Copertina
Autore Licia Pinelli
CoautorePiero Scaramucci
Titolo Una storia quasi soltanto mia
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2009, Vite narrate UE 2141 , pag. 202, ill., cop.fle., dim. 12,5x19,3x1,2 cm , Isbn 978-88-07-72141-0
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe biografie , paesi: Italia: 1960
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Indice


  9 Il tema di Claudia

 11 Introduzione
    di Piero Scaramucci

 17 Alcuni protagonisti di questa storia

 19 UNA STORIA QUASI SOLTANTO MIA

121 9 maggio 2009

127 Qualcosa da dire

128 Carlo Smuraglia
132 Corrado Stajano
137 Giorgio Bocca
141 Dario Fo, Franca Rame
145 Giuseppe Gozzini
149 Marino Livolsi
152 Luigi Ruggiu
157 Bruno Manghi
161 Elda Necchi
165 Goffredo Fofi
169 Mauro De Cortes
172 Luciano Lanza
174 Lella Costa

177 Cronologia della strategia della tensione
    di Saverio Ferrari

196 Bibliografia


 

 

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Pagina 11

Introduzione
di Piero Scaramucci



Questa è la storia che Licia Pinelli mi raccontò all'inizio degli anni ottanta. Era rimasta appartata, quasi silenziosa per una decina d'anni, da quell'inverno del 1969, quando la bomba fece strage alla Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, suo marito Pino, ferroviere anarchico, precipitò da una finestra della questura e l'Italia scoprì che la democrazia era sotto attacco. Licia si era tenuta lontana dai riflettori concentrandosi in una tenace battaglia per ottenere giustizia dalla Giustizia. Non la ottenne.

Dopo dieci anni Licia fece forza sul suo severo riserbo e si decise a raccontare di sé e di quel che era successo. Scelse lei stessa di parlare e mi chiese di intervistarla. Non fu un percorso facile, per Licia fu come reimparare a parlare e a guardare dentro se stessa dopo anni di silenzio e autocensura. Oggi, a distanza di tanto tempo, questo racconto appare come un documento di rara verità, chi vorrà scrivere la storia di quegli anni durissimi non ne potrà prescindere.

Non è un documento politico, tutt'altro. Licia è costretta a muoversi in questo cupo scenario di cui stenta a capire il senso, la bomba del 12 dicembre, le retate di anarchici decise a spron battuto, Pino trattenuto illegalmente in questura, l'inspiegabile precipitazione dalla finestra, la morte. E le accuse dei dirigenti della questura, quella stessa notte: si era visto incastrato - dicevano -, si è gettato capendo che era la fine dell'anarchia. E poi la macchina della giustizia che insabbia, temporeggia, diluisce. Menzogne, oggi lo sappiamo con certezza, sappiamo che Pino era assolutamente innocente e che non si era ucciso, Licia lo sapeva da subito. Ma quel che non sospettava e che invece si delinea man mano nel suo racconto, è che Pino era finito in una macchinazione politica che aveva profonde radici nel paese, una strategia che da tempo aveva condizionato la vita sociale e avrebbe lasciato profonde conseguenze, tutt'ora visibili.

Ignorando i complotti dei fascisti, costruendo montature a carico degli anarchici, mentendo su Pinelli, i dirigenti della questura di Milano eseguono, per connivenza o per ubbidienza, direttive impartite dall'alto. Nel '69 sono ormai anni che l'Italia è paese di frontiera della Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, le direttive sono quelle di sconvolgere la vita sociale con atti politici e terroristici, di cui si incaricano fascisti e servizi segreti, con l'obiettivo di contrastare con ogni mezzo le sinistre. Attorno agli anarchici è tessuta una ragnatela di indagini, infiltrazioni, provocazioni che mira a farne i capri espiatori di attentati compiuti da altri. Interi settori della macchina dello Stato lavorano su questo binario parallelo, al quale si aggregano interessi economici e politici che poco hanno a che vedere con la Guerra fredda, ma che trovano il loro tornaconto nella demolizione dei conflitti sociali e - in ultima analisi - della democrazia. È alla democrazia che invano si appella Licia, e la sua sconfitta è emblematica. Lei resterà fedele, nonostante tutto, ai suoi ideali, ma nel paese si radicherà, negli anni, un costume di indifferenza alla verità, una assuefazione alle mistificazioni, un desiderio di autoritarismo che ignora le leggi, una predilezione per quel che appare in luogo di quel che è, in definitiva uno scetticismo rinunciatario dal quale sarà difficile risalire.

