Copertina
Autore Plutarco
Titolo Vite parallele
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2005 [1992], Classici greci , pag. 876+730, vol. 2, cop.fle., dim. 120x190x(45+35) mm , Isbn 978-88-02-07177-0
CuratoreAntonio Traglia
PrefazioneAdelmo Barigazzi
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe classici greci , biografie
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Indice

  7 Introduzione generale
 65 Nota biografica
 67 Nota bibliografica generale
 75 Nota critica generale

 79 TESEO

    Introduzione, 81
    Nota bibliografica, 83
    Nota critica, 85
    Testo, 86

143 ROMOLO

    Introduzione, 145
    Nota bibliografica, 147
    Nota critica, 148
    Testo, 150

217 CONFRONTO TRA TESEO E ROMOLO

    Introduzione, 219
    Nota critica, 219
    Testo, 220

231 SOLONE

    Introduzione, 233
    Nota bibliografica, 235
    Nota critica, 237
    Testo, 238

303 PUBLICOLA

    Introduzione, 305
    Nota bibliografica, 307
    Nota critica, 309
    Testo, 310

353 CONFRONTO FRA SOLONE E PUBLICOLA

    Introduzione, 355
    Nota critica, 357
    Testo, 358

367 TEMISTOCLE

    Introduzione, 369
    Nota bibliografica, 371
    Nota critica, 373
    Testo, 374

433 CAMILLO

    Introduzione, 435
    Nota bibliografica, 437
    Nota critica, 439
    Testo, 440
521 ARISTIDE
    Introduzione, 425
    Nota bibliografica, 525
    Nota critica, 527
    Testo, 528

589 MARCO CATONE

    Introduzione, 591
    Nota bibliografica, 593
    Nota critica, 595
    Testo, 596

655 CONFRONTO FRA ARISTIDE E CATONE

    Introduzione, 657
    Nota critica, 659
    Testo, 660

673 CIMONE

    Introduzione, 675
    Nota bibliografica, 677
    Nota critica, 679
    Testo, 680

725 LUCULLO

    Introduzione, 727
    Nota bibliografica, 729
    Nota critica, 731
    Testo, 732

831 CONFRONTO FRA CIMONE E LUCULLO

    Introduzione, 833
    Testo, 834

845 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE GENERALE



1. La vita e l'ambiente sociale

Di Plutarco, l'autore per eccellenza di biografie, nessuno nell'antichità ha scritto una vita, né lasciò egli stesso, per modestia, un'autobiografia. Scarse sono le notizie offerte nel breve articolo nella Suda e poche sono anche quelle che si ricavano da altri scrittori; invece molto riusciamo a sapere sulla sua vita dagli scritti dello stesso Plutarco, perché egli ama parlare di sé, e lo fa senza ostentazione e vanità, ma con grazia e semplicità.

Non si conosce con precisione né l'anno di nascita né quello della morte. Si può dire soltanto che il terminus ante quem per la nascita è il 50 d.C. e il terminus post quem per la morte è il 119 d.C.

[...]

Come si vede, grande è la varietà dei personaggi che hanno avuto rapporti con Plutarco. Non pochi gli facevano visita a Cheronea o si affrettavano ad incontrarlo ad Atene o in altri luoghi in cui si trovasse o gli scrivevano chiedendogli consigli sugli argomenti più vari. C'è anche un liberto, Eros, che era guarito dall'irascibilità (De cohib. ira, 1,453B), e non mancano le donne, così nobilitate da Plutarco come capaci anch'esse di virtù e preziose collaboratrici dell'attività maschile. Oltre a Timossena, la mite e saggia moglie di Plutarco, compare Clea, a cui sono dirette le Mulierum virtutes e anche De Iside et Osiride, perché la donna era una sacerdotessa di Iside molto istruita e in grado di dimostrare che l' areté dell'uomo e della donna è una sola (De mul. virt., I,242F). Euridice ascoltò le lezioni di Plutarco e a lei, quando si sposò, furono indirizzati i Coniugalia praecepta; Aristilla fu la destinataria dello scritto di Timossena De se ornandi studio (Con. praec., 48,145A); la vedova Ismenodora, se il fatto non è fittizio, supera tutti gli ostacoli nello sposare il giovane Baccone e offre all' Amatorius l'occasione per dimostrare come l'amore eterosessuale sia di gran lunga superiore a quello omosessuale.

Conviene in particolare fare un cenno alla classe dei sacerdoti per il grande interesse che Plutarco ha per la teologia, frequente oggetto dei discorsi nelle Quaestiones convivales e di non pochi scritti specifici, e perché egli stesso fu sacerdote di Apollo a Delfi. Il sacerdote Lucanio in una festa istmica a Corinto accoglie ospiti che spiegano perché il pino è sacro a Posidone (Qu. conv., V,3); così Nicandro che compare nel dialogo De E apud Delphos ed espone il pensiero ufficiale sull'interpretazione dell'E inciso all'ingresso del tempio. È identificato col sacerdote Tiberio Claudio Nicandro che compare nelle iscrizioni delfiche, nelle quali s'incontra un Eutidamo (in questa forma) col quale viene identificato Eutidemo di Sunio, di cui è parola in Qu. conv., III, 10 e VII, 2 e che fu collega di Plutarco nel sacerdozio a Delfi. Questa carica fu molto importante nella vita del filosofo. Egli non parla di cariche sacerdotali nella città natale, ma molte notizie sono collegate con la sua attività di sacerdote nel famoso santuario di Apollo.

