Autore Pier Luigi Pizzi
CoautoreGuido Rossi
Titolo Quei maniaci chiamati collezionisti
EdizioneArchinto, Milano, 2010, Le mongolfiere , pag. 62, cop.fle., dim. 10,5x18x0,5 cm , Isbn 978-88-7768-563-6
PrefazioneMina Gregori
LettoreFlo Bertelli, 2013
Classe arte , collezionismo , musei , libri












 

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Indice


Collezionisti alla Fondazione Longhi                 5

Pier Luigi Pizzi
Collezionismo, che passione!                        13

Guido Rossi
Perché collezionismo: una confessione               31


 

 

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Collezionisti alla Fondazione Longhi



Il collezionismo è stato oggetto di varie analisi e certamente merita attenzione se si considera in particolare il suo ruolo nei confronti del museo, l'istituzione che dalla sua nascita nel clima illuminista della comunicazione e del godimento pubblico si è abituati a pensare come un punto d'arrivo. Il collezionismo è nato prima del museo. Le opere che sono state scelte dal collezionista assumono nella situazione museale il ruolo di icone, oggi usate in vario modo, ed io penso spesso che il museo segni in un certo modo la loro morte. La vita delle opere d'arte sussiste fino a quando sono desiderate e possedute, fino a quando non si spezza il filo che le lega, pur passando di mano, ai collezionisti che le hanno amate. Il collezionista si distingue per il desiderio di possesso, ma altresì per l'intento, non sempre consapevole, di creare con la serialità della sua raccolta un personale, diverso ordine immaginario. La funzione specifica della collezione è legata alla mobilità degli oggetti, in una dinamica che interessa vuoi i passaggi ereditari, vuoi i cambi di appartenenza per il tramite del mercato, che è indubbiamente il motore principale che ne assicura la vitalità.

È indubbio che i collezionisti possono essere anche conoscitori. Come tali non soltanto rincorrono i nomi degli artisti, ma in primo luogo riconoscono la qualità. A questa categoria, che può riservare delle sorprese offrendo i diversi panorami di esemplari vicende personali, la Fondazione, che ha raccolto l'eredità di Roberto Longhi nel duplice ruolo di storico e di collezionista in una linea che lo collega a Giovanni Morelli e a Bernard Berenson, ha rivolto la sua attenzione.

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Pier Luigi Pizzi
Collezionismo, che passione!



Vorrei fosse chiaro che questa non sarà una conferenza: sono riflessioni, ricordi miei, pochi appunti per memoria. Non ho preparato nulla; ho pensato velocemente mentre venivo qui in taxi che cosa avrei detto, ma non so bene neanche adesso di che parlerò. Certamente si tratterà di collezionismo. Mina Gregori citava due occasioni in cui ci siamo incontrati: quando è venuta a vedere la mostra del Seicento a Parigi al Grand Palais, e lì c'era la novità che i quadri erano messi in situazione, non secondo un ordine cronologico come si fa d'abitudine. Era un'occasione particolare: si trattava di presentare il Seicento italiano a Parigi. Per quanto fossero quadri provenienti tutti da collezioni francesi, si presentavano a un pubblico che notoriamente non conosceva e non amava la pittura italiana del XVII secolo, tranne poche eccezioni: le Guide, le Guerchin, Caravaggio. Ma che ci fossero delle personalità come Mattia Preti, erano in pochi a saperlo. Quindi questa mostra serviva anche a presentare tanti artisti praticamente sconosciuti.

Curiosamente – entriamo subito in argomento – una delle idee-base di questa esposizione, preparata con molta cura insieme ad Arnauld Brejon de Lavergnée, allora conservateur du Louvre, e a Nathalie Volle, due specialisti di questo nostro secolo, partiva dalla proposta di raggruppare le opere secondo le diverse scuole e rispettando una certa cronologia, come si fa di solito.

Io sentivo invece il bisogno di spettacolarizzare questa pittura, in modo che affascinasse i francesi, li intrigasse, e finalmente li coinvolgesse.

