoriali, dall'arte alla formazione. Cose che capitano, quando futuri virtuali si attualizzano senza un progetto che indirizzi le energie verso direzioni che siano davvero auspicabili, individualmente e sicoalmente. Le tecnologie, da sole, o mal consigliate da logiche di marketing e di spinta alla crescita, corrono forsennatamente e trovano le strade giuste solo come conseguenza di urti e rimbalzi contro gli ostacoli. Ma gli insuccessi non sono mai indolori: gli utenti si deludono, gli investitori scappano, gli intellettuali prendono le distanze.

Questo libro nasce dalla convinzione che l'innegabile mancanza di qualità durevole nella comunicazione digitale non corrisponda a un destino inevitabile, intrinseco nelle caratteristiche genetiche della tecnologia, ma che si tratti, piuttosto, di una sindrome da carenza progettuale, gravissima, certamente, ma curabile.

Fortunatamente, possiamo contare sul passato, e trarre insegnamento dalla storia e da una cultura del progetto che è stata applicata per secoli, anche se in terreni molto diversi.

Circa un secolo fa con lo slogan "dal cucchiaio alla città" Muthesius sintetizzava la necessità di un approccio unitario alla progettazione. Tutto intorno a lui un mondo in fermento, brulicante di eventi feroci e di slanci audaci verso quel futuro che, in pochi decenni, avrebbe cambiato radicalmente l'aspetto e la sostanza del vivere quotidiano. Dal profondo di quella frase ci arriva ancora l'indicazione che per progettare oggetti, edifici o città é sempre necessario comprendere gli uomini destinatari di quei progetti ed, insieme, cogliere il contesto in tutte le sue sfumature: tecnologiche, economiche, fisiche e culturali. Soltanto da un progetto in grado di integrare virtuosamente tutti questi aspetti può nascere un intervento capace di garantire, nel tempo, Qualità.

La forza di questo messaggio permane immutata anche quando gli ambienti che ci capita di progettare perdono fisicità e si trasformano in scie di byte che si spostano su reti planetarie, prendendo le forme di città, o mondi, digitali. Anzi, proprio quando ci muoviamo nel mondo immateriale dell'innovazione digitale dobbiamo rafforzare le nostre capacità di costruire in modo progettuale, per non perdere le opportunità di costruire progresso che ci offre la tecnologia.

Sentiamo la responsabilità di ricordare che l'insieme degli strumenti digitali per la produzione e lo scambio d'informazioni non solo presenta oggettivamente innumerevoli vantaggi pratici, ma, soprattutto, può essere utilizzato per sostenere la soluzione di problemi reali e critici, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Vogliamo però sottolineare che, in questa ricchezza di opportunità, non possiamo affidarci soltanto alla generazione spontanea per ottenere applicazioni, modelli e strategie di comunicazione di qualità: per fare, con la comunicazione digitale, cose diverse e migliori da quelle possibili nel mondo fisico, è necessario far crescere un Design della Comunicazione capace di governare le tecnologie perché rispondano a bisogni pratici e funzionali, ma anche a necessità culturali, cogliendo le complesse implicazioni sociali connesse all'introduzione delle nuove tecnologie in ogni contesto.

Il problema cne vogliamo affrontare non e tanto quello al capire come sia possibile progettare artefatti digitali che funzionino bene, quanto di riflettere su come il Design della Comunicazione possa prendersi carico di formulare e strumentare strategie comunicative, integrando il mondo fisico e quello digitale, per sostenere un'interazione di qualità tra esseri umani che hanno sempre più bisogno di comunicare.

Questo nostro lavoro si articola in due parti distinte, due strade parallele che si muovono, su piani diversi, verso uno stesso obiettivo che consiste nell'individuazione delle responsabilità, del dominio e dei metodi di un nuovo Design della Comunicazione.

Nella prima parte del libro, "Lo stile come necessità", la riflessione sul concetto di stile, che abbiamo mutuato nelle sue diverse accezioni dalla storia dell'arte, dell'architettura e del design, ci ha permesso di lavorare in modo più ampio sul tema della qualità nelle sue diverse e complesse sfaccettature, prendendo le distanze dal punto di vista strettamente tecnologico, che ancora oggi prevale in letteratura, e suggerendo spunti per la costruzione di una nuova cultura del progetto per la comunicazione digitale.

