Autore Jo˛e Pirjevec
CoautoreGorazd Bajc, Darko Dukovski, Guido Franzinetti, Nevenka Troha
Titolo Foibe
SottotitoloUna storia d'Italia
EdizioneEinaudi, Torino, 2009, Storia 31 , pag. 376, ill., cop.ril.sov., dim. 14,5x22,5x2,8 cm , Isbn 978-88-06-19804-6
TraduttoreLjiljana Avirovic, Monica Rebeschini
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe storia contemporanea d'Italia , storia: Europa , storia criminale , paesi: Slovenia , paesi: Italia: 1940 , citta': Trieste












 

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Indice

 IX  Elenco delle illustrazioni
 XI  Prefazione
XVII Elenco delle abbreviazioni e sigle archivistiche


    Foibe



    JOˇE PIRJEVEC
    Foibe: quali verità?

  3 Viaggio in Dalmazia
  6 La primavera dei popoli: 1848
  9 Österreichisches Küstenland - Litorale austriaco -
    Avstrijsko Primorje
 13 Trieste o Trst?
 15 Il Patto e la Guerra
 16 Il Regno SHS e la Venezia Giulia
 19 Eia! eia! eia! alalà
 26 La guerra di conquista e la Resistenza
 29 Il crollo
 33 Le foibe
 35 Tensioni sociali e scontri etnici
 38 L'anno zero per l'italianità della Venezia Giulia
 41 L'annessione
 45 Operationszone Adriatisches Küstenland
 49 La riesumazione
 56 Le prime denunce
 59 La propaganda nazifascista
 66 Le prime riflessioni
 69 A chi la Venezia Giulia?
 71 L'Istria nel 1944
 74 Trieste e gli sloveni
 78 Gli ultimi mesi di guerra in Friuli e nella Venezia Giulia
 81 Trieste, la città piú fascista d'Italia (Umberto Saba)
 82 I collaborazionisti
 84 La corsa per Trieste
 88 Le rivolte parallelle del 30 aprile
 92 L'arrivo dei neozelandesi
 95 Le matrici della violenza jugoslava:
    «Morte al fascismo — libertà al popolo!»
101 Dies irae nei quaranta giorni
108 «Giú le mani da Trieste!»
110 Basovizza
116 Operazione foibe
125 Brandelli di cadaveri e carogne di cavalli
128 La reazione degli jugoslavi
131 Metri cubi
132 L'esodo
137 La Conferenza di pace e le sue conseguenze
140 Le ricerche dell'ispettore De Giorgi
146 La frattura fra Tito e Stalin e le sue conseguenze
152 Novembre 1954: il ritorno di Trieste all'Italia
155 Materiale di rifiuto
158 Kriegsgräberfürsorge
159 Il mistero della Prazna jama (voragine vuota)
172 Gli anni Sessanta e Settanta
177 La Risiera: il processo
181 Foiba di Basovizza:
    monumento di interesse particolarmente importante
186 La sinistra e le foibe
189 Gli «ultras»
197 Sacrari politici
201 Un passato senza fine
209 Silentes loquimur
216 Un Wiesenthal italiano?
223 La cultura delle «foibe»


    DARKO DUKOVSKI
231 Le foibe istriane 1943



    NEVENKA TROHA
    La questione delle "foibe" negli archivi sloveni e italiani

244 La documentazione negli archivi sloveni e italiani
246 Introduzione
248 Sugli atteggiamenti della popolazione nei confronti
    degli jugoslavi
257 Sull'amministrazione jugoslava
259 Sugli arresti
270 Sulla sorte dei prigionieri italiani
273 Processi ed esecuzioni
279 Su deportazioni ovvero internamenti di arrestati italiani
282 Sui prigionieri di guerra italiani
285 Sui numeri presunti degli uccisi, dei morti e
    dei dispersi italiani
292 Le cause degli arresti, delle deportazioni e delle uccisioni


    GORAZD BAJC
295 Dalle «foibe istriane» del 1943 alla fine della guerra

299 Dopo il 1° maggio 1945
309 Le indagini sulle "foibe"
316 Alcune conclusioni


    GUIDO FRANZINETTI
    Le riscoperte delle «foibe»

319 Riscoprire le foibe dopo la Guerra fredda
328 La riscoperta delle foibe durante la Guerra fredda
331 Conclusioni

333 Bibliografia

365 Indice dei nomi

 

 

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Pagina XI

Prefazione


Fa un certo effetto trovare negli archivi un proprio testo: tale scoperta, oltre alla lusinga di aver scritto qualche riga degna di ricordo, suggerisce necessariamente anche il pensiero meno confortante del fluire del tempo. Quest'esperienza è capitata a me durante la recente ricerca sulle «foibe». Lavorando sui fascicoli raccolti da Galliano Fogar, già direttore e per lunghi anni collaboratore dell'Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, mi sono imbattuto in una lettera da me spedita al giornale «Il Piccolo» e pubblicata da questo con una certa evidenza il 22 maggio 1984. Essa era stata suggerita dalla polemica accesasi a Trieste sulla «tutela globale» della minoranza slovena e dall'affermazione di un lettore che quest'ultima era presente in città da poco piú di cent'anni «grazie alla deliberata azione disgregatrice dell'Austria a danno degli italiani». Nella risposta confutavo tale tesi citando carte medievali che attestavano la presenza entro le sue mura (per non parlare ovviamente dell'immediato circondario) di facoltosi ed eminenti cittadini d'indubbia etnia slovena o comunque slava almeno dall'inizio del XII secolo. Nel passare in rassegna la storia successiva ho toccato anche il problema delle «foibe», definendolo «una realtà dolorosissima che brucia e che a lungo brucerà nella coscienza di noi sloveni». Subito dopo ho allargato però la riflessione al tempo precedente le «foibe», in cui gli sloveni erano definiti dallo stesso presidente del Consiglio italiano (Mussolini) delle cimici da eliminare, e trattati di conseguenza. «Considerati da questa prospettiva», scrissi, «gli orrori del '45 possono essere, forse, se non scusati, almeno collocati nella loro dimensione storica: esecrandi atti di vendetta provocati da altrettanto esecrandi odi e pregiudizi razziali».

A distanza di piú di vent'anni, mi sento di confermare sostanzialmente questo giudizio, pur essendo ora capace di arricchirlo con considerazioni nuove, legate a ragionamenti sulla storia delle regioni adriatiche orientali «di lungo periodo», ma anche sulla miglior conoscenza della costellazione politica creatasi in esse alla fine della seconda guerra mondiale, quando accadde l'inimmaginabile: gli slavi, per secoli considerati con supponente disprezzo dalla locale borghesia di nazionalità o cultura italiana come «s'ciavi», erano diventati padroni, vincitori com'erano, grazie alla Lotta di liberazione. Questo fatto, che di per se stesso imponeva di ridefinire i rapporti di forza e le frontiere con l'Italia, era ulteriormente complicato da un'altra circostanza epocale. A guidare la Resistenza erano stati i comunisti, che vi impressero il proprio radicalismo messianico e il superbo orgoglio dovuto ai successi della guerriglia partigiana, ma ancor piú alla consapevolezza di far parte di quel movimento ideologico che, secondo la dottrina di Marx, Engels, Lenin e Stalin, era destinato a forgiare le sorti dell'umanità. Da quest'intreccio di ambiziose aspirazioni nazionali e granitiche certezze escatologiche nasceva una politica d'intransigenza estrema, poco rispettosa dei diritti e della vita umana, che segnò la presa del potere delle forze comuniste di Tito nella Venezia Giulia come pure nell'intera Jugoslavia. Se il tutto si colloca in uno spazio geografico in cui s'incontravano e si sovrapponevano gli eserciti dell'Est e quelli dell'Ovest - fra i quali bisognava tracciare una linea di demarcazione per segnare i limiti delle sfere d'influenza in un'Europa segnata dai brividi della guerra fredda -, non è difficile comprendere l'esplosiva situazione creatasi nel territorio conteso. Le «foibe» ne sono uno degli aspetti piú tragici ed eloquenti, anche perché contribuirono ad approfondire il solco già esistente fra i popoli vicini, sloveni e croati da una parte, italiani dall'altra.

Il sanguinoso capitolo delle «foibe», legato alla fine della seconda guerra mondiale, che vide «regolamenti di conti» dappertutto in Europa dove s'era manifestata una qualche Resistenza, sarebbe stato da tempo relegato nei libri di storia come una delle vicende minori di quella mattanza mondiale che pretese cinquanta milioni di vite umane. Dato però che si colloca in una realtà mistilingue in cui le opposte idee sulle frontiere «giuste» sono state a lungo in conflitto tra loro, esso è ancor vivo nella memoria collettiva dell'area giuliana e ancora sfruttabile a fini politici interni e internazionali. Sebbene il contenzioso sulle frontiere sia stato risolto attraverso un lungo e articolato processo diplomatico, in cui s'inseriscono il Trattato di Pace di Parigi (1947), il Memorandum di Londra (1954) e gli Accordi di Osimo (1975), esso non si è ancora risolto nelle menti e nei cuori delle popolazioni interessate. Č stato anzi rinfocolato dalla crisi della Jugoslavia negli anni Ottanta e dal suo successivo sfacelo, con l'emergere dalle sue rovine di nuove realtà statali, la Repubblica di Slovenia e quella di Croazia soprattutto. Il contemporaneo crollo del Muro di Berlino e i suoi contraccolpi sulla politica interna italiana, con la scomparsa dei vecchi partiti e l'emergere di nuovi, provocò nella Penisola una crisi d'identità e di coesione nazionale, alla quale le forze di destra e quelle di sinistra pensarono di rispondere facendo ricorso allo strumento piú ovvio e tradizionale: quello del nazionalismo. La vicenda delle «foibe» Si prestava perfettamente allo scopo ed è stata sfruttata appieno. Da problema tipico delle aree piuttosto limitate situate sulla frontiera orientale, essa divenne a partire dagli anni Novanta una questione nazionale grazie a un'azione propagandistica d'indubbia abilità ed efficacia.

Come in ogni operazione di ampio respiro mediatico, i suoi promotori non andavano tanto per il sottile: innestandola sulla preesistente propaganda, le cui radici risalgono al periodo nazifascista dell'Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico - 1943-45), cercarono di presentare le «foibe» come tipica manifestazione della minacciosa «barbarie slava», puntando sul vittimismo e sottolineando l'orrenda sorte degli italiani infoibati «solo in quanto tali». L'operazione si collocava dunque in una visione manichea dei rapporti fra popoli vicini, in cui i torti stavano tutti da una parte e le ragioni dall'altra. Per rendere poi piú efficace il discorso e dare spessore alla tesi secondo la quale nella parte orientale della Venezia Giulia, in Istria e perfino in Dalmazia era stato realizzato un vero e proprio genocidio, si doveva gonfiare il numero delle vittime. Alcune migliaia non potevano bastare. Bisognava affermare che erano dieci, venti, trenta, quarantamila, secondo alcuni, addirittura un milione.

Di fronte a simili asserzioni che ferivano la mia sensibilità di sloveno e di storico, ho sentito l'urgenza di rivisitare gli archivi. A dire la verità per quelli britannici non occorreva, perché li consulto da quarant'anni. Ma c'erano gli archivi americani ancora inesplorati per quanto riguarda la tematica di cui parliamo, quelli italiani, sloveni, croati, serbi, tedeschi e russi, che sembrava opportuno scandagliare per una testimonianza quanto piú precisa possibile sulla vicenda «foibe».

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Pagina 9

Österreichisches Küstenland - Litorale austriaco - Avstrijsko Primorje.

Piú che in Dalmazia, dove secondo il censimento del 1846 gli abitanti di lingua italiana non superavano di molto il numero di 15000 unità (3,72 per cento della popolazione), nel Litorale asburgico la lotta interetnica assunse connotati di estrema asprezza per il diverso e bilanciato rapporto di forze: in Istria ai 134000 e passa croati e a quasi 32000 sloveni si contrapponevano infatti ben 60000 italiani o comunque italofoni (26,31 per cento della popolazione), a Trieste vivevano 44940 italiani (54,72 per cento), 25300 sloveni (31,51 per cento), 8000 tedeschi (9,96 per cento) e 3060 ebrei (3,81 per cento). Nel Goriziano c'erano invece 128462 sloveni (77 per cento), 61489 italiani (32,06 per cento) e 1385 tedeschi (0,72 per cento).

Sebbene in Istria non mancassero contadini, artigiani e pescatori di etnia o lingua italiana, va detto che la classe dei borghesi e dei proprietari terrieri era invece costituita esclusivamente da essi. Nelle cittadine costiere quali Capodistria (Koper), Isola (Izola), Pirano (Piran), Umago (Umag), Cittanova (Novigrad), Parenzo (Porec), Rovigno (Rovinj), Albona (Labin) e alcuni centri maggiori dell'interno o poco lontani dalla costa: Buie (Buje), Montona (Motovun), Pinguente (Buzet), si parlavano perlopiú dialetti di tipo veneziano e ci si sentiva culturalmente italiani. L'articolo 19 delle leggi fondamentali del 1867 riconosceva a ogni etnia dell'Impero asburgico il diritto di conservare e coltivare la propria nazionalità e la propria lingua, pur senza istituire alcun organo statale che ne fosse guardiano. Nei territori mistilingui questa norma progressista significò quindi l'inizio di conflitti politici fra le diverse componenti per assicurarsi il controllo delle diete (parlamenti) regionali e delle assemblee municipali, che ne regolavano l'applicazione. Grazie a un sistema elettorale legato al censo, la borghesia italiana o italianizzata del Litorale riuscí a dominare completamente, fino al crollo della duplice monarchia degli Asburgo, la Dieta di Pisino e di Gorizia e il Comune di Trieste. In questa realtà, in cui i «liberal-nazionali» potevano impunemente violare i piú elementari diritti di buona parte della popolazione, si creò cosí una barriera invalicabile fra italiani e «slavi», croati e sloveni, che accentuava il divario politico e storico-culturale fra le tre etnie. La classe dirigente italiana, cui appartenevano a Trieste anche numerosi ebrei, si sentiva superiore per ricchezza, sviluppo sociale e civile agli s'ciavi (come definiva sprezzantemente croati e sloveni), avvertendone nel contempo la minacciosa presenza. Nel tentativo di difendersene si chiuse a riccio, come se il rifiuto di prender atto delle proprie condizioni reali in una regione mistilingue bastasse a esorcizzare il pericolo. A tale proposito possiamo citare il comportamento della Dieta istriana, che nel 1861, seguendo l'esempio di Venezia, rifiutò di inviare al Consiglio imperiale di Vienna i propri rappresentanti, e poco dopo respinse l'istanza in base alla quale i suoi atti avrebbero dovuto esser pubblicati in italiano e in «slavo»; o la violenta rivolta di Pirano del 1894, per impedire la posa di una tabella bilingue sulla facciata del Tribunale distrettuale; o ancora il comportamento del Comune di Trieste che nel 1898 cercò di proibire l'apposizione di una scritta in sloveno su un monumento funebre nel cimitero di Barcola, sobborgo ancora abitato all'epoca in prevalenza da pescatori «slavi».

