Copertina
Autore Guglielmo Pispisa
Titolo La terza metà
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, X , pag. 264, cop.fle., dim. 13,5x20,5x1,7 cm , Isbn 978-88-317-9595-1
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


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Indice


   9  Prima metà

 119  Seconda metà

 203  Terza metà

 

 

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Pagina 4

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Pagina 11

1.



Guardo il cielo di latte acido; un velo di caglio incombe sull'arida terra e su noi peccatori. Aspiro l'ennesima boccata dalla sigaretta e sento i polmoni invasi dal fumo caldo, misto all'aria del mattino.

Fumare ormai non può più farmi male, visto che sono morto tre giorni fa. Schiattato, passato nel regno dei più. Finito. Sottratto al terreno fardello che tutti ci portiamo dietro. Che tutti si portano dietro.

È stato un bell'incidente, ottima coreografia, e io mi intendo di queste cose, non parlo tanto per parlare. L'auto sbanda imboccando un tornante - quella maledetta ghiaia sull'asfalto –, abbatte il guard-rail e precipita nel fosso. Precisa precisa, manco avessero disegnato la scena apposta. La testa sfonda il parabrezza e la vita se ne va, semplice com'era venuta. Poi arriva il fuoco. Le auto non vanno a fuoco di solito, a parte che nei film, e tantomeno esplodono, sempre a parte i film. La mia invece si incendia – non arriva a esplodere, il coreografo non è così sfacciato, ma si attizza un bel focherello. Purificatore.

Chiunque abbia avuto la necessità di accostarsi a un morto di tre giorni, per giunta in simili circostanze, avrà impresse nella memoria immagini poco piacevoli: la consunzione dello strato cutaneo superficiale, le macchie violacee in corrispondenza della pelle rimasta, dove la gravità ha fatto depositare il sangue privo di spinta cardiaca. E poi l'odore, appiccicoso e persistente, carbonella dolciastra. Una galleria di particolari macabri. Ma di certo nesssuno fra questi fortunati osservatori avrà mai riscontrato in un defunto l'attitudine ad accendere sigarette e a consumarle con nervosa voluttà. Sono dunque un uomo speciale, nessuno può negarlo. Decedo in modo incongruo, così come sono vissuto; me ne rendo conto, eppure non posso farci niente perché per l'anagrafe, per la medicina legale, per gli addolorati amici e soprattutto per i nemici quel poveretto di me è più morto di Abramo Lincoln.


Non ho resistito, non ho saputo starne lontano. Chi saprebbe vincere la tentazione di dare una sbirciata al proprio funerale? Spiare non visto le reazioni, contare le lacrime e gli sbadigli, vedere se viene quello e con chi se ne va quell'altra. Pochi i virtuosi, ci scommetto. E fra questi pochi non ci sarebbe il vecchio Hieronimus. Che poi sarei io.

In chiesa nessuno ha fatto caso a una delle tante vecchiette devote, sempre contente di assistere alla funzione, fosse pure un funerale, nella convinzione di santificarsi e magari di allontanare per quanto possibile il proprio. Chi avrebbe indovinato che sotto le rughe di lattice e la gobba coperta dallo scialle si nascondeva il festeggiato? Al cimitero ho abbandonato il teatro per la tecnologia, accontentandomi di seguire la sepoltura a distanza, dietro un terrapieno a una cinquantina di metri dalla tomba, dotato di binocolo e microfono direzionale.

Risultati scarsi e noiosi. Non raccomando a nessuno di andare al proprio funerale, da vivo. Molto meglio restare a letto a dormire, che gelarsi il culo in chiese tardoromaniche e poi in cimiteri sferzati dal vento d'autunno. Dev'esserci un haiku adatto alla mia situazione che parla del vento d'autunno, ma non lo ricordo bene. C'è sempre un haiku adatto a ogni tempo della tua vita, perché negli haiku i poeti sembrano non poter fare a meno di citare le stagioni, quasi che gli porti sfortuna il contrario: vento d'autunno, luna di primavera, fiore estivo e scemenze così. Stringi stringi, non significano un cazzo, e per questo esprimono al meglio la condizione umana. Poesie fatte di misura e di bellezza, ossia ben più di quel che serve. E poi fanno fare sempre una gran figura, la gente tende ad associare quello che non capisce, specie se viene dall'oriente, con la saggezza. Sei esperto di criptica poesia giapponese? Non puoi essere un imbecille.

L'unica cosa degna di nota, oggi, è la mia reazione emotiva. Avrei scommesso che assistere all'interramento del mio corpo putativo sarebbe stata un'esperienza interiore apprezzabile. Deprimente, portatrice di lugubri solitari pensieri e tutto quanto. Invece.