Nella seconda, "Verso un design della comunicazione", abbiamo proceduto in modo più strutturato, per giungere alla definizione del dominio d'intervento, delle responsabilità e delle competenze di un Design della Comunicazione consapevole dei bisogni espressivi dei soggetti che mette in relazione.

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Pagina 4

Demoni digitali


Da dove vengono l'ansia, l'inquietudine, il sospetto con cui molti guardano all'innovazione connessa all'elettronica, all'informatica, alla telematica e più in generale alla dimensione digitale che caratterizza il nostro presente? È un fatto del nostro tempo, strettamente collegato alle invenzioni più recenti, o nasce da una radicata diffidenza verso ogni sorta di cambiamento? Oppure l'angoscia tecnologica è solo un dettaglio, un'eco di preoccupazioni più serie, legate ai grandi cambiamenti del nostro tempo quali le migrazioni, i fenomeni di globalizzazione, la maggiore sensibilità verso gli sqilibri tra le diverse parti del mondo, gli effetti dell'inquinamento e delle variazioni climatiche? E, in questo caso, qual è il ruolo delle ICT nelle grandi evoluzioni in corso? Possiamo annoverare le tecnologie dell'informazione tra le cause delle trasformazioni in corso? Oppure la loro funzione è secondaria, e le innovazioni nel campo dell'informatica e dell'elettronica agiscono al più come acceleratori del cambiamento?

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Pagina 9

Il mondo digitale è un mondo di oggetti che dialogano tra loro, che catturano, trasferiscono e riproducono immagini, suoni e altre cose a cui si fatica a dare un nome, ma è un mondo anche di cose costose e sofisticate, che invecchiano in fretta; cose fragili che hanno il potere di farci sentire continuamente goffi, incapaci; che ci riempiono di aspettative, per poi tradirle in continuazione, e che controlliamo a fatica. E che non sappiamo mai quanto tempo ci hanno regalato e quanto ce ne hanno tolto, perché di fatto ogni oggetto digitale ci sottrae risorse in molti modi, obbligandoci a cercare di capire come piegare la tecnologia ai nostri desideri, costringendoci a lavorare fuori orario e in qualsiasi luogo, a rinunciare alle prerogative dell'assenza e della distanza, moditificando i ritmi della nostra giornata e quelli delle nostre relazioni.

E la complessità non riguarda solo l'uso degli oggetti materiali e l'accesso alle possibilità offerte dai nuovi sistemi delle telecomunicazioni: la dimensione digitale coinvolge ogni aspetto della nostra vita culturale, sociale e relazionale, mettendo in discussione sistemi di riferimento, consuetudini, procedure, ruoli e funzioni. Ogni azienda, ente o istituzione che ha deciso di utilizzare gli strumenti digitali della comunicazione come canale aggiuntivo con i propri interlocutori (clienti o utenti che fossero), si è trovata di fronte all'onere di ridefinire di fatto il sistema di prestazioni offerte e la propria funzione.

[...]

La complessità eccessiva ci rallenta, ci distrae dagli obiettivi principali, ci disorienta, ci affatica, ci riduce alla tentazione di rinunciare, perché qualche volta la fatica connessa alla scelta è superiore ai vantaggi associati a un prodotto o a un servizio.

La complessità e la quantità eccessiva ci fanno sentire inadeguati, ci rendono diffidenti e guardinghi; l'instabilità dei riferimenti culturali e la mancanza di segni di qualità facilmente riconoscibili ci dà la percezione di un disordine esteriore e interiore, provoca un malessere diffuso, un senso insidioso di affanno e di incompletezza, la sensazione di piacerci poco e di vivere in un mondo che ci piace poco.

[...]

La scommessa mi sembra proprio questa: dobbiamo ragionare sulle diverse forme (praticate o potenziali) della comunicazione e dell'espressione digitale e sui gradi di libertà da essa offerta per poter governare lo stile della nostra espressione; dobbiamo ragionare sullo stile per capire se abbiamo tra le mani uno strumento flessibile e docile, sottoposto al nostro comando e appuntito in modo da consentirci di comunicare e di esprimerci in modo ornato o umile, sublime o enfatico, diretto o sfuggente, ironico o formale. Oppure, dobbiamo dimostrare, una volta per tutte, che ci siamo imprudentemente affidati a uno strumento rozzo e grossolano, a uno strumento spuntato che limiterà le nostre possibilità di scelta e di controllo fine, riducendo anche il nostro pensiero, in prospettiva, a forme più semplificate, più grossolane, meno modulate, meno articolate e sottili.

