Copertina
Autore Nélida Pińon
Titolo La dolce canzone di Caetana
EdizioneVoland, Roma, 2009, Amazzoni 55 , pag. 426, cop.fle., dim. 14,2x20,5x2,7 cm , Isbn 978-88-6243-021-0
OriginaleA doce cançăo de Caetana [1987]
TraduttoreVirginiaclara Caporali
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe narrativa brasiliana
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Pagina 5

Mentre attraversava la piazza, Polidoro guardò l'orologio, regalo del nonno Eusébio. Erano le cinque passate. Quel ritardo lo infastidì, come se la sua vita dipendesse da una puntualità arbitraria, imposta unicamente dalla fretta di rimanere solo con sé stesso, davanti alla bottiglia di whisky nel bar dell'Hotel Palace.

Si affrettò, cercando di recuperare il tempo perduto. Il corpo, però, non rispose con l'agilità di una volta, inducendolo a maledire gli anni. Ebbe allora la sensazione che quel lunedì, con un cielo a chiazze quasi gialle, minacciasse di mettere zizzania ovunque. Meglio stare attenti, specie adesso che la giornata stava per finire.

La mattina, al segnale del vento che spazzava foglie, insetti e i panni stesi ad asciugare, gli era parso che la mano, mentre si faceva la barba, fosse più pesante del solito. E davanti a Dodô, all'altro capo del tavolo, ne aveva fuggito lo sguardo. La moglie non perdeva occasione per controllarlo; a tavola se la trovava sempre intorno, soprattutto a colazione. Era la prima a svegliarsi. Si vantava di avere ereditato dal padre l'abitudine di salutare il sole non appena le prime luci dell'alba si insinuavano dalla finestra, invadendo la stanza. Polidoro sospettava persino che, pur di non perdere la scommessa autoinflittasi di non dormire un minuto in più dopo il sorgere del sole all'orizzonte, Dodô tenesse un occhio aperto, mentre l'altro riposava. Non riusciva a spiegarsi altrimenti come mai, in tanti anni, neanche una volta fosse arrivato in sala da pranzo senza trovarla già lì ad aspettarlo, con gli occhi sbarrati, spaurita, ma indaffarata a distribuire sul tavolo i vassoi dei salati e dei biscotti.

Era evidente la voracità con la quale Dodô si cibava senza far cadere neppure una briciola di pane sulla tovaglia. Ogni cosa al suo posto, la tavola apparecchiata. Nessuna visita l'avrebbe presa in contropiede.

– Chi vuoi che venga a quest'ora, Dodô? – protestava Polidoro accennando alle tazze allineate, che tornavano pulite in cucina.

– Non si sa mai chi può bussare alla porta. Quando si è l'uomo più ricco della zona, meglio stare in campana. Avere la mensa imbandita e la bara prenotata.

Pronunciava la frase con tale serietà che Polidoro non aveva il coraggio di ribattere a un ragionamento valido in apparenza, ma inutile in pratica.

Quel giorno Dodô sembrava ansiosa. Gli porgeva il păo de queijo, appena uscito dal forno, quasi quel gesto potesse liberare il marito dagli effetti di una piaga che minacciava di avvicinarsi a passo svelto.

Sebbene l'odore del păo de queijo gli stuzzicasse l'appetito, Polidoro aveva declinato un'offerta che, con ogni probabilità, avrebbe innescato la consueta sfilza di domande. Appena le faceva un sorriso, subito Dodô si metteva a cantare vittoria. Poi gli chiedeva con chi avesse cenato la sera precedente, visto che non aveva ingoiato neppure un chicco del riso lasciato in caldo nella speranza che il marito non dimenticasse il sapore del cibo fatto in casa. E a che ora aveva infilato la chiave nella serratura, sottolineando che, in fin dei conti, abitava a Trindade, nella casa che apparteneva anche a lei, per contratto e per dovere familiare. Interrogativi, insomma, che mascheravano a stento il risentimento della donna per il fatto di dormire da anni in stanze separate.

Temeraria, Dodô era tornata a insistere col păo de queijo. Offerto stavolta su un vassoio d'argento portoghese. Polidoro l'aveva fermata di nuovo. Con un gesto che nasceva dal tedio, crescente a ogni ora che rimaneva in casa, l'aveva dissuasa da una generosità che gli provocava spasmi al petto.

Di fronte all'ennesimo rifiuto, Dodô si era alzata caparbia, piccandosi di offrirgli l'immagine di un corpo che da anni lui evitava di toccare, anche solo per pietà. Come se, per il marito, l'abbandono del talamo nuziale fosse una decisione presa di comune accordo nel corso di un'amena chiacchierata.

Sola con la figlia più grande, Dodô si lagnava di quella situazione insolita.

– Fa così per vendicarsi.

– E perché il babbo si dovrebbe vendicare? Gli avete dato cinque figlie robuste e terre in dote.

La figlia raccoglieva le parole amare di sua madre fra gli spruzzi di saliva sparsi attorno dalla donna. E calcava l'accento sulla ricchezza, per sospingere Dodô verso l'unico pensiero in grado di calmarla e dal quale riemergeva disposta a prendere i provvedimenti necessari a fronteggiare il marito negligente.

In vestaglia nera a rose purpuree, banale imitazione dei fiori che lei stessa innaffiava nelle aiuole dietro casa, Dodô aveva sfidato Polidoro con lo sguardo. Un'occhiata che lanciava pugnali, coltelli, sciabole d'importazione, e che gli garantiva l'esistenza, nell'arsenale dei suoi sentimenti, di armi di calibro più grosso. Molte delle quali, forgiate con precisione raffinata, erano state messe a freddare nelle acque del Giordano. Che Polidoro non dubitasse delle sue risorse segrete. A volte si sentiva come certe stelle nella galassia, invisibili a occhio nudo.

In quel duello, a Dodô piaceva esibire davanti al marito una sciatteria che contagiava anche la casa di città e le fazende, esteso feudo che apparteneva a entrambi. Quasi una regione difficile da amministrare, ma che non avrebbero ceduto per nessun motivo al mondo.

Dopo averlo guardato con durezza, Dodô gli aveva dato le spalle, allontanandosi da tavola. Strascicava le pantofole come se, passando, volesse spazzare il pavimento. Una manovra da cui traeva il massimo profitto, ben sapendo quanto irritassero Polidoro certi dettagli che da oltre trent'anni venivano ammucchiandosi nelle loro vite.