Inaspettatamente il 9 maggio del 2009, a quarant'anni dalla morte di Pino, il presidente della Repubblica ha compiuto un passo dirompente, invitando Licia al "Giorno della Memoria" e iscrivendo di fatto Giuseppe Pinelli tra le vittime del terrorismo. L'emozione è stata grande, le immagini della vedova del commissario Calabresi che stringeva la mano alla vedova dell'anarchico Pinelli si sono viste in tutto il mondo, anche alla Tv cinese, accompagnate da commenti sulla necessità della pacificazione, se non addirittura su una conciliazione raggiunta. La valenza umana di quell'incontro è stata così forte da indurre, anche in molti commentatori, la sensazione che le ragioni della morte di Pino, il significato della strage di piazza Fontana, la natura dell'intera strategia della tensione avessero trovato una rasserenante archiviazione. Ma non è così. Anche le parole di Giorgio Napolitano non chiudono, bensì riaprono una necessità di sapere. Sullo stragismo, sulla "destabilizzazione del sistema democratico, fino a creare le condizioni per una svolta autoritaria nella direzione del paese", Napolitano ha invitato a continuare a riflettere. Voce isolata in un contesto politico che preferisce rimuovere, il presidente ha posto una pietra miliare che rafforza la necessità di tutte le ricerche, di tutte le battaglie, di tutte le storie che come quella di Licia rappresentano chi non cede alla rassegnazione.

Giuseppe Pinelli è ormai un'icona, se ne tessono persino le lodi, anche da parte avversa, purché non si scavi nelle ragioni della sua morte. Perché è morto? Una fatalità? Pochissimi ormai sanno che cosa sia avvenuto in quella stanza al quarto piano della questura di Milano la notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. E dovette trattarsi di cosa molto grave se in quarant'anni nessuno di quelli che erano con lui quella notte ha mai parlato. Qualcuno è morto, il commissario Luigi Calabresi è stato assassinato, altri si sono chiusi nel silenzio. Fu suicidio? Le ragioni addotte per spiegarlo si sono tutte rivelate false. Un "malore attivo", come concluse sei anni dopo il giudice Gerardo D'Ambrosio, forse credendoci poco lui stesso, tanto da specificare "verosimilmente"? Fu una percossa fuori misura, come crede Licia? O fu qualcosa che Pinelli capì nel corso degli interrogatori, tanto importante da costargli la vita, come ipotizza qualcun altro? Vedendo da vicino i fatti, i precedenti, le persone, i contesti si capisce solo che gli stessi che si trincerarono dietro l'inverosimile e calunniosa tesi del suicidio, direttamente o indirettamente, volutamente o inconsapevolmente allora cooperarono alla strategia della tensione, dal che è inevitabile collocare Giuseppe Pinelli tra le tante vittime innocenti del terrorismo, terrorismo di Stato in questo caso.

Benché la cronaca di Licia sia un documento storico, essa acquista un'ulteriore e diversa valenza. Rivisto a distanza di decenni il racconto esce dai confini del suo tempo, assume i connotati di una storia in sé, datata ma appunto fuori dal tempo. Potrebbe essere collocata cent'anni fa o oggi o fra altri cento anni. Il doloroso percorso interiore della sua memoria, la sua storia di donna sola di fronte alla crudeltà del potere, la statura severa di Licia e la lotta con i suoi sentimenti, la sconfitta giudiziaria e la vittoria morale sua e di Pino nell'impari battaglia tra etica e macchinazione ricordano l'epica di una tragedia greca, vicenda emblematica nella quale si toccano punti cruciali della vita.

Ripubblichiamo integralmente il racconto che mi fece Licia nel 1981. Quando questo libro era già alle stampe, l'inatteso invito al Quirinale ha reso inevitabile un ulteriore colloquio in cui Licia racconta quella memorabile giornata e risponde alle domande su che cosa, ora, potrebbe cambiare.