[...]

La qualità comunicativa, all'interno di un progetto digitale, non può essere perseguita seguendo i modelli della produzione di beni materiali, fisici e tangibili, a prescindere dalla tecnica di produzione usata, perché la comunicazione richiede strumenti culturali e metodi progettuali specifici, non interamente riconducibili ad alcun altro campo di attività e produzione.

La comunicazione non è solo l'ambito in cui vengono prodotti e scambiati informazioni, contenuti, conoscenza; non è solo la scienza (o l'arte) di presentare i contenuti e le informazioni nel modo più efficace e attraente, ma è anche e soprattutto lo spazio in cui matura e cresce la consapevolezza dei bisogni individuali e collettivi di relazione e scambio, in cui si sviluppa il sapere relativo ai meccanismi della condivisione sociale, della partecipazione, dell'affiliazione e dell'identificazione. La comunicazione è oggi l'arena in cui si giocano i meccanismi di controllo assoluto o dialettico del potere, in cui si sviluppano le strategie di presentazione delle informazioni, in cui crescono le arti della seduzione e della persuasione ma è anche il luogo dove nascono e trovano voce i bisogni di espressione individuali e collettivi, dove prendono forma e si consolidano le identità soggettive. La comunicazione, pertanto, può dotarsi di strumenti, di tecniche, di mezzi; la comunicazione può avvalersi in alcuni campi di abitudini consolidate e di tradizioni storiche, ma non può essere ricondotta in modo unitario sotto regole e principi stabili che governino completamente la varietà spesso contraddittoria e a volte ambigua di fenomeni, comportamenti, prodotti che ne costituiscono la pratica.

Per muoversi nel variegato insieme di realtà che rientrano sotto il nome di comunicazione, non è sufficiente usare gli strumenti della razionalità e del metodo: molto spesso, infatti, le iniziative comunicative che più si mostrano efficaci nascono nella trasgressione delle regole e delle convenzioni e trovano la loro forza propno nella capacità di stupire e di "creare rottura".

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Pagina 34

I territori dell'altrove digitale


Ogni volta che affrontiamo gli intriganti territori dell'innovazione digitale, ci troviamo di fronte a molte riflessioni che ci invitano a fare i conti con i rischi minacciosi di privazione, di messa in discussione della dignità umana, di disintegrazione delle identità sociali e collettive, che stiamo correndo.

Si tratta di paure che non dobbiamo esorcizzare o liquidare con l'acido della banalizzazione: abbiamo ragione ad avere paura, forse sarebbe saggio averne anche di più. Ma in ogni caso dobbiamo fare i conti con l'evidenza che stiamo vivendo l'accelerazione tecnologica sul fronte della comunicazione digitale come un destino cui non vogliamo sottrarci nonostante tutte le inquietudini che suscita. La spiegazione delle leve che muovono questo istinto non può stare tutta e solo nell'irresistibile forza della tecnologia che è riuscita a trasformarsi da mezzo in fine, ribellandosi alla schiavitù degli esseri umani. Proviamo a chiederci perché mai il progresso tecnologico ha preso la forma delle tecnologie digitali per la comunicazione? In realtà, la trasformazione della tecnica in tecnologia avrebbe potuto portarci in molte altre direzioni...

Siamo certi che sia la tecnologia con i suoi "effetti speciali", con i "sons et lumières" della virtualità digitale, ad attrarci con tutta questa forza? A mobilitare moli enormi di investimenti, di lavoro, di tempo? Forse no.

La Rete che ci piace, che ci attrae irresistibilmente, nonostante tutta la paura che ci incute, non è il Web. Non è Internet. Non è l'insieme di tutto ciò che è smart o mobile. Non sono le connessioni a banda larga, né le fibre ottiche o i satelliti. Non è niente di astratto come le promesse di aumento di efficienza e di rapidità.

La Rete che ci piace siamo noi.

Quello che ci attrae davvero è la possibilità di far parte di una Rete fatta di esseri umani che comunicano tra loro. Esseri umani che stanno ovunque, che hanno in comune anche soltanto il fatto di essere esseri umani con la voglia/bisogno/capacità di comunicare che ci ha sempre contraddistinto. Esseri umani che si definiscono come Rete in quanto per la prima volta nella storia dell'uomo comunicano come nodi equidistanti indipendentemente dalle costrizioni del tempo e dello spazio.