[...]

Naturalmente l'ampiezza delle relazioni sociali di Plutarco in gran parte è una conseguenza della sua attività didattica. Come si è detto, egli non fu mai scolarca dell'Accademia, ma svolse un'intensa attività didattica a Cheronea, divenuta la sede di una filiale, per così dire, dall'Accademia ateniese, nella quale egli era di fatto per la superiorità mentale e culturale il personaggio più autorevole. Era una tradizione della sua famiglia, per quel che si può arguire dalle Quaestiones convivales, tenere delle conversazioni, con la partecipazione di amici, intorno a vari argomenti fin dal tempo del nonno Lampria. Con l'educazione di Plutarco e dei suoi fratelli ad Atene sotto la guida di Ammonio, le conversazioni acquistarono in profondità e serietà, crebbe il numero dei partecipanti, provenienti da paesi anche non vicini, l'insegnamento ricevette forme più normative, dentro un circolo di persone, per lo più giovani, che facevano vita in comune, senza che il ricco e generoso maestro esigesse un onorario. In questo Plutarco seguiva l'esempio di Socrate e Platone. Gli argomenti, trattati in forma di lezioni o di dialoghi, passeggiando o durante un convito, erano vari, di fisica, di medicina, di matematica; ma specialmente interessava la filosofia, come ars vitae. E tutto convergeva a questo fine, la scienza politica, lo studio dei poeti come propedeutica alla filosofia, la retorica, non coltivata per se stessa ma rivolta ad attrarre e persuadere il lettore.

[...]

Dall'elenco risulta che su 227 scritti ne sono pervenuti a noi solo 83 (in 87 libri) e ne sono andati perduti 144 (in 191 libri), ma ciò che colpisce di più è l'assenza nel catalogo di 18 scritti conservati e che non ne compaiono altri 15 di cui restano frammenti o testimonianze. Se si fa la somma di tutto, si nota che sotto il nome di Plutarco circolavano circa 260 scritti (in circa 300 libri). Ma sicuramente non erano tutti autentici, perché suole accadere che sotto il nome di un autore celebre vanno a finire scritti anonimi di argomento affine, e ciò poteva essere più facile nel caso di Plutarco, autore di moltissimi scritti di filosofia popolare, un genere che nell'età imperiale fu molto fecondo. La comparsa o assenza nel catalogo di Lampria non è di per sé una prova di autenticità o non autenticità: occorrono altri argomenti di contenuto e di forma. Si adduce di solito la norma dello iato, che Plutarco evita attentamente ma non basta da solo, perché possono esserci corruttele nella trasmissione del testo o perché Plutarco non fu il solo ad evitare lo iato. Il problema dell'autenticità va esaminato caso per caso.

È diffusa l'opinione di un Plutarco autore di biografie e di trattati della cosiddetta filosofia popolare: in realtà questa è una riduzione o deformazione della sua produzione, la quale comprendeva trattazioni di filosofia teoretica, teologia, psicologia, logica, scienze naturali, esegesi letteraria, antiquaria, in breve abbracciava tutti i campi dello scibile del tempo. L'impressione nasce dal fatto che sono stati conservati prevalentemente gli scritti biografici e quelli di filosofia popolare, che costituivano circa un terzo di tutta la produzione. L'antichità ha fatto tesoro della parte più caratteristica e più vitale e l'ha tramandata ai posteri, che se ne sono nutriti per parecchi secoli.

Una grande divisione si suol fare: da una parte le biografie, dall'altra i cosidetti Moralia o opere morali. Le biografie a loro volta possono suddividersi in vite singole e vite parallele. In queste ultime ad un personaggio greco che è quasi sempre cronologicamente anteriore, viene accostato uno romano che mostri delle somiglianze, e così si forma una coppia di personaggi che corrono, per così dire, a fianco parallelamente. Di qui il titolo Vite parallele. Sono conservate 22 coppie; una è perduta, quella di Epaminonda e Scipione, che verisimilmente era la prima non solo perché il tebano Epaminonda rappresentava per Plutarco il personaggio ideale che associava in sé il grado perfetto di pensiero e di azione, ma anche perché all'inizio della raccolta doveva essere espresso in una prefazione, un programma generale insieme alla dedica a Q. Sosio Senecione. Infatti la raccolta per l'omogeneità della trattazione e la finalità fu concepita come un organismo unico e portava una dedica sola.