Come riferisce Fausta Cialente nel suo romanzo d'ambientazione triestina Le quattro ragazze Wieselberger, nei circoli liberali massonici e irredentisti che dominavano la città nessuno veniva turbato da frasi come «le calate di slavi nel nostro territorio», e nessuno, nemmeno la borghesia ebraica, era impressionato da ragionamenti razzisti contro la parificazione delle etnie pubblicati dal diffuso libello nazionalista «La Coda del Diavolo»:

Io sono modestissimo, sono anzi l'ultimo degli italiani che abitano il Comune, ma Dio buono, vi sfido a parificare, se lo potete, me a un Pischianz o ad un Gherdol purchessia nel territorio! Se è vero che Dio ha segnato con indelebili confini di monti e marine le diverse patrie, esso ha pure segnato le diverse razze con indelebili caratteri cerebrali che si trasmettono di generazione in generazione. E il Governo non potrà mai raggiungere la pacificazione sognata, per quanto s'affatichi d'insultare alla civiltà a beneficio di chi è lontano ancora dall'essere incivilito.

Cacciata dalle diete locali e dalla vita pubblica in generale, almeno da quella controllata dai borghesi italiani, la lingua «slava» - slovena e croata - trovò accoglienza nelle chiese: il clero, appoggiato dal vescovo metropolita di Gorizia e dai suoi suffraganei di Trieste-Capodistria, Parenzo-Pola e Veglia, d'origine prevalentemente slava per tradizione e per scelta dell'imperatore, si dedicò a una vasta opera sociale e culturale, che aveva naturalmente anche aspetti risorgimentali. L'uso tradizionale nella liturgia delle chiese istriane di testi glagolitici, scritti cioè nell'antico slavo ecclesiastico, favorito da parecchi parroci nell'Istria croata nel tardo Ottocento e nel primo Novecento, fu visto ad esempio dalla borghesia italiana come un insulto alla «civiltà latina» e avversato in tutti i modi. A cavallo del secolo, il Litorale divenne pertanto teatro di un vero e proprio «Kulturkampf», di una lotta per il dominio delle anime e delle menti, che vide contrapporsi organizzazioni italiane (quali la Lega nazionale) e sloveno-croate (la Società dei Santi Cirillo e Metodio), impegnate, soprattutto nel contado, a fondare scuole e circoli culturali per attirare nella propria orbita quanti piú giovani possibile.

Nonostante l'impegno dei cosiddetti «preti slavi» - un nome fra tutti, quello di Juraj Dobrila, vescovo di Trieste (1875-82) - in questa lotta gli sloveni e i croati avevano costantemente la peggio, e non solo perché piú deboli economicamente, ma perché l'istruzione pubblica, elementare e media, dipendeva dalle amministrazioni comunali che a Trieste e nelle cittadine istriane impedivano l'apertura di scuole slovene e croate finanziate dall'erario. In tale contesto conflittuale si affermarono cosí due concezioni contrastanti d'identità nazionale: quella italiana, che sottolineava il momento volontaristico, cioè la libera scelta dell'individuo di aderire a una cultura «superiore», e quella slava, basata sul richiamo alle radici della stirpe, nella convinzione che la tanto vantata possibilità di scelta non fosse altro che un paravento delle pretese egemoniche di una borghesia che per conservare il proprio dominio sociale accettava nel proprio seno solo chi fosse disposto a mimetizzarsi rinnegando la propria identità. Per quanto riguarda la prima i suoi stessi fautori erano in realtà cosí poco convinti della propria tesi da favorire con ogni mezzo l'immigrazione dal Regno sabaudo di italiani «purosangue», assumendoli in massa nelle strutture pubbliche da essi controllate. Questo flusso si inserí anch'esso in un eccezionale movimento immigratorio plurisecolare che proveniva soprattutto dall'Istria, dal Friuli, dalla Carniola, dalla Puglia, dalla Grecia, e favori in maniera straordinaria lo sviluppo demografico ed economico di Trieste.

Cosí la popolazione italiana, anche per l'afflusso delle decine di migliaia di «regnicoli», riuscí a rafforzarsi notevolmente, ma si rafforzò anche quella croata e slovena, che dopo l'introduzione del suffragio universale per il parlamento di Vienna nel 1907 era ormai in grado di far meglio valere il proprio peso politico. Il che acuí ulteriormente lo scontro tra le etnie, alimentato dalle rispettive borghesie d'ispirazione liberale cui diedero manforte, nonostante il loro internazionalismo programmatico, anche i socialdemocratici presenti fra il sempre piú numeroso proletariato del Litorale.

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Pagina 14

Quando, scoppiata la prima guerra mondiale, il governo di Roma decise di associarsi nello sforzo bellico alle potenze dell'Intesa, lo fece non tanto per salvare i fratelli «irredenti» dal giogo austriaco, quanto per assicurarsi domini su territori cui pensava di avere diritto quale erede dell'Impero di Giulio Cesare e di quello marinaro di Venezia. Come risulta, per fare un solo esempio, da un discorso di Gabriele D'Annunzio a un gruppo di dalmati che il 7 maggio 1915 gli presentò un libro per attestare l'italianità della loro patria, il conflitto fu considerato dagli interventisti un'occasione per affermare lo status di grande potenza dell'Italia nello spazio danubiano-balcanico. «Non il tedesco dell'Alpe, non lo sloveno del Carso, né il magiaro della Puszta, né il croato che ignora o falsa la storia, né pure il turco che si camuffa da albanese, niuno potrà mai arrestare il ritmo fatale del compimento, il ritmo romano». E la sera del 30 maggio, nel celebrare il voto in favore della guerra, estorto dal re Vittorio Emanuele III al parlamento, il «vate» proclamò alla folla esultante:

Non temiamo il nostro destino ma gli andiamo incontro cantando. La plumbea cappa senile ci opprime; ed ecco, la nostra giovinezza scoppia subitanea come folgore. In ciascuno di noi arde il giovanile spirito dei due Cavalieri gemelli [i Dioscuri] che guardano il Quirinale. Essi scenderanno stanotte ad abbeverare i loro cavalli nel Tevere, sotto l'Aventino, prima di cavalcare verso l'Isonzo che faremo rosso di sangue barbarico.


Il Patto e la Guerra.

Queste velleità imperialistiche avevano trovato puntuale definizione nel Patto segreto di Londra, stipulato, dopo non facili trattative, nell'aprile del 1915 dal governo Salandra-Sonnino con i britannici, russi e francesi, che cedettero sia pur con notevole riluttanza alle richieste territoriali italiane nell'area adriatica. Come già lo Stato maggiore piemontese nel lontano 1845, l'Italia chiedeva come «frontiere naturali» quelle dal Triglav (Tricorno) allo Sneznik (Nevoso) e al Bitoraj a est di Fiume. Le argomentazioni esclusivamente strategiche addotte dal governo di Roma per decidere da che parte schierarsi nella guerra, senza alcun riguardo per il principio etnico, suscitarono repulsione persino in Inghilterra, abituata a ogni cinismo espansionista. Ne è testimone un appunto «privato» che il primo ministro britannico, sir Herbert Henry Asquith, inviò all'amica Venetia Stanley nei giorni conclusivi delle trattative:

Il gabinetto [...] è stato impegnato nella discussione, come acquistare a basso prezzo l'immediato intervento di quella potenza voracissima, sfuggente e perfida che è l'Italia. Essa sta aprendo la sua bocca piuttosto ampiamente, soprattutto sulla costa dalmata, e noi non dobbiamo permetterle di bloccare l'accesso dei serbi al mare. Ma, a parte ciò, vale la pena di comprarla: anche se io rimarrò sempre dell'opinione che sulla grande scena essa ha interpretato uno dei ruoli piú sporchi e meschini.

Nonostante considerazioni di questo tenore, col Patto di Londra l'Italia ottenne - almeno a livello di promessa - una frontiera strategicamente assai favorevole sulle Alpi tirolesi, giulie e orientali, assieme a Trieste, l'Istria, la parte centrale della Dalmazia e un'enclave in Albania che le avrebbero garantito il dominio economico e militare dell'Adriatico; se a ciò si aggiungono il Dodecaneso e Rodi greci, nonché promesse di altri acquisti territoriali in Turchia, non era difficile immaginare che in caso di vittoria sull'Austria-Ungheria, alleata di ieri, Roma avrebbe potuto affermarsi come potenza egemone nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. A detta di Antonio Salandra, il Patto di Londra era stato l'atto autonomo piú importante della politica italiana dopo il Risorgimento, poiché permetteva all'Italia di «ripristinare» sulle Alpi una frontiera perduta da quindici secoli e di «riconquistare» la signoria sul mare che era stato dominio di Venezia.

Per raggiungere questo scopo l'Italia s'impegnò negli anni successivi in un conflitto sanguinoso, avvertito dalle popolazioni slovene e croate come una guerra di conquista cui opporsi a oltranza non tanto per fedeltà verso la dinastia asburgica (ormai piuttosto impopolare), quanto in difesa del proprio territorio etnico. Ciò contribuí alla lunga tenuta dell'esercito imperiale, che nell'ottobre 1917 con la vittoria di Kobarid (ovvero Caporetto, come gli italiani avevano chiamato questa cittadina nella valle dell'Isonzo) celebrò l'ultimo momento di gloria della sua storia plurisecolare. L'Italia, respinta fino al Piave, poté occupare con le sue truppe i territori di cui rivendicava il possesso soltanto dopo il crollo dell'Austria-Ungheria a guerra finita, il che indebolí indubbiamente il suo peso decisionale alla Conferenza di pace di Parigi; va detto inoltre che a causa della rivoluzione russa e dell'intervento degli Stati Uniti nel conflitto a fianco dell'Intesa, lo scenario internazionale nel 1918 era notevolmente mutato rispetto a quello del 1915: questi avvenimenti avevano imposto infatti un riesame dei fini della guerra, come risulta eloquentemente dai 14 punti del presidente USA Woodrow Wilson, di cui i piú innovativi e insieme i piú contrari agli interessi italiani erano quello che rifiutava il valore di ogni patto segreto concluso durante il conflitto (come il Patto di Londra), e quello che reclamava il diritto all'autodeterminazione per i popoli soggetti all'Austria-Ungheria.

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Pagina 21

Il Trattato di Rapallo fu il risultato di un compromesso raggiunto dal ministro degli Esteri italiano, conte Sforza, con i suoi interlocutori di Belgrado, nella convinzione che all'Italia convenisse avere sull'Adriatico un vicino interessato a far fronte comune contro la minaccia di una restaurazione asburgica a Vienna o a Budapest e contro il probabile riproporsi della spinta germanica verso il Sud. Il governo di Roma rinunciava con esso alle sue pretese territoriali sulla Dalmazia (a eccezione dell'enclave di Zara, nonché delle isole di Cherso, Lussino e Lagosta), a ciò indotto anche dall'esiguità della minoranza italiana in quella provincia e dalla consapevolezza che essa non era difendibile da un punto di vista strategico; annetteva però al suo territorio l'intera contea di Gorizia e Gradisca, la città e l'entroterra di Trieste, il Sud-Est della Carniola e l'Istria aggiungendovi piú tardi, nel 1924, anche la città libera di Fiume. Vennero cosí a passare sotto la sovranità di Vittorio Emanuele III circa 300000 sloveni e piú di 170000 croati, nei confronti dei quali lo Stato italiano non aveva assunto nessun impegno formale di tutela, limitandosi a promesse di buon trattamento, confortate dal richiamo alla propria «bimillenaria civiltà»: mera retorica, non certo sufficiente a mascherare una realtà deludente, anche per le minori capacità della burocrazia italiana rispetto a quella austriaca nella gestione della cosa pubblica. Pure dal punto di vista dei «redenti», afferma Diego de Castro, «l'Italia non si dimostrò quel paradiso che credevamo fosse, prima del 1918». Si aggiunga che le violenze contro la popolazione slovena e croata, tollerate e praticate già dai governi liberali e dai loro rappresentanti nelle nuove province, si accentuarono ulteriormente con l'avvento al potere del fascismo. Esso, del resto, aveva già dato prova di sé a Trieste e a Pola quando, nel luglio 1920, i centri culturali sloveno e croato delle due città erano stati incendiati quale rappresaglia per gli incidenti scoppiati a Spalato fra la popolazione e alcuni marinai italiani.