Aggiungiamo in questa edizione alcuni brevi contributi - scritti prima di quella visita - di persone che hanno avuto a che vedere con le vicende di Pino e Licia, angolazioni personali anche discordanti tra loro, ma che nell'insieme aiutano a meglio collocare le loro figure e il loro tempo.

Per agevolare i riferimenti storici Saverio Ferrari ha curato una cronologia della strategia della tensione, dal 1965 ai giorni nostri, e una bibliografia aggiornata.

Milano, giugno 2009

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Pagina 19

UNA STORIA QUASI SOLTANTO MIA



1


Licia è seduta sulla poltrona, proprio nell'angolo del salotto, un po' impettita, non guarda né me né il registratore.


Perché vuoi fare questo racconto? - le chiedo. - Per anni hai evitato le interviste, hai difeso con gelosia le tue idee, la tua storia con Pino, le bambine, tutta la tua vita privata. E ora improvvisamente sei tu che vuoi parlarne. Che cosa è cambiato?

Non mi è molto chiaro. Va secondo i momenti, secondo come vengono i ricordi. Sai, non credo che siano cose tanto importanti, ma sono cose che sento e quello che mi è successo si può ripetere, no?

È toccato a me, va bene, ma può toccare anche ad altri: la situazione in cui mi sono trovata, questo dover subire continuamente la curiosità...

E ora rispondi alla curiosità?

No. Assolutamente no. Non è rispondere alla curiosità. Ho bisogno, io, di dirlo. E sono io che ho deciso di dirlo. E lo dico con le mie modalità.


Il tono è diventato freddo, rimaniamo a lungo in silenzio. Si sente la televisione che sua mamma guarda in cucina, la casa è minuscola. Le ragazze hanno la loro stanza e poi c'è questo salotto, i due divani sono i letti di Licia e di sua madre, divisi dalle mensole della libreria, il tavolino di vetro fa da comodino, l'unico tavolo è una piccola scrivania da ufficio occupata dalla macchina da scrivere, gli oggetti da toeletta sono nell'armadio a muro.


E poi - riprende improvvisamente con tono più pacato - penso che sono sentimenti comuni a tante altre donne, può darsi che ci sia una rispondenza. Le donne sono quelle che subiscono sempre quel che capita a figli, mariti, amanti, oltre che a loro stesse. Si possono mettere nei miei panni, capire.

Perché vuoi farne proprio un libro?

Le notizie corrono troppo, mi sembra che con un libro rimanga di più. Per fare qualcosa che rimanga.

Quando ci hai pensato?

Concretamente, un paio di anni fa, ma poi è un bisogno ricorrente.

Era successo qualcosa?

Niente. Allora forse non era successo niente, mi era venuto in mente così, e l'ho sentito molto di più quando abbiamo trasportato Pino a Carrara.

Partire da lì per andare indietro.

Scadevano i dieci anni dalla sepoltura di Pino a Musocco. Milano, il Comune di Milano, non aveva detto nulla e quindi avrei dovuto farlo mettere nell'ossario, in questo cimitero così anonimo, e giustizia non era stata fatta, la lapide con la poesia di Spoon River rimaneva e rimane attuale e sarebbe stata distrutta. E poi Pino amava Carrara, così ho pensato di fare domanda al sindaco di Carrara. Ho fatto tutto da sola, neppure gli anarchici lo sapevano, li ho avvisati io e sono caduti dalle nuvole. Anzi, erano preoccupati: "Non vorremmo che avessi subito delle pressioni", al che li ho mangiati vivi per telefono. Ancora adesso me lo rinfacciano.

Pressioni da chi?

Non lo so io che cosa avessero per la testa. Pressioni, come se dovessi portarlo via da Milano, per quale motivo?

È nato a Milano, nato e morto a Milano.

Ma no, io volevo rispondere a un desiderio e poi ero seccata, molto seccata che non ci si pensasse più, come una cosa finita, lontana, spiacevole.

Se fosse finito nell'ossario sarebbe stato un periodo che si chiudeva. Così, invece, mi sembrava che sarebbe rimasto per sempre.


2


Il funerale di Pino, 20 dicembre 1969, io lo ricordo come una giornata di sconfitta. Era passata una settimana dalla strage di piazza Fontana, Valpreda era stato arrestato cinque giorni prima, e lì c'erano solo mille o duemila persone, pochissimi compagni, il movimento aveva avuto paura.