Le biografie singole, tranne le vite di Arato, lo stratego, di Artaserse, di Galba e di Otone, si sono perdute. Fra queste c'era una vita di Scipione Africano, che non si può decidere con sicurezza quale fosse: forse il Maggiore, perché penso che il Minore facesse coppia con Epaminonda, più simili per i loro interessi culturali e per l'amore alla filosofia. A parte alcuni personaggi arcaici, consacrati da tempo all'ammirazione generale, molti personaggi greci appartenengono ai secoli V e IV, pochi all'età ellenistica, perchè questa, oltre ad Alessandro Magno, non offriva molti esempi di uomini virtuosi; anzi un personaggio, Demetrio Poliorcete, è presentato come modello di una vita viziosa in coppia col romano Antonio.

Alcuni accoppiamenti sono riusciti bene o abbastanza bene, come Teseo-Romolo, Licurgo-Numa, Alcibiade-Coriolano, Agide e Cleomene-i Gracchi, Demostene-Cicerone, Demetrio-Antonio, Alessandro-Cesare; altri sono arbitrari e le syncriseis o confronti, con cui si chiudono quasi sempre le biografie, rivelano evidenti forzature, come a proposito di Aristide e Catone il Vecchio, di Pericle e Fabio Massimo, di Temistocle ed Emilio Paolo. Raffronti fra personaggi o fatti della storia greca e romana senza dubbio esistevano nella letteratura prima di Plutarco, ma egli ne ha fatto una regola e ne ha abusato, perché la cosa conveniva al suo scopo morale, la lotta tra le virtù e il vizio quale si manifesta nella storia delle vicende umane. Qualche volta però sembra che Plutarco si sia trovato in imbarazzo nell'accoppiare i personaggi, come nel caso di Augusto, un personaggio di grande importanza illustrato in una vita isolata, perduta, e in altre vite singole. La scelta di personaggi come Eracle, Esiodo, Pindaro, Cratete, che difficilmente potevano trovare accoppiamenti con personaggi romani, si deve principalmente al fatto che erano originari della Beozia, la patria dell'autore. Anche il focese Daifanto per la sua vittoria sui Tessali in tempi antichi era celebrato in feste annuali a Iampoli, non lontano da Cheronea. Verso l'eroe della guerra messenica Aristomene i Tebani serbavano molta gratitudine perché lo scudo dell'eroe, conservato nel santuario di Lebadea dove fu sacerdote il fratello di Plutarco Lampria, era stato portato, per consiglio dell'oracolo, come informa Pausania (IV, 16,7 e 32,4-6), presso l'esercito tebano che fu vittorioso a Leuttra.

[...]

Da quello che si è detto appare chiaro che la morale occupa il posto centrale nel pensiero di Plutarco; ma è fondata saldamente su principi teoretici. Sebbene nel campo scientifico Plutarco segua il principio dell' epoché accademica, nel campo religioso e morale egli resta aderente a Platone nella certezza di raggiungere la verità. La pratica della virtù ci avvicina a Dio, nel quale felicità e verità sono inscindibili. Perciò la ricerca della verità è ricerca di Dio e servire Dio è il modo più coerente e rapido per elevarsi verso il divino: Plutarco ne è pienamente cosciente quando, sacerdote a Delfi, adempie con cura e scrupolo il suo ufficio e cerca di ravvivare lo spirito religioso nella società. Non c'è alcun dubbio che Dio, principio e fine di ogni cosa, esiste dall'eternità e per l'eternità. L'ateismo è assurdo e fa scendere l'uomo al livello delle bestie. Non sono addotte sistematicamente prove dell'esistenza di Dio, ma la convinzione nasce dall'ordine cosmico e dalla tradizione dei padri e dal consenso dei popoli. Le superstizioni, che hanno origini lontane, non devono offuscare il concetto monoteistico, anche se sono ammessi dei minori. Tutto ciò che nasce e muta, perisce; solo Dio è partecipe della vera natura dell'essere: eterno, ingenerato, non soggetto ad alcuna mutazione, è uno e semplice, perché ogni differenza implica il non essere; fuori del divenire e incorporeo, è pura ragione (De E ap. Delph., 19,392E). È questa la grande verità che annunzia agli uomini l'iscrizione sul tempio di Delfi [...] «tu sei», connessa con l'altra [...] «conosci te stesso», cosicché appare netta la contrapposizione fra l'essere che veramente è e si conosce e l'essere che, immerso nel sensibile e il mutevole, ha bisogno di conoscere quale è la sua essenza. Dio non è inconoscibile: finché lo spirito dell'uomo è racchiuso nel corpo, non è possibile una partecipazione con Dio; solo in qualche modo a guisa di uno scialbo sogno, la mente può raggiungere il divino; ma dopo la morte, caduta la spoglia mortale, Dio apparirà nella sua pienezza nel mondo dell'intelligibile (De Is. et Os., 78,382Fs). L'identificazione platonica di Dio col Bene (De Is. et Os., 53,372F) conduce Plutarco a dare al suo Dio una maggiore personalità: è fornito di scienza perfetta e non gli manca nessuna virtù; vuole, ama, provvede. Così Dio è più vicino agli uomini e sembra diventare il Dio vivente dei cristiani: l'uomo può rivolgersi a lui con la più grande fiducia, quale può ispirare l'amico più sincero (C. Epic. b., 22,1102Dss.). Siamo lontani dalla teologia stoica, che Plutarco combatte e giudica quasi un ateismo. Infatti il logos stoico è pensato immanente nel mondo, come pneuma universale, in una maniera panteistica che racchiude la divinità dentro il processo cosmico, cioè di quel che è mutevole e perituro. Questo è assurdo per Plutarco: Dio è trascendente, al di sopra del mutevole e sensibile. Questa connotazione della personalità di Dio acquista rilievo proprio in opposizione alla dottrina stoica, che pure esaltava la provvidenza divina.