Niente.

Una decina di persone, alcune delle quali mai viste, compreso il sacerdote che sembra darsi un mucchio da fare agitando il turibolo all'indirizzo della cassa. Ci si è messo di buona lena a inondare i miei resti mortali di incenso, manco lo pagassero a cottimo, il pretonzolo, o manco ne andasse davvero della salvezza dell'anima mia. Fa ondeggiare con furia l'attrezzo fumante avanti e indietro infinite volte, prima da una parte, poi dall'altra, e ancora fino a percorrere l'intero perimetro del feretro, posto a lato della fossa. Intanto pronuncia oscure nenie di un rituale lugubre ma solenne, buono per simili occasioni. Le sue formule, però, suonano frettolose, approssimative. Mi rovina il requiem, 'sto pretonzolo ignorante. Non c'è proprio niente da fare, quando vuoi una cosa fatta per bene, devi fartela da te.

I becchini aspettano di canto, neri e indifferenti come la loro professione, di essere interpellati per il lavoro sporco. Che, puntuale, arriva. Mi calano nella fossa e io fumo, batto i piedi per terra, osservo col binocolo e rubo le discussioni col microfono direzionale. Fottendomene. Come se la cosa non riguardasse me, ma uno fra le decine di poveracci a cui ho manipolato e interrotto la vita nel corso della mia carriera. Nessuna pietà per loro, nessuna pietà per me.

Giacomina sta davanti a tutti, fissa e dura come un obelisco. Infinitamente vecchia e piccola e forte, difende il suo ruolo di ex tata dal tempo e dagli eventi. Non posso vederla in faccia da dove mi trovo, ma giurerei sulla sua espressione. Le rughe scolpite dal vento nel calcare, le macchie marroni sulla pelle impazzita dagli anni, gli occhi minimi sotto cespugliose sopracciglia e lenti bifocali. Né languidi né bagnati né freddi, quegli occhi. Velati di cataratta. Essenziali.

Compatta nel suo soprabito con collo di pelliccia in lapin, emana un'energia elementare che impedisce a chiunque di avvicinarla a più di mezzo metro. Grande.

La testa di lucertola scatta breve a destra e a sinistra. L'unica donna seria che mi sia rimasta.

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Pagina 26

4.



Un po' mi fa rabbia essermene andato così. Da un punto di vista strettamente professionale, intendo. Ho fatto un buon lavoro. Ci ho messo cervello, contatti, soprattutto pazienza. Ce ne vuole molta quando si va per tentativi, e chi fa il mio mestiere ci va spesso, per tentativi. Ti butti in una strada sconosciuta e la segui fino a quando non ti accorgi di essere sulla strada sbagliata; poi ricominci daccapo.

Dopo un paio di mesi che ero al lavoro - il mio ultimo – il dubbio di trovarmi su una falsa pista mi aveva colto giusto mentre mi accingevo a vibrare una sprangata alla vetrina di una banca. Le sirene strillavano in lontananza, come se me ne importasse qualcosa. La città era un inferno di fumo e urla, cortei di manifestanti in rotta e camionette della polizia che scorrazzavano intorno. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto badare a me e ai miei compari, pregiati galantuomini incappucciati di nero intenti a vandalizzare proprietà private? La stampa li aveva chiamati black-bloc, i galantuomini, perché a tutto la stampa deve dare un nome e una casellina. Questo contribuiva a dipingerli più organizzati e cattivi di quanto non fossero in realtà, come invece stavo appurando in prima persona. Loro la chiamavano organizzazione fluida, dinamica, acefala, per colpire con azioni dirette gli interessi delle multinazionali. Ma era un gran casino, più che altro. Il volto duro della contestazione, quelli che non scendono a compromessi, quelli che non gliene fotte niente. Piccoli gruppi disomogenei, molti singoli, conoscenze approfondite su internet e nei rari appuntamenti collettivi dediti allo sfascio di tutto. Ideologia anarcoide, confusa ma liberatoria. Cazzo tutto questo è sbagliato, cazzo distruggiamolo.