A me in quel momento sembrava moltissima gente, anzi ero esterrefatta. Agli altri poteva sembrare poca, a me sembrava moltissima. Noi conoscevamo tanta gente, ma uno non pensa che possano venire al funerale, pensi che sia una cosa solo tua, devi affrontarla da sola. Sgridavo mia mamma perché aveva cominciato a piangere. Lo sforzo di non lasciar trapelare i sentimenti. Per non dargli la soddisfazione. È tanto più facile dimostrare i sentimenti.

Ero tutta tesa in questo sforzo, questa fatica. Vedevo poco attorno. Poi sono venuti a farsi riconoscere i compagni di lavoro di Pino, erano lì a titolo personale, non in rappresentanza delle Ferrovie. Ho visto i ragazzi ai quali avevo battuto le tesi. I parenti, che con una cosa di questo genere pensi che magari non vengano. Tanti vicini di casa di via Preneste. Ricordo anche due donne del 114 di viale Monza dove stavo da ragazza, erano lì che piangevano. I compagni di Pino, uno con una bella faccia piena di umanità, che sembrava uscito da una vecchia stampa, col cravattone nero e la bandiera, era venuto da Canosa di Puglia apposta.

Era tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. All'Università solo in ventitré avevano firmato quella lettera in cui dicevano di non credere al suicidio di Pino. E tutto il quartiere era circondato da polizia e carabinieri. Polizia dappertutto. È la prima cosa che ho visto. Tanto per dirti com'ero: mi è sembrato strano, "che cosa sono qui a fare?".

Poi c'è stato una specie di blocco stradale, quasi nessuno è potuto arrivare fino al cimitero, a Musocco c'era una cinquantina di persone al massimo.

Io mi ricordo di me stessa davanti alla fossa. Ho consegnato la bandiera nera da mettere sulla bara, credo che l'avesse portata Augusta, la giornalaia dell'edicola di via Orefici. Ma ricordo soprattutto questa atmosfera pervasa di tragedia che aveva preso tutti e che di solito non c'è nei cimiteri.

E poi veramente non è che vedessi molto, facevo le cose che dovevano essere fatte, come se mi fissassi solo su quell'obiettivo, senza vedere nient'altro. Mi avevano dato un tranquillante e a momenti svengo davvero perché non sono tipo da medicine, mi era rimasto sullo stomaco.

Ricordo il pianto isolato di una donna, un singhiozzo. Più che altro ricordo dei suoni e l'atmosfera, il cielo cupo. Non riesco più ad andare ai funerali e sentire la terra che cade sulla bara.

All'uscita ho sentito un ragazzo che parlava di fare una manifestazione. "Non fate sciocchezze," gli ho detto. Erano pochi e giovanissimi, non volevo che ci scappasse un altro morto. "Ma il nostro compagno Pino," mi ha risposto, "è stato ammazzato."

In quei momenti pensavi che avresti ottenuto giustizia?

Sì, me l'aspettavo una giustizia anche dai tribunali. Adesso è tutto chiuso e io sono qui ad aspettarla ancora. Cosa credi, che adesso io non stia pensando di trovare qualche altra strada per cercare di riaprire tutto di nuovo?

Ti senti sconfitta?

No.

Però hai perso.

Non mi sento sconfitta perché ho fatto tutto quello che potevo fare nell'ambito della legalità. Gli sconfitti sono coloro che non hanno avuto il coraggio di arrivare a scoprire la verità. Caizzi ha parlato di "morte accidentale", Amati di "suicidio", D'Ambrosio di "disgrazia plausibile". Dimmi tu chi sono gli sconfitti. Certo, c'erano le bugie dei poliziotti, poi con gli anni diventava sempre più difficile ricostruire la verità. Ma non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato. È lo Stato che ha perso appunto perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato. Perché in un modo o nell'altro, voglio dire direttamente o indirettamente, Pino è stato ucciso. E poi non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste.

Eppure all'inizio non hai denunciato nessuno per la morte di Pino, e questo addirittura sembrò un segno di debolezza da parte tua. Il 28 dicembre presentasti una querela per diffamazione contro il questore Guida che aveva detto delle cose gravissime sul conto di Pino, ma molti si aspettavano di più da te.