Il mondo non è nato dal concorso casuale di atomi, come pensano gli epicurei, ma è opera di Dio, non però nel senso che c'è stato una creazione dal nulla. Questo è un concetto ebraico; secondo il pensiero greco la materia è sempre esistita e Plutarco, seguendo Platone, fa intervenire la divinità soltanto per dare ordine e forma ad una materia confusa. Prima essa era «oscura», fornita di un'anima «insensata»: materia ed anima sono presenti ab aeterno e come un musicista dà armonia e convenienza a cose preesistenti, così Dio diede ordine e regolarità a quel che esisteva infondendo l'intelletto (...) ad un'anima primitiva irrazionale e turbolenta, cosicché il movimento, che preesisteva, ebbe un assestamento per mezzo del nous (De an. procr. in T., 5,1014BC; 7,1005A).

[...]

Dato lo stretto legame fra politica e morale, perde importanza un problema tradizionale, quale sia per Plutarco la forma migliore di governo, la repubblicana quale amico della libertà, come vorrebbero certi critici, o la monarchia come vorrebbero altri, o una forma mista: evidentemente è buona ogni forma che rispetta e venera la giustizia e contribuisce a farla trionfare nella pratica; con quale forma di governo poi si ottenga meglio lo scopo non è facile dire, perché le differenze storiche e sociali variano da popolo a popolo. Naturalmente è comprensibile la decisa avversione alle forme di governo degenerate, l'oclocrazia o anarchia, l'oligarchia e specialmente la tirannide. Così possono variare i consigli pratici per governare, dovendosi il governante adattare all'indole del popolo e alla sua cultura: quel che importa è che non siano mai violati i principi etici. Anche la precettistica politica ha una grande importanza in Plutarco, che compose più di uno scritto in proposito; qui però non possiamo scendere a particolari. Conviene piuttosto fare un'altra considerazione che ha un significato maggiore e più vasto, perché ci porta a dare di Plutarco un'interpretazione diversa da quella che solitamente si dà a proposito della sua concezione storica. Si usa presentarlo come un nostalgico ammiratore del passato, che cercherebbe di rivalutare agli occhi dei dominatori romani le glorie della storia greca d'un tempo, per mostrare che la Grecia merita rispetto e considerazione e così rendere meno amara la condizione presente; personalmente sarebbe vissuto in disparte sereno e tranquillo nel suo paese natale, attendendo alle pratiche religiose e civili, ma rassegnato e senza prospettive per il futuro. E poiché si è creduto di vedere un contrasto fra il suo quieto vivere, mentre la Grecia è asservita a Roma, e le sue dichiarazioni a favore della libertà e contro ogni tirannide, si è parlato di ipocrisia, come anche a proposito del suo esercizio sacerdotale e la sua netta opposizione alla superstizione. Francamente questa interpretazione a mio parere è errata.

Plutarco con sano realismo ha accettato il dominio romano ed ha collaborato con sincerità invitando i suoi connazionali a fare altrettanto e non a sognare, dietro i fantasmi della gloria passata, un ritorno all'indipendenza politica, ma imitare piuttosto gli esempi di nobiltà morale evitando le discordie cittadine e il ricorso ai dominatori per interessi o vendette personali. Del resto tutta la storia greca era una serie continua di contrasti fra città e città che impedirono l'unificazione di tutta l'Ellade in uno stato saldo e duraturo. Lo notava l'autore del Tricaranos, un singolare scritto del sec. IV a.C. che biasimava la politica delle tre città che esercitarono l'egemonia, Atene, Sparta e Tebe, e che è ricordato ancora dagli scrittori del sec. II d.C. come spiegazione della condotta fallimentare dei Greci a confronto della capacità di governare dei Romani. Questi limitavano la libertà, ma quella concessa, pensando al passato, poteva apparire anche troppa, come nota lo stesso Plutarco nei Praecepta gerendae rei publicae (32,824C); in cambio c'è la pace, non solo in Grecia ma in tutto il mondo, essendo scomparsa ogni guerra intestina ed esterna, e questo è il frutto migliore di ogni politica (ibid., 32,824Css.): « Sono felice e contento per questa tranquillità che regna dovunque: non ci sono più emigrazioni e rivolte né tirannidi né altre malattie o flagelli endemici della Grecia» (De Pyth. or., 22,408B).