Le palpebre grevi di malinconia, Polidoro aveva visto la donna sparire in corridoio, portandosi in camera, dall'altra parte della casa, il rumore di ciabatte che imperversava nelle stanze dal primo mattino fino all'ora di pranzo, quando Dodô si decideva a liberarsi di quei mostri bianchi, incollati alle piante dei piedi. Un rumore al quale Polidoro, in tanti anni di matrimonio, non era mai riuscito ad abituarsi.

L'aveva sopraffatto il desiderio di aggredirla. Di mettere fine a uno stato di cose che gli impediva la respirazione mattutina. Voleva inviarle un messaggio bellicoso, ogni parola del quale forzasse Dodô a seppellirsi in una fazenda. Per obbedire all'ordine del marito, era sufficiente che la donna indicasse sulla mappa dei suoi sentimenti e della fantasia quale fazenda, delle cinque che avevano, le stava bene in quel mese di giugno. Tutte l'avrebbero accolta con il camino acceso e il feijăo pronto.

Afflitto, aveva preso carta e penna. Gli dispiaceva non avere della carta intestata, che conferisse serietà al messaggio. Nel comporre il testo, aveva esitato. La prima frase, di norma la più difficoltosa, permetteva alle altre di fluire con naturalezza. Come se, in forza di un'ira segreta, scorressero in un fiumiciattolo pieno di ghiaia. Doveva forse scriverle cara Dodô, spingendola a credere che un giorno l'avrebbe amata? Aveva rifiutato la formula prevista dall'etichetta per suggerire una disposizione affettuosa.

Di fatto, quanto a Dodô, aveva il cuore amaro e stanco. Sebbene ne avesse frequentato il letto, bussando incauto alla porta del suo ventre, voleva solo sbarazzarsi di quel legame. Cancellare per sempre qualunque abbozzo di sogno ancora nutrito dalla donna.

Aveva steso la frase iniziale. Lì per lì, gli era parsa discreta e persuasiva. D'altronde, chissà se, invece di convincerla a partire, quel riserbo non avrebbe finito per irrobustirne il desiderio di restare, solo per tenergli testa.

Aveva messo la penna sul tavolo. Appoggiato ai gomiti, si era guardato intorno. Le pareti della sala, abbellite dai quadri del greco Venieris, cominciavano a creparsi. Dodô le teneva in quello stato solo per dimostrargli che anche la casa, come lui, era invecchiata. E così non scordasse Polidoro che, lì accanto, tra stanze e corridoi, ingrassava un'avversaria che non gli avrebbe concesso la benché minima tregua. Meglio andarci a letto che restare in balìa della sua misericordia.

La prudenza aveva suggerito a Polidoro di infilarsi il foglio in tasca. Dodô non doveva mettere le mani su quelle righe scritte con tanta fatica. Per precauzione, aveva eliminato anche le pagine seguenti del blocco, dove si era impressa l'ombra della sua calligrafia. Temeva lo sguardo irato di Dodô, la lingua indomita che lo copriva di frecce avvelenate. L'abilità nel maledirlo per il resto della settimana. Soprattutto, giorni prima Dodô gli aveva detto, o almeno così gli sembrava di ricordare, che il martedì seguente, e quindi l'indomani, l'avrebbe liberato della sua presenza. Progettava di rintanarsi nella fazenda Suspiro. C'era molto lavoro da sbrigare.

In mezzo alla piazza Polidoro rallentò il passo. Il respiro affannato gli succhiava l'aria dai polmoni consumati dal fumo. Guardò a destra, in direzione del mango piantato dal nonno Eusébio. Un tronco che minacciava di resistere, seppellendo lui e i suoi nipoti. Quel nonno, dagli occhi neri e indiscreti, il quale, poco prima di morire, aveva dichiarato che, finché fosse esistita Trindade, da dove si vedevano le montagne toccare il cielo, lui sarebbe stato eterno. A quel fine, aveva disseminato la città degli inconfondibili segnali del proprio passaggio. Prima di liquidarne la memoria, avrebbero dovuto demolire l'intera Trindade.

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Polidoro si diresse alla reception dell'hotel. Mágico lò aspettava, per niente rassegnato a quel primo ritardo in tanti anni. Abito scuro e panciotto grigio, fingeva di patire i rigori di un falso inverno.

Gli piaceva poco parlare. Considerava parte del proprio mestiere risparmiare le corde vocali, riservandole per gli ospiti di innegabile prestigio. Non aveva mai chiarito su quali criteri basasse i suoi princìpi. Si limitava a squadrare gli ospiti con sguardo intollerante, registrando tutto, dalle scarpe all'acqua di colonia.

Quando vide Polidoro, estrasse l'orologio dal taschino senza guardarlo. Agiva con premeditazione, perché l'altro soffrisse. Ma Polidoro ignorò quel gesto e si appoggiò al bancone.

– Buonasera – disse come se non si conoscessero, attingendo a un rituale ormai consolidato.

– Menomale che non ha piovuto. Non resterà una sola stanza vuota questo fine settimana – disse Mágico, pomposo, per fargli credere che lo stabilimento, pur invecchiato dal tempo, attraesse ancora curiosi e coppiette in luna di miele.

Mágico mentiva allo scopo di salvaguardare l'onore dell'hotel. E, siccome mascherava l'agonia di un palazzo che pulsava anche nel suo cuore, Polidoro continuava a tenerlo alla reception, perdonandone la petulanza.

– Un giorno costruiremo un altro piano per fronteggiare le richieste – disse Polidoro, ritardando la domanda consueta.

Mágico ammetteva di dovergli l'impiego e gli assegni che gli spediva per Natale, e per i quali non lo aveva mai ringraziato.

– C'è da vedere se la struttura sopporterebbe il peso di un sesto piano.

Polidoro appoggiò le mani sul bancone mentre Mágico, evitandone lo sguardo, si studiava le unghie dipinte con lo smalto trasparente.

– C'è posta per me? – chiese il fazendeiro, imbarazzato.