Comunicano in diretta o in differita, fermi o in movimento, attraverso insiemi di segni improvvisati e casuali (un sms, una linea di testo in una chat, una frase pronunciata in un cellulare) o artefatti più complessi e strutturati (siti Web, portali, database...).

Comunicano per divertirsi, per guadagnare, per comprare, per imparare, per innamorarsi. Comunicano per conoscere e per auto-riconoscersi.

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Pagina 59

Questioni di gusti


Per costruire nuovi canoni estetici e nuovi stili che li esprimano è però necessario sperimentare, ma non solo, "in vitro". Sperimentare nuovi linguaggi che esprimano la bellezza in termini di originalità e modernità. Esprimere la contemporaneità, la percezione delle speranze e delle paure che evoca in noi è un mandato di particolare complessità per i progettisti della comunicazione digitale che vogliano sperimentare nuove modalità di espressione estetica. Sperimentare lo stile nel digitale significa cercare nuove interpretazioni del "gusto" del tempo, cui solo alcune risposte stilistiche, definibili appunto di "buon gusto", sono in grado di rispondere.

Di cattivo gusto riguardo alla comunicazione digitale tanto abbiamo sentito parlare. Ci è molto facile banalizzare la rilevanza delle rozze forme comunicative che prevalgono nell' altrove digitale, ironizzando sulla lingua distorta, sulle abbreviazioni balbettanti, sugli ibridi tra parole e numeri inventati per velocizzare lo scambio, sulle animazioni inutili, sul cattivo gusto imperante nella grafica... ma il buon gusto è quello che nasce dalla storia e dalla cultura, da sistemi di valore condivisi.

E il buon gusto prende un'accezione diversa quando i riferimenti cambiano, il rococò, massima espressione del buon gusto sul finire del Settecento, diventa non solo disgustoso, ma addirittura immorale per i neoclassici che anticipano il razionalismo, così come il gotico era apparso superato, ed in certa misura esecrabile (maniera mostruosa e barbara la definì Giorgio Vasari alla fine del Cinquecento), all'uomo di cultura del Rinascimento, ma poi ritorna ad ispirare gli eclettici nell'Ottocento.

A proposito di architettura e cattivo gusto... Cosa vi viene in mente? L'associazione più frequente e scontata è quella con il barocco. Rimproveriamo al barocco si deformare bizzarramente lo spazio, fingere quello che non c'è, stupire con il fittizio, sovraccaricare di messaggi e di segni ingannevoli e contraddittori... ma, riflettendo bene, non è forse esattamente quello che apprezziamo di tanti ambienti in Rete che segnaliamo agli amici come spettacolari?

La lettura negativa, l'etichetta di cattivo gusto che noi ora attribuiamo al barocco appare bizzarra e incongrua se messa in relazione con la presa che hanno su di noi gli effetti speciali del cinema, dei videogiochi o degli ambienti digitali.

Ma c'è di più nel barocco. Il barocco mette in dubbio profondamente il rapporto stesso tra forma e funzione. Nell'etimologia, incerta ma affascinante, di barocco troviamo la perla deforme, difettosa (il portoghese barroco): la sfera è il solido ideale, l'unico che può rotare su se stesso senza eccedere i propri limiti. La perla deforme è un oltraggio alla sfericità, una sfericità mancata che però si dimostra tanto più singolarmente umana ed intrigante delle perfette sfere celesti. Non c'è migliore immagine per esprimere lo spirito di provocatoria trasgressione dalla razionalità intrinseco nel barocco.

