Autore Marina Plasmati
Titolo Il viaggio dolce
SottotitoloIl soggiorno di Leopardi a Villa Ferrigni
EdizioneLa Lepre, Roma, 2015, Visioni , pag. 166, cop.fle., dim. 13,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-96052-96-9
PrefazioneNovella Bellucci
LettoreLuca Vita, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Indice


  7   Prefazione
      di Novella Bellucci


      IL VIAGGIO DOLCE

 15   Aprile 1836

 35   Maggio 1836

 69   Giugno 1836

105   Luglio 1836

111   Settembre 1837


      APPENDICE

117   La ginestra

127   Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani



 

 

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Pagina 17

La carrozza rotolava lenta. Un rumore sordo e nervoso l'accompagnava, il graffio di sassi scalciati dagli zoccoli dei cavalli e il tonfo sulla terra umida, calpestata in fretta. Era piovuto da poco, e la sera sembrava scesa più impaziente del solito. Nuvole rade, non più minacciose, si allontanavano in direzione del mare, spinte da un vento tiepido. L'orizzonte appariva tinto di nero e d'azzurro. Non era freddo, ma l'aria pesava ancora dell'umidore appena calato.

In alto, verso il cratere del monte, la via disegnava una striscia curva, sottile, come una scia bianca su di un mare bruno di cenere pietrificata. La bocca più alta fumava, con fare innocente. A quell'ora di sera il deserto di lava attorno al vulcano si faceva ancora più cupo, segno che le profondità dell'inferno avevano stinto i propri colori terrificanti su quella superficie di terra per ricordare a tutti la loro sotterranea esistenza.

Lungo i pendii, più in basso, filari di viti, ancora immature. Qualche casolare, come macchia di colore scialbo, interrompeva la grazia feroce del paesaggio. In lontananza piccoli boschi di castagni, noccioli, lecci, qualche frutteto di albicocchi, aranci e ancora lingue di lava, grigia, marrone, nera, colate fin laggiù chissà quando.

Un contadino, ogni tanto, ai bordi della via, si girava a gettare lo sguardo curioso sui nuovi venuti. Lì tutti andavano a piedi, o a dorso di mulo. Solo i signori di città arrivavano in carrozza, i forestieri che facevano la vacanza per ricostituire l'organismo con l'aria salutifera del vulcano. Soprattutto in quella stagione, in primavera, se ne vedevano parecchi restare qualche mese e andar via, senza lasciar traccia.

La carrozza impiegò quasi due ore per raggiungere la villa, una costruzione seicentesca, a un solo piano, stile pompeiano, adagiata su una collinetta proprio a metà strada tra Torre del Greco e Torre dell'Annunziata. Unico segno umano in un panorama quasi lunare: da un lato il vulcano, imperioso, dall'altro, sonnolente, il mare, tutto attorno una spianata brulla, interrotta da sprazzi di verde ora vivido, ora sbiadito.

Ad aspettare la carrozza sul portico, Giuseppe, il fattore, un omone robusto non più giovane, curvato più dalla fatica del lavoro che dagli anni, e sua moglie Angiola Rosa, altrettanto robusta e altrettanto ricurva: vivevano lì da sempre, da quando il padrone, il signor Ferrigni, li aveva ammessi al servizio del poderetto attorno alla casa. Custodivano la proprietà, servivano i padroni quando venivano fin lassù a villeggiare, lavoravano il pezzo di terra coltivato a viti e qualche albero da frutta. Lì erano venuti al mondo i loro figli, tre maschi, bocche ingorde da sfamare, uno già grandicello, due ancora piccoli per lavorare la terra, ma già buoni per tenere gli animali.

Il primo a sbucare fuori dallo sportello della carrozza fu il cognato del padrone: un uomo alto, grassoccio, barba ben fatta, cappotto elegante, cappello grigio a tesa ampia. Era già stato in villa altre volte, a fare villeggiatura insieme al signor padrone e alla famiglia, soprattutto nei mesi estivi, o solo in gita ogni tanto, nei giorni di festa. Appena dopo di lui, dallo stesso lato della carrozza, uscì di fretta un uomo più anziano, basso, corpulento, non un signore, ma altrettanto curato, capelli bianchissimi, una mantella leggera di panno scuro sulle spalle cadenti; poi una donna di mezza età, tarchiata, abbigliata con un soprabito alla buona, di certo una famiglia che si affannò ad aiutare a scendere una signorina minuta, aggraziata in volto, cappello rosso con nastri alla moda, cappottino elegante; anche lei la conoscevano, era la cognata più giovane dei padroni, che alla villa c'era venuta qualche estate prima.