In realtà, per dirla con Carlo Schiffrer, si trattò piú che di vendetta di un atto di sabotaggio, organizzato dai circoli irredentisti e nazionalisti nel tentativo di minare la possibilità di un accordo fra Belgrado e Roma relativo all'irrisolta questione delle frontiere. In quest'impresa essi poterono contare sulla connivenza piú o meno aperta delle autorità civili e militari, che non fecero nulla per impedire la violenza annunciata; al contrario, com'è testimoniato da documenti recentemente scoperti, collaborarono perfino a fomentare i disordini. Mentre il Narodni dom (Casa della nazione) di Trieste bruciava (13 luglio 1920), i soldati che avevano occupato i dintorni dell'edificio già da ore permisero infatti l'apertura del portone d'ingresso solo all'ultimo momento prima che gli ospiti dell'albergo Balkan, situato nel palazzo, fossero arsi dalle fiamme e soffocati dal fumo. Il rogo di Trieste, accompagnato da una catena di altre violenze, che si estesero a macchia d'olio all'intera Venezia Giulia, fu per l'Italia, come scrisse Renzo de Felice «il vero battesimo dello squadrismo organizzato». I nazionalisti locali lo considerarono un atto dovuto per liberare la città - proclamata la «secondogenita» del fascismo dopo Milano - da una presenza immonda. Vent'anni piú tardi nel commemorare quella distruzione, il direttore de «Il Piccolo», Chino Alessi, scriveva: «Le grandi fiamme del Balkan purificarono finalmente Trieste, purificarono l'anima di tutti noi». Di fronte a tanta delittuosa stupidità, per citare Giani Stuparich che nei suoi ricordi narra dell'incendio cui aveva assistito, il suo giudizio è calzante: «Il risentimento, l'odio degli slavi, suscitato e alimentato dal fascismo, doveva rovesciarsi o presto o tardi sull'intera nazione italiana, come difatti è avvenuto».

Nei mesi e negli anni successivi alla marcia su Roma le autorità, con la connivenza delle squadre fasciste, chiusero progressivamente le scuole croate e slovene, eliminarono dalla vita pubblica le due lingue, italianizzarono circa 1500 toponimi e, in seguito al decreto regio del 7 aprile 1927, oltre 50000 cognomi. In questo modo ne veniva «ripristinata» - sostenevano - l'antica forma italiana che sarebbe stata alterata dai preti slavi o italiani slavofili durante la dominazione austriaca. Esse ordinarono inoltre la chiusura di tutte le società culturali, dei giornali e degli istituti finanziari degli sloveni e dei croati, e ne abolirono i partiti politici. Fu cosí attuato il programma annunciato da Mussolini durante una visita a Pola nel settembre 1920 prima ancora che diventasse il «Duce»: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del Bastone. I confini della Patria devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche. Io credo che si possono piú facilmente sacrificare 500000 sloveni e croati barbari a 50000 italiani». A mo' di consolazione, il ministro dell'Istruzione pubblica Antonino Anile diceva arrogantemente all'onorevole Josip Wilfan, rappresentate degli sloveni e dei croati al parlamento di Roma: «Siete condannati a una cultura superiore, non al male dunque, ma al bene, e perciò arrendetevi». Piú esplicito e brutale era un editoriale del «Popolo di Trieste» che in risposta alle lamentele del giornale sloveno «Edinost» sulle violenze fasciste pubblicò il 4 febbraio 1921 questo avvertimento:

Ora diciamo due parole chiare. Premettiamo che queste sono le prime e le ultime a tale riguardo; perché non vogliamo perderci in discussioni con tale razzamaglia. I beccamorti dell'«Edinost» tengano ben presente che raccoglieranno presto i frutti del loro eccitamento alla rivolta. Ci infischiamo dei loro piagnistei e delle loro velleità storiche. La storia è viva e palpante sulle cime di tutti i bianchi campanili della Venezia Giulia; e vi è un'altra storia piú recente e piú importante: quella che abbiamo scritto noi col piú generoso sangue. Per quattro porcari che da due anni stiamo sfamando, abbiamo sepolto il fiore della nostra gente, in numero di oltre cinquecentomila. Stieno buonini gli slavi. Noi siamo disposti a non accorgerci che simili insetti vivano in mezzo a noi, a patto che gli insetti restino a muffire nell'ombra. Altrimenti mediteranno amaramente sulle conseguenze...

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La guerra di conquista e la Resistenza.

Il Patto Ciano-Stojadinovic (25 marzo 1937) fu solo un intermezzo: quando infatti, nella primavera del 1941, Hitler decise di attaccare la Jugoslavia, l'Italia fu al suo fianco per partecipare alla spartizione di una facile preda. Il Regno dei Karadjordjevic, minato da contraddizioni e conflittualità interne, fu infatti in grado di offrire agli eserciti invasori una resistenza solo simbolica, capitolando appena dieci giorni dopo quel fatidico 6 aprile 1941 in cui le sue frontiere erano state violate senza nemmeno dichiarazione di guerra; in seguito venne diviso tra i vincitori secondo i loro appetiti e interessi, ma anche secondo il loro peso nei rispettivi rapporti.

L'Italia ottenne finalmente quel che le era stato promesso con il Patto di Londra, cioè la Dalmazia centrale con le città di Sebenico (Sibenik), Traú (Trogir) e Spalato (Split), le isole che fiancheggiano la costa e la regione di Cattaro (Kotor). Annesse inoltre come «Provincia di Lubiana», la parte meridionale della Slovenia di allora, estendendo il suo protettorato anche al Montenegro e, almeno nelle intenzioni, allo Stato indipendente croato (dove aveva preso il potere Ante Pavelic con i suoi ustascia). Sebbene con tali acquisti si fosse garantita il dominio sull'Adriatico, non poteva comunque illudersi di aver pienamente realizzato il piano che era stato alla base della sua politica estera negli ultimi lustri, cioè quello di dominare i Balcani quale potenza egemone: al contrario, fu costretta a fare i conti con la Germania, che si era invece assicurata nel territorio dell'ex Jugoslavia le comunicazioni strategiche e le regioni piú ricche. Ben presto inoltre divenne evidente che Pavelic, nonostante i suoi molti debiti di gratitudine nei confronti di Mussolini, era sempre piú succube di Hitler, lasciando scivolare lo Stato indipendente croato (di cui faceva parte anche la Bosnia-Erzegovina) nell'orbita del Terzo Reich. Da ciò una serie di attriti diplomatico-militari fra Roma e Berlino che sarebbero durati fino alla capitolazione dell'Italia dimostrandone sempre piú chiaramente la fatale debolezza nei confronti dell'alleato germanico.

Tale debolezza (che era anche di organizzazione e controllo del territorio) fu avvertita pure dalle popolazioni slovene e croate soggette. Non a caso la Resistenza, quando nell'estate 1941 cominciò a svilupparsi sotto la guida del Partito comunista jugoslavo (PCJ), prese piede proprio nelle zone d'occupazione italiana per estendersi, nei mesi successivi, anche all'interno dell'ex frontiera di Rapallo, cioè nell'Istria e nel resto della Venezia Giulia. Di fronte a questa rivolta che le coglieva impreparate, le autorità militari e civili italiane reagirono cercandosi alleati locali, e rispondendo con una serie di operazioni belliche contro i «banditi» e di spietate rappresaglie contro la popolazione civile che li sosteneva. Nella Provincia di Lubiana, in Dalmazia e nel Montenegro decisero cosí di formare o appoggiare delle unità anticomuniste, costituite da milizie volontarie slovene e dai «cetnici» serbi, impegnandosi con la loro assistenza in una lotta senza esclusione di colpi contro la guerriglia partigiana. Il generale Mario Roatta, comandante della 2a armata in Slovenia e Croazia (Supersloda), aveva diramato nel marzo del 1942 la propria circolare 3C con le seguenti istruzioni: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensí da quella testa per dente». Di conseguenza si ebbero arresti in massa, deportazioni e fucilazioni di migliaia di ostaggi in Dalmazia, alle Bocche di Cattaro, nel Montenegro e nella Provincia di Lubiana. Durante i ventinove mesi di occupazione solo in quest'ultima su 340000 abitanti 25000 persone furono internate e 13000 uccise. Un cittadino su cinque fini in carcere, il 3,8 per cento della popolazione venne assassinata.

Il terrore scatenato fra il maggio e il dicembre 1942 è eloquentemente testimoniato dal diario del curato militare don Pietro Brignoli, intitolato Santa Messa per i miei fucilati: «Dicono che donne e bambini e vecchi a frotte, o rinvenuti nei boschi o presentatisi alle nostre linee costretti dalla fame e dal maltempo, sono stati intruppati e avviati (tra pianti e pianti e pianti) ai campi di concentramento». E il generale Taddeo Orlando, comandante delle truppe impegnate nell'operazione, cosí disse agli ufficiali della divisione Granatieri di Sardegna: «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l'onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta». A tal fine furono organizzati numerosi campi di concentramento dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale (Gonars, Visco, Chiesa-nuova, Cairo Montenotte, Monigo, Fraschette di Alatri) per deportarvi la popolazione civile. Il piú famigerato fu quello sull'isola d'Arbe (Rab), dove, tra il 1942-43 furono internate 5000 persone. Di queste persero la vita per fame, stenti, maltrattamenti e malattie 1500 circa, tra cui molte donne e bambini. Tuttavia, ogni sforzo per contenere e soffocare la rivolta fu vano, come si evince, fra l'altro, da un rapporto del generale Gambara dell'8 agosto 1943, a poche settimane dalla caduta di Mussolini:

Il sensibile aggravarsi della situazione - situazione generale che ha notevoli ripercussioni nel campo ribelle, afflusso di formazioni croate a rinforzo di quelle slovene, notevole miglioramento nell'armamento e nello spirito aggressivo delle bande partigiane in genere - richiede una instancabile attività operativa che nel suo complesso riduce sensibilmente l'efficienza dei reparti operanti (stanchezza delle truppe, perdite in combattimento, per malattie ecc.).


Il crollo.

Esattamente un mese piú tardi, l'8 settembre 1943, con la proclamazione dell'armistizio con gli angloamericani, firmato a Cassibile dal «governo tecnico» di Badoglio, l'esercito italiano, stretto nella morsa delle forze partigiane e tedesche, sarebbe crollato. Nella Venezia Giulia si disfece con esso anche l'apparato statale, creando un vuoto di potere simile a quello di vent'anni prima per la dissoluzione della monarchia asburgica. Di fronte all'incalzare delle unità tedesche i soldati italiani avevano poche possibilità di scelta: o collaboravano coi tedeschi per non finire nei loro campi di prigionia, o si associavano ai partigiani, oppure cercavano di tornare a casa arrangiandosi ognuno per conto proprio. Appunto in quest'atmosfera di sbandamento generale, nei rapporti tra gli italiani e la popolazione slovena e croata si creò, dopo decenni di violento conflitto, un primo momento di solidarietà umana. Ne furono partecipi oltre a coloro che si arruolavano nelle brigate Garibaldi per continuare la lotta insieme con le forze di Tito, le migliaia di giovani che furono aiutati dalla gente del luogo, soprattutto dalle madri di partigiani, con abiti dei propri figli e cibo per tornarsene alla chetichella in Italia. «Da questo lato sono stati molto bravi, anzi troppo bravi, inquantoché molti fascisti, poliziotti poterono rientrare nel paese, con tutta calma, specie quelli che erano nell'esercito fascista». Cosí sta scritto in un «Rapporto», inviato a Georgi Dimitrov, l'ex segretario generale del Comintern, «sulle relazioni fra il PCI e il PCJ e Sloveno sul problema del Litorale». Ed ecco la testimonianza del colonello Dino Di Ianni, capo di Stato maggiore del 23° corpo d'armata: «Una marea di sbandati della 2a armata si riversarono attraverso il territorio del 23° corpo. I ribelli e le popolazioni slave inconciliabili nemici di ieri e di domani, furono larghissimi di aiuti di ogni genere a favore dei fuggiaschi: ospitalità, vitto, indumenti civili, indicazioni di itinerari piú sicuri ecc.».

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Con la guerra s'erano inoltre inasprite le misure di controllo poliziesco e militare, con esecuzioni collettive, distruzioni di villaggi, deportazioni di civili compresi vecchi, donne e bambini in vari campi di concentramento e centinaia di arresti fra le maestranze operaie dei centri industriali. Se è vero che nella penisola i fascisti militanti erano relativamente pochi, è anche vero che il regime aveva goduto a lungo di grande popolarità e connivenza fra la piccola e media borghesia locale, irrobustita, come detto, dopo il 1918 da circa 50000 immigrati, per cui non era sempre facile distinguere gli uni dall'altra. Il fascismo istriano fu se possibile ancora piú virulento di quello triestino, com'è testimoniato dal fatto che organizzazioni politiche croate e il giornale «Istarska rijec» (Parola istriana) per sopravvivere fino al 1928, quando il regime proibí la stampa e ogni associazione slava, dovettero cercare precario rifugio presso gli sloveni nel capoluogo della regione. A tutto questo si aggiungeva il lavoro segreto della Polizia Politica fascista, in particolare dell'OVRA, con agenti, informatori e delatori che spesso approfittavano della loro posizione per regolare con la violenza di regime conti e screzi privati, in una terra non aliena da drammatiche faide. Da questo terrore, da queste frustrazioni e odi ebbe origine una serie di vendette, alcune di carattere privato, che colpirono sicuramente anche degli innocenti, e che assunsero talvolta aspetti orribili conducendo alla sepoltura sbrigativa dei corpi nelle cavità carsiche dette «foibe».


Le foibe.

Questo termine dialettale, che proviene dal latino «fovea» (fossa), non è registrato da Niccolò Tommaseo nel suo Dizionario della Lingua italiana e non è usato nemmeno da Luigi Vittorio Bertarelli ed Eugenio Boegan, autori di un'opera fondamentale sul Carso e le sue 2000 grotte. Si tratta di voragini naturali, utilizzate spesso per gettarvi rifiuti di ogni genere, carogne di animali, ma a volte anche per occultare qualche delitto o commettere suicidio. Durante la seconda guerra mondiale alcune di esse vennero usate come fosse comuni già pronte in un terreno che per la sua natura rocciosa è difficile da scavare. «Foiba» è il nome di un torrente di Pisino che scompare in una spettacolare voragine naturale del luogo, scelta da Jules Verne per ambientarvi un suo romanzo d'avventure (Mattia Sandorf). Nel senso «moderno» lo troviamo adoperato da Giovanni Bennati, un prete nativo di Pirano, vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, prolifico poeta, cui vanno ascritti anche questi versi «scherzosi»: «Se Muja ga dei squeri, Albona ga el carbon, Che per brusar le birbe El pol venir in bon. A Pola xe la rena, La foiba ga Pisin, Per butar zo in quel fondo Chi ga zerto morbin». Essi furono ripresi, in maniera trucemente ben diversa, da Giuseppe Cobol, il quale era diventato da fanatico irredentista fanatico fascista, assumendo con vezzo dannunziano lo pseudonimo di «Giulio Italico». La sua metamorfosi non finí qui: man mano che faceva carriera nei ranghi del partito fino ad assurgere ai fasti di segretario del Fascio di Trieste e di ministro dei Lavori pubblici, egli pensò bene di italianizzarsi ulteriormente assumendo un cognome dal suono aristocratico: Cobolli Gigli. Ancora da semplice Cobol, pubblicò nel 1919 un opuscolo, intitolato Guida di Trieste (la fedele di Roma) e l'Istria (nobilissima), in cui, nel rivendicare l'italianità dell'Istria, citava la «musa» locale, per indicare quale sarebbe stata la fine violenta e la sepoltura «per chi nella provincia minaccia con audaci pretese la caratteristica nazionale dell'Istria»: «A Pola xe l'Arena | la foiba xe a Pisin | che i buta zo in quel fondo | chi ga un zerto morbin | E chi con zerte storie | tra i pié ne vegnerà | diseghe ciaro e tondo: | 'feve piú in là, piú in là'».