Qualcuno si era pure dato la pena di buttar giù dichiarazioni d'intenti e ascendenze filosofico-politiche, i teorici non mancano mai. Distruggere la proprietà privata per convertirne l'utilizzo ed espanderne il valore d'uso; abbattere le vetrine dei supermercati per far filtrare benefico vento rivoluzionario all'interno dell'oppressivo e stantio microclima capitalistico; infrangere vetrine per infrangere con esse i tabù imposti dalle multinazionali a tutela dei loro sporchi interessi. Come se quattro sprangate ogni tanto potessero davvero impensierire quegli interessi; come se quelle vetrine rotte non venissero subito sostituite da altre vetrine, prodotte dalle multinazionali, installate da piccole società facenti capo a grandi gruppi ancora al soldo di quelle multinazionali, alimentando un ulteriore circolo vizioso che, guarda un po', arricchiva le multinazionali. Come se i mass-media, dopo i primi interventi dei black-bloc, non li avessero già masticati e digeriti, metabolizzandoli a perfezione nel grande vuoto ideologico generale. La gente aveva visto i blacks in tv e, come a tutto il resto, si era abituata. Non avrebbero più risvegliato niente.

Ma l'essenza del fenomeno non stava lì, non erano quattro parole di motivazione scritte post factum che servivano a comprendere il fascino dei nuovi incazzati di turno. Il senso stava nell'azione personale, nel suo potere catartico: prendi tutto ciò per cui le persone si affannano scioccamente ogni giorno, che desiderano e bramano, e lo riduci a un mucchio, di rovine fumanti, poi ci pisci su per spegnerle. Attacchi gli oggetti e stai a guardare la faccia che fanno i proprietari quando, per una volta, sono loro a subire un dolore causato senza motivo e senza pietà. L'unico dolore che il loro materialismo gli permette di provare. Farli sentire vulnerabili e godere. Un atteggiamento che può stare a destra quanto a sinistra, non è quello il punto. Il punto è il benessere fisico che ne ricavi. Non cambierai il mondo, ma ti senti molto meglio.

E questo pensai quando la punta della spranga incocciò il liscio cristallo antiproiettile, spargendomi una dolorosa ma tonificante vibrazione dalle mani su lungo le braccia e le scapole, e poi giù per la spina dorsale e il culo, fino alle suole delle scarpe che scaricarono l'energia a terra. Ben piantato nei miei anfibi, mi sentivo bene come un piccolo dio perfido. Una ragnatela di crepe si era dipartita a raggiera dal punto dell'impatto verso le modanature della vetrina. Ancora, sì tesoro, così. Caricai la spalla indietro e poi di nuovo giù, una bella botta che mi rimbombò nelle orecchie come una cannonata. Una volta, due, tre. Il collega affianco a me faceva il possibile per escogitare nuovi creativi impieghi per il bancomat li vicino, sventrandolo con un piede di porco, facendolo fiorire di inediti significati con la bomboletta spray.

Sfilò un'altra camionetta della polizia, molto vicino e molto lentamente. Ci lasciavano fare. Riprendevano e fotografavano tutto, ma ci lasciavano passare. Laissez faire, laissez passer, il liberismo applicato dalle forze dell'ordine. Fu una sensazione netta; mi capita, alle volte, senza apparente motivo: lo stomaco capisce prima del cervello. Stavo perdendo tempo. Era troppo divertente per non essere una perdita di tempo. La nuova sovversione – il mio obiettivo – non si nascondeva in mezzo a questi bravi ragazzi, non era qui che dovevo cercare, questa era l'ora di educazione fisica, o la ricreazione, semmai. Le lezioni pratiche stavano da un'altra parte, chiuse dentro aule silenziose. Mollai la spranga, indietreggiando; il collega dedito al bancomat mi guardò e disse qualcosa a cui non prestai orecchio, mentre già risalivo il marciapiede verso la stazione.

Svoltato l'angolo, mi imbattei in un altro gruppetto che stava spostando cassonetti in mezzo alla strada per creare una barricata: nuove interpretazioni e riletture dell'arredo urbano. Un tizio con un passamontagna antiquato, col pomello in cima, e scarpe da tennis rosse cercava, insieme ad altri due, di rovesciare un'auto. Quando mi vide, mi fece cenno: «Oh, te! Aiutaci un po' con 'sta macchina.»

Avevo già visto quelle scarpe da tennis rosse, alcune ore prima, accanto a una volante. Il tipo parlava con altri uomini in borghese, con un bastone in mano. Non ricordavo bene come fossero vestiti gli altri, ma ero certo di averli rivisti in seguito, incappucciati a fare casino nel mucchio.

«Allora, vieni o no?» Scossi la testa in segno di diniego, con lentezza. «Che c'è, te la fai sotto?» Continuai a camminare, poi ebbi un'esitazione. Spostai la medaglietta che portavo appesa al collo, fino a passarla dietro le spalle, e tornai sui miei passi.

Il tipo mi aspettava ancora accanto alla macchina e, quando vide il mio dietro-front, portò una mano dietro la schiena. La paura si cela sempre dietro piccoli gesti.