Mágico conosceva ogni frase a memoria. Il ritmo, il respiro e l'ansia con cui le articolava. Da vent'anni, nella stessa posizione, Polidoro raccoglieva le forze per ripeterle, sopraggiunta la sera, il vestibolo ancora immerso nella semioscurità, senza che a Mágico venisse in mente di accendere le luci dell'opulento lampadario appeso alla volta del soffitto.

Mágico aprì il cassetto di destra, rovistando fra le carte, convinto di avere visto, finalmente, la lettera indirizzata a Polidoro. Anche il fazendeiro sembrava certo che stavolta il postino gli avesse lasciato la lettera, come premio per la sua ostinazione.

Con deliberata lentezza, Mágico scorreva fatture, biglietti e la corrispondenza che antichi ospiti non avevano mai chiesto indietro. Così facendo, teneva Polidoro incollato al bancone per qualche minuto.

Il disordine del cassetto saltava agli occhi. Lo zelo di Mágico, concentrato sui vestiti e l'edificio, relegava le questioni amministrative in secondo piano. In compenso, la sua indole accumulatrice lo spingeva a conservare persino i tovaglioli dove certi ospiti, ispirati dall'amore, avevano buttato giù le proprie frasi.

Ogni sera Mágico si dannava sfogliando quelle carte, in cerca della lettera ambita. Le scartava pensando di disfarsi in seguito degli appunti inservibili, sebbene poi gli mancasse il coraggio di buttarli nella spazzatura. Passava da un cassetto all'altro sempre con lo stesso risultato.

– Eppure avrei giurato che avessimo ricevuto una lettera – annunciò, sconfortato.

– Torno domani – disse Polidoro, dandogli le spalle, indifferente al proprio destino. Attraversò il vestibolo diretto al bar. Guardò il lampadario di cristallo di Boemia. I pendagli, con la luce appena accesa, brillavano intensamente.

Bandeirante, ai suoi tempi, aveva proibito alle donne di frequentare il bar. Lo aveva arredato all'inglese, basandosi sui ricordi del suo unico viaggio in Europa. Per spiegare perché non volesse donne tra le bestemmie, l'alcol e il fumo, ricorreva alle più varie considerazioni.

– Non devono frequentare un luogo pensato per le nostre rozzezze di maschi. Ho paura di ferirne gli animi delicati.

Il paulista lodava tanto le virtù femminili da far temere a Joaquim che Polidoro, ancora adolescente, assorbisse, per semplice invidia, parte dello spirito che Magnólia esibiva nelle faccende di casa, quella capacità delle donne di far crescere di tutto come per miracolo. Si opponeva, severo, a quelle affettazioni. Voleva proteggere l'anima del figlio, che rischiava, in futuro, di mettersi a sospirare in nome della gentilezza. Voleva imporgli un codice che lo saccheggiasse dal di dentro. Come Cartagine, coperta di sale, perché i fiori non crescessero più nemmeno in vaso.

Dopo l'inaugurazione del bar, Joaquim aveva rifiutato il whisky scozzese che Bandeirante offriva come omaggio della casa. In qualche modo, quella bevanda minacciava il loro linguaggio e i sentimenti che accompagnano l'alcol. Bandeirante, però, interessato alle proteste levate contro le abitudini importate a detrimento di quelle nazionali, persuadeva gli avventori di non voler piegare le loro volontà.

– Una cultura resiste solo quando è messa alla prova – affermava convinto.

Al bar, Polidoro salutò Francisco. Sistemato sulla poltrona di vimini, di uso quasi esclusivamente personale, osservò commosso le bottiglie pigiate alla rinfusa sul ripiano. L'amarezza gli si leggeva nelle sopracciglia scarmigliate, unite vicino all'attaccatura del naso. Incollato al tavolino, finse di non vedere il caloroso saluto del commissario Narciso. Francisco gli portò il whisky, il secchiello del ghiaccio e la bottiglia d'acqua minerale, che Polidoro versava in un altro bicchiere.

– Il professor Virgílio è appena uscito. Č venuto a cercarla. – Francisco servi il ghiaccio con cura.

– E cosa vuole? – chiese seccamente Polidoro.

Francisco spostò lo stecchino rimasticato all'altro angolo della bocca. Si intratteneva in quel balletto, cincischiando parole a stento intellegibili; un trucco che gli permetteva di scansare ogni sconvenienza capace di ferire i clienti. I capelli neri, accentuati dalla tintura, denunciavano la sua paura di invecchiare. Portava anche un panciotto di raso, unico ricordo rimastogli del periodo trascorso in un cabaret della Lapa. Quando ne parlava, l'avventura carioca gli faceva venire le lacrime agli occhi.

Nessuno come Francisco conosceva Trindade. Per informarsi dei fatti altrui, ricorreva a metodi non sempre onesti. Quando aveva la fortuna di assistere un ubriaco, lo seguiva tutta la notte finché non gli aveva strappato anche l'ultima delle confidenze. Non si arrendeva mai e usava ogni sorta di scaltrezze. Era lo stesso Polidoro a incoraggiarne gli intrighi. Una vocazione come tante che, oltretutto, veniva utile anche a lui. Francisco, però, prevedeva il declino ormai prossimo, la vecchiaia che avrebbe rovinato il suo fiuto, privandolo dell'opportunità di spiare gli scontenti. Polidoro sarebbe stato il primo ad abbandonarlo. Era sempre stato il più ribelle dei suoi ascoltatori. Se non lo conquistava alla prima frase, un minuto dopo l'aveva perduto.

– Non so che voglia il professore, ma posso indovinarlo. Le garantisco che fa sul serio. – E gli lanciò uno sguardo che prometteva storie complicate.

Polidoro avverti uno strano subbuglio. Ma si dominò, deciso ad azzittire il cameriere.

– Da quando sono arrivato al lavoro stamattina, è tutto il tempo che continuo a tastarmi le tasche. Ho l'impressione di avere perso un oggetto di valore. Tipo una fede, consegnata alle mie cure. E che dovrei restituire al proprietario a fine serata. Non so perché, signor Polidoro, ma questo è un giorno strano. Ha fatto caso alle nuvole?

Polidoro non lo invitava a continuare. Non lo guardava nemmeno. Tanto disprezzo avrebbe scalfito il prestigio del cameriere, se questi non avesse subito reagito.