Nonostante la grazia del dialetto veneto il messaggio è chiaro e brutale: nell'Istria nobilissima non c'è posto per gli «s'ciavi»; se non lo capiranno con le buone, lo capiranno con le cattive. «Infoiberemo tutti quelli che non parlano di Dante la favella», scrisse già da ministro «Giulio Italico» sulla rivista «Gerarchia» nel 1927. E aggiunse che le foibe erano «quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali del luogo». Nello stesso periodo il termine «foiba» apparve anche in una poesiola scolastica, come pure, alcuni anni piú tardi, in un nuovo opuscolo di Cobol, intitolato Guida descrittiva di Trieste e dell'Istria.

Non sappiamo se durante il Ventennio i fascisti abbiano effettivamente gettato qualcuno nelle foibe per seppellirlo sbrigativamente; sappiamo però che ciò successe alla vigilia della guerra. Raffaello Camerini, triestino, che nel 1940, ottenuta la licenza scientifica, era stato costretto come ebreo al lavoro coatto nelle cave di bauxite vicino ad Albona, racconta:

Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile. La crudeltà dei fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano, o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con altro, italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove c'erano delle foibe, e lí, dopo un colpo di pistola alla nuca, li gettavano nel baratro.

Per quanto tutti fossero a conoscenza di ciò che succedeva, sembra che nessuno se ne preoccupasse.

Gettare gente nelle foibe offri anche lo spunto per coniare nuovi versi adattati a una celebre canzonetta dell'epoca. A Trieste la cantavano i miliziani della X MAS stazionati nel sobborgo di Gretta: «Vieni, c'è una foiba nell'Istria, | là vicin Capodistria | preparada per ti... ». La barriera psicologica fra i «cappelli» e i «berretti», per dirla col Tommaseo, era ormai tale da non offrire spazio a considerazioni di umana pietà, essendo gli s'ciavi considerati non solo alloglotti e allogeni, ma alieni. Č significativa la testimonianza che ne dà Guido Miglia (già Miljavac), scrittore, fondatore e direttore dell'«Arena di Pola»:

La venezianità, l'italianità delle coste istriane e dalmate è stato un fatto coloniale. Al popolo slavo, manovalanza utile alla Serenissima, non è mai stata riconosciuta dignità di interlocutore. Da allora siamo arrivati ai nostri, ai miei giorni. A quegli anni Quaranta in cui gli italiani dell'Istria non sapevano praticamente nulla delle comunità croate e slovene che vivevano a pochi chilometri di distanza.

E per completare il quadro, ecco la testimonianza di Diego de Castro: «In Istria [...] i proprietari terrieri italiani non conoscevano una sola parola di slavo - e si sarebbero ben guardati di usarla se l'avessero conosciuta... ».

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Trieste, la città piú fascista d'Italia (Umberto Saba).

A Trieste intanto spadroneggiavano ancora i tedeschi, anche coll'appoggio della maggioranza della borghesia locale, piú che disposta a collaborare, com'è testimoniato dal fatto che fu la Camera degli industriali a proporre come prefetto Bruno Coceani (già Coceancig, recte Kocjancic) e come podestà l'avvocato Cesare Pagnini. Ma non si trattava solo della Trieste «bene», decisa a cercare protezione sotto la svastica per difendere i propri interessi. Anche molta della gente minuta fece la sua parte, come sappiamo dalla testimonianza degli stessi capi della Gestapo che manifestarono «sorpresa» per la grande quantità di delazioni anonime - le piú numerose fra le città occupate in Europa - su cui potevano contare. Per non dire del Fascio locale che, secondo la confessione del podestà Pagnini, «per tutta la durata dell'occupazione fece funzionare il proprio ufficio politico quale fucina di denunce firmate ed ufficiali oppure anonime alle SS». (Sufficienti per la deportazione in Germania o l'incenerimento nel forno crematorio della Risiera).

La Risiera era una vecchia fabbrica in disuso per la pilatura del riso, sita nel sobborgo di San Sabba, che i tedeschi trasformarono inizialmente in centro di transito per gli ebrei rastrellati e destinati a Auschwitz e altri lager di sterminio. Data la presenza di forti unità partigiane nel Litorale e in Istria, essa si trasformò ben presto in un vero e proprio campo di concentramento, in cui furono uccise come minimo 2000 persone, fucilate, gassate o eliminate perlopiú con una mazza di ferro, e poi bruciate nel forno crematorio: ostaggi civili, fra cui vecchi, donne e ragazzi, partigiani, politici e renitenti alle leve naziste, in massima parte sloveni e croati.


I collaborazionisti.

Il «Führungsstab für Bandenbekämpfung» (Comando per la guerra antipartigiana) delle SS e della Polizia tedesca poteva contare sulle numerose forze armate collaborazioniste, alcune ereditate dal vecchio regime, altre di nuova istituzione. Tutte al servizio di Reich e di Hitler, cui era previsto prestassero giuramento: la Milizia difesa territoriale (una speciale Landwehr) di cui facevano parte cinque reggimenti della Guardia nazionale repubblicana oltre al battaglione di volontari «Mussolini» e formazioni slovene, la X MAS, la Polizia Economica (Wirtschaftspolizei), la Guardia di Finanza, la Guardia Civica, una Compagnia speciale di ordine pubblico e soprattutto l'Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia. Quest'ultimo era stato istituito nell'aprile 1942 dal ministero degli Interni per combattere gli oppositori del regime legati alla Resistenza, distinguendosi subito per la brutalità dei suoi metodi. La sua sede di via Bellosguardo, nota come «Villa Triste», fu teatro di feroci maltrattamenti e torture, che spinsero lo stesso vescovo Santin a rivolgere nel 1943 un'accorata protesta a Roma («ci sono particolari che fanno inorridire») per far cessare le vessazioni. Essa però non servi a nulla. Le reti e le centrali di spionaggio tedesche si intrecciarono inoltre con quelle fasciste e collaborazioniste coprendo capillarmente tutta la regione. I comandi tedeschi impiegarono direttamente queste forze e istituzioni italiane in rastrellamenti, arresti, torture, esecuzioni, rappresaglie, razzie e attività di spionaggio sotto il Comando SS di Globocnik e la direzione politica di Rainer.

In questo senso il caso dell'Ispettorato speciale di pubblica sicurezza è emblematico. Giunti i tedeschi, dopo l'armistizio dell'8 settembre, tale struttura fu sciolta per essere ben presto ricostruita con gli stessi dirigenti di prima. A comandarla fu chiamato l'ispettore generale Giuseppe Gueli, già sorvegliante di Mussolini sul Gran Sasso, coadiuvato da un giovane e ambizioso vicecommissario siciliano, Gaetano Collotti, appena ventottenne. L'ispettorato, trasferitosi in via Cologna, dipendeva formalmente dal ministero dell'Interno della Repubblica di Salò, ma era posto sotto il controllo delle SS di Trieste, cioè di Globocnik. Fra i suoi uomini, 400 in tutto tra effettivi e ausiliari, divenne famoso per le sue sadiche efferatezze un nucleo di 35 agenti detti della «banda Collotti». Con metodi di estrema crudeltà essi s'impegnarono, spesso in collaborazione con elementi della X MAS, nella lotta ai «banditi», convinti, per citare un rapporto di Gueli del gennaio 1945, che servendo il padrone germanico stessero difendendo Trieste, «cuore pulsante dell'italianissima Venezia Giulia», per impedire che diventasse una città balcanica. Filosofeggiava l'ispettore generale nel proporre un premio speciale per la squadra diretta dal vicecommissario dottor Collotti:

Ogni rivolgimento politico e lo stato di guerra, specialmente, porta con sé una recrudescenza della criminalità vera e propria. Non vi è dubbio che maggiore recrudescenza si dà nell'attuale gigantesco conflitto che accanto agli eserciti della trincea, ha spinto sulle barricate delle piazze, in una dolorosa lotta fratricida, fazioni politiche e tendenze opposte. E dove piú che in questa italianissima città, ove l'odio secolare della razza slava vorrebbe avere il sopravvento per cancellarvi ogni traccia dell'Italia e di Roma e mettere gli eserciti vincitori di fronte al fatto compiuto della occupazione?.

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Le matrici della violenza jugoslava: «Morte al fascismo - libertà al popolo!»

Tito ben sapeva di che parlasse. Come risulta dai testi di Lenin che, per opportunità politica, non hanno mai visto la luce nell'URSS e sono stati pubblicati solo recentemente per i tipi della Yale University Press, il protagonista della rivoluzione russa emanò l'11 agosto 1918 la seguente direttiva: «Impiccate (impiccate senz'altro, affinché la gente veda) non meno di cento kulaki noti, gente sadica, sanguisughe [...] Fatelo in maniera tale, che per centinaia di chilometri intorno la gente veda, tremi, sappia, [...]: essi strangolano e strangoleranno a morte i kulaki, succhiatori di sangue». Questa condanna a morte di persone colpevoli solo di appartenere a un determinato ceto (peraltro indefinito) aveva nei propositi di Lenin un duplice scopo: colpire i veri o potenziali nemici della rivoluzione e incutere alle masse popolari, per meglio dominarle, un sacrosanto timore nei confronti del nuovo potere. La lezione fu appresa assai bene da Stalin, e cosí pure dai comunisti jugoslavi, allevati alla dottrina bolscevica nelle scuole di Mosca. Come tutti i neofiti, essi tendevano addirittura a esagerare, applicando la tattica del terrore anche nei momenti meno opportuni: mentre Stalin, quando l'Unione sovietica fu attaccata dalla Wehrmacht, cercò il consenso popolare per organizzare la piú efficace resistenza possibile, mettendo da parte temporaneamente l'ortodossia ideologica, Tito e i suoi, nel periodo stesso in cui prendevano le armi contro le forze d'occupazione tedesche, italiane, ungheresi e bulgare, decisero di realizzare anche la rivoluzione comunista; e dato che, secondo l'esempio russo, doveva esserne parte integrante un'offensiva spietata contri i «kulaki» e la borghesia, nel loro fanatismo non esitarono a scatenarla assieme alle ritorsioni contro i collaborazionisti.

La fase conclusiva della guerra in Jugoslavia era stata segnata perciò da purghe, compiute o avallate dalle forze di Tito nelle città e nelle regioni strappate al nemico. Nell'ottobre 1944, quando l'Armata Rossa con il concorso dell'Armata jugoslava liberò la Serbia fu messo immediatamente in moto un meccanismo repressivo che ebbe per oggetto la minoranza tedesca del Banato, come pure i collaborazionisti e gli oppositori serbi al nuovo regime. Durante la guerra, i tedeschi che da secoli vivevano nelle ricche pianure danubiane s'erano schierati in gran parte con le forze d'occupazione naziste, arruolandosi nella Wehrmacht e nelle SS, e comportandosi nelle aree d'insediamento da padroni assoluti. Nei loro confronti Tito segui pedissequamente la politica attuata nello stesso periodo da Stalin contro i tartari della Crimea, i tedeschi del Volga e i ceceni (rei di aver collaborato con le unità del Terzo Reich). Come costoro, anche i tedeschi del Banato - almeno quelli che non riuscirono a fuggire con le truppe germaniche - vennero rinchiusi nei campi di concentramento, ammazzati per vendetta dalla popolazione serba, oppure evacuati in Siberia, da dove pochi tornarono. Si trattò di un vero e proprio pogrom che coinvolse almeno 200000 persone (di cui 69000 furono trucidate), modificando sostanzialmente la struttura etnica dell'area interessata. Sorte analoga toccò agli ungheresi della Vojvodina e della Slavonia, rei di aver appoggiato il regime fascista dell'ammiraglio Horthy. Alla «purga dell'elemento straniero» si affiancò, dopo la conquista di Belgrado, la purga di quello indigeno. Le truppe partigiane entrarono nella capitale con l'ordine di fucilare sul posto tutti i collaborazionisti. Č chiaro che non guardavano tanto per il sottile, essendo fin troppo facile affibbiare quest'etichetta agli esponenti della borghesia locale, per sbarazzarsi di un elemento sicuramente ostile al nuovo regime. Nei primi giorni dopo la liberazione, Belgrado fu cosí investita da una nuova ondata di terrore, dopo quella dell'occupazione, che aveva anche aspetti propedeutici (per far capire alla gente chi fosse il nuovo padrone), e che, secondo alcune testimonianze, costò la vita a 3500 persone. Terribile fu anche la resa dei conti nel Montenegro, dove, per quanto sembri paradossale, ci fu il maggior numero di vittime, rispetto a quello relativamente esiguo della popolazione. All'inizio del 1945, anche il Kosovo, a sua volta liberato dall'Armata jugoslava, fu teatro di terribili violenze, causate dall'opposizione degli albanesi al ritorno sotto il dominio di Belgrado. In 30000 essi cercarono di resistere in armi alle forze titoiste, ma la loro rivolta, bollata subito come «controrivoluzionaria», fu ben presto soffocata nel sangue. Data la struttura di clan della società albanese, oltre ai rivoltosi furono coinvolti nel massacro anche numerosi membri delle loro famiglie e del parentado. Insomma, esser contrari al nuovo regime e appartenere a un gruppo minoritario non allineatosi con la Resistenza era assai pericoloso nella Jugoslavia di Tito.