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Pagina 87

TESEO



[1,1] I geografi, o Sossio Senecione, nei loro atlanti relegano ai margini delle tavole le parti della terra che sfuggono alle loro conoscenze, dandone ragione con note come «le zone qui oltre sono deserti di sabbia, senz'acqua e popolate da bestie feroci» oppure «oscure paludi» o «gelo scitico» o anche «mare ghiacciato». [2] Così per me, dopo aver percorso nella composizione delle «Vite Parallele» tutto il tempo fin dove è possibile che arrivi un discorso verosimile e che sia accessibile a una ricerca fondata sui fatti, per quanto riguarda i tempi più antichi potrei dire: [3] «La storia più remota, piena di eventi prodigiosi e drammatici, è dominio dei poeti e dei narratori di favole: non offre alcuna attendibilità e sicurezza». [4] Ma dopo aver pubblicato la «Vita di Licurgo» il legislatore, e del re Numa, mi parve non irragionevole risalire sino a Romolo, essendo arrivato con la mia storia vicino ai suoi tempi. E pensando dentro di me

«Chi a siffatto uomo (secondo quanto si legge in Eschilo) potrà stare a confronto? Chi gli porrò di contro? Chi può con lui competere?»,

[5] mi parve bene di mettere a confronto e di paragonare col padre dell'invitta e gloriosa Roma l'ecista della bella e famosa Atene. Mi auguro che l'elemento mitologico, da me depurato, sottostia a quello razionale e assuma aspetto storico. Ma se audacemente esso avrà in disprezzo l'attendibilità e non ammetterà accordo alcuno con la verosimiglianza, pregherò i lettori benpensanti di accogliere con indulgenza il racconto di fatti che appartengono a tempi remoti.


[2,1] Sembrava dunque che per molti motivi di somiglianza Teseo fosse adatto ad essere messo a confronto con Romolo? Ambedue, infatti, di natali incerti e oscuri, ebbero fama di discendere da dèi,

Ambedue valorosi guerrieri, e questo tutti sappiamo,

e ambedue furono dotati di forza e di senno. [2] Delle due più famose città l'uno fondò Roma, l'altro ingrandì Atene: ciascuno dei due pose mano al rapimento di donne. [3] Né l'uno né l'altro sfuggì a disgrazie domestiche e a risentimenti familiari, ma si dice che ambedue nei loro ultimi giorni venissero a conflitto coi propri concittadini, se almeno un qualche elemento utile a ristabilire la verità può venire da chi sembra raccontare i fatti in una forma niente affatto poetica.


[3,1] Il lignaggio di Teseo risale per parte di padre ad Eretteo e ai primi abitanti della Grecia, mentre per parte di madre egli discendeva da Pelope. [2] Questi era il più potente dei re del Pelopponeso, non tanto per abbondanza di ricchezze quanto per numero di figli. Dette in moglie le sue figlie ai più grandi signori e molti figli stabilì in varie città come loro capi. Uno di questi, Pitteo, nonno di Teseo, fondò la non grande città di Trezene ed ebbe fama tra i contemporanei come uomo erudito al di sopra di tutti e come grandissimo sapiente. [3] Quella sapienza era press'a poco del tipo e dell'efficacia di quella di cui dette prova Esiodo diventando famoso, soprattutto nelle sentenze raccolte nelle «Opere». [4] Una di queste si vuole che sia di Pitteo, quella che dice

La mercede pattuita con l'amico sia sicura.

Questo è almeno ciò che afferma il filosofo Aristotele, ed Euripide, chiamando Ippolito «allievo del puro Pitteo», dimostra la fama che intorno a Pitteo correva.

[5] Si racconta che ad Egeo, desideroso di aver figli, la Pizia rispondesse con quel famoso vaticinio con cui gli prescriveva di non aver contatti con alcuna donna prima di giungere ad Atene. Ma a lui il vaticinio sembrò formulato in maniera poco comprensibile, per cui, giunto a Trezene, riferì a Pitteo le parole del dio, che così suonavano:

«non sciogliere, o grande reggitore di popoli, il piede sporgente dall'otre prima di giungere nella città di Atene».

Avendo pensato Pitteo che queste parole erano oscure, indusse, o piuttosto ingannò, Egeo a congiungersi con Etra. [6] Egli si congiunse con lei e venuto a sapere che si era unito con la figlia di Pitteo, supponendo che ella avrebbe dato alla luce un bimbo, lasciò i calzari e la spada nascosti sotto un grande masso, che aveva una cavità tale da poter contenere gli oggetti in essa depositati. [7] Palesò poi la cosa alla donna soltanto e le ordinò che se fosse nato da lui un figlio, appena questi fosse divenuto grande e capace di sollevare la pietra e di portar via ciò che era stato lasciato sotto di essa, di mandarlo da lui con questi oggetti, di cui nessuno conosceva l'esistenza. Ma ciò andava fatto, per quanto possibile, senza che nessuno se ne accorgesse. Egli infatti temeva assai i Pallantidi, che gli tendevano insidie e lo disprezzavano perché non aveva figli, mentre erano ben 50 i figli di Pallantes. Date queste disposizioni, se ne ripartì.