«Forza, tiriamo su 'sta carriola» dissi. La sua mano ricomparve vuota da dietro la schiena: lo avevo tranquillizzato. Mi sistemai accanto a lui e feci molleggiare un po' l'auto, scuotendola dalla parte della fiancata. Il tipo appoggiò le mani al montante di un finestrino e spinse. Proprio in quel momento gli sfilai la pistola dalla cintura dei pantaloni, dietro la schiena. Calibro nove parabellum: esercito, forse. Si girò di scatto, ma prima ancora che potesse capire cosa stava succedendo scarrellai per mettere il colpo in canna e gli restituii l'arma. Gliela strinsi con entrambe le mani nella sua destra e me la puntai allo stomaco. I suoi occhi arrossati, resi pazzi dall'incomprensione, balenavano nell'apertura del passamontagna.

«Che cazzo fai?»

«Che cazzo fai tu, maresciallo?» risposi. «Non dovresti stare da questa parte della barricata.» Rimase immobile e silenzioso per un lungo istante; avevo la sua attenzione.

«Che ti infiltri a fare con questi? Gli fai solo un favore, due braccia in più.»

«Ma cosa...» Portai il dito indice all'altezza della bocca, mentre mi allontanavo.

Sapevo bene che infiltravano questi per fottere gli altri, ma era stato divertente guardare l'espressione dei suoi occhi mentre lo sputtanavo.

Continuai a camminare verso la stazione ferroviaria, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Dall'altro lato della strada vidi una jeep della polizia ferma a un incrocio, e quattro agenti sopra. Mi resi conto di avere ancora il passamontagna e lo sfilai, guardandoli mentre rallentavo fino a fermarmi. Mi fissarono anche loro, poi distolsero lo sguardo mentre la jeep accelerava.

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Non sono un uomo buono, tantomeno sono un uomo giusto. Non sono né buono né giusto e non pretendo di fare cose buone e, giuste. Faccio quello che faccio. Perché mi piace, potrei dire. Difficile trovare altre oneste motivazioni. Non per il bene degli uomini, mai per giustizia, a meno che questa non incroci per caso gli scopi di chi mi impartisce gli ordini. Il paese, la sicurezza e la salute pubblica non c'entrano. C'entrano il mio gusto personale, la bellezza e il piacere di dominare e manipolare in segreto la vita, o aspetti della vita, di persone che mai verranno a saperlo. La passione per un lavoro ben fatto, l'unico mai imparato, per il sotterfugio e l'intrigo, la pancia prima del cuore, anzi al suo posto. Un piacere sadico e voyeuristico ben lontano da concetti astratti come la ragione o il torto. Io, quelli come me... noi siamo oltre il Bene e il Male e tutte le cagate con cui si gingilla la gente comune, che noi peraltro disprezziamo. Non vado in chiesa e non ne cerco una nelle mie azioni. La differenza fra me e quegli altri risiede in un atto di coraggio e presunzione: quando molti anni fa qualcuno me lo ha chiesto, non mi sono posto problemi morali, non ho pensato a cosa avrebbe detto la gente di me, a come mi avrebbe giudicato Dio, ma ho scrollato le spalle e sorriso e detto: Perché no? Ho scelto di sperimentare, e di essere l'unica misura etica del mio agire. Superomismo? Non la butterei in filosofia, meglio dire superegoismo. Compiaciuto e immune da rimpianti.

Aris comprese quanto fossi adatto alle sue esigenze il secondo o il terzo campo consecutivo che mi aveva fatto sorbire. Le lunghe sessioni di addestramento condotte lontano dalla caserma, in luoghi desolati e impervi dove i soldatini devono accamparsi in tenda e sopravvivere come possono, impiegando il tempo a giocare alla guerra. I carristi imparano a mimetizzare i loro mezzi corazzati, a interrarli e a farli sbucare fuori con prontezza. I fucilieri dovrebbero imparare a uccidere. Ad alcuni viene più facile che ad altri.

Avevamo piantato le tende alle pendici di un rilievo prospiciente una valletta spoglia. Era estate piena e il fiume scorreva lungo la valle ridotto a meno di un torrente, che rendeva la flora circostante ancor più arida di quanto non fosse di solito — e doveva esserlo già parecchio di suo. Rade macchie di verde punteggiavano un paesaggio altrimenti roccioso e lunare, dove si muovevano i piccoli uomini in mimetica, sempre in fila da una parte all'altra del campo. Una fila per ogni cosa, per mangiare, per pisciare, per tirare le bombe a mano. La fila è una condizione naturale per il soldato, come la sete. Costante, inestinguibile, l'arsura ci si era attaccata alla gola dal momento in cui eravamo sbarcati sull'isolotto che ospitava i nostri patetici allenamenti bellici, e non ci aveva più abbandonati. Buona compagnia, invece, giorno dopo giorno era arrivata a farci anche la fame. Parte dell'addestramento infatti consisteva nel sopravvivere ai nostri stomaci, oltre che al nemico, contando su poche provviste di partenza, comprese le nauseabonde barrette energetiche al gusto di cioccolata scaduta, e sulle nostre approssimative qualità di cacciatori.