Infine lui, l'ospite di riguardo, il signore forestiero tanto famoso e tanto malato, che, a Dio piacendo, era venuto a riprendere la salute con l'aria miracolosa del vulcano, a riposarsi nella quiete di quei paesaggi belli e desolati. Non poté scendere da solo: la sua mano, minuscola, si appoggiò alla spalla del signor cognato, che si era accostato all'altro lato della carrozza per attenderlo. Spostandogli in avanti il busto con entrambe le braccia, il signor cognato lo sollevò a forza dal sedile e gli fece adagiare piano piano le gambe malferme, prima sul predellino, poi per terra. Un uomo piccolo, storto, un pallore quasi innaturale sul volto, avvolto dentro un soprabito verde scuro, logoro e consunto, troppo pesante per i tepori primaverili. Camminava a capo chino, misurando lo spazio tra un passo e l'altro con un movimento accorto della testa. Si appoggiava alla terra con l'andatura di un moribondo che volesse risparmiare ogni passo concessogli prima della fine. Arrivò alla porta affannato. Alzò gli occhi un momento. Li guardò, il fattore e sua moglie. Sorrise con le labbra socchiuse. Loro ricambiarono il suo sguardo, lenti e benevoli, e sorrisero.


La stanza destinata all'ospite era stata sistemata già da diversi giorni, con tutte le povere comodità di cui si poteva godere in un posto come quello: un letto di ferro battuto, un comò di noce, un comodino, il lavamano con catino e due salviette, qualche sedia col dorso di cuoio per gli ospiti, un seggiolone a braccioli più comodo per lui, e una scrivania. Una grande finestra, sulla parete sinistra, si affacciava sui campi, proprio davanti alla villa. Di lì entrava luce tutta la mattina, mentre nel pomeriggio due cipressi, più alti della villa, gettavano la loro ombra refrigerante su quel lato dell'edificio.

Gradirei avere la scrivania giusto lì, se possibile, aveva sussurrato al fattore, indicando la finestra. La sua voce, sottile, giunse all'orecchio dell'uomo a fatica. Giuseppe l'aveva spostata subito, insieme alla poltrona, dove il signore gli aveva indicato. Poi aveva chiesto se avesse bisogno d'altro, qualunque cosa. Lui sorrise per congedarlo.

La sera stessa il fattore ricevette dal signor cognato la mansione di provvedere ai suoi pasti. Solitamente li consumava in stanza, precisò il signor cognato in tono serio e sbrigativo. Gli orari erano flessibili, li decideva l'ospite volta a volta e non erano mai quelli di tutti i cristiani su questa terra, aggiunse. Lui doveva solo portarli dalla cucina e non disturbarlo in nessun caso. Lo stesso naturalmente valeva per lui e sua sorella, concluse. Giuseppe aveva fatto segno di aver capito e di obbedire, come il signore comandava. Poi aveva chiesto il permesso di andare a coricarsi.

La notte aveva acceso la luna di un colore bianco opaco. L'aria, immobile e fredda, invitava al sonno uomini e animali. Solo Cosimo, il figlio più grande del fattore, era rimasto fuori, a scrutare la bocca sempre sveglia del Vesuvio fumante, di lontano.

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Pagina 87

Partirono la domenica molto presto Cosimo, l'ospite di riguardo e il signor cognato. Anche la signorina aveva chiesto di andare, appena l'aveva saputo. Diceva di essere curiosa delle civiltà sepolte e poi, a casa senza svagarsi, si annoiava molto. Il signor cognato sul principio non si era mostrato d'accordo, poi però, all'insistenza della sorella, aveva ceduto. Quella domenica, appena sveglia, aveva sofferto di un leggero malore: allora aveva chiamato il fratello e gli aveva comunicato che, per non rischiare un'insolazione, avrebbe rinunciato. La strada da fare non era molta, ma a giugno il sole scottava già dalla mattina, come fosse agosto, e passeggiare al caldo poteva diventare davvero pericoloso.