A Trieste e a Gorizia, come pure nella parte dell'Istria settentrionale, dove si incontrarono il 9° corpus e la 4a armata, confluirono fondendosi due generi di repressione: quella metodica e organizzata, e quella segnata spesso da uno spontaneismo senza freni. Per spiegare questa disparità bisogna sottolineare che la Resistenza slovena ebbe, fin dall'inizio, caratteri diversi da quelli sviluppatisi in altre parti del paese: mentre altrove rimaneva un fenomeno organizzato e controllato dal PC, in Slovenia fu il risultato di una coalizione di forze - costituitesi nel Fronte di liberazione (OF) — di cui i comunisti rappresentavano solo una parte. Per quanto senza seguito popolare, essi costituivano tuttavia, per fanatismo e capacità organizzativa, ma anche per vigore intellettuale, un nucleo estremamente efficace, in grado d'imporsi ai maggioritari ma meno agguerriti compagni di strada: i cristiano-sociali e i liberali. Nell'ambito del Fronte di liberazione venne costituito fin dall'agosto del 1941 un Servizio di difesa e d'informazione (VOS), guidato da una giovane comunista, Zdenka Kidric. Nel settembre 1941, il vertice del Fronte - autoproclamatosi unica autorità legittima in territorio sloveno - decretò la «liquidazione» di tutti i collaborazionisti, anche potenziali: era il primo atto del genere in tutta la Jugoslavia, dettato dall'acquiescenza con cui vasti circoli borghesi ed ecclesiastici sembravano accettare l'annessione della Provincia Lubiana all'Italia.

L'OZNA, cioè il Dipartimento per la difesa del popolo, ovvero la Polizia segreta jugoslava, in cui confluí il VOS, fu organizzata nel maggio 1944 dal Aleksandar Rankovic, uno dei piú stretti collaboratori di Tito, e da consiglieri sovietici, sul modello del NKVD. Per quanto divisa per regioni essa fu, significamente, la prima istituzione del nuovo potere con una struttura centralizzata. In quanto tale svolse un ruolo di primo piano pure nel maggio del 1945, durante i quaranta giorni in cui le unità jugoslave tennero sotto controllo Trieste, Pola e Gorizia. Per comprendere la mentalità di Tito, può essere utile citare una sua frase, detta al rappresentante britannico presso il suo Quartier generale, il generale brigadiere Fitzroy Maclean, a proposito della politica piú opportuna nei confronti degli avversari: «La brutalità non ha senso, finché sei saldo in sella». Alla fine della guerra Tito non si sentiva evidentemente abbastanza saldo in sella da praticare una politica di moderazione: preferí ricorrere al terrore, per sbarazzarsi dei veri o potenziali nemici. Di qui, nei primi giorni dell'occupazione jugoslava, ma anche nelle settimane successive, un'ondata di arresti e di uccisioni che fra Trieste, Gorizia e Pola vide - secondo calcoli degli angloamericani - la deportazione di circa 3400 persone, di varia etnia, delle quali piú di un migliaio perse la vita in esecuzioni, nei campi di concentramento o nelle prigioni jugoslave. A queste bisogna aggiungere le vittime provenienti dalle altre zone mistilingui della Dalmazia, dell'Istria, di Fiume e dalle isole del Quarnero, il cui numero è piú difficile da quantificare, ma, secondo i calcoli piú attendibili, si aggirava intorno a 700-800 persone perlopiú di nazionalità italiana. Esse finirono in maggioranza nelle carceri di Kocevje, da dove molti detenuti venivano prelevati di notte, portati in luoghi ignoti e trucidati. «Oltre a personaggi notoriamente fascisti e collaborazionisti», scrive lo Scotti, «tra le vittime dell'OZNA ci furono gente semplice che certamente non avrebbe meritato la morte, ma anche dirigenti del CLN di Fiume e dell'Istria antifascisti, che però si battevano per impedire l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia». A costoro vanno aggiunti a Fiume alcuni esponenti dell'autonomismo prebellico, emarginati dal fascismo, ma considerati evidentemente pericolosi dalle nuove autorità.

A differenza di quanto si verificò nell'autunno del 1943 in Istria, dove gli «infoibamenti» di alcune centinaia di italiani (o italianizzati) ebbero il sapore di una vendetta nazionale e sociale perlopiú spontanea «da parte di gruppi irresponsabili» (come riconobbe lo stesso CLN di Trieste), la repressione del 1945 fu un fenomeno organizzato e pianificato. Essa rientrava nella logica totalitaria della «purga», non già etnica - come risulta in modo esplicito da un telegramma di Kardelj del 30 aprile 1945 - ma ideologica e politica, che nelle settimane successive avrebbe travolto nel suo vortice anche 100000-150000 collaborazionisti jugoslavi.

Nella primavera del 1945 un gran numero di domobranci sloveni, domobrani e ustascia croati, cetnici serbi e montenegrini, che durante la guerra s'erano schierati con gli italiani e i tedeschi, cercarono di sfuggire alla vendetta di Tito seguendo le truppe tedesche nella ritirata verso l'Austria. La maggioranza di costoro fu sconfitta e costretta alla resa verso la metà di maggio, prima ancora di raggiungere la frontiera. Circa 200000 persone, tra militari e civili, riuscirono però a concentrarsi nei dintorni di Klagenfurt e di Bleiburg, dove cercarono la protezione delle truppe britanniche. I rapporti fra Churchill e Tito erano piú tesi che mai, a causa delle pretese di quest'ultimo di occupare e annettere, oltre all'intera Venezia Giulia, anche la Carinzia meridionale. La sua tattica di mettere gli Occidentali davanti al fatto compiuto fu considerata a Londra e a Washington una vera e propria sfida che, se tollerata, avrebbe potuto esser interpretata dai sovietici come segno di debolezza. Era evidente infatti, come scrisse il Foreign Office britannico a Washington, il 4 maggio 1945, che Tito non avrebbe agito né avrebbe preso una atteggiamento cosí arrogante se non avesse potuto contare sull'appoggio di Stalin. Si decise pertanto d'impartire al maresciallo jugoslavo - paragonato da Truman e Alexander per la sua voglia annessionista a Hitler, a Mussolini e ai giapponesi - una lezione, a costo di doverlo sloggiare con la forza dai territori contesi. In previsione di un possibile scontro armato, occorreva però sbarazzarsi dei rifugiati jugoslavi che per il loro numero costituivano un ostacolo alla mobilità delle truppe britanniche. Soprattutto per questa ragione si decise di riconsegnarli a Tito che, appena saputo ciò, organizzò a Zagabria un incontro segreto coi suoi generali, dei cui esiti non furono informati neppure i vertici del partito. In quest'occasione, sembra, fu deciso di «liquidare» le unità riconsegnate dai britannici, anche per tema che si trattasse di un cavallo di Troia offerto dagli occidentali in vista del probabile attacco. Quando, pertanto, gli sloveni e i croati furono rinviati dai britannici in patria, con la promessa di trasportarli al sicuro in Italia, fatta solo per tenerli tranquilli, vennero invece accolti da truppe speciali dell'Armata jugoslava e, se maggiori di 18 anni, passati per le armi. La carneficina, in cui furono coinvolti circa 12000 domobranci sloveni e altrettanti domobrani e ustascia croati, come pure collaborazionisti serbi e montenegrini, costituí del resto solo una parte della grande azione di «pulizia» che coinvolse tutto il territorio jugoslavo alla fine della guerra, protraendosi fino all'inizio degli anni Cinquanta. Non va dimenticato infatti che nel paese restarono alla macchia per anni gruppi piuttosto consistenti di cetnici, e che a costoro, ma anche ad altri nuclei di opposizione al regime, fu data una caccia senza quartiere, conclusasi con il loro completo sterminio. Lo scopo di questa mattanza di tipo sovietico, che squalificò il regime al potere fin dai suoi primi passi, fu eloquentemente descritto da un suo portavoce in un articolo pubblicato il 25 maggio 1945 sotto il titolo La vendetta è una parola terribile:

Noi siamo i costruttori di tempi nuovi, limpidi, solari; le nostre azioni sono pure, chiare, comprensibili ad ogni persona onesta. Ma se non ci vendicassimo, fra cinque, dieci anni, questi infidi comincerebbero di nuovo a diffondere tra il popolo le proprie malvage parole distruttrici, l'odio e il fratricidio. Solo con la vendetta riusciremmo a impedirglielo!

Il medesimo concetto fu ribadito in modo piú spiccio e brutale nel 1946 da Stalin, che, in un colloquio con parlamentari polacchi in visita al Cremlino, disse: «Tito è un ragazzo saggio: lui non ha problemi di nemici: si è liberato di tutti».


Dies irae nei quaranta giorni.

La spietatezza che segnò l'epopea della guerra di liberazione fu un tratto caratteristico dell'intera vicenda bellica jugoslava. Agendo sotto l'impulso del motto evangelico «chi non è con noi è contro di noi», i comunisti sloveni eliminarono ad esempio a Trieste nel 1944 anche uno dei leader della corrente cristiano-sociale del Litorale, Stanko Vuk, tornato dopo 1'8 settembre dalle carceri italiane di Alessandria dove stava scontando una pesante pena detentiva, comminatagli dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel dicembre 1941. Egli fu sorpreso in via Rossetti con la moglie Danica e freddato da tre sicari, per quanto la giovane donna fosse sorella dello studente comunista Pinko Tomazic, condannato nella stessa occasione alla pena capitale e fucilato dai fascisti a Opicina. La ragione dell'esecuzione sommaria della coppia, cui va aggiunta una terza persona, capitata in visita nel momento sbagliato, era una sola: i comunisti che avevano ormai sotto controllo il Fronte di liberazione, non desideravano che Vuk si associasse al movimento partigiano, come intendeva fare, affinché non rafforzasse con il suo carisma i loro concorrenti politici interni, potenzialmente pericolosi.

Oltre all'aspetto rivoluzionario, sicuramente prevalente, il regolamento di conti postbellico ne ebbe però anche un altro, universale, piú antico, legato al bisogno catartico di vendicarsi dei responsabili della grande tragedia della seconda guerra mondiale. La vendetta toccò infatti nell'aprile-maggio 1945 tutti paesi europei dove s'era sviluppata una qualche resistenza. «Č difficile concepire le strage delle foibe», dice Giovanni Miccoli, «senza l'educazione alla violenza di massa compiuta nell'Europa centro-orientale a partire dal 1941, e il generale imbarbarimento dei costumi che ne segui». Ecco una testimonianza sulle voci che in quel tempo circolavano a Trieste, relative ad eventi accaduti sull'altipiano carsico:

Non so esattamente dove, prima di infoibare, si organizzarono delle feste cui partecipava la popolazione locale; si suonava l'armonica, si cantava, si ballava per molte ore finché arrivavano i condannati. Sull'orlo della voragine si diceva loro: «Se sei capace di saltare dall'altra parte, sarai salvo». Il poveretto tentava la fortuna, ma appena si sollevava in aria, gli sparavano e cadeva dritto in foiba.

Ma non esultavano soltanto gli sloveni: anche le masse popolari italiane, schieratesi in maggioranza con i partigiani jugoslavi, si abbandonavano a canti e balli che animavano le tiepide serate di maggio. Diceva il ritornello di una canzonetta, cantata nei vari rioni della città: «Caro Tito, dime sí, sí, sí, sí | che Trieste xe per ti, sí, sí, sí, sí | se i fascisti no vorrà, tutti in foiba i anderà».

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Basovizza.

Per la prima volta il termine foiba e il nome Basovizza erano messi in relazione. Basovizza (Bazovica) è un villaggio sloveno sull'altipiano carsico a nord-est di Trieste, lontano dal centro cittadino poco meno di dieci chilometri. Esso divenne famoso il 6 settembre del 1930, quando in una campagna a due passi dalla chiesa parrocchiale vi furono fucilati quattro «terroristi», tre patrioti sloveni e un croato, condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Per la nazione slovena questo fu un evento traumatico, destinato a lasciare un ricordo indelebile nella sua memoria storica. Qualche mese dopo l'esecuzione fu inaugurato nel cimitero di Kranj, città della Carniola superiore, un cippo in onore degli eroi caduti - il primo monumento antifascista d'Europa. Nel loro nome fu condotta d'allora in poi la lotta contro il regime mussoliniano e contro l'Italia: non a caso portava il titolo di «Bazovica» il giornale stampato durante la guerra al Cairo, in Egitto, e dedicato agli sloveni, già soldati italiani presi prigionieri dai britannici, per invitarli a passare nelle file dell'esercito jugoslavo in esilio; e una delle prime brigate partigiane formate nel Collio goriziano portava lo stesso nome, mentre uno dei canti piú popolari diffusi durante la Lotta di liberazione prometteva che «Bazovica sarà vendicata».

Nei dintorni di Basovizza, non lontano dal luogo dove furono fucilati i quattro giovani antifascisti, vi sono due voragini. La prima porta il nome di «Jamen dol» ovvero «Plutone» ed è una cavità carsica; la seconda, quella destinata a diventare famosa, è invece un pozzo minerario, scavato fra il 1901 e il 1908 per iniziativa di due imprenditori privati e in seguito dalla società Skoda per la ricerca di lignite. Il nome che gli è stato dato dal popolo è «Soht», versione dialettale del tedesco Schacht, pozzo minerario. Profondo 256 metri, largo 4,40 per 2,10 metri, esso ha sul fondo una galleria traversa verso nord, alta 2 metri e lunga 735 metri. Secondo la leggenda l'ingegnere che diresse i lavori, Hans Gutmann di Graz, si era suicidato per la disperazione di non aver trovato nulla, diventando cosí la prima vittima della disgraziata voragine; ma Ruggero Calligaris nella sua Storia delle miniere del Carso lo nega. Dopo il 1908 il pozzo Skoda rimase abbandonato per decenni e col tempo l'incastellatura e le scale di legno interne cedettero e crollarono su se stesse. Nel 1936 la società carbonifera dell'Arsa, nell'intento di ripristinare le vecchie miniere per l'autarchia mussoliniana, incaricò alcuni speleologi di effettuare rilevamenti nelle miniere abbandonate del Carso. Una squadra si calò anche nello «Soht», giungendo alla profondità di 225 metri, dove trovò un mucchio di detriti. Esso era composto da legname d'impalcature crollate, pietrisco, materiale di rifiuto gettato nel pozzo dai contadini, ma forse anche da resti di soldati italiani seppelliti frettolosamente nel pozzo dopo la prima guerra mondiale. Alla fine del 1918 Trieste infatti era diventata il centro di raccolta di migliaia di militari del regio esercito reduci dalla prigionia, che vi arrivarono fortemente debilitati; le autorità non furono in grado di soccorrerli in modo adeguato, per cui morirono a migliaia, soprattutto per l'epidemia della spagnola, nel Porto franco vecchio, trasformato in un enorme lager. Alcuni furono regolarmente sepolti, altri però furono deposti in un «cimitero speciale» non meglio indicato. Sarà stato lo «Soht» di Basovizza, allora completamente vuoto?