Il giorno che incontrai il porco avevo più sete che fame, perché s'erano appena rotte le righe da una stronzissima inutile marcia avanti e indietro lungo il greto del fiumiciattolo a simulare imboscate in ambiente anfibio. Roba che secca la gola come poche altre. Noi reduci dalla marcia, oltre a essere sfiniti, sudati, maleodoranti e bisognevoli d'ogni più elementare genere di conforto, eravamo anche inzuppati d'acqua e fango fin nelle mutande.

Ero in un gruppetto di cinque o sei, fermo sotto un piccolo albero d'ulivo a ripararmi dal sole e a valutare se mi andava di affrontare la fila per procurarmi da bere, quando il porco sbucò dall'estesa macchia di vegetazione poco avanti a noi. Un giovane porcello rosa, molto sporco ma in buone condizioni. Non un cinghiale né un animale selvatico, ma proprio un bel maiale da allevamento, probabilmente sfuggito alla porcilaia di qualche contadino dei dintorni per chissà quale istinto. Non sembrava avere timore dell'uomo, il che denotava quanto vi fosse abituato e quanto limitate fossero le sue conoscenze al riguardo. I ragazzi cominciarono a giocarci, tirandogli la coda e prendendolo a calci. La bestia mutò subito umore; da tranquilla che era, divenne furiosa e spaventata. Continuava a correre in tondo, circondata dai miei commilitoni che non le davano scampo, sempre più imbizzarrita, il muso tremante, gli occhi rossi e privi di senno.

Aristotele comparve alle mie spalle, fumando: un fantasma in mimetica e sigaro.

«Non si fa mica così coi maiali. Prima di mangiarli devi guadagnarti la loro fiducia.» Ammiccò rivolto a me: «Ci vuoi provare?»

Scrollo le spalle e mi avvicino alla piccola arena improvvisata. I primi due tentativi di acchiappare il porco sono vani, troppo lenti e pigri. Poi mi ripassa davanti e io mi butto a corpo morto, ma il bastardo mi schiva. Scarta a destra, però riesco a mettergli un braccio sotto il ventre e lo ribalto. Lo tengo fermo mentre freme e scalcia l'aria con i suoi garretti furiosi. Si lamenta e urla come un bambino. Urla, Cristo, urla davvero, mentre lo accarezzo e gli parlo piano per calmarlo. Gli faccio sentire la presenza del mio corpo accanto al suo, ma evito di fargli male. Lo blandisco, e intanto i miei compagni, su istruzioni del tenente colonnello Aristotele, gli legano le zampe posteriori a una a una. Dieci minuti così, poi il suo respiro si normalizza. Lo faccio mettere in piedi, con lentezza, e continuo a lisciarlo. Bello, bello, bello di papà tuo. È ancora attraversato da rari tremiti, ma ha quasi dimenticato la disavventura di poco fa. Ed è allora che la mia ultima carezza sulla testa si prolunga. Affondo le dita fra le setole e tiro, per fargli alzare il muso, mentre sfilo il coltello dal fodero dietro la schiena e glielo pianto in gola. Un buco secco, poi rigiro la lama ed estraggo. Le zampe gli cedono, il dorso trema e un fiotto caldo mi investe. Proprio in quell'istante gli altri tirano la corda che hanno intanto appeso a un ramo, e issano la bestia a testa in giù. Schiuma rosa sul muso, mentre dallo squarcio il sangue gli cola in un filo continuo che pare inestinguibile. Il porco prova ancora a scalciare in una reazione condizionata ormai patetica. E grida ancora, grida, grida, grida. Come un bambino.

Aristotele sorride e mi mette una mano sulla spalla: «Passata la fame?» chiede. «No» rispondo. «È solo cresciuta la sete.»

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Pagina 147

5.



«Volevo Yelena a tutti i costi, ma compresi che dovevo cambiare tattica, anzi dovevo proprio cambiare ruolo. Per riagganciarla cominciai a frequentare le assemblee. La polizia mi pensava rivoluzionario? Perché non accontentarli, dopotutto?» Il Magister parla con cadenza strascicata dal vino, che sorseggia a tratti succhiandolo da un involucro di cartone. La schiena indietro, poggiata alla parete del lungofiume, lo sguardo perso fra le grate ferrigne del Pont Mirabeau, la sua casa.