Il signor cognato aveva imposto da subito all'amico di andare col mulo, altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla. Lui acconsentì. Per l'occasione aveva fatto ricoprire da Giuseppe la sella dell'animale con panni morbidi, in modo che risultasse più comoda per l'ospite: l'ultima volta che aveva viaggiato sulla mula si era ferito nella parte interna delle cosce e per la scomodità della posizione ne aveva risentito sulla schiena per diversi giorni. Data la circostanza Cosimo si era ben organizzato sin da qualche giorno. Aveva discusso col padre nei minimi dettagli la strada più comoda da fare, aveva completato tutto il lavoro nella stalla il giorno prima e aveva perlustrato la zona diverse volte. Quella mattina si era presentato ai padroni con una grossa sacca per l'acqua e il pane sulle spalle, un bastone nella mano destra e la mula su cui viaggiava l'ospite di riguardo nella sinistra.

Appena usciti dalla vista della villa, un panorama quasi senza orizzonte si aprì al loro sguardo: colline a vigneti a destra, macchie di alberi da frutta a sinistra, prati di fiori davanti, il vulcano inquieto alla spalle e il mare quieto in lontananza. L'estate rinvigoriva i colori, i sapori e gli odori di tutto il paesaggio con una forza impetuosa. La terra partoriva dappertutto virgulti e germogli di erbe, piante e fiori: l'aria ribolliva di insetti rumorosi, impazziti alla ricerca di cibo, il cielo risuonava di canti di uccelli affannati al lavoro del nido, la luce stessa splendeva carica di una intensità abbagliante. Tutto, persino il deserto di cenere e lava, sembrava esplodere di nuova vita.

Il signor cognato procedeva a testa alta e con passo deciso; ripeteva spesso di essere stato un atleta vigoroso in gioventù e che per fortuna, sin da bambino, non soffriva la fatica, soprattutto nel camminare. Anche Cosimo aveva l'aria di chi sopportasse facilmente ogni durezza: il suo viso era fresco, il passo disinvolto. Ogni tanto strattonava la mula con decisione, quasi a voler dimostrare chi fosse il padrone, e ogni tanto si girava indietro ad osservare l'ospite di riguardo. Lui stava zitto, aveva il respiro un po' corto, come se avesse corso a lungo, per via del caldo afoso, ma i suoi occhi erano vivi e curiosi. Sembravano quelli di un bimbo a cui avessero promesso una sorpresa e che non sapesse pensare ad altro.

La città apparve da lontano come un agglomerato confuso di vecchie mura. È quella Pompei, siamo arrivati, esclamò Cosimo, indicando le rovine in lontananza. La mula sembrò comprendere la gioia del padrone ed emise un gemito simile ad una risata. Anche il signor cognato diede un grido di soddisfazione, volgendo lo sguardo all'amico, che invece continuava a stare muto e attento.

Arrivati accanto a quello che restava della porta principale, l'ospite sembrò come svegliarsi da un sogno: chiamò l'amico che era andato un poco avanti e gli comunicò che voleva andare a piedi. Il signor cognato acconsentì. Cosimo lo aiutò a scendere dalla mula e lo vide camminare a passo svelto, quasi che qualcuno lo stesse attendendo.

La città sorgeva al centro di una piana assolata, come il relitto di un naufragio abbandonato sulla spiaggia. Un silenzio denso e irreale invadeva l'aria. Sui marciapiedi di strade piccole, strette e diritte, si affacciavano le entrate di case e negozi, i loggiati di edifici pubblici, l'ingresso di templi. Più lo sguardo si addentrava tra le vie, più i contorni della lontana tragedia si facevano netti e familiari. Lo scheletro della città sedeva immobile, ad accogliere silente l'occhio sgarbato del visitatore. L'ospite non trovava ostacoli, poteva arrivare a scrutare ovunque senza pudore: tra le stanze private, nei bagni, nelle botteghe, nei sacrari. Le stanze erano diventate mura, le porte buchi, i mobili cenere, i corpi mummie. Dovunque la sventura aveva segnato il suo lugubre passaggio con una pioggia di lapilli e cenere infuocata che aveva lentamente sotterrato ogni cosa, creatura, oggetto, angolo di spazio.