Possiamo forse definire barocco l'approccio, se non lo stile, prevalente della comunicazione digitale all'inizio del XXI secolo? Credo purtroppo di no. Ritroviamo, è vero, il gusto per l'insolito, il nuovo, l'inaspettato, il ludico, ma ci manca l'ottimismo, la certezza del futuro, la sicurezza di poter contare su verità assolute: gli spazi fittizi del nostro ambiente Rete non sono modellati da architetti virtuosi che giocano con i volumi e le linee conservando sempre il governo dell'effetto complessivo, mi appaiono più spiegabili con la definizione di warped space (spazio deformato) di Anthony Vidler (docente di Storia dell'Arte e dell'Architettura dell'UCLA di Los Angeles) che l'ha coniata partendo dalla riflessione su come angosce, ansie e sentimenti di estraneità stiano progressivamente influenzando l'estetica dello spazio nelle arti e nell'architettura contemporanee. Gli spazi del nostro altrove digitale non fanno rivivere lo scherzo brillante, l'inganno lucido e consapevole, la disincantata autocelebrazione del barocco. Ne evocano, certo, il gusto per lo stupefacente e per l'effimero, ma non riescono, come invece riusciva splendidamente il barocco, a padroneggiare la frattura fra forma e funzione: ne sono travolti e deformati (warped).

È come se ci risultasse ancora troppo difficile governare gli infiniti gradi di libertà della tecnologia per costruire uno stile coerente, per legare tutti gli elementi che compongono un ambiente digitale con un filo conduttore (stilistico, appunto) che offra al visitatore-abitante un'esperienza la cui qualità complessiva sia, in gran parte, determinata in modo consapevole di chi ha creato l'ambiente.

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Pagina 69

Capitolo quarto

La forma del byte

Susanna Sancassani


Immaginiamo di avere a disposizione un determinato stock di libri. Quale sarebbe la differenza tra costruire un magazzino, una biblioteca o una libreria che li ospiti? Nel mondo fisico la differenza ci appare evidente e prende le forme delle idee che ciascuno di noi ha di magazzino, biblioteca e libreria.

Ma se ci ponessimo lo stesso quesito nell' altrove digitale? A nessuno verrebbero spontaneamente alla memoria idee opportunamente diversificanti un magazzino digitale, da una biblioteca e da una libreria: la differenza tra i tre ambienti nella loro versione digitale non sarebbe evidente come ci appare nel mondo fisico. E ci sorgerebbe forse il dubbio che non ci sia affatto. Chi mi impedisce, nella dimensione digitale, di realizzare un magazzino-biblioteca-libreria? In teoria non mi è precluso neanche nel mondo fisico, ma sappiamo, per esempio, che il luogo più opportuno per collocare una libreria (generalmente in zone centrali, con elevato traffico pedonale), difficilmente è anche il luogo più opportuno per realizzare un magazzino.

Nell' altrove digitale per costruire le nostre idee di magazzino, biblioteca e libreria, dovremo effettuare un grande sforzo di razionalizzazione che, invece, nel mondo fisico si realizza, almeno nelle sue linee generali, in modo intuitivo. Dovremo ricostruire la nostra idea di magazzino-biblioteca-libreria digitali a partire dall'analisi delle esigenze di chi dovrà utilizzare quell'ambiente. Nel primo caso si tratterà, per esempio, dei gestori di una catena di librerie che dovranno poter verificare le scorte ed effettuare tempestivamente ordinazioni; nel secondo caso si tratterà di ricercatori, studenti o anche semplici lettori che avranno l'obiettivo di consultare testi per trarne spunti o citazioni; nel caso della libreria, invece, mi dovrò preoccupare di realizzare un ambiente che soddisfi principalmente le esigenze connesse alla scelta e all'acquisto di libri.

Perché, invece, nel mondo fisico capiamo subito di cosa si tratta quando sentiamo utilizzare i termini magazzino, biblioteca e libreria? Perché sono termini che evocano idee che vediamo nella nostra esistenza quotidiana concretizzate in ambienti, magari molto diversi fra loro (pensate alla differenza tra una libreria parrocchiale e un mediastore del centro di una grande città) che però ci siamo abituati a riunire sotto una medesima categoria. Categorie che sussistono in quanto gli oggetti che ne fanno parte sono caratterizzati dalla capacità di supportare la soddisfazione di un bisogno: "comprare", "consultare", "stockare" libri.

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Pagina 82

All'assoluta imprevedibilità dell'innovazione sul piano dei modelli applicativi si contrappone paradossalmente la prevedibilità dell'innovazione tecnologica. Dico "paradossalmente" perché è la prima volta nella storia dell'uomo che il rapporto si inverte. Storicamente sono sempre stati i modelli applicativi a evolvere lentamente, ma con ritmi tendenzialmente costanti e le innovazioni tecnologiche ad arrivare casualmente secondo ritmi imprevedibili.

