Copertina
Autore Tullio Pironti
Titolo Libri e cazzotti
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2005 , pag. 200, ill., cop.ril.sov., dim. 145x220x18 mm , Isbn 978-88-7937-336-4
PrefazioneFernanda Pivano
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe libri , biografie , citta': Napoli
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Pagina 9

Si chiamava Zara, un torinese, ed era un energumeno bruno con il fisico di un boscaiolo. Un duro del ring. C'erano le selezioni per il titolo nazionale ed eravamo accoppiati bene, la forza di Zara contro la mia tecnica.

Il combattimento si faceva al Gymnasium, la palestra che sta fra Palazzo Reale e il Maschio Angioino, a Napoli, dove avevo sostenuto la maggior parte dei miei match.

Ero disteso sul lettino dello spogliatoio. Camerlingo, il mio allenatore, mi massaggiava e mi consigliava la tattica da usare contro Zara.

«Devi muoverti velocemente», diceva, «e portare continuamente il sinistro».

Poi mi spiegò uno dei trucchi di Zara.

«Quando lui vuole attaccare, ha l'abitudine di guardare a terra e di fare una smorfia che sembra un sorriso. Lo fa come se si stesse distraendo, per non far capire le sue intenzioni. Perciò, quando vedi che guarda a terra e sorride, non farti incantare. Scatta in avanti e porta il destro. Lo devi sorprendere. Prima tienilo a bada e tormentalo con il sinistro. Poi il destro, deciso».

Attraversammo il corridoio che portava alla palestra dove era stato allestito il ring. C'era un parterre per millecinquecento persone e tribunette in muratura, ed erano esauriti tutti i posti. Un vero pienone. Ritrovai tutti i miei sostenitori. C'era anche mio padre.

Lo speaker annunciò il combattimento. Zara era più basso di me ma era un armadio. Quando si tolse l'accappatoio, vidi le sue braccia mostruose. Sembravano clave.

«Gira sempre sulla tua destra», disse Camerlingo, «ed esci fuori dalla traiettoria del suo destro che è micidiale. Lui non vale niente, è solo forte, e il suo destro può abbattere una vacca».

Non doveva dirmelo. Sapeva che ero emotivo e che la paura era sempre in agguato.

Divenni nervoso. Sfregai le scarpette sulla resina, scossi le spalle e agitai le braccia lungo il corpo. Poi mi fermai. Mi voltai e lasciai che Camerlingo mi passasse la vaselina sul viso. Me la premeva con i pollici sotto gli occhi, sugli zigomi, sulla fronte e continuava a dirmi:

«Devi muoverti velocemente e portare continuamente il sinistro».

Suonò il gong. Io e il mio avversario raggiungemmo il centro del ring e ci salutammo con il tocco dei guantoni.

Cominciai a girare sulla destra. Zara aveva la guardia molto bassa e lo colpii ripetutamente con il sinistro. Stava per finire la prima ripresa ed eravamo in un corpo a corpo. Guardai l'orologio che era in alto, al centro del ring. Mancavano pochi secondi alla fine del primo round.

Cercai di tenerlo ma lui di forza si liberò e mi colpì con un terribile montante alla bocca dello stomaco. Mi sentii morire e mi lasciai andare a terra. Mentre l'arbitro contava, mi aggrappai alle corde. Tentai disperatamente di rimettermi in piedi ma non ci riuscii. Il gong interruppe la mia sofferenza e il conteggio dell'arbitro. Mi trascinai nel mio angolo.

Camerlingo era molto allarmato per il colpo che avevo ricevuto.

Ora non sussurrava più i consigli ma quasi gridava:

«Ti avevo detto di non fermarti mai. Da vicino è pericoloso. Devi portare il sinistro e andar via. Non devi mai fermarti, devi sempre girare sulla destra e portare il sinistro. Ricordati. Il sinistro e via, il sinistro e via...».