Eppure quel cadavere conservava intatto il ricordo della sua antica vitalità. Le stanze, i corridoi, i loggiati avevano ancora i colori vivaci di quando erano vissuti. Rossi, verdi, ocra, gialli. Agli angoli delle strade e sulle pareti delle case pitture di fiori, donne, dèi e animali, mosaici di bella fattura inneggianti ad una vita magnifica. Lo raccontavano le leggende: la città era stata davvero bella, ricca, orgogliosa. Non aveva pari in potenza e prestigio, non temeva rivali in mare e in terra. Il vulcano la osservava da lontano, silenzioso e discreto, e della sua bellezza si innamorò giorno dopo giorno; lei non ci badò, scontrosa e fiera, finché alla sua forza fu costretta a concedersi come una vergine violata. Di quella violenza era rimasto il cadavere, sepolto nella terra come il corpo di un reato. Ma la storia non dimentica: lo scempio perpetrato dall'amante geloso non poteva rimanere celato per sempre: così, dopo secoli, la gloria della città era risorta dalle sue stesse ceneri, attaccata alla polvere di quelle mura scempiate. Ciò che pareva morto, dimenticato, passato, era tornato alla luce per svelare la sua antica, miserabile magnificenza. A dispetto del vulcano, inerme e impotente.

Il signor cognato e Cosimo procedevano insieme molto lentamente, anche a causa della mula, che sulla strada a lastroni di pietra faceva più fatica a camminare. Ad ogni entrata di casa Cosimo emetteva un verso di stupore. Ogni tanto comparivano sulle pareti iscrizioni in latino; Cosimo le guardava con l'aria sbalordita di chi non sa leggere. Allora il signor cognato le leggeva ad alta voce e le traduceva, ma con parole che Cosimo non capiva e alle quali rimaneva muto. Avrebbe voluto fare tante domande, chiedere spiegazioni, dire quello che sapeva, ma accanto al signor cognato si vergognava e fece finta di niente.

L'ospite di riguardo si era allontanato da solo. Dopo un po' il signor cognato cominciò a chiamarlo, ma non ricevette risposta. Allora, chiese al ragazzo di andare a cercarlo. Magari si è sentito poco bene o si è perso, disse preoccupato. Cosimo accelerò subito il passo, spingendo con decisione la mula e cominciò la ricerca. Lo trovò seduto su una panchina di marmo, al ciglio di una delle strade. Aveva la faccia rossa e la fronte bagnata di sudore. Sembrava stanco, ma gli fece ugualmente un sorriso. Cosimo lo ricambiò. Meno male che L'ho trovata. Il signor padrone era preoccupato, gli disse. Lui annuì, ma non aprì bocca. Ad un tratto indicò un mosaico con un grosso cane in posizione di attacco sullo stipite di una porta. Cosimo si alzò per guardarlo meglio.

Sembra il tuo cane, non trovi? gli disse.

È vero, rispose lui, stupito. Rimase a guardarlo in silenzio per un po', poi si voltò verso l'ospite con aria incuriosita.

Che vuol dire questa scritta? domandò.

Attenti al cane, rispose lui.

Il ragazzo si velò in volto; contrasse le ciglia e strinse le spalle.

Che brutta fine che hanno fatto, vero? disse.

L'ospite annuì.

Forse è la fine che faremo pure noi, aggiunse il ragazzo.

L'ospite non aggiunse nulla.

Rimasero seduti molto a lungo. Il signor cognato li trovò così, l'uno accanto all'altro a parlare, e si infastidì moltissimo, soprattutto nei riguardi di Cosimo che non era tornato ad avvisarlo. L'ospite lo scusò. Era colpa sua, avevano provato a chiamarlo, ma non rispondeva. Forse era troppo distante. E lui era troppo stanco per tornare indietro a piedi.

La strada del ritorno fu molto faticosa. La mula al caldo del primo pomeriggio era divenuta dispettosa e si fermava spesso come se volesse protestare di essere trattata da animale. Cosimo talvolta la rimproverava e ogni tanto l'accarezzava, ma perlopiù doveva spingerla con il braccio per farla andare avanti. Il signor cognato parlò tutto il tempo della necessità di custodire gli scavi dalla razzia dei popolani che scavavano e rubavano, portando via gioielli, arredi, oggetti sacri e quant'altro fosse vendibile. L'ospite ascoltava i discorsi del signor cognato in silenzio. Ogni tanto faceva un gesto col capo in segno di approvazione.

Dopo diverso tempo, su una curva della strada, ormai abbastanza vicino alla villa, comparve la sagoma di una vecchia casa. Era apparsa già all'andata, ma nessuno ci aveva fatto caso, del resto era solo una casa di contadini, logora e malconcia, come se ne trovavano tante nei pressi. Non l'avrebbero notata nemmeno allora, se da lì non fosse giunta l'eco di una voce femminile, giovane e sincera. Cantava un canto popolare, commovente, un canto pieno di dolcezza. L'ospite di riguardo volle fermarsi subito. Scese dalla mula e si mise ad ascoltare quelle parole d'amore, che arrivavano col vento fino a loro. Era incantato, quasi smarrito.