[...]

Il progetto si basava su alcune idee in fondo molto semplici: mettere i quadri in situazione – si è già detto – perché una pala d'altare va posta su un altare. Se sta a trenta centimetri dal pavimento e a un metro di distanza da chi guarda si falsa ogni rapporto. Messa alla giusta distanza sul suo altare ritrova le vere proporzioni.

Creare dei contrasti: per esempio, in una stessa sala si confrontavano due Flagellazioni, quella di Caravaggio e quella di Ludovico Carracci. Da questo accostamento nasceva uno spunto di riflessioni e si capiva che quei quadri non erano semplicemente lì per essere visti e ammirati, ma per spiegare due stili narrativi diversi e suscitare emozione.

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Pagina 25

Parlare di collezionismo in quei giorni così fitti di emozioni mi ha fatto riflettere appunto sul come si diventa collezionisti. Si nasce o si diventa collezionisti? In qualche modo, istintivamente, siamo tutti nati collezionisti, non fosse altro che per imitazione.

Il ragazzino raccoglie figurine, come i suoi compagni. Si raccolgono conchiglie sulla spiaggia quando si è molto piccoli. Magari si possono individuare certe tendenze nell'essere più selettivi di altri: ci sono quelli che raccolgono qualsiasi conchiglia e altri che conservano solo le migliori. Sono sintomi significativi.

Ho cominciato a fare teatro giovanissimo, per anni con la Compagnia dei Giovani. In quel tempo frequentavamo Luchino Visconti che era un collezionista nato. Raccoglieva un po' di tutto, secondo il capriccio, senza un indirizzo preciso. Andava a periodi: un certo giorno scopriva le ceramiche secessioniste e bisognava subito sapere tutto su Kolo Moser (e non c'era internet a rendere più facile la ricerca), andare di corsa a Vienna per trovare almeno un vaso di Powolny per potergli fare, a Natale o al suo compleanno, un regalo degno delle sue aspettative.

Più impegnativa la ricerca dei Fabergé. Lui ne regalò uno a Rina Morelli che ammutolì sconvolta davanti a quel prezioso portaritratti del cui autore non sapeva niente. Poi le fu spiegato che era un orafo dello zar e da quel momento raccontò a tutti che Luchino le aveva donato un «Faberzé», tradendo la sua origine bolognese. Naturalmente chi frequentava Visconti, spesso si improvvisava collezionista: chi raccoglieva vasi di Gallé, chi stampe di Épinal, chi gouaches napoletane con le eruzioni, chi le opalines.

Giorgio De Lullo ebbe la passione per le vaschette da barba, e per gli Staffordshire di soggetto shakespeariano. A me, per la verità, tutto ciò faceva un po' ridere, mi divertivo, stavo al gioco ma non sono stato contagiato da queste manie.

[...]

Sono collezionista per scelta, con uno scopo: lasciare delle testimonianze, ricercare la bellezza che è nell'arte senza pensare di fare investimenti, di sapere chi siano gli autori delle opere, ma solo per trovare in ogni quadro un piacere da condividere con gli amici e in qualche modo immaginare che la collezione racconti ai posteri chi è stato il collezionista.

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Guido Rossi
Perché collezionismo: una confessione