Suonò il gong. Durante l'intervallo mi ero ripreso. Non volevo più scappare. Ero ferito nell'orgoglio, non ero mai andato al tappeto in tutti i miei match e volevo vendicarmi dell'umiliazione del primo round. Avevo vent'anni, e quello era il mio quarantesimo combattimento. Quasi tutti vinti.

Zara, dopo che mi aveva messo al tappeto, era diventato più sicuro e furioso. Me lo sentii addosso con il peso del suo corpo massiccio. Eravamo al centro del ring e ci stavamo scambiando colpi micidiali.

Poi, lui guadagnò la distanza. Non si allontanò troppo e mi ebbe a tiro.

«Alza la guardia, tieni alte le mani, copriti», urlò Camerlingo dall'angolo.

Udii l'urlo strozzato del pubblico e non sentii più il mio maestro. Il destro di Zara mi arrivò al mento, preciso e mostruoso. Mi si chiusero gli occhi ed entrai in un'ombra, nell'inchiostro nero del match, abbandonato da tutte le forze, e dalla coscienza che volò via.

«Tullio», urlò Camerlingo.

La sua voce mi giunse debole, non fu un urlo ma un lamento nelle mie orecchie, e mi giunse da lontano, e lontano se ne andò come un'eco. Le grida del pubblico furono tanti piccoli echi che si spensero subito nella mia testa. Non mi accorsi di andare giù, e di tutto quello che successe sul ring.

Ebbi la sensazione che qualcuno mi sollevasse. Sentii delle pressioni sul corpo ma non avevo coscienza di cosa fossero.

Quando ripresi conoscenza, ero steso sul lettino dello spogliatoio ma non capivo dove fossi.

Sentii una voce lontana, flebile, che mi ripeteva:

«Che giorno è? Che giorno è?».

Era il medico che me lo chiedeva, chino su di me. Era un'ombra in quel momento.

Risposi a fatica, gli occhi socchiusi, il corpo pesto.

«Non lo so. Non mi ricordo».

Intravidi Camerlingo e mio padre. Ripresi coscienza lentamente. Avevo un mal di testa da scoppiare.

«Che cosa è successo?», chiesi. Ancora non me ne rendevo conto. «Che giorno è?».

Cominciai a capire. Rimasi in silenzio, poi mi alzai lentamente. Facevo fatica a camminare e a casa, insieme a mio padre, mi accompagnò il maestro.

Mi stesi sul letto ma non fui in grado di trovare una posizione che non mi facesse soffrire. Per il dolore non riuscivo a poggiare la testa sul cuscino. Soffrivo molto, avevo voglia di dormire ma non ne ero capace. Guardavo il soffitto per mettere meglio a fuoco le cose lontane, lontane come il ricordo di quando ero bambino e sognavo di combattere contro colossi e mostri, e li battevo sempre.

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Pagina 33

Le chiese, le trattorie, il grande edificio vanvitelliano, una folla rumorosa e variopinta. Era questa piazza Dante. I tram con scugnizzi aggrappati ai trolley e tanti venditori ambulanti. Il più famoso era Fortunato. Con il suo berretto bianco e le maniche del camice rimboccate assomigliava a Braccio di Ferro. Prima di ogni altro sindacato, Fortunato aveva inventato la settimana corta. "Questo esercizio resta chiuso il lunedì per riposo del personale", aveva scritto sul cartello che troneggiava sul suo carretto. Vendeva taralli, biscotti fatti di sugna, pepe e mandorle. Erano i più buoni di tutta la città. Per attirare la clientela era solito urlare con una voce possente che sovrastava il frastuono: «Fortunato tene a robba bella, 'nzogna, 'nzo».

Fortunato non era l'unico personaggio singolare della piazza. All'angolo del Cavone c'era una donna bruna, non molto giovane ma avvenente, e alta, con lunghe gambe ben fatte, mostrate oltre i ginocchi con un sapiente gioco della gonna, un'attrattiva non indifferente. Per l'altezza la chiamavano Maria 'a longa.