– Il professore si è incamminato verso la Stazione. Portava l'abito blu del lunedì e anche l'acqua di colonia. Di sicuro andava a una festa. Lei sa di che festa parlo. – Il sorriso malizioso di Francisco osservava Polidoro, non sempre disponibile alle confidenze.

Polidoro sembrava indifferente alla Casa della Stazione, come chiamavano la pensione di Gioconda, alla cui porta non bussava da due settimane. Un'assenza che spingeva le donne a supporre che Polidoro fosse tornato a frequentare il letto di Dodô, o che si fosse trovato qualche nuova ragazza in una delle fazende. Il suo vigore a letto, nonostante i sessant'anni, non gli permetteva di rinunciare alle donne.

Senza curarsi dell'impassibilità di Polidoro, Francisco continuò:

– Č andato di sicuro a casa di Gioconda. Non salta un lunedì.

E scandiva le parole lasciando intendere di sapere che Polidoro non ci andava dal diciotto maggio, giornata, tra parentesi, brumosa e triste. Un'informazione che non aveva ricevuto da Gioconda, la quale teneva la sua agenda, dove registrava con grafia minuta le frequenze di certi signori nella casa, segreta come l'anima.

Polidoro chiuse gli occhi, dando per finita la conversazione. Risentito per l'insuccesso, Francisco gli studiò le rughe intorno agli occhi gonfi. Lo vedeva invecchiare giorno per giorno. Era difficile che in quella fase della vita ispirasse in qualcuno un'altra passione.

Si allontanò lentamente, aspettandosi di venire richiamato. Polidoro allungò le gambe sotto al tavolo. Non aveva dormito bene la notte precedente, atterrito dall'idea di morire senza aver rivisto la donna il cui nome evitava di pronunciare. Ogni anno che passava, sentiva la vita accorciarsi.

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Pagina 63

Preso talvolta da bucolico fervore, Virgílio chiamava le donne della Casa della Stazione vacche sacre del fiume Gange. Le voleva orgogliose dei sentimenti che ispiravano nei comuni mortali.

– Le vacche non hanno un bell'aspetto, ma possono muggire per più di venti ore senza mostrare fatica.

Gioconda non si lasciò convincere.

– Se è un complimento, com'è che per offenderci ci danno della vacca?

Nei momenti d'ozio del lunedì, Virgílio spiegava alle Tre Grazie, cioè Diana, Sebastiana e Palmira, quanto fosse fasulla quell'accezione volgare. In India, si adoravano le vacche a detrimento degli uomini.

– Laggiù sono state le vacche a partorire il genere umano tra feci e urina. Uguale alle donne. E poi, le vacche sono inclini alla follia, come i poeti – diceva con aria sognante.

Virgílio raffreddava il tè portato da Gioconda soffiandoci sopra di continuo. Rinfrancato dal calore dell'infuso, criticò l'eccesso di condimento imposto dalla realtà.

– Io, per esempio, ho il sale, il pepe e l'aglio nella voce. A forza di insegnare, ho le corde vocali sciupate e un alloggio da paria.

Grato per l'attenzione prestatagli, volle onorare Gioconda di un epiteto nobile.

– Tu sei a un tempo regina delle vacche e matrona romana.

Sospettando che il professore volesse relegarla nel novero delle donne inservibili all'amore, Gioconda si offese. Quei titoli implicavano la perfida insinuazione che i giorni, strappati in fretta dal calendario, l'avessero privata anche delle ultime tracce di giovinezza.

– Non ti offro i biscotti di manioca – e gli mostrò la latta quasi vuota – solo perché sono gli ultimi – disse, avara.

Accorgendosi che era arrabbiata, Virgílio prese a difendere le analogie che sgorgano dal cuore. In fin dei conti, le matrone romane esercitavano il potere tanto in casa che al senato. Quante province d'oltremare non erano state saccheggiate solo per condiscendere a una loro richiesta?

– Certe volte confondo ogni cosa, come se stessi mischiando le carte. Sono un pessimo giocatore. Non mi è mai toccato un solo asso. E poi, l'unico asso di Trindade è Polidoro.

Simulando modestia, rinnegava davanti alle Tre Grazie il proprio titolo di zelante osservatore della quotidianità e dell'animo umano, punendosi così per le offese arrecate senza intenzione.

Gioconda accettò le sue scuse. Quell'uomo, per come affrontava la realtà, le faceva tenerezza. Ora capiva l'originalità del suo modo di ritrarle. E, per ricambiarne le premure, lodò la sua virilità, invero ultimamente assai pochina.

– Non chiedermi chi ti ha fatto i complimenti. In questa casa il prete sono io. Raccolgo le confessioni senza denunciare la fonte.

Virgílio arrossì. Lo strumento concessogli dalla natura non gli era mai parso grazioso. Anzi, siccome lo tradiva di frequente, tendeva a usarlo poco.

– Sicura che parlassero di me?

Si aggiustò il nodo della cravatta allo specchio del salone, incendiato dal rosso delle pareti e dei divani. Forse doveva il suo vigore al latte materno, che aveva preso fino ai tre anni. Vicino ai seni della madre, li straziava con bocca avida. Lui in piedi e lei seduta, impaziente di tornare alle proprie faccende.

– Ah, Gioconda, con tutto il male che se ne dice, sono le donne il miglior frutto della terra.

Poco a poco, Gioconda si perfezionava nell'arte di illudere la gente. Da tempo aveva sepolto i sentimenti a vantaggio delle parole, che le uscivano di bocca vestite da arlecchino, pierrot e colombina, una rievocazione carnascialesca utile a nascondere la triste quarantena che seguiva ai festeggiamenti. La domenica, soprattutto, soccombeva al vuoto, nonostante sulla tavola campeggiassero succulenti piatti di riso, feijăo, lombata di porco e manioca fritta.

Quel lunedì, chissà perché, i clienti, ansiosi di rientrare a casa, non facevano che sbadigliare. Il rancore accumulato nella lunga e sonnolenta domenica in famiglia li aveva esauriti, ed erano venuti alla pensione solo per fedeltà a un'agenda in cui trovava posto anche il desiderio.

Pure Virgílio, appena arrivato, aveva annunciato che sarebbe ripartito nel giro di mezz'ora. Quindi niente moine e che non gli tirassero il cappotto, come se fosse venuto per fermarsi qualche ora sopra a uno dei loro materassi. Polidoro lo aspettava al bar del Palace. Avevano molto da parlare.