[4,1] Avendo Etra dato alla luce un figlio, gli fu imposto il nome di Teseo. Alcuni dicono che gli fu dato subito, derivandolo da thesis, cioè il «deposito» dei segni di riconoscimento. Secondo altri gli fu dato dopo, in Atene, quando Egeo lo riconobbe (theménou) come suo figlio. Allevato da Pitteo, ebbe per direttore e pedagogo un tale di nome Connida. In suo onore gli Ateniesi, fino ai nostri giorni, sacrificano la vigilia delle «Tesee» un montone, per ricordare e onorare molto più giustamente di quanto onorino Silanione e Parrasio, pittori e scultori di Teseo.


[5,1] Vigendo anche allora la consuetudine che i giovani che hanno superato l'età della fanciullezza, si rechino a Delfi e offrano al dio la loro chioma, Teseo si recò a Delfi (dicono che c'è là un posto il quale ancora da lui si chiama «La Tesea») e si recise la chioma solo davanti, come appunto Omero dice usassero gli Abanti, e questo tipo di tonsura da lui chiamarono «alla Teseo». [2] Per primi gli Abanti si rasero in questo modo, non già perché glielo avessero insegnato gli Arabi, come alcuni ritengono, né per emulare i Misi, ma perché erano battaglieri e combattevano corpo a corpo e più di tutti gli altri avevano appreso a menar le mani contro il nemico, come testimonia anche Archiloco in questi versi:

[3] Non molti archi né frequenti fionde si curveranno quando Ares raccoglierà gli uomini a battaglia nella pianura, ma lavoro di spade vi sarà, causa di molti lamenti; in questo genere di battaglia, infatti, quelli sono abilissimi, i signori d'Eubea, famosi guerrieri.

[4] Per non offrire dunque al nemico un punto di presa coi capelli, essi così si radevano. E certamente a questo pensò Alessandro di Macedonia, quando, come dicono, ordinò ai suoi generali di far radere la barba ai soldati macedoni, perché questa in battaglia è un mezzo di presa quanto mai a portata di mano.

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Pagina 109

[19,1] Dopo che giunse con la nave a Creta, come la maggior parte degli storici scrive e come canta la maggior parte dei poeti, Teseo ricevette da Arianna, che si era innamorata di lui, il famoso filo e, istruito sulla possibilità di uscire dai meandri del Labirinto, uccise il Minotauro e ripartì recando seco Arianna e i giovanetti. [2] Ferecide narra che Teseo distrusse anche le navi dei Cretesi, per impedire che venisse inseguito. [3] Damone afferma che Teseo uccise Tauro, il generale di Minosse, in una battaglia da lui ingaggiata nel porto mentre Teseo stava per prendere il largo. [4] Ma secondo la versione dei fatti data da Filocoro, Minosse aveva bandito i Giochi funebri e poiché si prevedeva che Tauro avrebbe vinto di nuovo tutti i contendenti, questi era avversato. [5] La sua potenza, infatti, a causa del suo carattere era molesta ed era accusato di avere rapporti intimi con Pasife. Perciò, avendo Teseo chiesto di misurarsi con lui, Minosse acconsentì. [6] Era uso a Creta che anche le donne assistessero allo spettacolo dei Giochi, e Arianna, che era presente, rimase colpita dall'aspetto di Teseo e fu presa da ammirazione per la sua bravura nel gareggiare sì da vincere tutti i contendenti. [7] Ne ebbe piacere anche Minosse, soprattutto per la sconfitta di Tauro e per essere stato questi umiliato. Perciò restituì gli ostaggi a Teseo e condonò il tributo ad Atene.

[8] In modo particolare e ampio Clidemo parla di questi avvenimenti risalendo a tempi remoti. Egli dice che vigeva una legge comune a tutti i Greci secondo cui nessuna trireme poteva salpare da nessun porto con più di 50 uomini a bordo. Soltanto Giasone si mise in mare con una trireme carica di uomini validi, per cacciare i pirati dal mare. E Minosse, essendo Dedalo fuggito con una nave alla volta di Atene, lo inseguì violando le leggi in vigore, con navi da guerra. Sbattuto però da una tempesta contro le coste della Sicilia, vi trovò la morte. [9] Quando poi Deucalione, suo figlio, che era in stato di guerra con gli Ateniesi, mandò messi ad Atene a chiedere che gli ridessero Dedalo, minacciando altrimenti l'uccisione dei giovanetti che Minosse aveva presi come ostaggi, Teseo gli rispose con diplomazia appellandosi al fatto che Dedalo era suo cugino ed era suo congiunto per vincoli di sangue, in quanto figlio di Merope, figlia di Eretteo. Egli intanto si accingeva all'allestimento di una flotta, in parte in patria, nella città dei Timetadi, lontano dalla rotta percorsa dagli stranieri, in parte — sotto la direzione di Pitteo — a Trezene, volendo che la cosa rimanesse segreta. [10] Quando poi le navi furono pronte, salpò le ancore avendo come guida Dedalo e alcuni esuli cretesi. Nessuno aveva avuto in precedenza sentore della spedizione: i Cretesi credevano che fossero navi amiche dirette verso di loro. Teseo, impadronitosi del porto e sbarcato, arrivò a Cnosso prevenendo i nemici. Attaccata battaglia alle porte del Labirinto, uccise Deucalione e la sua scorta. Salita al governo Arianna, egli strinse un trattato di pace con lei, riebbe i giovani ostaggi e stabilì rapporti di amicizia fra Ateniesi e Cretesi, i quali giurarono di non riprendere mai più le ostilità contro di loro.