«Una pizza tremenda, devo dire. Se i nostri rispettabili papà borghesi avevano paura della Rivoluzione fatta a quel modo, pensavo, tanto valeva chiudere la facoltà di filosofia. Tutto quel gran parlare, sulle prime, non mi sembrava portasse lontano. Poi mi accorsi della zona grigia. L'ombra spessa ai margini delle tante scemenze che mi toccava sentire.

«C'era quasi sempre qualcuno, in quelle riunioni spese nell'umido puzzolente di rifugi provvisori (perfettamente noti alle forze dell'ordine, í rifugi, che tanto valeva affittare un locale notturno), qualcuno che osservava zitto, cupo. Emanando un campo magnetico di attrazione-repulsione. Il gioco di sguardi fra chi parlava, cercando cenni d'assenso da chi non parlava mai, mi divenne chiaro dopo un po'.

«Era uno spettacolo con registi e attori, a beneficio di un pubblico variegato, che sperava, un giorno o l'altro, di passare dalla parte opposta del palcoscenico. Quelli che parlavano non erano importanti, si doveva fare colpo su quegli altri. I registi, quelli che non dicevano le cose, ma le facevano. Mi lasciai prendere anch'io dal gioco. Chissà che cazzo avevo in testa.» Il Magister succhia dell'altro vino, rumorosamente. «A quel tempo sembrava a tutti così chiaro di stare dalla parte della ragione. Avevamo ragione da vendere, e ne avremmo venduta tanta. Così liquidai la mia vecchia vita e i vecchi inutili amici di un tempo, i discepoli fessi, che presto sostituii coi nuovi alfieri della Rivoluzione.

«Tinto me lo ero trovato accanto a una manifestazione del collettivo filocinese che al tempo bazzicavo, organizzata insieme ai trotzkisti con cui, fino a poco prima, ci si guardava storto. Oltre alla contestazione vera e propria, insomma, era un momento di riavvicinamento diplomatico tra frange nell'ottica di una lotta comune. Ogni epoca ha i suoi passatempi.

«Era una mattina fredda. La temperatura dell'aria, mentre risalivamo in colonna compatta la via prospiciente l'università, si insinuava sotto i jeans, invitandoci a muovere le gambe con maggior convinzione. Non più di un migliaio, contando tutti ma proprio tutti, curiosi e poliziotti in borghese compresi. L'idea geniale era di arrivare fino al palazzo della questura con lo striscione NON SIETE VOI CHE IDENTIFICATE NOI MA NOI CHE IDENTIFICHIAMO VOI. ATTENTI ALL'OCCHIO DEL POPOLO. Verboso e patetico come tante cose passate, quando le vedi con lo sguardo veloce del presente. Lo striscione era venuto lungo sui diciotto metri e la via dell'università era stretta, per questo si era deciso di tagliarlo in due. La parte con scritto attenti all'occhio eccetera sarebbe venuta dopo. Anche come effetto drammatico ci stava, aveva sentenziato il Camozzi. Il Camozzi era al terzo anno di lettere classiche, poeta indiscusso della compagnia. Tutti eravamo stati d'accordo.

«Tinto aveva l'aspetto di chi ha appena passato l'influenza. Pallore grigio, occhi lucidi, alto e sghembo, con le gambe da airone strette nei denim slavati. Un mazzo di capelli più anarchici delle sue idee lo proiettava verso l'ignoto di una giornata che poteva finire peggio delle altre. Furono la prima cosa che notai di lui, i capelli, spessi e neri, mi ondeggiavano davanti come la zazzera di un comico del cinema muto. Avevamo all'incirca la stessa età, ma Tinto mi dava molti punti in fatto di esperienza rivoluzionaria. Al freddo pungente si andò via via aggiungendo l'umidità, che pervase l'aria di quell'attesa un po' irreale, tipica di quando sta per calare la nebbia. Tinto e io si camminava al margine destro del corteo, reattivi e carichi come pile, pronti anche se non eravamo nel servizio d'ordine. Mentre buttavo l'occhio in giro, vidi Yelena pochi metri indietro, e senza nemmeno rendermene conto scalai di qualche posizione fino a trovarmela affianco. Non le avevo più parlato dalla sera a casa mia, pur avendola notata spesso alle assemblee. Adesso ce l'avevo davanti, dea in blue-jeans e maglione accollato. La sua bocca maliarda recitava slogan attraverso la sciarpa di lana che le irritava le guance: piccoli graffi sull'incarnato rosa di tramontana. Le mie orecchie rintronate non percepivano le sue parole, tanto l'importante era il gesto, non il significato (avesse sentito un simile pensiero, mi avrebbe detto fascista). Ogni tanto scambiava occhiate col Camozzi, il poeta. Che era basso e simpatico, approssimativo, come ogni poeta della contestazione dev'essere.