– Peccato che tu non possa venire, Gioconda. Il palazzo è vecchio, ma ancora elegante. Lì dentro, nessuno ha fretta. Solo il paese ha fretta. Menomale che il Brasile può crescere anche senza il nostro aiuto! – disse per farle coraggio.

Prima di restituirgli il cappello, Gioconda glielo spazzolò.

– Quando sarò una vecchia rispettabile, verrò a bermi un bicchiere con voi. Non manca molto.

Lui si aggiustò la tesa del cappello. Un Ramenzoni originale, uno degli ultimi che la fabbrica aveva prodotto prima di fallire. Si girò verso Gioconda, accarezzandole il viso con fare distratto.

– Tu non invecchierai mai – disse prima di uscire.

Di pomeriggio, nonostante la quiete favorita dalla stanchezza delle Tre Grazie, Gioconda avvertì un pericolo imminente. Temeva che qualche intruso si introducesse in casa, tappando loro la bocca e il cuore, senza scopi pratici. A tarda notte, si sentiva ancora inquieta.

Siccome non aveva voglia di dormire, si accomodò in sala. Il petto le ruggiva come fosse pieno di catarri. Per calmarsi, guardò dalla finestra, attratta dalle ombre. In strada, vide un uomo appoggiato all'albero. La luce del lampione non ne rivelava il volto. Preoccupata, respirò l'aroma del caffè appena fatto, proveniente dalla cucina. L'orologio segnava le tre e lei non aveva ancora sonno.

L'uomo in strada ora faceva per andarsene, ora fissava i mattoni intiepiditi dal calore delle puttane. Stanca, Gioconda si ributtò sulla poltrona. Con le gambe appoggiate allo sgabello, il pensiero tornò a correrle a quell'uomo. Lo scacciò di mente, attratta da altri ricordi. Certe notti il sonno la sorprendeva proprio lì. Sentiva l'assedio dei fantasmi, venuti apposta per spennarle i sogni e la speranza. Insistenti, volevano avvolgerla nel sudario del disprezzo o dell'indifferenza. Stretta in quella specie di invasione, Gioconda si chiedeva se non stesse sognando la propria morte. Fra i sobbalzi, metteva in fuga i cattivi presagi imprecando.

Ebbe freddo. Era a gambe nude. Si strinse addosso la vestaglia. Non aveva voglia di salire a prendere la coperta. Poi sentì dei rumori alla porta. Si domandò se fosse l'estraneo. Il respiro affannato sembrava forare i nodi del legno per chiedere soccorso. Magari aveva le suole delle scarpe bucate e lo stomaco ristretto dalla fame. Eppure, per quanto malridotto, pareva garantirle che, lontano da lì, c'erano una vita anonima e una tavola imbandita ad aspettare proprio lei.

Incantata da quel pensiero confortante, Gioconda aprì la porta. Polidoro avanzò con gli occhi dilatati. A giudicare dal fiato, aveva bevuto.

— Non hai fortuna. Dormono tutte. Sono l'unica civetta della casa.

Abituato al rosso della sala, che conferiva un tocco drammatico alle poltrone e alla carta da parati, Polidoro inspirò gli effluvi di sudore e profumo che penetravano gli oggetti sparpagliati sui mobili.

— Č il colore della passione — diceva Gioconda, per spiegare quel rosso ai clienti più sensibili, quando la vita sembrava abbandonarli e bisognava carezzare loro le mani.

Polidoro sedette in poltrona. Gioconda gli cedette lo sgabello. Lo aveva sempre trattato bene. Era un cliente fedele. Veniva alla Stazione due volte a settimana. Dietro suo suggerimento, Gioconda ordinava alle Tre Grazie di cambiare trucco e pettinatura. Per dare l'illusione, così, di essere appena sbarcate dall'Italia o dal Giappone. Altrimenti, sfogato il desiderio, i clienti sarebbero tornati subito al letto coniugale, dimenticando le dolcezze trovate nella casa.

A dispetto di quegli accorgimenti, già da tempo Polidoro dava segnali di noia. Tardava a scegliere chi seguire in camera. E il venerdì, quando la sua visita e quella di Ernesto coincidevano, chiedeva all'amico che lo aiutasse a eccitarsi con qualche gesto osceno, mai ripetuto lontano dalla Stazione.

Una volta aveva detto, rattristato: — Com'è difficile essere maschi. Se non mi presento qui due volte a settimana, tutta Trindade dirà che sono diventato impotente.

Gioconda rispettò il silenzio di Polidoro. La fronte corrugata gli incupiva il volto. Abbozzò un gesto. Sembrava stanco.

— Come va, Gioconda?

Lei, dopo essersi versata del liquore di jabuticaba, gli indicò il piccolo mobile bar.

— Stiamo invecchiando tutti, Polidoro. Nessuno ci chiama più le ragazze della Stazione. Del gruppo originario siamo rimaste solo noi. E non abbiamo nessuno che ci sostituisca. Le più giovani adesso salgono in groppa a una moto e spariscono. Siamo rimaste solo noi.

Lui si sforzava di ascoltarla.

— Non abbiamo mai voluto lasciare Trindade. — Il tono della voce, malinconico, chiariva lo stato d'animo di Polidoro.

— Avevi un motivo per restare.

– Tutto il mio mondo è qui – disse lui, gli occhi fissi su un orizzonte immaginario. – Sono vent'anni che non viaggio.

– In attesa di Caetana, che poteva spuntare da un momento all'altro. – E Gioconda andò alla finestra con atteggiamento ostile, le gambe che facevano capolino dall'apertura della vestaglia.

Polidoro le osservò senza desiderio. Bianche e gelatinose, gli rammentarono l'antica bellezza. Si intenerì. Ma persino gli affanni, nelle donne, avevano un'origine sinistra.

– E tu, non l'hai mai aspettata?

Afferrandosi al davanzale della finestra, Gioconda finse di non avere sentito. Sembrava vaneggiare, rivolta a un interlocutore invisibile.

– Ti ricordi che il circo passava sempre da queste parti, una volta? E che noi ridevamo lo stesso, anche se il pagliaccio era un disastro? – lasciò la finestra per andargli incontro, faccia a faccia.

– Chissà perché sono spariti i circhi.