Nel 1939 e nel 1941 si ebbero altre due discese nel pozzo per recuperare i corpi di due abitanti di Basovizza suicidi. In entrambe le occasioni la profondità rilevata fu di 226 metri. Nel 1943 un'indagine speleologica per poco non fini male in seguito al malore di uno dei membri della spedizione. Alla fine del 1943, a detta di due autorevoli studiosi triestini del problema «foibe», Pupo e Spazzali, la Wehrmacht avrebbe usato lo «Soht» per sbarazzarsi degli ostaggi prelevati nelle località istriane dei Brkini. Secondo il racconto di uno degli allora adolescenti del luogo che pascolavono le greggi nelle vicinanze dello «Soht», già l'anno successivo esso fu usato nuovamente da parte di agenti della Guardia Civica che vi avrebbero gettato dentro uomini e donne ancor vivi. Con ogni probabilità alcuni suoi membri operavano in collaborazione con la «banda Collotti» che secondo un'autorevole testimonianza usava appunto sbarazzarsi dei torturati buttandoli «nei cespugli e negli anfratti» del Carso. In base al racconto di un ufficiale delle SS, vi furono gettati anche i corpi di 71 ostaggi che i tedeschi fucilarono al poligono di Opicina; lo confermerebbe il fatto che nel primo dopoguerra gli abitanti di Postumia (Postojna) usassero visitare lo «Soht» di Basovizza con bandiere partigiane e deporvi corone di fiori. Va detto inoltre che i partigiani spesso nascondevano i corpi dei compagni caduti nelle grotte carsiche, per difendere le loro famiglie dalle rappresaglie; e va aggiunto anche che dopo l'8 settembre 1943 nei villaggi dell'entroterra triestino si scatenò la vendetta nei confronti di quegli sloveni che avevano aderito - perlopiú per ottenere un posto - al Partito fascista. Alcuni di questi scomparvero, sembra, nelle foibe. Dopo la liberazione le loro madri andavano in pellegrinaggio da una voragine all'altra, gettandovi dentro pezzetti di pane benedetto. Qualcuno dei primi o dei secondi è finito anche nello «Soht»?

Dopo la battaglia di Basovizza del 29 e 30 aprile 1945 fra le truppe della 4a armata jugoslava, la Wehrmacht, la compagnia di Polizia SS e unità collaborazioniste, estremamente aspra per l'importanza strategica di quel nodo stradale, rimasero sul terreno centinaia di caduti sia tedeschi e collaborazionisti che partigiani. Questi ultimi furono, per quanto era possibile, onorevolmente sepolti, mentre i tedeschi e i loro fiancheggiatori, con le carcasse dei cavalli delle loro artiglierie, uccisi negli scontri, ma anche dai mitragliamenti aerei della RAF, furono gettati in gran fretta nel pozzo minerario, poiché il caldo della primavera ormai inoltrata costringeva a sbarazzarsi quanto prima dei cadaveri. Sembra che prima di finire nell'abisso alcuni fossero privati delle calzature e di parte delle uniformi, che i partigiani utilizzavano dopo averne tolte le insegne. Un testimone oculare che da ragazzo quindicenne visitò il pozzo di Basovizza verso la metà di maggio 1945 ha ancora vividi nella memoria mucchietti di decorazioni di metallo e altra paccottiglia militare sparsi per il terreno intorno all'apertura.

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Metri cubi.

Nel frattempo la campagna di stampa scatenata in Italia non accennava a placarsi. Un nuovo modo di computare il numero delle vittime nel pozzo di Basovizza fu proposto il 30 novembre 1945 sul «Giornale della Sera» di Roma da Giovanni d'Alò, già inviato in Europa centrale dall'Agenzia Stefani durante il Ventennio. Egli affermò che la benna usata dai genieri britannici per estrarre i corpi degli infoibati aveva raggiunto una profondità di 190 metri, mentre la quota precedentemente nota era di 226 metri. Ne dedusse una differenza di 430-480 metri cubi, attribuendola a tre corpi per metro cubo e calcolando cosí che nella foiba erano finite da 1200 a 1500 vittime. (In verità all'anagrafe mancano in quel periodo su oltre 250000 residenti, 416 militari e 106 civili, di varia sorte e nazionalità, in tutto).

Questo ragionamento era destinato ad aver fortuna anche se i metri cubi contenenti le presunte salme di infoibati subirono negli anni successivi delle variazioni notevoli: nel 1959, sulla prima lapide posta sullo «Soht» di Basovizza erano indicati con la cifra di 500; essa rimase invariata fino al 1997, quando le furono sottratti 200 metri cubi, successivamente di nuovo aggiunti. (Anche la profondità originaria del pozzo differisce nel tempo, per quanto riguarda le iscrizioni indicate sul monumento: quella originale del 1959 parla di 256 metri, la seconda di 300 metri, la terza 500 e la quarta nuovamente di 256). Secondo nuovi calcoli le salme che dovevano giacere in quello spazio erano addirittura migliaia. Lo stesso conteggio presuntivo fu ben presto applicato anche alle foibe istriane. Nel febbraio 1946, «Riflessi», il settimanale milanese «di politica, letteratura, arte e varietà», dedicò un reportage all' Istria sotto Tito, scrivendo con enfasi immaginifica:

500 metri cubi di carne umana sono stati rinvenuti nelle tragiche fosse di Pisino nell'Istria. Si tratta di decine e decine di cadaveri di uomini e donne italiani seviziati, torturati e fucilati in massa davanti alle «foibe» profonde centinaia di metri, dove sono stati spinti in paurosi grappoli. Molti di essi sono stati fatti piombare nelle nere cavità della montagna ancora vivi [...] Sangue nostro, purissimo innocente. E questo sangue, ancora, ogni tanto, trabocca dagli orli slabbrati delle foibe, dalle voragini nere delle cave, viene a galla e chiazza di rosso le onde verdi del mare, vicino alle scogliere brune. Ogni tanto la terra del martirio restituisce cadaveri, lembi di carne umana, frammenti di ossa. Č satura.

Paolo de Franceschi, pseudonimo scelto per prudenza da Luigi Papo, nel libro Foibe, pubblicato nel 1949, riprese pari pari il discorso su Basovizza, senza peraltro chiarire se il pozzo della miniera fosse stato svuotato o meno: «furono gli inglesi del GMA a dar di piglio alla benna per svuotare l'immensa voragine dei 500 metri cubi di cadaveri, circa 1500 vittime, ormai massa informe, irriconoscibile, putrefatta».

Ai britannici e agli americani, per quanto ai ferri corti con Tito, questo modo di scrivere dava evidentemente fastidio. Nel novembre e dicembre 1945 il «Corriere della Sera» e la «Gazzetta d'Italia» pubblicarono due articoli in cui veniva lanciata la cifra di 1500 «infoibati» di Basovizza e veniva descritto l'immaginario recupero dei cadaveri «a poco a poco pescati da una benna e portati alla luce»; né potevano mancare i 13 neozelandesi scomparsi. All'inizio del 1946 il Governo militare alleato decise di far sentire agli italiani una voce di moderazione, assegnandone l'incarico a un giovane triestino, Livio Zeno-Zencovich, che come fuoruscito aveva passato la guerra nel loro campo, prima da prigioniero nel Canada, quale cittadino di uno Stato nemico, poi, dopo l'8 settembre, da «osservatore londinese» delle trasmissioni in italiano della Bsc. Durante una sua visita nella città natale, egli venne invitato negli uffici del Welfare & Displaced Persons, guidato dal maggiore John Kellett, i cui collaboratori avevano raccolto un imponente schedario di deportati dalla zona della Venezia Giulia sotto il loro controllo. In seguito a questo incontro, egli scrisse un articolo, letto ai microfoni di Radio Trieste e pubblicato in versione ridotta su «La Voce Libera» il 10 gennaio 1946. In esso parlò delle 4768 schede viste negli archivi del GMA, concludendo con un appello ai connazionali a collocare la violenza subita nel contesto storico, considerandola un capitolo chiuso per poter riprendere il dialogo con i vicini di casa:

Questi nostri morti alcuni piú o meno colpevoli, ma tanti perfettamente innocenti sono l'utimo prezzo che noi abbiamo dovuto scontare per i crimini del fascismo; per questo regime nefasto che per venti anni ha oppresso e perseguitato, e che poi è straboccato fuori dei nostri confini per aggredire e perseguitare ancora, di un regime che ha seminato violenza e violenza ha mietuto.

Il suo appello restò ovviamente lettera morta; a rimanere fu la cifra citata da Zeno e la sua qualifica come «osservatore londinese». Nella pubblicistica sulle foibe degli anni successivi si trova infatti spesso il riferimento a «Radio Londra» che avrebbe avvallato il numero di 5150 «infoibati». Molti anni piú tardi Diego de Castro onestamente confessava:

A questo proposito, debbo rilevare che l'iniziale politicizzazione del problema delle foibe da parte nostra, fino al 1954, e cioè finché il problema giuliano rimase incandescente, fu dovuta alla nobilissima quanto illusoria speranza di salvare il salvabile, nella nostra disperata battaglia, facendo notare agli Alleati in quali mani stessero per mettere i nostri connazionali. Eravamo ingenuamente convinti che essi avessero qualche senso di pietà per gli esseri umani e perciò riportavamo le cifre degli infoibati, senza verificarne il fondamento, per rafforzare le nostre tesi.

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L'esodo.

La contrapposizione fra «civiltà italiana e barbarie slava», già propagandata da un secolo nella lotta nazionale della regione istro-dalmata, venne riproposta senza imbarazzi dopo il 1945 nel nuovo contenzioso sui confini orientali, come se pure l'Italia non si fosse macchiata di gravissime colpe durante il Ventennio fascista e la seconda guerra mondiale. L'assoluzione generale che gli italiani - in ciò favoriti dallo scoppio della guerra fredda - si autoimpartirono, condizionò notevolmente il loro atteggiamento nei confronti delle popolazioni slovene e croate dell'area adriatica, dove, a detta dello storico austriaco Claus Gatterer, tra coloro che erano favorevoli all'Italia «lottavano personaggi di ieri, le organizzazioni di ieri, con le parole di ieri». Si ebbe pertanto uno scontro estremamente aspro «fra Italia e anti-Italia» che ebbe conseguenze gravi per la città. «Conseguenze gravi per la ricostruzione democratica con il reinserimento dei fascisti nella vita politica dopo una serie di processi che finirono in assoluzioni o condanne mitissime e in amnistie. Fascisti qualificati rientrano in circolazione nella vita pubblica, la vecchia classe dirigente torna alla testa del potere economico». A pagare lo scotto di tale situazione furono gli sloveni. Chiosava un diplomatico inglese di stanza a Trieste in una relazione al Foreign Office: «Gli italiani sono stati a lungo abituati a considerare gli sloveni come dei subumani. Il loro atteggiamento è paragonabile a quello dei sudisti in America nei confronti dei negri, solo che qui agisce anche la paura del grande negro nella capanna accanto».

Queste parole spiegano in modo eloquente la ragione profonda dell'esodo nell'immediato dopoguerra di gran parte della popolazione italiana da Fiume e dall'Istria (Zara si era già parzialmente svuotata nel 1943 e nel 1944 dopo i pesanti bombardamenti alleati). Nel periodo precedente il 1918, gli italiani dell'Austria erano considerati «irredenti», come se per un italiano non ci fosse salvezza fuori dall'Italia. Quando divenne evidente che gran parte di essi, in seguito alla guerra persa rischiavano di ridiventare una minoranza, tale consapevolezza fu traumatica soprattutto per i diretti interessati, per i quali, indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta, si stava avverando l'incubo peggiore che potessero immaginare: gli «s'ciavi», per giunta comunisti erano al potere! La paura di questa nuova drammatica realtà in cui si trovarono migliaia di persone fu il motore principale dell'«esodo», come fu detto con termine biblico l'abbandono dei propri focolari, avvenuto peraltro in gran parte legalmente in conformità ad accordi internazionali firmati dal governo di Roma, che garantivano alla popolazione di lingua italiana dei territori «ceduti» alla Jugoslavia il diritto di optare o meno a favore della cittadinanza italiana; il tutto, nel contesto di una politica di «semplificazione etnica» impostata dalle grandi potenze, che, memori dello sfruttamento propagandistico delle minoranze attuato da Hitler in Cecoslovacchia e Polonia, erano favorevoli alla creazione di Stati quanto piú omogenei.

Al trauma delle uccisioni simbolizzate dalle «foibe» si aggiungeva la paura degli italiani (ma anche di molti croati e sloveni che scelsero a loro volta la via dell'esilio) di fronte a un potere dittatoriale che si proclamava difensore degli interessi del popolo, della democrazia e della libertà, paladino della «fratellanza italo-slava», ma nei fatti mirava soprattutto a realizzare la propria visione totalitaria della società, imponendo un comunismo di guerra secondo i parametri sovietici. A ciò si aggiungano la preoccupazione di rimanere isolati dalla cortina di ferro da Trieste, verso la quale gravitavano gran parte dell'economia e della forza lavoro istriana, e le attività a favore dell'esodo, presentato come un «plebiscito con i piedi», svolte da una serie di organizzazioni filoitaliane (che rimangono uno degli aspetti meno esplorati della questione). «Non furono le foibe del 1943 e del 1945 a svuotare l'Istria dagli italiani», scrive Fogar in una sua fondamentale riflessione sull'argomento.