Piaceva molto, il Camozzi, alle donne, accidenti a lui. Piaceva la sua aria e piacevano gli occhi verdi affamati; la forza che trasmettevano, la potenza comunicativa. Il Camozzi parlava di lotta operaia e ti pareva di ascoltare un romanzo. Piaceva abbastanza anche a me, ma in quell'istante gli avrei strappato i begli occhi a morsi, pur di guadagnarmi l'attenzione della mia dea personale.

«Una vibrazione inconsueta mi riportò alla realtà e mi fece voltare verso destra. Da una strada laterale, un piccolo fiume di persone stava per raggiungerci. Ragazzi della nostra età, anche loro con una motivazione, un fuoco interiore, forse, ma diversi. Nei vestiti e nelle pettinature, prima ancora che nell'espressione e nel credo.

    Credo in un solo dio
    che non è un dio
    ma almeno è mio,
    che mi dà un senso e un nemico,
    una direzione,
    ciò di cui ho bisogno.


«Arrivano i fasci! L'urlo giunse da più parti e si scompose in centinaia di altre grida convergenti e contrastanti. Non reagite alla provocazione, compagni! Addosso! Mantenete la calma! Via via via!

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Pagina 212

3.



I guerrieri cinesi e giapponesi, sfavillanti e plastici nelle loro armature, si fronteggiano con lance e spade sul soffitto della Grande Salle del cinema La Pagode. Meravigliosa struttura d'inizio secolo trasportata a Parigi dal Giappone per fregola d'una gran dama, che ne aveva fatto il proprio salone delle feste.

Nell'oscurità sembrano muoversi a ondate alterne, come se si lanciassero alla carica a turno, e a turno sopportassero la carica nemica. I volti larghi, schiacciati nell'esagerazione delle fisionomie orientali, ben modellate dall'artista. Lungo le pareti scende il rivestimento di seta rossa lavorata, come fosse il sangue della battaglia soprastante che gronda sulla superficie del muro verso il campo di battaglia.

Il campo di battaglia però non c'è, o meglio, è ricoperto da comode poltroncine di velluto orientate verso lo schermo su cui scivolano le immagini in bianco e nero di Julie Christie e Oskar Werner in fuga dalla polizia. La sala è quasi vuota, la testa di Aris, con l'inconfondibile profilo a punta, spicca al margine dell'ultima fila.

«Potevi almeno scegliere un film nuovo» dico, guadagnando il posto accanto al suo. La vicinanza e l'ambiente chiuso fanno sì che l'odore di marcio, caratteristico del mio amico e al quale dovrei essere ormai abituato, mi assalga le narici con vigore. La sensazione è già sgradevole di per sé, ma l'olfatto è il senso della memoria — dei brutti ricordi, in questo caso —, il che rende tutto ancora peggiore.

«Il vecchio, in questo come in molti altri casi, è di gran lunga superiore.»

«Il solito reazionario.»

«Lavori per me.»

«Parla al passato, Aris. Io sono morto e anche sepolto. Lavoro solo per i miei affari di famiglia, adesso.»

Aris sorride nell'oscurità: «Può essere, può essere.»

«Può essere una palla! Cosa vuoi?»

«Intanto informarti che la tua tata, Giacomina, è morta. Credo abbia smesso di mangiare dal giorno del tuo funerale. Questo dovrebbe rientrare nei tuoi affari di famiglia, no?»

Una colata di lava incandescente nella testa; ghiaccio silente nell'anima. Tutto quello che tocco marcisce, appassisce, muore. Senza nessuna eccezione. Sembra essere il mio destino, segnato fin dall'inizio: sono un distruttore, non un creatore. Le cose con cui devo avere a che fare, quelle a cui mi avvicino, appartengono sempre e solo alla fase discendente della vita, alla sponda della decadenza e del lutto. O magari sono io che porto sfiga. Giacomina meriterebbe delle lacrime che non ho, del tempo che non mi è concesso spendere. E infatti Aristotele continua, senza concedermi tregua.

«Ma non sono qui per questo. Vorrei raccontarti una storia nuova. Anzi vorrei raccontarti in modo nuovo una storia che credi di conoscere. Una storia su tuo padre e su quell'ingegnere cretino che hai fatto fuori in Canada.»