Aveva un seno molto ammirato e vendeva sigarette di contrabbando. Le vendeva sciolte, traendole dai pacchetti, e le offriva con un'allettante particolarità. Nella scollatura generosa, con miracoli di equilibrio, poneva e tratteneva una decina di sigarette. Al compratore, che fosse bello o brutto, giovane o vecchio, concedeva di metterle la mano tra i seni e prenderle.

Era la venditrice più popolare di Napoli e fece scuola perché il suo metodo fu copiato da altre donne senza vergogna. Le sigarette comprate a quel modo furono dette sigarette cu' 'o sfizio. C'erano compratori assidui che se ne beavano molto e venditrici che inseguivano i più audaci e insistenti, ma era tutta una scena.

Il contrabbando delle sigarette dava da vivere a molte famiglie, pare che fossero addirittura ventimila. La polizia ogni tanto faceva una sorpresa ma tollerava in gran parte la vendita spicciola. Le sigarette di quel tempo si chiamavano Old Man, Chesterfield, Lucky Strike. Sul pacchetto delle Old Man c'era il disegno di un vecchio uomo con la barba e la pipa. I venditori le reclamizzavano con una curiosa filastrocca che, sulle prime, servì a sviare l'attenzione dei finanzieri ma, una volta decifrata, rimase come grido di attrattiva per i compratori. "Tengo 'o viecchio c' 'a barba (Old Man), 'ncoppa 'o cesso e' fierro (Chesterfield), allucca e strilla (Lucky Strike)".

Di tutti i personaggi di piazza Dante, don Ciccio era il più sorprendente. Alto, distinto, con un vestito sempre uguale ma ben stirato, sembrava più vecchio dei quarant'anni che aveva.

Riparava accendini e perciò lo chiamavano don Ciccio 'a machinetta. "Macchinetta" è l'equivalente napoletano di accendino. E aveva un banchetto con gli accendini in mostra. Don Ciccio riparava quelli modesti, di poco valore, e gli altri, quelli più preziosi e ricercati, se li vendeva. Con un sorriso disarmante ne rimandava la restituzione ai proprietari dicendo che non erano ancora pronti, bisognava avere pazienza, che tornassero il giorno dopo. Aveva modi così gentili che i clienti non si arrabbiavano mai con lui, e la maggior parte rinunciava a tornare in possesso dell'accendino. Insomma, don Ciccio riusciva sempre a farsi perdonare per il disguido, come lo definiva lui.

Una mattina don Ciccio non apparve al suo posto e pensai che qualcuno gli avesse fatto pagare il giochetto degli accendini. Riapparve dopo pochi giorni, con il solito banchetto e l'immancabile sorriso. E raccontò quello che di incredibile, di indimenticabile e di eccezionale gli era capitato. Insomma un miracolo. Così disse al piccolo gruppo di persone che si era subito formato intorno a lui.

«Mia moglie aveva le doglie e io non avevo una lira per farla partorire. Oggi chi ti può aiutare? Non abbiamo parenti e io avevo bisogno di un medico, di una levatrice. Allora ho preso il coraggio a due mani e ho telefonato».

Lo guardammo con curiosità.

«Ho telefonato, sì», continuò. «E a chi? Ad Achille Lauro, a lui in persona, al sindaco Lauro. Ho telefonato a casa sua. C'è il Comandante? Il Comandante non c'era. Allora ho telefonato alla Flotta. Non c'era neanche là. Ho chiamato in Municipio. C'è il sindaco? Il sindaco c'era. Fatemi parlare con Lauro. L'ho detto in un modo che quelli si sono messi paura. Forse hanno pensato che io ero un altro comandante, un altro sindaco, perché ho detto forte e chiaro: fatemi parlare con Lauro! E mi hanno passato davvero Lauro. La sua voce cupa e rantolosa non mi ha messo soggezione. Ero in ballo e dovevo ballare».