Vedi, io ero sicura al mille per cento che Pino non avesse fatto assolutamente niente di quello di cui lo incolpavano e quindi sono partita prima di tutto querelando il questore Guida per quello che aveva osato dire. Dopo avrei pensato alla morte. Prima di tutto questo, perché alla morte non potevo porre rimedio, alla diffamazione sì. Cioè era stata commessa una ingiustizia enorme, io ero sicura di quello che facevo e mi sono battuta per quello, e poi in un secondo tempo ho denunciato i poliziotti e il carabinere che erano nella stanza, ma intanto era partita la querela per diffamazione. Ti sembra strano? Probabilmente ero imbevuta della mia educazione, delle mie letture, pensavo: prima di tutto l'onore, poi il resto. Che è anche un modo di vivere, dici: "Ti sporcano il nome".

Io sono cresciuta in una casa di cento famiglie, in viale Monza, dove c'era di tutto e potevamo essere tutto, ho fatto una scelta. Sarà anche banale, ma è una scelta di vita che riguarda il modo di essere, il matrimonio, il lavoro, la verità, la politica anche. E arriva questo questore e osa dire: "Pinelli era fortemente indiziato di concorso in strage. Il suo alibi era crollato. Si è visto perduto. Si è trovato come incastrato. È crollato. È stato un gesto disperato, una specie di autoaccusa". E qualche giorno dopo: "Vi giuro, non l'abbiamo ucciso noi". Questo non l'ha certo detto a me, io l'ho saputo dai giornali. E già, mentre Pino stava morendo, loro tenevano la conferenza stampa anziché avvertire la famiglia.

Secondo te perché non ti hanno avvertita?

Perché doveva essere ben morto prima di avvisare i familiari. E intanto dovevano preparare il mostro, il capro espiatorio per poter dare la colpa agli anarchici di quello che era successo in piazza Fontana.

Dovevano preparare la conferenza stampa, avevano altro da fare.

Io l'ho saputo dai giornalisti.

Ed era già passata più di un'ora da quando Pino era precipitato dalla finestra di Calabresi.

Era esattamente l'una e cinque quando è suonato il campanello. Le bambine erano a letto, mia suocera dormiva con me quella sera. Sono arrivati due giornalisti, credo del "Corriere della Sera", mi hanno detto: "Dev'essere successa una disgrazia a suo marito". E poi: "Sembra che sia caduto da una finestra della questura". Mi sono precipitata al telefono, il centralino della questura mi ha passato subito l'ufficio di Calabresi e mi ha risposto direttamente lui.

"Sono Licia Pinelli," gli ho detto e ho avuto come la sensazione che allontanasse la cornetta dall'orecchio. "Dov'è mio marito?"

"Al Fatebenefratelli," mi ha risposto.

"Perché non mi ha avvisata?"

"Ma sa, signora, abbiamo molto da fare."

A distanza di tanti anni non lo dimentico.

Devo aver detto qualcos'altro sbattendo giù la cornetta.

Mia suocera, che stava lì e ascoltava la telefonata, aveva cominciato a vestirsi e mi dice: "Licia, io vado subito all'ospedale, intanto lei chiami qualcuno per tenere le bambine, poi mi raggiunge". Si è vestita di corsa, è uscita senza una lira, ti rendi conto, quella donnina, piccola piccola, a cercare un taxi senza un soldo in tasca, a quell'ora di notte, ed è arrivata là dove nessuno le ha detto niente.

Pensi che Pino fosse ancora vivo?

Quando mia suocera è arrivata all'ospedale forse non era ancora morto, ma a lei non l'hanno fatto vedere neanche morto. Era pieno di poliziotti quando è arrivata, persone che correvano attorno, ma era come se fosse sola, nessuno le dava retta, nessuno le diceva niente. Mi ha telefonato dall'atrio dell'ospedale: "Licia, dev'essere successo qualcosa di grosso. A me non hanno detto niente". Una non pensa mai che sia successo qualcosa di irreparabile, le donne di solito pensano che c'è sempre un rimedio. Ho svegliato le bambine, si sono lasciate vestire senza un capriccio, senza una domanda. Erano arrivati intanto i miei amici. Elisabetta e Luisa si sono portate via le bambine e io sono corsa all'ospedale con Bruno e Beppe.