    Senza ragione,
    nella notte d'inverno
    ascolto il mio vicino.


L'haiku mi limito a pensarlo, come un riflesso condizionato indipendente dalla volontà, ma non dico nulla. Non è il caso.

«Ho la tua attenzione, lo capisco dal silenzio.» Per un lungo momento Aris rimane assorto nelle immagini che scorrono sullo schermo, immagini di fuoco. È ritornato ancora, il fuoco, dopotutto. Poi riparte, diretto come sempre: «Quello che sai è che tuo padre era un terrorista, poi tradito e ucciso da esponenti della frangia più violenta ed estremista del movimento. Esecuzione materialmente compiuta da un uomo da niente di nome Oberdan, più tardi riciclatosi ingegnere e ormai solito trascorrere il suo tempo sul fondale di un bel laghetto del Labrador meridionale, grazie a te, figlio vendicatore.

«Non provare nemmeno a negare. Hai usato le informazioni contenute nel dossier su tuo padre che ti ho regalato, e quelle ottenute da Tinto durante la tua ultima missione ufficiale. Le parole del vecchio santone dell'eversione ti hanno fatto scattare una molla in testa, ne sono sicuro: il vile cinico fanatico Oberdan — che ha tradito il rivoluzionario gioioso e puro — il tuo papino. Il burocrate contro l'intrepido, il violento contro l'idealista. Bel quadretto. Si tende sempre a farsi un'immagine eroica del proprio papà, giusto? Soprattutto quando non lo hai mai conosciuto. Peccato che dieci volte su dieci sia sbagliata. Ti dirò una cosa su tuo padre: se mai c'è stato un traditore in quel gruppo, era lui. E infatti lavorava per me.»

Immagino i guerrieri cinesi e giapponesi saltare giù a grappoli dal soffitto, abbattersi come meteore infuocate su di noi, correre veloci e urlanti tra le file di poltroncine, mozzando teste e squarciando stomaci. Immagino che i nobili guerrieri orientali, consapevoli di onore e lealtà, facciano scempio di tutto questo schifo, di questa lercia umanità a cui appartengo, dei compromessi, delle manipolazioni, dei tradimenti.

Ma i furbi guerrieri non hanno alcuna intenzione di muoversi dal dannato soffitto, da dove ghignano e ascoltano le nostre miserie.

«Stava a libro paga dei Servizi, tuo padre, come te e prima di te.» Aris continua imperterrito: «Be', non proprio come te, non era un operativo strutturato, ma solo un informatore. Mio. Zitti zitti, a orecchie basse. Storie che non trovi scritte in nessun dossier, in nessun archivio, hai voglia a cercare. Lo avevo agganciato che era un pischello fuori da ogni giro. Ce l'ho tirato io dentro, e mi ha fatto pure una bella riuscita. Più si invischiava e più lo tenevo per le palle. Sai meglio di me come funziona con gli informatori: sono l'ultima ruota del carro e la più importante allo stesso tempo. Non sanno un cazzo, nemmeno per chi lavorano davvero; li lasci, li prendi, gli dai una paghetta infame, li bruci se serve, eppure stanno sempre là a mandare avanti la baracca. Strano a pensarci.»

Faccio per alzarmi, ma la mano di Aris mi blocca il braccio: «Non ho finito, Hieronimus.» Mi riappoggio allo schienale della poltrona, perdendomi nella nebbia bianca e nera della pellicola.

«Non è stato ucciso per lotte interne riguardanti la linea da seguire. La storiella del terrorista buono che cade sotto i colpi di quelli cattivi, dei violenti, è una stronzata. Non conosco i particolari, ma so che lo fecero cadere in trappola; scoprirono che lavorava per i Servizi. Subito prima, era venuto da me perché aveva dei sospetti, e io gli avevo consigliato di sparire. Il che in effetti accadde, di lì a poco, ma dubito sia scomparso di sua volontà. Lo ammazzarono perché era un traditore, Hiero, uno della nostra razza. Tinto e altri hanno sempre detto in giro che gli sparò Oberdan. Ma anche se avesse ragione tua madre, se fosse riuscito a scappare e magari fosse proprio in questa città da qualche parte a fottersene di noi, rimarrebbe sempre un traditore. Tanto per mettere le cose in chiaro.»


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La collana Marsilio X e i suoi autori partecipano alla campagna "Scrittori per le foreste" lanciata da Greenpeace. Questo libro è stampato su carta riciclata senza cloro e con alte percentuali di fibre post-consumo, e non ha comportato il taglio di un solo albero.

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