Don Ciccio apprezzò il nostro stupore e continuò a raccontare la sua impresa.

«Pronto, dice lui. Pronto, dico io. Chi sei, dice lui. Mi chiamo Esposito Francesco, mia moglie deve partorire e io non so come fare. Sindaco, mi dovete aiutare. Così ho detto, chiaro e tondo. E lui mi ha risposto non ti preoccupare, stai tranquillo, adesso ti passo il segretario e tu gli dici chi sei e dove abiti. E poi ho sentito la voce del segretario che mi urlava dite, dite, parlate più forte, come vi chiamate e dove abitate. Aveva proprio una voce antipatica, e dopo avergli detto quello che voleva sapere ha chiuso la conversazione bruscamente, senza neanche un saluto. Sono tornato a casa e ho detto a mia moglie che avevo chiamato il sindaco Lauro dal telefono del bar sotto casa nostra. Hai chiamato Lauro?, ha detto lei spaventata. Sì, l'ho chiamato, ho detto io. E per fare che?, ha chiesto lei. Per farti partorire con un medico, ho risposto. E lei non ha detto più nulla».

«E poi, che cosa è successo?», gli chiese mio fratello Amedeo.

«Dopo un'ora, forse anche meno», disse don Ciccio, «è successo che hanno bussato alla porta. Erano un uomo e una donna. L'uomo ha chiesto se c'era in casa una partoriente e se io ero il marito e, poiché così era, lui ha detto lasciatemi passare, dov'è vostra moglie. La donna ha chiesto dove poteva far bollire dell'acqua. E due ore dopo mia moglie ha partorito. Il medico e l'infermiera li aveva mandati Lauro».

Don Ciccio espresse a gesti, e con una smorfia del viso, la meraviglia che ancora lo soggiogava.

«Avete capito? Li aveva mandati Lauro. Perciò da oggi in poi guai se sento parlare male di lui».

«Ma voi siete monarchico?», gli chiese mio fratello.

«E che c'entra? Io sono anarchico individualista. E poi, con Lauro mi sono disobbligato. Sono andato da lui e gli ho portato un accendino, di quelli dei marinai americani, quelli grossi e di metallo che il vento non ne spegne la fiamma. Me l'avevano dato da riparare», aggiunse con un furbo sguardo d'intesa.

Forse l'ultima parte della storia se l'era inventata per concluderla con un altro colpo a sorpresa. Da allora don Ciccio la ripeté a molti clienti arricchendola sempre di nuovi particolari.

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Pagina 70

Cominciai a trascorrere più tempo in libreria, soprattutto nei mesi di settembre e ottobre quando, con l'inizio dell'anno scolastico, la vendita aumentava enormemente.

Alla fine di ottobre, quando tutto ritornava alla normalità, venivano molti librai della provincia a cambiare i volumi invenduti con dizionari e atlanti, lasciandoci un margine di guadagno notevole.

Quei libri, per loro non più commerciabili, costituivano per noi un ottimo affare. "Chissà quanti altri librai della provincia hanno libri che sanno di non vendere più e che sarebbero felici di cambiare con qualche dizionario. E se andassi io da loro?", pensai.

Partii con Carlo De Maio, il fratello di mio cognato, proprietario di uno scassatissimo furgone. Con quello cominciammo il nostro lavoro.

«Cambiamo libri scolastici che non vi servono con atlanti e dizionari che venderete sempre», era la frase con cui ci presentavamo nelle librerie di ogni periferia.

I libri che prendevamo li vendevamo a Carlo Pironti, il mio ricco cugino al quale si rivolgeva la maggior parte dei librai napoletani nei momenti di crisi. Altre volte, quando ci trovavamo oltre Roma, li portavamo alla libreria Nanni di Bologna.

Continuai con quel lavoro ancora per un po' e con il denaro guadagnato comprai una motocicletta. Poi seppi che in via Domenico Capitelli, in pieno centro storico, si cedeva una piccola libreria.