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I fiori li avevano presi nell'orto, tra i pomodori, i cavoli e il prezzemolo. Gioconda aveva scelto le magnolie pensando alla madre di Polidoro, che di quel fiore aveva il nome. Lei stessa ne aveva reciso i gambi con le forbici arrugginite, scordate da un pezzo nel cassetto della cucina.

Quel venerdì, contrariamente al solito, Gioconda si svegliò presto, ansiosa di provvedere al pranzo, che doveva essere in tavola per le undici. Bisognava andare a prendere Caetana senza tardare nemmeno di un minuto. L'arrivo del treno, che avrebbe scaricato Caetana e i suoi amici, era previsto per le due e diciassette.

Uno sbarco di certo nervoso, dato che il fochista aveva l'ordine di restare in stazione soltanto due minuti, prima che i passeggeri protestassero per la deviazione del treno il quale, in flagrante violazione degli orari, si inoltrava su rotaie in disuso, mettendo le loro vite a rischio.

L'ingegner Mendes, pur temendo un processo che gli avrebbe stroncato la discreta carriera a un passo dal pensionamento, e sebbene dubitasse di binari inclini al deragliamento, aveva finito per cedere alle lusinghe di Gioconda e alle spinte del proprio desiderio. Era stata lei in persona a dirgli che, fortunatamente, quel tratto della ferrovia era ancora in buono stato.

Comunque, avevano agito con rapidità, perché la città non sospettasse nulla. Il treno, lasciata Caetana sulla piattaforma, doveva filare via alla svelta, senza fischiare, di modo che i curiosi, vedendolo partire, si ritenessero vittime di un miraggio provocato dalla lunga siesta dopo un lauto pasto.

Il giovedì, Gioconda si era trovata ad affrontare l'animosità delle Tre Grazie. Di testa propria, avevano deciso di accompagnarla alla stazione, per portare a Caetana gli omaggi che da vent'anni imbottivano i loro cuori.

Gioconda aveva avuto paura. La carovana di puttane avrebbe mandato in bestia Polidoro, che per Caetana, dopo tanti anni, sognava un altro tipo di accoglienza. Le aveva implorate di sacrificarsi per qualche ora. Caetana sarebbe venuta di sicuro a salutarle nel silenzio della notte. Con quanta allegria si sarebbe seduta sul divano rosso che in passato le aveva strappato tante lodi. Allora le cinque donne, intrattenendosi con biscotti di manioca e amaranto, păo de queijo e caffè, avrebbero pronunciato le parole che da tanto, nelle lunghe notti di quegli anni, incendiavano loro l'immaginazione. Specie durante le notti in cui le assaliva l'oscuro mondo degli affetti; sentimenti di norma rarefatti, che imponevano, per non asfissiarle, impianti di aerazione e vie d'uscita.

Contrariato, Polidoro sapeva essere imprevedibile. E conveniva ricordare che non era solo un cliente assiduo, ma che le riempiva di regali tutto l'anno. A Natale, copriva la loro tavola di tacchino arrosto, farofa e vassoi di frutta e di dolciumi.

– Non per questo ci ha arricchite o ha messo su casa per qualcuna di noi. Quindi, che prove d'amore ci ha dato? – aveva protestato Diana, in cerca di un uomo che le desse le chiavi di una casa ammobiliata. Le ciglia, pressate dalla paura del futuro, le tremavano nervose.

– Se prendesse una di noi per amante, tradirebbe Caetana – aveva detto Sebastiana con la logica della fedeltà.

– Chi sparisce per più di vent'anni perde ogni diritto. E il suo amante è libero di trovarsi un'altra donna – rimarcava Diana, perseguitata dalla visione di una casetta dove un giorno mettersi a riposo, senza la paura dei conti a fine mese e delle varici gonfie.

Gioconda sbucciava patate fissando la ciotola. Cadendo in acqua, i pezzi le schizzavano gli occhi rabbiosi. Sebastiana aveva provato a consolarla.

– Diana non sa cosa dice. Č colpa della misera pensione che ci aspetta. In fondo, chi si prenderà cura di noi in futuro?

Diana insisteva. Si ribellava di fronte a Gioconda.

– Com'è triste la vita che facciamo. Si è mai vista la padrona di un bordello di lusso che sbuccia le patate? A cosa ti è servito fare tanti sorrisi a Polidoro?

L'intromissione di quella cornacchia aveva snervato Gioconda, che tirò il coltello nel lavandino.

– Faccio certe cose per nostalgia. Per il dolore che ho in petto e di cui tu non hai mai sospettato nulla.

Palmira le aveva pregate di calmarsi. Le ore seguenti richiedevano una concentrazione propizia ai sentimenti che da tempo albergavano nei loro cuori.

– Per festeggiare l'arrivo di Caetana.

Il commento gentile aveva commosso Gioconda. Soprattutto la tazza di caffè che lo accompagnava. Aveva bevuto ogni sorso sapendo che Polidoro non avrebbe perdonato la presenza delle donne alla stazione, una appiccicata all'altra, a schizzare di fango la cappa di velluto di Caetana, che ormai doveva essere tutta sfilacciata e scolorita.

Diana era irremovibile. E, mostrando di non rinunciare alle proprie convinzioni, non aveva portato a Gioconda nemmeno un bicchier d'acqua che le calmasse la sete provocata da una discussione infruttuosa e senza fine.

Nonostante litigassero, si massaggiavano i capelli con l'olio di ricino. Poi, al momento di sciacquarli, ricorrevano ad artifici che li facessero danzare al vento. Le unghie, che venivano colorando di rosso, rammentavano a Sebastiana i panneggi liturgici del Venerdì Santo, mentre Diana correva allo specchio ovale in corridoio, al secondo piano, che ingigantiva crudelmente i suoi pori affaticati.

– Come siamo invecchiate! Speriamo solo che Caetana non ci squadri come una volta – aveva borbottato Diana, spinta dalla nostalgia di una casa che sfumava all'orizzonte. Tornava sempre amareggiata da quelle escursioni. Poi, per contrastare il tempo, cambiava pettinatura, trucco, si metteva il rimmel come una stella del cinema muto, nel tentativo di recuperare la bellezza di quando andava al circo il pomeriggio a trovare Caetana prima del suo numero.