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[21,1] Nel viaggio di ritorno da Creta Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l'immagine di Afrodite che aveva ricevuta da Arianna, eseguì insieme coi ragazzi una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. [2] Questo genere di danza quelli di Delo chiamano «la gru», secondo quanto afferma Dicearco. Teseo la eseguì anche intorno all'altare chiamato «Cheratone», intessuto di corni [kérata], tutti piegati a sinistra. Dicono che a Delo istituisse una gara atletica e ai vincitori fu da lui data come premio, allora per la prima volta, una palma.

[22,1] Mentre si avvicinavano alle coste dell'Attica, Teseo si dimenticò (e se ne dimenticò anche il pilota, per la gioia da cui erano invasi) d'issare la vela con cui si doveva render noto a Egeo che essi erano salvi. Questi per la disperazione si gettò da una rupe e si sfracellò. [2] Teseo, appena approdato, compì i sacrifici che partendo aveva promesso in voto agli dèi al Falero e mandò un messaggero in città a portare la notizia che era salvo. Questi incontrò molte persone che piangevano la morte del re e altre, com'è naturale, che erano liete di salutarlo e di cingerlo di ghirlande per la loro salvezza. [3] Accettò le ghirlande e ne cinse il suo bastone di araldo. Tornato al mare, trovò che Teseo non aveva ancora terminato le rituali libagioni, epperò se ne stette fuori, non volendo turbare il sacrificio. Terminata la funzione, annunciò la morte di Egeo, [4] e quelli, in mezzo a pianti e a forti lamenti, salirono in fretta verso la città. Si dice che da qui deriva il fatto che anche ora nelle Oscoforie s'incorona non l'araldo, ma il suo bastone e che nelle libagioni i presenti gridano «Eleleu! Iou! lou! ». Il primo di questi gridi sogliono levare mentre libano, come grido di vittoria, il secondo è grido di costernazione e di dolore.

Seppellito il padre, Teseo sciolse i voti ad Apollo il settimo giorno di Pyanepsione, e questo è il giorno in cui essi salirono salvi in città. [5] Si dice poi che l'usanza di cuocere in tale giornata ogni sorta di legumi derivi dal fatto che i giovani salvati mettessero insieme quanto delle loro provviste era avanzato e, avendo cotto il tutto in una pentola comune, si sedessero a mensa insieme e lo mangiassero fra di loro. [6] E in questo giorno si porta l'«eiresione», un ramo di olivo ricinto di lana, come allora il ramo dei supplici era portato da Teseo, ricolmo di primizie di ogni specie, per indicare la fine della sterilità, e si canta

[7] Eiresione porta fichi, pane saporoso, coppe di miele, olio per ungersi e calici di vino puro, da andare a dormire ubriachi.

Senonché alcuni storici dicono che questa era un'usanza a ricordo degli Eraclidi, che veniva così mantenuto dagli Ateniesi. Ma i più pensano che le cose stiano come si è detto sopra.

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[31,1] A cinquant'anni, secondo quanto racconta Ellanico, a un'età non più adatta per sposarsi, Teseo compì i fatti relativi a Elena. Perciò alcuni, volendo correggere quella che era la più grande accusa rivolta contro di lui, affermano che non fu Teseo a rapire Elena, ma che questa fu portata via da Ida e da Linceo e che egli, presala in consegna, la custodì e non volle restituirla ai Dioscuri che la richiedevano; oppure dicono, per Zeus, che fu Tindaro stesso a consegnargliela, per paura che Enasforo, figlio di Ippocoonte, volesse prendere con la violenza Elena, la quale era ancora una bimba. [2] Ma la versione dei fatti più verosimile, quella che ha il maggior numero di prove in suo favore, è la seguente. Ambedue, Teseo e Piritoo, giunsero insieme a Sparta e avendo rapito la fanciulla che danzava nel tempio di Artemide Orthia, fuggirono. Poiché quelli che furono lanciati al loro inseguimento non riuscirono a star loro dietro oltre Tegea, essendo quelli ormai al sicuro e avendo traversato il Peloponneso, strinsero un patto: chi fosse stato designato dalla sorte avrebbe avuto Elena come sposa, ma avrebbe aiutato l'altro a procurarsi altre nozze. [3] Tirarono a sorte secondo i patti stabiliti e la fanciulla toccò a Teseo, il quale la prese che non era ancora in età da marito e la condusse ad Afidne. Pose al suo fianco la madre e l'affidò ad Afidno, che era suo amico, con l'ordine di custodirla, tenendola nascosta agli altri. [4] Volendo poi restituire il favore a Piritoo, partì con lui alla volta dell'Epiro in cerca della figlia di Edoneo, re dei Molossi, il quale aveva posto alla moglie il nome di Persefone, alla figlia quello di Core e al cane quello di Cerbero, ingiungendo a tutti i pretendenti alla mano della figlia di misurarsi con questo: l'avrebbe avuta chi avesse vinto il cane. [5] Ma quando seppe che Piritoo e il suo amico non erano venuti come pretendenti alla mano della figlia, ma erano venuti per rapirla, li fece catturare: Piritoo lo fece uccidere subito dal cane, mentre Teseo lo fece chiudere in prigione.