La rilevai e, a pensarci adesso, l'entusiasmo iniziale non mi rese subito cosciente dei problemi a cui andavo incontro. Benché situata in una buona posizione, a poca distanza da piazza del Gesù e dal chiostro di Santa Chiara, una zona popolata da studenti e professori, avrei dovuto affrontare una grande concorrenza: in duecento metri vi erano undici librerie. Il gestore precedente non ce l'aveva fatta e l'aveva ceduta per disperazione.

Un'idea. Ecco quello che mi serviva. E in pochi giorni l'idea venne.

A quei tempi le case editrici Laterza ed Einaudi praticavano uno sconto del cinquanta per cento ai librai che riuscivano a realizzare un ottimo fatturato. Dovevo assolutamente procurarmi quei libri con lo stesso sconto. Mi misi d'accordo con il proprietario di una grande libreria. Lui avrebbe ordinato i libri anche per me e io glieli avrei pagati in anticipo.

Quando ebbi i primi volumi, tutte le novità del momento, li esposi con il trenta per cento di sconto. In pochi giorni li vendetti tutti. Fu così che il mio giro di affari, nello spazio di un anno, crebbe straordinariamente.

Come crebbe l'ira degli altri librai. Compresa quella di Fausto Fiorentino, che pubblicava libri raffinatissimi e che aveva a poca distanza dal mio negozio la sua libreria. All'ingresso aveva esposto una fotografia, di cui andava molto fiero, che lo ritraeva insieme a Benedetto Croce del quale era stato grande amico. Fausto era un mio cugino, un cugino illustre. Liquidò la sorpresa e le preoccupazioni dei librai di via Capitelli con una sentenza che non ammise dubbi: «Tullio vende libri nuovi con lo sconto del trenta per cento? Allora sono libri rubati».

[...]

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Pagina 113

Silvia Kramar, corrispondente da New York per Il Giornale di Indro Montanelli, viveva negli Stati Uniti da più di dieci anni. L'avevo conosciuta durante uno dei suoi rientri in Italia e da allora, tutte le volte che tornava in America, mi chiamava quando c'erano novità letterarie interessanti.

«Sono appena usciti due buoni libri e varrebbe la pena che tu considerassi la possibilità di acquistarne i diritti per l'Italia», mi disse durante una di quelle telefonate che arrivavano nelle ore più impensate.

«Spiegami di che cosa si tratta», le chiesi.

«Uno dei due è una storia di dolore. L'altro è scritto da un giovanissimo californiano sconosciuto fino a poco tempo fa. Si intitola Less than zero e qui se ne parla molto. Bret Easton Ellis, questo è il nome dell'autore, ha diciotto anni ma è già una star nelle librerie. Nel romanzo parla della gioventù dorata americana che si droga, delle famiglie dove non c'è più amore, né dialogo o confidenza, solo soldi, e i giovani sono abbandonati a se stessi. In breve, sesso, droga e alienazione».

«Puoi mandarmi una nota per ognuno?», dissi.

Pochi giorni dopo mi arrivarono due esaurienti schede informative. Uno dei due libri parlava della morte di una madre. Una storia davvero straziante, come Silvia mi aveva anticipato al telefono. L'altra riportava più dettagliatamente quello che già sapevo. Di entrambi la stampa parlava benissimo e entrambi, in poco tempo, avevano venduto moltissime copie.

A rappresentare in Italia le case editrici dei due romanzi era Denis Linder, succeduto al padre Eric nella grande agenzia letteraria milanese da lui fondata. Eric Linder era stato una vera autorità nel suo campo. Il figlio ne aveva ereditato il prestigio e molte qualità professionali. Seppure con un certo scetticismo, scrissi a Denis Linder per ottenere i diritti dei due libri americani. Non mi aspettavo una risposta perché pensavo che molto probabilmente neppure conoscesse il mio nome. E invece Linder rispose. Mi disse che ai due libri erano interessati altri editori e che ci sarebbe stata un'asta telefonica.