Sarà una villanella che abita laggiù, disse svogliatamente il signor cognato, infastidito dalla pausa non prevista. Canterà le sue pene d'amore, come tutte le giovani.

L'ospite concentrato, non mosse ciglio.

È la serva che aiuta mamma, disse Cosimo. La conoscete pure voi, padrone.

L'ospite si voltò verso il ragazzo. Non aveva capito a chi facesse riferimento, ma non gli importava.

Le devi dire che ha davvero una bella voce, gli sussurrò il signor cognato.

Sì, ma c'ha pure un brutto carattere, rispose il ragazzo d'impulso. Non parla mai, non sorride mai. Lava, canta e basta.

L'ospite continuava ad ascoltarla. Quel canto, come ogni musica, esercitava su di lui l'effetto di sgretolare il muro dietro cui covava la sua disperazione. Ad un tratto la voce si interruppe e tornò il silenzio.

L'ospite, immerso nell'incanto delle note, avrebbe voluto rimanere lì ad aspettare di sentirla ancora cantare. Non si mosse, come se la musica non si fosse mai interrotta. Ma il signor cognato volle subito riprendere il cammino. Le faccende da fare a casa erano tante, disse spazientito, e poi li aspettavano a pranzo, non era il caso di farsi attendere ancora.

Arrivarono dopo l'una. Il signor cognato rientrò subito in villa per visitare la sorella ammalata. L'ospite di riguardo invece rimase ancora fuori, a salutare il ragazzo. Anche stavolta gli fece i complimenti: era stato scrupoloso e affidabile. Cosimo gli sorrise. Si sentiva soddisfatto. Si congedò dall'ospite con un inchino accennato, come gli aveva detto il padre di fare. Stava per voltare le spalle e andar via, quando si fermò di scatto.

Glielo dirò a Silvia che Le piace quando canta, disse allegramente.

L'ospite rimase immobile, e aggrottò le ciglia, come se non avesse capito o avesse capito male.

A Silvia, la villanella della casa, riprese. Glielo dirò che Le piace la sua voce. Se mi fa parlare, però, perché quando mi vede, se ne scappa.

L'ospite avvertì un sussulto nel petto. Tossì. Il vento gli scompigliò i capelli. Portò una mano sulla fronte.

Si chiama Silvia quella ragazza? balbettò.

Cosimo fece un gesto di assenso col capo.

Nessuna si chiama come lei da queste parti, aggiunse.

L'ospite si sistemò i capelli smossi e sorrise.

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Pagina 117

La Ginestra



    1   Qui su l'arida schiena
    2   del formidabil monte
    3   sterminator Vesevo,
    4   la qual null'altro allegra arbor né fiore,
    5   tuoi cespi solitari intorno spargi,
    6   odorata ginestra,
    7   contenta dei deserti. Anco ti vidi
    8   de' tuoi steli abbellir l'ernie contrade
    9   che cingon la cittade
   10   la qual fu donna de' mortali un tempo,
   11   e del perduto impero
   12   par che col grave e taciturno aspetto
   13   faccian fede e ricordo al passeggero.
   14   Or ti riveggo in questo suol, di tristi
   15   lochi e dal mondo abbandonati amante
   16   e d'afflitte fortune ognor compagna.


        [...]


  297   E tu, lenta ginestra,
  298   che di selve odorate
  299   queste campagne dispogliate adorni,
  300   anche tu presto alla crudel possanza
  301   soccomberai del sotterraneo foco,
  302   che ritornando al loco
  303   già noto, stenderà l'avaro lembo
  304   su tue molli foreste. E piegherai
  305   sotto il fascio mortai non renitente
  306   il tuo capo innocente:
  307   ma non piegato insino allora indarno
  308   codardamente supplicando innanzi
  309   al futuro oppressor; ma non eretto
  310   con forsennato orgoglio inver le stelle,
  311   né sul deserto, dove
  312   e la sede e i natali
  313   non per voler ma per fortuna avesti;
  314   ma più saggia, ma tanto
  315   meno inferma dell'uom, quanto le frali
  316   tue stirpi non credesti
  317   o dal fato o da te fatte immortali.

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Pagina 127

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani



In questo secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso de' viaggi, sia per quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora è d'uso, sicché ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra' popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte per le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa, una specie d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava; per qualcuna o per tutte queste cagioni le nazioni civili d'Europa, cioè principalmente la Germania, l'Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi e calma le passioni e introduce uno abito di moderazione; e altresì per l'affievolimento stesso dell'amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte le passioni degli uomini) hanno, dico, deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell'animosità, dell'avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri.