La gran parte di essi rimase in Istria malgrado il trauma violento del '43. Le grandi ondate di profughi, distribuite nel tempo, avvennero nel 1946-47 (Fiume e quello simultaneo e collettivo di Pola) a seguito del Trattato di Pace che assegnava gran parte dell'Istria alla Jugoslavia. Pur continuando lo stillicidio delle partenze, ripresero nel 1950 (elezioni in Zona B con minacce e violenze sugli italiani astensionisti). Ma solo dal 1954 in poi, la massa degli italiani rimasti in Zona B decise di andarsene, considerando realisticamente definitivo il confine fissato dal Memorandum d'Intesa del 1954.

Accanto alla durezza del regime e al capovolgimento dei valori che condizionarono l'esodo, bisogna prendere in considerazione un terzo fattore: l'incapacità degli italiani che si trovarono in territori mistilingui dell'Adriatico orientale di adattarsi alla nuova situazione accettando gli slavi alla pari.

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Nel 2000, la Commissione mista italo-slovena incaricata di studiare la storia dei due popoli dalla fine dell'Ottocento alla metà del Novecento coronò i suoi lavori con un testo di 31 cartelle trasmesso ai rispettivi ministri degli Esteri. Nelle sue conclusioni, raggiunte attraverso un serrato dibattito fra i 14 esperti, la questione delle foibe era inserita nei pertinenti contesti storici: quello dell'irredentismo, del fascismo, della guerra, del nazionalismo italiano e sloveno e del comunismo. Essa affermò che arresti, deportazioni e uccisioni «si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo». Quest'approccio non piacque tuttavia alla Farnesina, dove la relazione fu chiusa in un cassetto, non essendo in sintonia con la vulgata storica «bipartisan» ormai concordata a livello politico. Ne offrí il pretesto un editoriale apparso sul «Corriere della Sera» in cui i risultati raggiunti della commissione vennero falsamente presentati come dovuti a una contrattazione, anzi, a una votazione: «La vicenda si configura dunque come un caso (governativo) della storia che sarebbe stato meglio evitare».

Il governo italiano - cosí si disse - non volendo imporre a nessuno una storia «ufficiale», stese sul testo della commissione un velo di oblio. Le vere ragioni della decisione d'ignorare la scomoda relazione, bollata come priva di dignità scientifica, furono eloquentemente espresse da Italo Gabrielli, esponente del «Gruppo Memorandum 88» di esuli istriani, fiumani e dalmati:

Dopo oltre 50 anni gli esuli hanno diritto [...] a un documento che riveli un ravvedimento slavo e un risveglio italiano di dignità, tali da dare l'avvio a un processo di giustizia per coloro che sono stati costretti ad abbandonare la loro terra. Invece il testo, da una parte, vuol essere una pietra tombale sulle irrinunciabili rivendicazioni degli esuli, dall'altra intende favorire nei triestini la rimozione degli ultimi 50 anni di storia travagliata, con l'illusione che la salvezza verrà grazie a un crescente coinvolgimento della Slovenia. Si pretende di far tornare Trieste agli splendori di metropoli europea ricorrendo al contributo di un piccolo popolo i cui storici ancora oggi pretendono di attribuire all'identità della campagna la preminenza rispetto a quella della città.

Nel 2004 la saga dello «storico» processo sul genocidio titoista, avviato nel 1996 dall'avvocato Sinagra e dal Pm Pititto, scoppiò come una bolla di sapone. Dopo la morte di Motika e di un'altra coimputata, sul banco degli accusati era rimasto solo il Piskulic, contro il quale si costituirono come parti lese il Comune e la Provincia di Trieste e il Comune di Gorizia (che nulla avevano a che fare con i fatti e i luoghi per cui si procedeva), il governo di Roma, rappresentato dal ministero della Difesa e da quello degli Interni, e piú di cento altre associazioni ed enti. L'accusa fu sostenuta da una quarantina di illustri principi del foro. Dopo decine di udienze per i tre gradi di giudizio, dal primo alla Cassazione, dopo rinvii vari e colpi di scena (ma anche dopo centinaia di articoli, in cui fu sottoposto a un vero e proprio linciaggio pubblico), il vecchio fiumano, del tutto estraneo alla vicenda delle foibe, fu assolto per quanto riguarda l'omicidio di due esponenti dell'autonomismo fiumano. Per il terzo omicidio, la Corte riconobbe che non si sarebbe neppure dovuto iniziare il processo per «difetto di giurisdizione», già rilevato anni prima. Ciò grazie a un gruppetto di alcuni volontari e di tre coraggiosi avvocati difensori che riuscirono con grande senso civico a salvare l'onore della giustizia italiana dal nuovo patriottismo fondato sulle «foibe». Dal tutto risultava evidente, e lo dichiarò al verbale e ai media lo stesso promotore avvocato Sinagra, che l'obiettivo principale del processo (non dei giudici e dei giurati, che facevano semplicemente il proprio dovere) non era giudiziario ma politico, e che in questo senso non si processavano in realtà tre persone, ma il diritto della Slovenia e della Croazia, succedute alla federazione jugoslava, alla sovranità sui territori ex italiani, e con ciò anche la legittimità dei trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975. Cadde invece completamente nel nulla un altro procedimento presso la procura militare di Padova sulle responsabilità del 9° corpus sloveno nella «pulizia etnica e gli eccidi compiuti a Gorizia a guerra già conclusa».

Il battage politico-mediatico, nel frattempo, fu sempre piú martellante: vi si inserirono anche due film, il primo sulla strage di Porzùs, il secondo sulle foibe, intitolato melodrammaticamente Il cuore nel pozzo, la cui consistenza storica e validità artistica fu proporzionalmente inversa al suo impatto mediatico. A chi, come Claudio Magris, osava criticare queste strumentalizzazioni politiche dei crimini partigiani di mezzo secolo fa «non tanto per ricordare le vittime e condannare i precisi colpevoli e complici, bensí per rinfocolare inumani e generici rancori razzisti antislavi», veniva dato addirittura dell'infoibatore da un ministro della Repubblica. Ma di simili «quaquaraquà» per usare una parola presa in prestito da Sciascia dallo scrittore triestino, ce n'erano molti. Si consideri ad esempio il già citato libro Bora di Anna Maria Mori e Nelida Milani che con totale sprezzo della verità storica cosí descriveva le «foibe» istriane del 1943.

Dopo l'8 settembre i drusi [nomignolo spregiativo per partigiani] furono padroni assoluti dell'Istria per un lungo periodo. I luoghi della sparizione saranno rivelati alcuni decenni piú tardi, dopo il crollo del Muro. Saranno indicati pubblicamente, sui giornali. Ma da sempre gli abitanti dei dintorni li conoscevano, anche se non ne avevano mai parlato con nessuno. I contadini li avevano individuati subito, uno per uno, a causa dei lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose. Raccontarono che a lungo avevano sentito provenire dalle viscere della terra richiami e invocazioni d'aiuto, i gemiti della troppo lunga agonia di coloro che erano rimasti vivi e anelavano ancora alla vita pur nel terrore della fine certa, terrore che si concludeva con il rantolo della morte.

Il 30 marzo 2004 il parlamento italiano, con la sola astensione dell'estrema sinistra, istituí un «Giorno del Ricordo» dell'esodo e delle foibe, parallello a quello dedicato alla Shoah (il 27 gennaio) dell'anno precedente, per omologare, per citare Enzo Collotti, «in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili». La giornata prescelta fu il 10 febbraio, giorno in cui l'Italia firmò a Parigi il Trattato di pace che la riammetteva nel novero delle nazioni degne di aderire all'ONU. Questo riscatto di importanza capitale per la Repubblica, che chiudeva il capitolo della guerra persa in seguito a una politica di conquista, fu lasciato però in non cale: i membri del parlamento preferirono sottolineare come ingiuste le perdite territoriali cui essa fu costretta con «un diktat», elevando, come afferma la Kersevan, il revisionismo storico a ideologia di Stato. Fecero di piú: il 9 febbraio approvarono definitivamente le «Disposizioni per l'acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei connazionali residenti nelle Repubbliche di Croazia e di Slovenia e dei loro discendenti» (Legge 8.3.2OO6, n. 124). I beneficiari del provvedimento sono potenzialmente non solo tutti quelli che avevano cittadinanza e lingua d'uso italiane prima della guerra, ma anche i loro discendenti, e senza limiti temporali per formulare la richiesta. Gli interessati stavolta non sono dunque solo gli appartenenti alle attuali minoranze in Croazia e Slovenia, di madrelingua sicuramente italiana (circa 30000 persone), ma anche il resto della popolazione autoctona che l'Italia fascista costrinse a imparare e usare l'italiano e a italianizzare i nomi e i cognomi, e i loro discendenti. Fu inoltre deciso di onorare la memoria degli «infoibati» con la concessione di onorificenze con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», distribuite senza andare tanto per il sottile, rischiando cioè di onorare squadristi e collaborazionisti dell'Adriatisches Küstenland o della Repubblica di Salò. Poté capitare cosí che ottenesse una medaglia alla memoria Vincenzo Serrentino, l'ultimo prefetto di Zara, un criminale di guerra distintosi in Dalmazia per le sue azioni sanguinarie in quanto membro del Tribunale speciale, che serviva a dare copertura giuridica alle rappresaglie antipartigiane. Invano già nel marzo 2000 un gruppo di studiosi, raccolti intorno all'Istituto Regionale per la Storia della Resistenza, avendo avuto sentore della proposta di legge presentata in tal senso dall'onorevole Menia sottolineava in una lettera inviata alla presidente della Ia Commissione affari costituzionali della camera dei deputati onorevole Rosa Russo Jervolino:

La lettura del testo legge ci ha lasciato esterrefatti, dal momento che sotto la specie di un provvedimento volto a ricordare le vittime di due ben identificabili ondate di violenza politica, si tenta surrettiziamente di far passare l'esaltazione delle forze fasciste repubblichine che dopo l'8 settembre 1943 combatterono contro i resistenti italiani, sloveni e croati.

Commento della maggioranza dei deputati: «Non è questo il momento della ricostruzione storica, ma della pietas».

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Le cause degli arresti, delle deportazioni e delle uccisioni.

Gli arresti, deportazioni e uccisioni del maggio 1945 coinvolsero categorie diverse di persone. I documenti confermano che gli jugoslavi non volevano affatto colpire e tantomeno eliminare gli italiani in quanto tali, ma catturare, perseguire e punire i responsabili e complici dei crimini fascisti e nazisti, e, sotto il profilo politico, allontanare dalla Venezia Giulia chi non considerava l'Armata jugoslava una forza liberatrice. I dati disponibili sugli uccisi italiani confermano che si trattava in maggioranza di persone coinvolte nel fascismo e nel collaborazionismo, in particolare come membri delle formazioni militari, paramilitari e di polizia, anche se è verosimile che tra essi non tutti furono egualmente (o affatto) colpevoli a livello personale dei crimini commessi sotto quelle insegne. Le tensioni personali e collettive accumulate erano infatti quelle senza precedenti storici, provocate dalle dittature fascista e nazista, alimentate dal razzismo e dall'imperialismo di Stato e culminate nello scatenamento di un'immane guerra di conquista mondiale e di sterminio o assoggettamento delle "razze inferiori".

Le esecuzioni furono un atto di violenza totalitaria che colpi gli stessi sloveni. Esse furono perpetrate in un clima di funesta euforia che identificò nella vittoria militare un'opportunità di rivalsa per le offese subite e una circostanza favorevole per rendere giustizia — magari sommaria — alle centinaia di morti e caduti degli anni passati. Il nazifascismo, l'ideologia della razza eletta, proteso a soggiogare, annientare e asservire popoli interi, era finalmente tramontato: si preannunciava l'alba di un mondo nuovo, improntato ai valori del socialismo e del comunismo, agli ideali di emancipazione umana che avevano animato la lotta di liberazione dei popoli jugoslavi. Va detto, però, che tali speranze subirono uno stravolgimento radicale con l'avvento al potere del Pcj, che si impose con metodi staliniani. All'epoca, le esecuzioni dei collaborazionisti o presunti tali ebbero luogo anche altrove in Europa, tuttavia, nell'area mistilingue della Venezia Giulia esse assunsero agli occhi delle popolazioni colpite l'aspetto di una resa dei conti etnica.

Queste interpretazioni si avvalsero anche del fatto che le autorità jugoslave manifestavano verso l'esterno reticenze politiche controproducenti. Già nel giugno 1945 Boris Kidric rispondeva a Kraigher su una richiesta di spiegazioni ricevuta dal presidente del Tribunale del popolo:

Nessuna nostra autorità ha rinchiuso nessuno. Chi ha subito provvedimenti per motivi politico-militari è stato rilasciato, per quanto riguarda i prigionieri si cerca coloro che si trovano nei campi. Tutto il resto è una menzogna premeditata. Il Tribunale del popolo non ne è informato, poiché non si è mai trattato di una sua competenza.

Queste affermazioni di carattere assolutorio contrastano quelle dell'Associazione congiunti deportati in Jugoslavia, che dichiarava in una lettera dell'ottobre 1946 al ministro degli Esteri Pietro Nenni:

Eccettuata una esigua percentuale di persone che effettivamente hanno a loro carico precedenti fascisti, la stragrande maggioranza è immune da ogni colpa di carattere politico. Molti sono iscritti al partito fascista dopo il 1933, e non vi svolsero mai la benché minima attività, non ebbero cariche né qualifiche fasciste. Per contro, fra i deportati si trovano partigiani, membri di organizzazioni clandestine antitedesche e dei Comitati di Liberazione: e potremmo elencare nomi e dati precisi.