L'innovazione nei modelli applicativi delle tecnologie e negli stili applicativi che li sostengono sta dimostrandosi nella comunicazione digitale assai più delicata e imprevedibile di quella tecnologica.

È così difficile da essere sostanzialmente affidata al caso: in momenti non ben identificabili nuovi modelli emergono per lo più dal basso (perfetto il caso dei blog, per esempio), si diffondono e affermano mettendo generalmente in crisi strutture gerarchiche, organizzative, giuridiche.

La tecnologia corre come una lepre, mentre i modelli d'uso si affannano a rincorrerla con ritmi da tartaruga. Ma il rapporto potrebbe essere invertito: investire risorse significative nell'ideazione e nella sperimentazione non solo delle tecnologie, ma anche dei loro modelli d'uso, dei modi con cui far emergere le nostre capacità e peculiarità espressive è probabilmente l'unica strada che abbiamo a disposizione per riprendere il controllo delle direzioni di evoluzione delle tecnologie, per dare vita al paradosso consolatorio che forse piacerebbe a Zenone, e che certamente lenirebbe il nostro stato di disagio tecnologico: una tartaruga che avanzando lentamente, ma con stile, sia sempre un passo avanti rispetto a una lepre tecnologica che si affanna per raggiungerla.

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Pagina 97

Ciò che caratterizza lo stile di accoglienza di un servizio virtuale in Rete (un'agenzia di viaggi, un servizio d'informazione, un portale di cucina, o qualsiasi altro tipo di applicazione), non è tanto il tipo di colori, di simboli e di caratteri usati nell'interfaccia, quanto piuttosto il tipo di azioni rese possibili all'utente e la loro sequenza, il tipo e la quantità di informazioni, ma anche i modelli di navigazione, la struttura dei dati e la loro accessibilità. Potremmo attribuire uno "stile amichevole" a un sito di vendita a distanza che prima di farci vedere i prodotti disponibili ci chieda il numero di carta di credito, anche se magari grafica e accompagnamento musicale sono studiati per assicurare uno stile accattivante e giocoso? No, non possiamo, se non ci fermiamo alle apparenze esteriori.

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Pagina 122

Il dibattito sulla usability ha avuto l'importantissimo merito di spingerci ad uscire dagli autocompiacimenti tecnologici per ricordarci che ogni nostra scelta deve essere giustificata in quanto risposta ottimizzata alle esigenze dell'utente. In questo encomiabile sforzo la usability ha però dovuto lasciare da parte l'emittente, il promotore dell'intervento, che, nell'attività progettuale, sembra dover restare sullo sfondo come "motore immobile" dell'iniziativa. Lo Style Aware Design ci chiede ora di prenderci carico delle esigenze di tutti i soggetti della comunicazione: promotori dell'intervento, gestori e utenti, trovando il modo per armonizzare le loro esigenze di espressione.

Si tratta di un diverso approccio progettuale alla comunicazione digitale: al centro del processo non ci sarà più l'artefatto, ma l'interazione comunicativa. È un assunto che ha implicazioni molto forti sui processi di progettazione, perché trasforma profondamente il sistema di valori del designer: si preoccuperà del fatto che i soggetti comunichino bene, almeno quanto in passato si è preoccupato di realizzare artefatti che si usassero bene.

Gli aspetti caratterizzanti questo approccio progettuale, esplorati nei capitoli precedenti, sono sintetizzabili nel modo seguente:

* lo Style Aware Design nasce dall'esigenza di sostenere l'espressione dello stile comunicativo dei soggetti che animano l' altrove digitale, in modo da contrastare le perdite di qualità e di controllo umano connesse alle nuove tecnologie;

* si propone di soddisfare in modo integrato esigenze funzionali, ma anche espressive sia sul piano individuale che sociale, ha cioè caratteristica di "arte pratica";

* ha come dominio progettuale l'ideazione di strategie comunicative e dei sistemi digitali e fisici necessari per supportarle;

* in ogni intervento attribuisce carattere di priorità alla tutela e alla valorizzazione dello stile di comunicazione proprio del soggetti umani coinvolti e considera fulcro del percorso progettuale l'ideazione dello stile dell'interazione comunicativa;

* si prende carico di responsabilità sociali e crea terreni fertili per facilitare l'impiego delle nuove tecnologie per il miglioramento della vita quotidiana.

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