I poliziotti erano spariti, l'atrio del pronto soccorso era deserto e buio, c'era solo mia suocera dietro alla porta. "Licia," mi ha detto, "dev'essere morto. Ho visto un infermiere che tirava fuori i moduli."

Allora siamo andate mi pare verso una stanza con delle scrivanie, c'era un'infermiera che ci faceva passare, poi degli infermieri ci hanno portate a vederlo. Su una barella, tutto coperto, fuori solo il viso. Mi sono girata subito e ho fatto per uscire dall'ospedale. Bruno mi ha presa per un braccio e mi ha detto: "Dove vai?". È stato come se mi svegliassi in quel momento e di colpo mi sono resa conto di dove fossi.

"Licia," mi ha detto mia suocera, "vedrà domani i giornali", e io: "Perché?". E lei: "Ma gli daranno la colpa di tutto, non si rende conto?".

Tu non ci avevi pensato?

Sai, succede che uno viva un po' in una torre: i suoi libri, i suoi amici, i suoi bambini, il lavoro da fare... E le cose fuori lo sfiorano forse, poi di colpo sei dentro. Ma questo choc, proprio da non capire, è durato pochissimo, quando mia suocera mi ha detto quella frase ho risposto: "Allora faranno i conti con noi!".

Poi siamo tornate a casa ed è cominciato tutto.

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9 maggio 2009



La casa di Licia è la stessa di trent'anni fa. Stesso portone, sulla bacheca del condominio è appeso un ritaglio di giornale, foto di Licia Pinelli e di Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, insieme al Quirinale; chi l'ha appeso ci ha scritto: "Grazie Licia". Stessa ripida scala, stesso appartamento al quarto piano. Una stanza in meno, ceduta a Silvia che ora abita con il marito e due figli maschi muro a muro, ma la porta di comunicazione è spesso aperta, il grosso gatto rosso Garfield va avanti e indietro. Claudia invece abita dall'altra parte della città, alla Bovisa, anche lei è sposata e anche lei ha due figli, femmine.

Di preferenza ci si siede in cucina, un poggiolo fiorito guarda sul cortile interno.

Licia sorride raccontando di quel 9 maggio, pochi giorni fa, invitata dal presidente della Repubblica tra i familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.


Ero tranquilla - dice. Più che tranquilla rigida, rigida come un legno. Mi trattengo talmente che divento sempre più rigida. Quarant'anni sono tanti e mi sono sempre controllata per tutti questi anni. Diventa difficile esternare.

Ti sentivi a disagio?

No, no. Anzi. Ci hanno accolto benissimo. Il consigliere del presidente, Alberto Ruffo, una gentilezza squisita. Ci ha portati nel suo studio, al riparo da fotografi e cronisti, me, Claudia e suo marito Raffaele, ci ha tenuti lì fino all'inizio della cerimonia facendo conversazione, ci ha raccontato tutti gli spostamenti della sua vita, è stato anche a Milano. Quando è venuto il momento ci ha accompagnati giù, nel salone, dove c'erano già quasi tutti, ci ha guidato ai nostri posti, in seconda fila. Alla mia destra Claudia e poi Raffaele; alla mia sinistra Carlo Arnoldi, che è vice-presidente dei familiari delle vittime di piazza Fontana, e accanto a lui Benedetta Tobagi, che si è alzata a salutarmi e scambiare due parole. Le ho detto che avevo un articolo di suo papà, e lei veramente si è commossa, pensa. È una ragazza sensibile, molto bella e molto sensibile. Lei era seduta vicino a un giovanotto e io mi sono sporta e gli ho dato la mano a questo giovanotto, che era Mario Calabresi.

Accanto a Mario Calabresi era seduta sua mamma, Gemma.

Sì, ma io non la vedevo perché lui è molto più alto. A quel punto lei, la signora Capra, si è alzata ed è venuta da noi. E Claudia le dice: "Ma eravamo sull'aereo insieme, solo che io non ero sicura che fosse lei, mia mamma poi non l'ha vista proprio". E lei si è chinata verso di me, ci siamo date la mano e mi dice: "Che peccato, potevamo parlare sull'aereo senza giornalisti attorno". E io: "Ci possiamo vedere da me, venga a trovarmi".