Un'asta telefonica non l'avevo mai fatta e non avevo idea di come andassero le cose.

Linder mi chiamò all'ora e nel giorno stabilito.

«È pronto?», mi chiese.

Alla mia risposta affermativa disse:

«Bene. Possiamo aprire l'asta. Sono collegato con altri editori e ognuno di voi farà la sua offerta. Lei quanto offre per il libro di Ellis?».

Il gioco era cominciato.

«Cinque milioni».

«E per l'altro libro?».

Dissi l'identica cifra.

«Va bene», disse Linder. «Aspetti che ora sento le altre offerte. La richiamo fra cinque minuti».

Puntuale, il telefono squillò dopo cinque minuti.

«Pironti», disse Linder, «ho avuto offerte di otto milioni per un libro e altrettanti per l'altro».

Rilanciai subito.

«Offro dieci milioni».

«Il primo rilancio», mi spiegò Linder, «deve essere del cinquanta per cento in più rispetto all'ultima offerta, come minimo».

«Allora dico quindici e quindici», risposi immediatamente.

«Sento gli altri e la richiamo».

«L'ultima offerta che ho avuto è di venticinque milioni per ognuno dei libri», mi comunicò nella successiva telefonata.

Il gioco si stava facendo pesante.

«Continuo solo per il libro di Ellis», dissi.

Mi rispose che era possibile fare offerte singole. Mi avrebbe richiamato ancora dopo cinque minuti.

La mia agitazione aumentava a mano a mano che squillava il telefono. "Dove potrò arrivare?", mi chiedevo. Non ne avevo idea, ma era ottobre e in libreria la vendita dei testi scolastici mi dava una certa sicurezza. Probabilmente avrei avuto la possibilità di fare un'altra offerta prima di ritirarmi.

La telefonata arrivò puntuale.

«C'è un'offerta di trentacinque milioni per il libro di Ellis».

«Quaranta milioni», dissi.

Avvertii la sorpresa di Linder all'altro capo del filo.

«Ha lasciato l'altro libro. Lasci anche questo. Si sta intestardendo», mi consigliò.

«Chi sono gli altri editori?», chiesi.

«Questo non glielo posso dire», rispose. «Ma le posso dire che sono editori importanti».

«Ha ragione», dissi. «È una gara insostenibile. Devo proprio lasciare?».

«Forse un'opportunità ce l'avrebbe. Per le offerte oltre i cinquanta milioni, gli altri devono riunire il consiglio di amministrazione, non possono decidere su due piedi. Lei può farlo subito, se crede».

Era quella la strada per spuntarla.

«Cinquantuno milioni» dissi, e cominciai a sudare freddo.

Era davvero una grossa cifra quella che avevo offerto.

«La richiamo fra cinque minuti», disse Linder.

In quella che mi sembrò un'attesa interminabile, pensai ai risvolti disastrosi che avrebbe potuto avere quella mia caparbietà.

«Il libro di Ellis è suo».

Quella frase di Linder mi riscosse dalle fantasticherie in cui mi ero perso.

«Il suo più accanito concorrente ha deciso di continuare solo per l'altro libro».

«E chi è l'altro concorrente? Ora che è tutto finito, spero possa dirmelo», dissi.

«Non potrei neppure adesso ma faccio uno strappo alle regole».

«E allora?», chiesi. Ero troppo curioso.

«A voler maggiormente il libro di Ellis era Mondadori».

Incredibile. Avevo gareggiato con il più grande editore italiano. Ora, però, dovevo pagare all'agenzia letteraria i cinquantuno milioni e avevo pochi giorni per farlo. Non potevo più tornare indietro, dovevo solo affrettarmi a pagare Linder e a fare tradurre il libro.