L'esperienza personale dall'arte moderna all'arte antica: un cammino a ritroso

Il titolo del numero speciale di una delle più prestigiose riviste d'arte, il «Burlington Magazine» dell'agosto 2008 era: Collectors and Collecting. L'editoriale era di assoluta apertura cartesiana: «I collect, therefore I am». Non so dire se anch'io esisto perché colleziono, ma è certo che considero molto importante nella mia vita la vocazione del collezionista. Mi sono chiesto spesse volte perché sono un collezionista e perché «onnivoro». Tralasciando le varie indagini dei grandi psicanalisti, non sempre appaganti, né positive (ricordo però che lo stesso Lacan non solo possedeva La nascita del Mondo di Courbet, ma anche qualche splendido quadro di Masson), la definizione nella quale mi riconosco è quella che di sé ha dato John Pope Hennessy nel magnifico libro Learning to Look, descrivendo la sua casa a Firenze: «Objects mean more to me than people». E aggiungeva «non perché sia un frigido o un anacoreta, ma perché il rapporto con gli oggetti è più costante che con gli uomini (gli oggetti non cambiano mai natura e non diventano noiosi)». Naturalmente ci sono delle eccezioni, rappresentate dagli affetti duraturi, ma questi sono rari e pochi, come rare e poche sono peraltro le opere d'arte.

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Pagina 36

Il collezionismo come disciplina umanistica

È per questo che io ritengo che il collezionismo costituisca una disciplina tipica delle scienze umanistiche. Ed io come tale l'ho percepito e perseguito.

Il collegamento poi arte-società, cioè fra l'arte e il suo contesto, come ha dimostrato Frederick Antal, è essenziale e si rivela un fatto culturale di estrema rilevanza storica e in questa storicità sta la sua dimensione. Sicché il collezionismo è sovente accompagnato ad altra attività.

È così, ad esempio, che la rivoluzione scientifica dei primi decenni del secolo scorso ha le sue espressioni artistiche nelle avanguardie storiche. Cubismo, futurismo, metafisica, surrealismo, dadaismo, costruttivismo ed arte astratta non si possono comprendere senza l'invenzione della fotografia, che ha indotto gli artisti ad abbandonare l'idea di copiare la natura e a liberarsi definitivamente della prospettiva che aveva costituito la grande invenzione artistica del Rinascimento; e senza la scoperta della geometria non euclidea, della fisica della relatività, della psicanalisi. Infine, non va sottovalutata l'influenza della industrializzazione, e della politica europea che ha portato alla prima guerra mondiale, sull'arte coeva (vorrei ricordare qui il libro di David Cottington, Cubism in the Shadow of war).

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Pagina 42

[...] I libri spesso sono opere d'arte in sé e per sé: potrei riferirmi ad alcuni codici miniati come l'Officiolum di Francesco da Barberino, dove l'influenza del Giotto della Cappella degli Scrovegni e il mondo dantesco sono così evidenti da trasmettere completamente la cultura artistica di quel periodo. Altre volte sono ad esempio le incisioni che rappresentano le opere significative di grandi artisti. È difficile capire Tiepolo senza i Capricci e gli Scherzi, oppure Canaletto senza le incisioni. E che dire di Piranesi e del Goya, solo per fare qualche nome fra i grandi? Senza parlare, fra i moderni, dei libri di Picasso che, con la sua Suite Vollard, suscitava in Federico Zeri emozioni estremamente violente, delle quali diffidava, sospettoso com'era, perché le considerava troppo vicine alla retorica.

Aveva certamente ragione Goethe quando scriveva che «un artista lo si capisce bene se se ne possiede un'opera che si guarda e si riguarda ogni giorno». Tuttavia non importa possedere solo capolavori (anche se serve), poiché pure da opere minori si può apprendere lo stile e la cultura di un artista e della sua epoca. E in questa continua ricerca e nella insaziabile curiosità stanno le caratteristiche del collezionista.

Ciò è vero anche per i libri che ti legano alla storia. Basti pensare al Lattanzio, il primo libro stampato in Italia nel 1465 da Sweynheym e Pannartz, chiamati dal Cardinale Nicolò Cusano dalla Germania, i quali allestiscono a Subiaco presso il convento dei benedettini una tipografia che poi trasferiranno a Roma. In questo libro c'è tutta la civiltà e la cultura di un'epoca. I libri, infine, danno spesso sensazioni complesse e diverse: la stampa, la legatura, il testo, le immagini, le miniature. E poi li guardi, li tocchi, li annusi, li sfogli, li leggi. Insomma, non voglio cadere nella retorica, ma a volte l'emozione è fortissima.

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