Che effetto ti ha fatto questo contatto?

Come se fosse una cosa logica e naturale, molto tranquilla, senza pensarci, è stato tutto molto spontaneo.

I fatti sono fatti, le famiglie non c'entrano, le famiglie non hanno nessuna responsabilità dei fatti. Anzi, sono tutte vittime allo stesso modo. E poi vedi questi figli, che erano piccolissimi, che sono adulti oggi, e non puoi, non devi assolutamente prendertela con i figli.

Per quarant'anni non vi siete mai viste né sentite.

Non abbiamo mai avuto occasione. Non ci siamo cercate.

Poi è cominciata la cerimonia, i discorsi...

Francesca Dendena, presidente dei parenti delle vittime di piazza Fontana, ha citato Pino. Mi ha preso un batticuore. E poi è stato lo stesso con Napolitano, anzi, di più.

Ti aspettavi che il presidente sarebbe stato così esplicito su Pino?

No. Non pensavo. Non avevo osato immaginare niente, sono andata lì dicendo "vediamo". Quando il presidente ha cominciato a parlare di Pino, Arnoldi mi ha afferrato le mani e me le ha tenute strette.


Ecco il testo del discorso di Giorgio Napolitano, glielo hanno consegnato in bella copia al Quirinale. Licia rilegge il passaggio che riguarda le stragi, i complotti e Pino.

"Ricordare la strage di piazza Fontana a Milano e con essa l'avvio di un'oscura strategia della tensione, come spesso fu chiamata, significa ricordare una lunga e tormentatissima vicenda di indagini e di processi, da cui non si è riusciti a far scaturire una esauriente verità giudiziaria. E ciò vale, lo sappiamo, anche per altri anelli di quella catena di stragi di matrice terroristica che colpì sanguinosamente città come Milano, Brescia, Bologna e altre, e di cui procedimenti giudiziari e inchieste parlamentari identificarono l'ispirazione politica ma non tutte le responsabilità di ideazione ed esecuzione. Se il fine venne indicato nella creazione di un clima di convulso allarme e disorientamento e quindi in una destabilizzazione del sistema democratico, fino a creare le condizioni per una svolta autoritaria nella direzione del paese, componenti non secondarie di quella trama - in particolare 'l'attività depistatoria di una parte degli apparati dello Stato' (così definita nella relazione approvata nel 1994 dalla Commissione stragi del Parlamento) - rimasero spesso non determinate sul piano dei profili di responsabilità, individuali e non solo.

"È ancora in corso il processo per la strage di piazza della Loggia, e c'è da augurarsi che in tale sede si riesca a giungere a valide conclusioni di verità e di giustizia, e che anche in rapporto ad altre stragi siano possibili ulteriori sforzi per l'accertamento della verità. Desidero però dire che per quante ombre abbiano potuto pesare sulla ricerca condotta in sede giudiziaria e per quante riserve si possano nutrire sulle conclusioni da tempo raggiunte, non si possono gettare indiscriminati e ingiusti sospetti sull'operato di quanti indagarono e in particolare sull'operato della magistratura, esplicatosi in molteplici istanze e gradi di giudizio.

"È parte - dobbiamo dirlo - è parte dolorosa della storia italiana della seconda metà del Novecento anche quanto è rimasto incompiuto nel cammino della verità e della giustizia, in special modo nel perseguimento e nella sanzione delle responsabilità penali per fatti orribili di distruzione di vite umane. Il nostro Stato democratico, proprio perché è sempre rimasto uno Stato democratico e in esso abbiamo sempre vissuto, non in un fantomatico "doppio Stato", porta su di sé questo peso: voglio dirlo nel modo più responsabile e partecipe a quanti hanno sofferto non solo per atroci perdite personali e famigliari, ma per ogni ambiguità e insufficienza di risposte alle loro aspettative e ai loro appelli.

"È comunque importante che continui una riflessione collettiva, sullo stragismo come sul terrorismo, in uno con lo sforzo costante per coltivare e onorare la memoria delle vittime. E per entrambi gli aspetti non posso che esprimere gratitudine alle Associazioni e alle persone che garantiscono un così essenziale impegno civile e morale.