Mi ero lasciato prendere la mano e, come alla roulette, avevo puntato tutto su quel giovane scrittore. "Se in America ha venduto centinaia di migliaia di copie, in Italia riuscirò a venderne almeno quindicimila per rifarmi dei costi?", mi chiedevo. Neppure i conti che avevo fatto, tra una telefonata e l'altra, riuscivano a rassicurarmi.

Per giorni quel pensiero non mi diede pace, poi un pomeriggio in libreria un impiegato svagato disse:

«C'è una certa Pivano al telefono che vuole parlarti».

«Pronto», dissi.

«Sono Fernanda Pivano».

«Signora Pivano», dissi emozionatissimo «Che piacere sentirla!».

«È lei che ha comprato i diritti di Ellis, vero?».

«Sì».

«Ma come ha fatto? È incredibile».

«Mi è stato segnalato dall'America, da una mia amica che vive lì, Silvia Kramar».

«Lo sa che è un grande libro? Doveva prenderlo Mondadori, lo sa?».

«L'ho saputo», dissi pieno di orgoglio.

«Ma come ha fatto?», lei insisté.

«Ho partecipato a un'asta telefonica e alla fine ho saputo contro chi avevo gareggiato. Acquistare quei diritti, per un piccolo editore come me, è stata una scommessa. La sua telefonata mi incoraggia. Comincio ad avere meno paura di quello che ho fatto».

«Ma lo sa che Ellis ha scritto questo libro a diciassette anni ed è la grande promessa della letteratura americana? Lei ha avuto coraggio e audacia. Le scriverò un saggio su Ellis e glielo manderò, senza compenso. Lei mi ha davvero stupita».

Arrivarono cinquanta cartelle dattiloscritte, un saggio sulla letteratura americana contemporanea. Con quelle bellissime pagine il libro di Ellis era completo. Mi restava solo da scegliere un ottimo traduttore. Non potevo rovinare tutto con una cattiva traduzione. Pensai di rivolgermi a Francesco Durante, stimato giornalista oltre che esperto di letteratura americana. Lo conoscevo da alcuni anni ed ero sicuro che avrebbe fatto un lavoro perfetto. Francesco aveva simpatia per me. Qualche tempo prima, mi aveva regalato una copia di Seminario sulla gioventù, di Aldo Busi, dicendomi: «Leggilo. Questo è uno dei migliori libri degli anni Ottanta».

Andai in via Chiatamone, alla redazione de Il Mattino, dove lui lavorava come redattore capo alla cultura. Avevo con me il romanzo di Ellis e il saggio di Fernanda Pivano. Francesco mi accolse come sempre con quel suo affascinante sorriso e accettò di tradurre Ellis. Poi mi disse:

«Perché non provi a comprare anche i diritti di un altro americano, Raymond Carver? È un grande della letteratura americana ma in Italia è poco conosciuto».

«Ci proverò», risposi. «Non mi dispiacerebbe affatto iniziare una collana di scrittori americani».

Ritornai in libreria e telefonai a Fernanda Pivano per chiederle di Carver.

«Sai Tullio, proprio la settimana scorsa sono stati miei ospiti lui e la sua compagna Tess Gallagher. Dovresti vedere come sono carini. Appena si parla di letteratura, cominciano a litigare. Lei dice che per ogni libro che ha scritto Carver, è stata sua l'idea. È per questo che litigano in continuazione ma sono due persone eccezionali. Anche Tess è una brava scrittrice. Ti consiglio di provare a comprare i diritti anche di qualche suo romanzo. Contatta l'Agenzia Letteraria Linder».

Come mi avevano suggerito Francesco Durante e Fernanda Pivano comprai i diritti di Ultramarine e Fires di Raymond Carver e L'amante dei cavalli di Tess Gallagher.

I primi libri che diedi a tradurre furono quelli di Carver. Mi piacque molto Fires che, tra le altre, conteneva una poesia dedicata a Bukowski dal titolo Voi non sapete che cos'è l'amore. Era così bella che decisi di dare al libro quel titolo anziché utilizzare la traduzione di quello originale, Fuochi.

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