Quello sforzo aveva impietosito Sebastiana. Anche lei vittima del salasso degli anni, che non c'era verso di fermare, si era tamponata le narici col fazzoletto di cambrì, regalo di Virgílio.

– Ti ricordi le caramelle che mi dava Caetana, quando mi vedeva allarmata per le figure che si agitavano in pista come principi o folletti?

Gioconda l'aveva abbracciata, decisa a interrompere quel flusso di emozioni. Ma Sebastiana, smarrita, si era liberata dalle sue braccia pungenti.

– Non ho mai capito se a Caetana le mie lacrime piacevano o se la facevano soffrire. So soltanto che si metteva a leccarle con cura, e io avevo paura che la sua lingua mi ferisse. E non permetteva a Polidoro di portarsela alla svelta in hotel.

Intenta ad ascoltare, Palmira si era accesa la sigaretta con un fiammifero lungo, di quelli che in futuro avrebbero abbellito il camino che Gioconda aveva promesso di installare nella sala. Accanto al fuoco, d'inverno si sarebbero scaldate le giunture prima di sparire nelle stanze.

Gioconda, alla fine, aveva ceduto. I canini scoperti delle altre donne denunciavano la sua disfatta.

– Polidoro merita di essere contrariato. Č un dittatore – aveva detto Diana, mentre si passava distratta lo smalto sulle unghie.

– Perché, gli uomini non lo sono tutti? – aveva rincarato Palmira, rassegnata.

Sebastiana era ricorsa con rapidità alla storia del Brasile. Grazie a Virgílio, che frequentava il suo letto, poteva citarne alcuni passi con relativa disinvoltura.

– Č sempre stato così, fin dalla scoperta del Brasile. A cominciare dai tre imperatori che vivevano a Petrópolis.

La ribellione domestica prendeva corpo. Gioconda, però, ascoltava le proteste con strana dolcezza. Quelle donne erano la sua famiglia. Sebastiana, poi, la commuoveva più di tutte.

– Stavolta ti sbagli, Sebastiana. Abbiamo avuto due imperatori, e questo è quanto; e dire che Pedro I era uno stallone. Nessun uomo di Trindade gli lega nemmeno le scarpe. Ma a che gli è servito andarsene sui tetti come un gatto in calore se nessuno oggi si ricorda di lui?

Per il pranzo di quel venerdì, Gioconda esagerò coi condimenti. Preparate di fretta, le polpettine, piene d'aglio, pepe e alloro, nausearono le donne.

– Puzzo d'aglio che nessuno oggi vorrà portarmi a letto – protestò Diana.

Non era ancora l'alba e le Tre Grazie già preparavano il dolce con rinnovata speranza. Dopo averlo tirato fuori dal forno, ne avevano decorato i tre strati con cautela, poi lo avevano coperto di chiare raddensate con zucchero e limone sbattuti. E siccome la torta le faceva pensare a un giorno di festa, non facevano che intonare inni liturgici. Soprattutto quelli dedicati alla Vergine e al suo mese, maggio, che era anche il mese delle spose.

– Se non ci fosse Sebastiana, con la sua mania per le date, non ci saremmo ricordate del compleanno di Caetana. Č dei Gemelli, ma sembra del Leone. Una belva africana senza la criniera – aveva detto Palmira, concentrata sulla spatola con cui livellava gli eccessi di glassa sopra al dolce.

– Ha scelto questo giorno apposta. Per metterci alla prova. E vedere se l'abbiamo scordata. – Sebastiana andava fiera di una memoria che, per quanto la facesse soffrire, almeno la teneva legata al passato, sempre migliore del presente.

Sedute a tavola, masticavano senza appetito. Sebastiana non levava gli occhi dalla torta, per il timore che crollasse.

– Chi ha avvisato Polidoro del compleanno, perché comprasse quattro fili di perle coltivate, uno per ogni stagione dell'anno? – sospirò Palmira con aria sognante.

Diana la aggredì.

– Non lo sai che la primavera a Trindade è identica all'estate? E che la brezza di gennaio è la stessa che a luglio ci dice che è arrivato l'inverno?

Gioconda guardò l'orologio.

– Sarà meglio sbrigarci. Laveremo i piatti al ritorno.

La stazione era lontana dal centro e dalla casa. Ci misero un'ora ad arrivare. Per fortuna, non incontrarono nessuno. L'edificio cadeva a pezzi, in uno stato di assoluto abbandono. All'interno, il commissario Narciso, incaricato di fare ordine, consultava con smarrita sofferenza l'orologio da tasca legato alla cintura. Ogni ora lo illudeva che dal telegrafo stessero per arrivare buone notizie, il suo trasferimento nei sobborghi di Rio de Janeiro.

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Il giradischi dello zio Vespasiano aveva percorso quasi mezzo Brasile. Sui suoi ingranaggi invecchiati c'era la polvere delle strade che attraversano il paese. E per quanto Balinho lo pulisse con batuffoli di cotone impregnati di alcol, gli accordi di Wagner, che ora si udivano all'Hotel Palace, non raggiungevano mai la magnificenza voluta. La voce di Isotta, che declamava a un assorto Tristano le incertezze della vita e della morte, arrivava attutita a Caetana, chiusa in camera.

In sala, attento a cambiare i dischi, Balinho disfaceva le valigie, disseminando il pavimento di partiture, stracci, ricordi di viaggio. Nello sforzo di indovinare i segreti di Caetana, ne indirizzava il gusto, imponendole il repertorio più adeguato al suo stato d'animo.

Certe arie potevano trascinarla lontano. Sulle sue retine si scorgeva un paesaggio desolato che soltanto lei sapeva localizzare sulle mappe. Un viaggio da cui escludeva Balinho, incurante del desiderio del ragazzo di seguirla. Ribellandosi a un idillio che comprendeva lei soltanto, Balinho lottava per riportarla indietro.

– Dov'è Trindade? – le aveva chiesto una volta, afflitto.

– In culo al mondo. – Caetana aveva drizzato i seni, che boccheggiavano accelerati. – Dove gli dèi hanno perso gli stivali e non sono voluti tornare a riprenderli. E però noi ci andremo. Solo non so il giorno e l'anno. – E faceva scintille dalle narici tremule.