"Nello stesso tempo, questo 'Giorno della Memoria' ci offre l'occasione per accomunare nel rispetto e nell'omaggio che è loro dovuto i famigliari di tutte le vittime - come ha detto con nobili parole Gemma Calabresi - di una stagione di odio e di violenza. Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine. Qui non si riapre o si rimette in questione un processo, la cui conclusione porta il nome di un magistrato di indiscutibile scrupolo e indipendenza: qui si compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio su una ferita, non separabile da quella dei diciassette che persero la vita a piazza Fontana, e su un nome, su un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all'oblio. Grazie signora Pinelli, grazie per aver accettato, lei e le sue figlie, di essere oggi con noi...


Licia si ferma nella lettura lì dove a Napolitano per un attimo si è incrinata la voce.


Ancora adesso - dice Licia - mi prende la stessa cosa, batticuore, anzi piuttosto un tuffo al cuore.

Ora che cosa cambia?

Il riconoscimento da parte dello Stato, da parte del presidente della Repubblica, è molto importante, qualunque cosa possano dire o possano cercare di fare. Ma per il resto niente, non cambia niente. Io la mia vita la continuo come al solito. Per avere giustizia bisogna sapere la verità e per avere la verità bisogna che il segreto di Stato venga abolito, che le carte siano a disposizione di tutti.

Ma questo non è un passo avanti?

Spero, spero che lo sia. Ma in realtà non oso sperare, a furia di delusioni si diventa cauti. Ci sono molti che non vogliono la verità sulle stragi, su piazza Fontana, sulla morte di Pino e mi aspetto che nascano altri ostacoli, altri depistaggi, oppure che si dica che ora tutto è chiuso, che si è fatta pace e non c'è più bisogno di altro. Invece il riconoscimento che Pino è stato una vittima innocente non chiude, anzi rende ancora più necessario che si aprano i cassetti e venga fuori la verità.

E dopo la cerimonia?

Siamo rimasti lì nel salone per qualche momento, un po' di strette di mano. Si è avvicinato Napolitano per salutarmi. "Sono onorata di conoscerla," ho detto. E lui: "Sono io onorato di conoscerla". Il consigliere Ruffo ci ha accompagnato nel salotto e Napolitano si è seduto tra me e Gemma Capra, si è parlato un po', di figli, di nipoti. Ho conosciuto la moglie del presidente, ho visto un sacco di altra gente, la figlia di Moro, che è molto spontanea, simpaticissima, Mario Calabresi, che mi ha dato l'impressione di una persona buona, molti che non conosco, ho avuto tanti di quei baci. Tutta un'atmosfera cordiale, rispettosa, ma non ossequiosa. Un'atmosfera che mi dava la sensazione, lì dentro, di uno Stato di diritto, di come potrebbe essere uno Stato di diritto.

E quando sei uscita?

Un'altra Italia. Si respira un'altra aria fuori, diversa, molto, molto peggiore. Un'Italia di nessun diritto.

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Qualcosa da dire



Alcune persone che hanno conosciuto Pino o Licia, o hanno avuto in qualche modo a che fare con le loro vicende, hanno scritto per questa riedizione un ricordo o un breve commento o la sottolineatura di qualche aspetto che sta loro più a cuore.

Il giurista Carlo Smuraglia, suo avvocato ieri e oggi, i giornalisti Giorgio Bocca e Corrado Stajano, grandi testimoni dell'epoca, Dario Fo e Franca Rame, che misero in scena l'indimenticabile Morte accidentale di un anarchico, Giuseppe Gozzini, primo obiettore di coscienza cattolico e il primo a testimoniare che Pino non poteva essersi ucciso, Marino Livolsi e Luigi Ruggiu, professori universitari, e Bruno Manghi, allora assistente alla Cattolica, poi sindacalista, tra gli amici che più sostennero Licia, Elda Necchi, che si occupava di controinformazione, Goffredo Fofi, militante della non violenza e critico assertore del dovere di ricordare, Mauro De Cortes e Luciano Lanza, compagni di militanza anarchica di Pino, e Lella Costa, che letta la storia di Licia ha voluto darle la sua voce in scena.

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