In conclusione, coloro che favorivano l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia erano convinti che gli arresti e le "liquidazioni" fossero attuati nel rispetto delle norme e della legalità e che proprio questo facesse la sostanziale differenza rispetto alle vendette selvagge che si stavano verificando altrove in Europa. Ne erano persuase non soltanto le persone comuni, ma anche gli stessi dirigenti filojugoslavi della Venezia Giulia. Nel corso del già citato incontro del 3 luglio 1945 con gli attivisti del PCS, Julij Beltram dichiarava: «Milioni di vittime ci chiedono vendetta. Pretendono la giusta punizione di tutti coloro che sono colpevoli dei crimini sulla popolazione innocente. Adempiremo al nostro dovere, al nostro impegno fino in fondo verso migliaia di caduti», mentre nell'agosto 1945 la direzione del PCS di Gorizia riassumeva questa posizione con particolare chiarezza:

La questione delle foibe, delle cavità carsiche, dei campi di concentramento credo sia chiara. In ogni lotta ci sono vittime e le lotte nella Venezia Giulia sono state tra le piú tremende in Europa. Per quanto riguarda alcune condanne sommarie, va detto che nella Venezia Giulia esse furono assai meno numerose che a Milano, Torino ecc. [...] Noi abbiamo istituito i tribunali del popolo, impedendo che si procedesse illegalmente contro i rappresentanti del fascismo. Soltanto il vero potere popolare è idoneo ad epurare legalmente il Paese dai residui fascisti. Quelli che oggi condannano la Jugoslavia, a causa di ciò, lo fanno poiché piangono la sorte dei condannati. Si tratta di gente disposta a dibattere per un mese intero se Pétain è un criminale oppure non lo è. Non ammettiamo di venir presi in giro perché vogliamo liberare il popolo da tutti i boia e collaborazionisti. "2 AS 1571, M. 7, Verbale dell'incontro degli attivisti del circondario di Gorizia, 3.7.1945. 18° AS 1571, M. la, Verbale della seduta dell'attivo del partito, 24.8.1945.

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GORAZD BAJC

Gli angloamericani e le «foibe»


Dalle «foibe istriane» del 1943 alla fine della guerra.

Fin dai primi mesi del 1943, le sorti belliche dell'Italia, anello debole dell'Asse Roma-Berlino, apparvero sempre piú critiche. I britannici intuivano che gli italiani - civili e militari - presenti nei territori jugoslavi occupati si sarebbero trovati ben presto in una situazione piuttosto esposta; ma nelle documentazioni consultate per quel periodo non si trova alcun cenno alla possibilità di vendette nei loro confronti. In un rapporto sulla situazione in Croazia, redatto alla fine di marzo, si notava semplicemente che gli italiani non erano benvisti. Verso la fine di luglio, negli ambienti dell'Intelligence angloamericana presero a circolare voci sempre piú insistenti in relazione all'incombente catastrofe militare italiana; ma nulla veniva detto su eventuali violenze. In quel periodo i servizi segreti britannici erano impegnati soprattutto a capire chi tra i cetniki di Mihailovic e i partigiani di Tito sarebbe stato maggiormente avvantaggiato in termini militari (in particolare nell'accaparrarsi armamenti e munizioni) dall'atteso crollo del regio esercito italiano.

Oggi è noto che l'armistizio dell'8 settembre favori i partigiani di Tito, che requisirono ingenti quantità di materiale bellico rafforzando in maniera decisiva la propria operatività anche nelle regioni adriatiche orientali. Questo determinò nella parte italiana il rischio temuto di perdere anche la Venezia Giulia, cioè i territori nordorientali annessi dopo il primo conflitto mondiale, dove non si avevano piú formazioni militari da contrapporre a quelle slovene e croate. Nei due anni successivi i comandi britannici e americani ricevettero perciò da parte dell'Italia molte esortazioni a occupare la regione, nella speranza che l'arrivo delle truppe alleate avrebbe prevenuto l'annessione della Jugoslavia e impedito ritorsioni e vendette.

Secondo le dichiarazioni rilasciate ai servizi segreti americani da un carabiniere rimasto a Parenzo dopo l'8 settembre 1943, i partigiani di Tito, assunto il potere in quasi tutta l'Istria a eccezione dei centri urbani costieri, avevano scatenato una repressione durissima contro la popolazione italiana con lo scopo di dimostrare che quella terra era "slava". Uno studente universitario, vissuto a Fiume tra il settembre 1943 e il settembre 1944, testimoniò che gli "slavi" avevano avviato una campagna di "epurazione", diretta non solo contro i fascisti, ma contro gli italiani in genere; questi ultimi vennero ostacolati anche dalle autorità germaniche che favorivano apertamente la nazione croata, si videro privati del controllo sull'amministrazione cittadina.

Questo genere di testimonianze e un intero corpus di segnalazioni analoghe pervenute all'Intelligence americana, portarono alla redazione di un ampio documento riassuntivo, in cui si legge, tra l'altro, che dopo l'armistizio i partigiani jugoslavi avevano incarcerato in Istria, oltre a noti fascisti, centinaia di cittadini di etnia italiana, che furono rinchiusi in condizioni disagevoli nelle prigioni di Pisino, da dove ogni notte ne veniva condotto via qualcuno. In seguito, affermava il report, vennero rinvenuti nelle "foibe" mucchi di cadaveri nudi e legati tra loro.

La sensazione di pericolo cosí suscitata traspare spesso nei documenti italiani inviati agli angloamericani man mano che la guerra volgeva al termine e spiega le insistenti richieste di un rapido intervento degli Alleati nella Venezia Giulia. Nell'autunno del 1944, monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, sollecitò ad esempio l'invio di unità della Marina militare angloamericana «per evitare l'accadere di massacri come erano quelli perpetuati nelle foibe».

Nello stesso periodo Carlo Alberto de Felici, agente del Servizio Informazioni Militare (SIM) italiano e capo della missione mista SIM-SOE Addlestrop operante in Friuli, redasse per i suoi superiori due rapporti dai toni allarmanti. Avvertiva, tra l'altro, che la presenza dei partigiani sloveni nella Venezia Giulia costituiva una reale minaccia per «questa italianissima terra» e suggeriva l'urgenza di un fronte di difesa comune che superasse le differenze ideologiche, in modo tale che la regione «venga riscattata con sangue italiano». Il De Felici scriveva inoltre che, considerati i massacri cui l'anno precedente, la presenza slava in Istria rappresentava un vero e proprio trauma. A suo dire, la maggioranza della popolazione si proclamava nazifascista, poiché vedeva nei tedeschi l'unica garanzia di difesa: si vociferava che a Trieste si fosse già infiltrato un battaglione sloveno con il compito di occupare la città ed eseguire delle uccisioni. Un altro collaboratore delle missioni britanniche, un certo Piero (probabilmente Piero Cantoni), nell'aprile del 1945 riferiva l'intenzione dei partigiani sloveni di annettersi l'intero territorio giuliano. E in chiusura della relazione affermava: «Parole come queste si udivano: ma cosa faremo di tutti questi italiani? Dopo la guerra li butteremo tutti in foiba!».

Nell'autunno del 1944, il Comitato di Liberazione nazionale italiano di Trieste (CLNG) nutriva forti preoccupazioni circa la possibilità che, dopo la ritirata tedesca, i partigiani di Tito arrivassero per primi in città. Attraverso i canali di collegamento che passavano per la Svizzera, informò Roma circa l'incombente pericolo del ripetersi di violenze anti-italiane, simili a quelle verificatesi in Istria dopo l'8 settembre. Proponeva quindi al governo di intensificare i contatti con Tito, in modo da concertare un'azione comune dei partigiani sloveni e italiani, affinché occupassero il territorio congiuntamente. Lo stesso appello venne fatto pervenire anche agli angloamericani. Ma il suggerimento non ebbe seguito, anche perché la parte "borghese" del CLNG interruppe i contatti con il Fronte di Liberazione sloveno.

Mentre la guerra era ancora in corso, alcuni emissari e simpatizzanti del CLNG furono inoltre arrestati dagli Alleati. Nei verbali dei loro interrogatori ricorrono pressoché gli stessi avvertimenti in merito alla probabilità che gli "slavi" superassero le truppe angloamericane nella corsa per Trieste; in uno di questi verbali si legge addirittura che, se questo si fosse verificato, nel capoluogo giuliano si potevano prevedere massacri che avrebbero coinvolto da 60 a 70000 persone.

Va rilevato che gli agenti italo-americani dell'OSS furono i piú attivi nel divulgare simili notizie, richiamando l'attenzione dei superiori sulle intenzioni espansionistiche di Tito: verso la fine del 1944 due di loro sostennero pure l'esistenza di elenchi di epurazione, stilati dagli jugoslavi e contenenti 40-50000 nominativi di italiani e anticomunisti della Venezia Giulia.

Analizzando la documentazione angloamericana si evince che le violenze perpetrate dagli "slavi" dopo l'8 settembre avevano cause che vanno ricercate in altre violenze, da parte italiana: quelle commesse per oltre vent'anni dal cosiddetto "fascismo di confine" e quelle di cui si erano rese responsabili le forze armate italiane dopo l'aggressione e l'occupazione della Jugoslavia.

Come emerge da una relazione che l'Ufficio informazioni dello Stato maggiore generale italiano inviò agli Alleati, questi argomenti venivano elaborati e discussi negli stessi ambienti italiani. La relazione fa infatti riferimento alla volontà dei croati di spazzare via senza indugio la presenza italiana in Dalmazia e in Istria, ma non tace le molte responsabilità del fascismo per la situazione creatasi. Tesi, questa, condivisa anche dal maggiore britannico Stephen Clissold, rimasto presso il Quartier generale dei partigiani croati dall'ottobre al novembre del 1944: secondo la sua opinione, il nazionalismo esasperato manifestatosi in Istria dopo l'8 settembre 1943 era con tutta probabilità una reazione al Ventennio fascista.

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Pagina 311

La "foiba" di Basovizza.

Durante i "quaranta giorni" agli Alleati non pervenne alcuna segnalazione in merito al luogo che è diventato il simbolo di tutte le "foibe": Basovizza. Questa località viene menzionata in un unico documento non datato, ma che potremmo collocare nella prima metà del maggio 1945, proveniente dal Comitato d'Azione giuliano, organizzazione nazionalista che cominciò prontamente a informare sia il governo italiano che gli Alleati sull'asserita situazione della Venezia Giulia. Secondo il Comitato, testimoni avevano visto gli jugoslavi condurre intellettuali, personale tecnico e membri dell'alta società triestina in un campo di raccolta a Basovizza". Si faceva dunque presente che essa poteva essere stata teatro di qualche avvenimento sinistro; ma senza ancora far cenno alle "foibe" o a presunti "infoibamenti".

Per fare chiarezza su cosa fosse veramente successo durante la breve liberazione-occupazione di Trieste da parte degli jugoslavi, a soli quattro giorni dalla loro partenza i subentrati vertici militari alleati ordinarono al 13° corpo di produrre al piú presto una dettagliata relazione. Si chiedevano dati circostanziati, nomi, descrizioni del contesto in cui erano avvenute le deportazioni e ragguagli sulle azioni intraprese per favorire il ritorno dei deportati. Richieste simili furono inoltrate anche nei giorni seguenti all'ufficio Welfare & Displaced Persons, sempre sollecitando una risposta piú rapida possibile.

Nel frattempo tra la gente si mormorava che "l'occupatore jugoslavo" aveva commesso o aveva intenzione di commettere crimini orrendi. In un lungo rapporto gli Alleati riferivano che dopo il loro ingresso a Pola, l'Intelligence del 13° corpo aveva raccolto voci secondo cui entro breve gli jugoslavi sarebbero ritornati e avrebbero massacrato tutti gli italiani che collaboravano con i britannici, compiendo nuovi saccheggi e deportazioni. Da Ronchi si segnalava che la gente parlava di 700 corpi di italiani recuperati in una dolina (avvallamento) del Carso, dove sarebbero stati gettati dagli "slavi". A Monfalcone si sparse addirittura la notizia che quattro ragazze sarebbero state arse vive dopo aver subito spietate torture. Si diceva inoltre che a Gorizia fosse stata rinvenuta una fossa colma di cadaveri «macellati dagli slavi». Secondo alcuni, i corpi sarebbero stati oltre 600, secondo altri 400, tra cui anche soldati neozelandesi.

Le voci piú allarmanti riguardavano comunque Basovizza: il 14 giugno il CLNG denunciò agli Alleati che nei primi giorni di maggio centinaia di persone erano state trasportate nei pressi della località e gettate nell'abisso. Il CLNG riferí che sopra i corpi di questi individui erano state gettate le salme di circa 120 soldati tedeschi caduti nei combattimenti dei giorni precedenti, nonché carogne di cavalli. A distanza di soli due giorni, la sezione alleata per il controspionaggio trasmise i dati relativi all'esatta collocazione e alle dimensioni del pozzo carsico. Un ufficiale del Quartier generale della 6a brigata neozelandese conosceva il posto, quindi la prima ricognizione fu immediata. Il sopralluogo fruttò informazioni precise sulla voragine, che risultava larga circa 20x12 piedi e profonda circa 1000 piedi. La relazione, stesa in quell'occasione, descriveva il momento in cui i cavi utilizzati per la misurazione avevano raggiunto il fondo e vi avevano smosso qualcosa facendo alzare un odore nauseabondo; i cavi recuperati avevano portato in superficie brandelli di carne umana in putrefazione. Il resoconto di questa prima esplorazione sembrava confermare le notizie circolanti in merito a resti di uomini e cavalli gettati nella cavità. Il Comando dei neozelandesi dichiarò dunque che bisognava approfondire l'indagine con l'ausilio di squadre specializzate. Il 20 giugno gli ingegneri neozelandesi avevano già pronto un piano per fotografare i corpi giacenti sul fondo del pozzo. Il 27 giugno dalla fossa erano stati «ripescati» («fished out») una giacca militare tedesca, il treppiede di un mortaio e alcune ossa. Nel frattempo, l'attrezzatura utilizzata per le ricerche si era guastata, ma gli ingegneri si dicevano certi di poterla riparare. Č da rilevare che questa prima relazione non conteneva altri dettagli, né tanto meno menzionava la falsa notizia che si diffuse in seguito suscitando grande scalpore e clamore di stampa: che dalla "foiba" sarebbero stati recuperati circa 600 corpi di italiani uccisi.

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