Balinho alzò il volume del giradischi. Le pesanti tende della sala e i mobili antichi, carichi di cianfrusaglie e vasi da fiori rabberciati che puzzavano di colla, lo annoiavano. Dall'arrivo a Trindade era in cerca di qualcuno che prestasse l'orecchio alle sue storie.

I lamenti di Isotta cessarono senza aver commosso Caetana, rinserrata in camera. L'indifferenza della donna di fronte a quell'epilogo condannava Balinho all'esilio nella lugubre sala. Di testa propria, lustrò il Vissi d'arte con un panno finché non lo ebbe ripulito di ogni bruscolo. Stavolta Caetana avrebbe ceduto agli appelli di Tosca in difesa dell'amante, prossimo a morire per mano del tiranno Scarpia. Lo specchio dell'anima di Caetana, sensibile agli scompigli favoriti dall'arte, sarebbe andato in mille pezzi, mettendone a nudo il cuore frondoso. Un cuore che Balinho tentava ogni giorno di comprare, mentre ne cercava i pezzi per terra.

Il lamento della soprano, rapita dall'intenso esercizio della pietà, suonò convincente sul giradischi zoppo. Anche lo zio Vespasiano, se fosse stato vivo, si sarebbe commosso di tanta disgrazia. Balinho si fregò le mani, soddisfatto di una mossa che si poteva senz'altro dire malevola. Si sentiva un burattinaio della fiera di Caruaru, consapevole della propria misera condizione di ambulante, ma che avesse abbastanza fantasia da condurre, legata alle dita, una Caetana la quale, a volte, lo scudisciava di offese, reprimende e profumi dalla fragranza incerta.

Lo specchio dell'anima di lei, nel frattempo, per qualche insondabile mistero, e contrariando ogni logica, non voleva rompersi. Forse l'arrivo a Trindade aveva compromesso la sensibilità dell'attrice, che adesso si lasciava guidare solamente dal mondo malaticcio dei ricordi.

Aspettò cinque minuti, guardando fisso le lancette dell'orologio. Siccome non succedeva niente, bussò alla porta. Caetana era sempre stata generosa. Solo lei avrebbe potuto parlargli di una città dov'erano arrivati come zingari, i destini chiusi in un povero bagaglio, sperando di alloggiare qualche giorno all'Hotel Palace.

– Entra. – Il grido di Caetana soffocò la straziata supplica di Tosca.

La luce smorta della stanza, con l'unico abat-jour coperto da un velo rosa, non permise a Balinho di localizzarla. Cercando la donna, tastava le pareti.

– Dove posso essere, se non qui!

Seduta alla specchiera, Caetana si sfregava il viso con una spugna. I gesti, rapidi ma accurati, modellavano tratti che non parevano i suoi. La luce era troppo bassa perché le si vedessero i denti d'avorio.

Caetana non sembrava riconoscere la specchiera come parte del proprio passato. Di solito Polidoro, seduto sul letto, rimaneva a guardarla, mentre Caetana si spazzolava i capelli lunghi e neri, aliena al desiderio risvegliato in lui, tanto che l'uomo tremava come un affogato, reprimendo l'impulso di saltarle addosso e aprirle le gambe, perché i movimenti agonizzanti e disumani della donna gli inghiottissero il sesso senza misericordia.

Non era stato facile per Polidoro riportare la specchiera nell'hotel. Gioconda giurava che era sua. Un regalo che Caetana le aveva fatto il giorno prima di partire, sebbene quel mobile, in effetti, appartenesse all'hotel.

– Tu e le Tre Grazie avete organizzato il furto della specchiera. Avete agito alle mie spalle. Fatemi il favore di restituirla.

Gioconda era allibita. La lunga estate amorosa doveva aver rinsecchito gli ultimi brani di carne che Caetana gli aveva lasciato per ricordo.

– Non lo capisci? Caetana soffriva al pensiero di lasciare in un hotel per puttane di lusso e viaggiatori disonesti uno specchio in cui la sua bellezza si era impressa per sempre – aveva argomentato, dandosi infine per vinta.

Balinho inspirò l'aroma di gelsomino e lavanda proveniente dal letto. Caetana non si era ancora stesa fra le lenzuola bianche. Continuava a pettinarsi i capelli senza mostrare fatica, a irrigare il cervello per rinfrescarsi le idee, finché tirò irritata la spazzola sul tappeto.

– A che serve combattere, Balinho? Gli dèi trionfano sempre. Furfanti. Si sono inventati l'esilio perché creassimo l'idea di patria, di saudade. Sapevano prima di me che avrei rimesso piede in questo buco di città. Dove l'unica preoccupazione della gente sono le vacche e il letame.

Balinho cercò di calmarla. Non tollerava i suoi eccessi.

– Senti? – si riferiva alla musica. – Č la Callas.

Sebbene la musica la trasportasse in un territorio da cui tornava rinsaldata, Caetana continuava a imprecare contro chi reggeva le sue sorti.

– All'inizio, adoravo tutti gli dèi. Anche i più insignificanti. Ma poi mi hanno rinnegata. Sono loro che mi hanno abbandonato nelle abiette città di questo paese fottuto. Perché l'hanno fatto? Solo perché lo zio Vespasiano la mattina, insieme al caffè, mi portava una dose sfrenata di sogni?

Per meglio ascoltarla, Balinho avvicinò lo sgabello. Nella vita privata, Caetana usava gli stessi gesti del palco e dell'arena, sempre magniloquenti, in contrasto con le banali battute dei copioni, pensate per un pubblico modesto.

– Come posso permettere che piazzino la tragedia e il fallimento nella mia vita senza chiedermi il permesso? – lo sforzo le seccò la gola. Bevve con avidità l'acqua portatale da Balinho. E, con un gesto esagerato, si strappò il mantello che la copriva. Lo additò a Balinho: ci si accomodasse sopra. Lui cercava di non guardarle la sottoveste, i seni contenuti a stento dal raso ormai logoro.

– Quegli stronzi di dèi affilano le unghie nella mia carne. Ma proprio qui mi vendicherò di loro, a Trindade.

Strinse ansiosa la mano di Balinho. Lui cercò di ritirarla, ma lei non mollava. Per ridurre le misure grandiose del suo cuore, Balinho passò al contrattacco.

– Il giradischi un giorno di questi non ce la farà più. Finirà sepolto sotto al fico, dove Giuda si è impiccato per attirare l'attenzione dei cristiani.

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