[...]


Gl'italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d'altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi appartengono, quanto all'abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e l'altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra più civile e più istruita d'Europa o d'America. Per conseguenza da questa parte ella è priva come l'altre d'ogni fondamento di morale, e d'ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl'inclina a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a' passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de' sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all'assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell'animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl'italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl'italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l'hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.

[...]

Primieramente dell'opinione pubblica gl'italiani in generale, e parlando massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto il giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s'ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s'ha da procedere a modo suo non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl'italiani considerino, come i francesi, per la massima delle sventure la perdita o l'alterazione dell'opinion pubblica verso loro, e sieno pronti, come i francesi ben educati, a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia) dell'opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano nel linguaggio della vita), e chi non si cura d'incorrere per amor di quello in danni o privazioni vere, d'astenersi da piaceri, ancorché minimi, e cose tali. Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all'opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. Non si può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non abbiano assai più ragione dei francesi e degli altri che pensano e operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno, quanto alla pratica, assai più filosofi. Al che li porta lo stato delle cose loro, nel quale in realtà l'opinione pubblica, per la mancanza di società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell'uno e dell'altro; si dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché certissime e grandissime, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con perfetta indifferenza, e come d'una dell'altre.

Secondariamente, e questa è cosa molto osservabile, come l'opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l'ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante. Lascio la totale mancanza d'industria, e d'ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d'ogni altro istituto di vita e di professione per cui l'uomo miri a uno scopo, e coll'aspettativa, coi disegni, colle speranza dell'avvenire, rilevi il pregio dell'esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d'un futuro migliore, sempre ch'è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l'importanza della vita. Or la vita degl'italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente.

[...]

È un falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltà moderna come liberatrice dell'Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba e falsifica tutta l'idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risorgimento è stato dalla barbarie de' tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall'antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell'antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque. Certo ella non fu totalmente conforme alla prima, anzi beaucoup s'en faut [molto ci manca, n.d.r.]; le circostanze non lo consentirono allora, e ne l'hanno forse più che mai allontanata in progresso, ed allontanano ogni dì più, ma in quanto ella ci rende diversi dagli antichi, si può forse molto dubitare se ella faccia un benefizio agl'individui e alle nazioni e se giovi alla felicità, virtù e grandezza sì degli uni separatamente considerati, e sì dell'altre considerate ciascuna in corpo, e tutte insieme. Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de' lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de' tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de' fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall'inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all'orientale, inquieta e micidiale, dall'abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d'ogn'industria e deperimento e languore dell'agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, famiglie e famiglie, dallo spirito non d'eroismo ma di cavalleria e d'assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forvia costante di repubblica e amministrazione, incertezza della giustizia, de' diritti, delle leggi, degl'instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d'alcun colore, le colpe non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne' più grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da' suoi effetti e da' suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono proccura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono due secoli, e intenta propriamente a terminare e perfezionare il nostro risorgimento dagli abusi, pregiudizi (peggiori assai che l'ignoranza), depravazione e barbarie de' tempi bassi; degna perciò solo di lode e gratitudine e gloria e favore e coltura, e perciò solo utile o almeno perciò principalmente.

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Da tutte le cose considerate di sopra come cagioni della total mancanza o incertezza di buoni costumi in Italia, e della mancanza eziandio di costumi propriamente italiani (la qual mancanza è sempre compagna e causa di mali costumi), segue un effetto reale, che può parere un paradosso, cioè che (siccome v'ha più propriamente costumi) v'ha migliori o men cattivi costumi nelle capitali e città grandi d'Italia, che nelle provincie, e nelle città secondarie e piccole. La ragione si è che in quelle v'ha un poco più di società, quindi un poco più di cura dell'opinion pubblica, e un poco più di esistenza reale di questa opinione, quindi un poco più di studio e spirito di onore, e gelosia della propria fama, un poco più di necessità e di cura di esser conforme agli altri, un poco più di costume, e quindi di buono o men cattivo costume. Al contrario di quello che può sembrar verisimile, le città piccole e le provincie d'Italia sono di costumi e di principii assai peggiori e più sfrenati che le capitali e città grandi, che sembrerebbero dover essere le più corrotte, e per tali sono sempre state considerate, e si considerano generalmente anche oggi, ma a torto.

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