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ROMOLO



[1,1] Da chi e per quale ragione sia stato dato alla città di Roma questo grande nome, diffusosi per la sua fama fra tutti gli uomini, non c'è accordo fra gli storici. Alcuni dicono che i Pelasgi, dopo aver errato per la maggior parte del mondo e aver sottomesso moltissimi popoli, s'insediarono in questa regione e per la loro forza [rhome] nelle armi così chiamarono la città. Altri narrano che, presa Troia, alcuni uomini di quella città riuscirono a fuggire e a imbarcarsi. Spinti dai venti, capitarono sulle coste tirrene e approdarono presso la foce del fiume Tevere. [2] Essendo le loro donne ormai affaticate e mal disposte a riprendere il mare, una di esse, di nome Roma, la quale sembrava eccellere su tutte le altre per nobiltà e saggezza, suggerì di dar fuoco alle navi. Ciò fatto, dapprima gli uomini si sdegnarono contro di loro, ma poi, stabilitisi per necessità nei pressi del Pallanteo, in poco tempo vennero a trovarsi in condizioni migliori di quanto si aspettassero. Sperimentata la fertilità del terreno e ben accolti dai vicini, non solo tributarono a Roma altri onori, ma dettero alla città il nome di lei, in quanto era stata la causa della sua fondazione. [3] Dicono che da allora nascesse l'uso delle donne romane, uso ancora in vigore, di salutare i loro congiunti e i loro mariti baciandoli. Quando infatti quelle dettero fuoco alle navi, così salutarono e si accattivarono i loro mariti, pregandoli e cercando di placare la lora ira.


[2,1] Altri dicono che Roma fosse figlia di Italo e di Leucaria. Altri che fosse figlia di Telefo (figlio di Ercole), andata sposa a Enea; altri di Ascanio, figlio di Enea, e che da lei fosse dato il nome alla città. Altri dicono che la città fu fondata da Romano, figlio di Ulisse e di Circe; altri da Romo, figlio di Emazione, che Diomede inviò da Troia; altri da Romi, re dei Latini, il quale aveva cacciato gli Etruschi, che dalla Tessaglia erano passati nella Lidia e dalla Lidia in Italia. [2] Neppure quelli che secondo una tradizione più genuina sostengono che Romolo sia quello che ha dato il nome alla città, sono d'accordo sulla sua origine. Alcuni infatti dicono che era figlio di Enea e di Dessitea, figlia di Forbante, e che fu condotto da bambino in Italia insieme con suo fratello Romo. Nel fiume in piena, mentre le altre imbarcazioni fecero naufragio, quella in cui erano i due fanciulli fu spinta dolcemente verso un banco erboso, ed essendosi questi inaspettatamente salvati, quel luogo chiamarono «Roma ». [3] Altri dicono che Roma era figlia di quella troiana che, andata sposa a Latino, figlio di Telemaco, generò Romolo. Altri dicono che lo generasse Emilia, figlia di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte. [4] Altri infine raccontano fatti favolosi sull'origine di Romolo; per esempio, che a Tarchezio, re degli Albani, violatore di ogni legge e crudelissimo, apparisse in casa uno straordinario fantasma: apparve un fallo levatosi dal focolare e vi rimase per molti giorni. V'era in Etruria un oracolo di Tethys, da cui fu portato a Tarchezio il responso che una vergine doveva unirsi con quel fantasma: sarebbe infatti da lei nato un figlio famosissimo, che si sarebbe distinto per virtù, fortuna e forza. [5] Tarchezio riferì il vaticinio a una delle sue figlie e le ordinò di congiungersi col fantasma, ma lei sdegnosamente rifiutò e mandò al suo posto una serva. Tarchezio, come venne a sapere il fatto, mal sopportando la cosa, le fece arrestare tutt'e due col proposito di mandarle a morte. Ma Vesta, apparsagli in sogno, gli proibì di farle morire. Allora Tarchezio ingiunse alle due ragazze di tessere in prigione una tela: quando l'avessero ultimata, avrebbe concesso loro di sposarsi. [6] Quelle dunque di giorno tessevano, ma di notte altre, per ordine del re, disfacevano la tela. Quando l'ancella partorì due gemelli, avuti dal fantasma, Tarchezio li consegnò a un certo Terazio con l'ordine di ucciderli. [7] Quello li portò via e li depose vicino al fiume. Poi una lupa che abitualmente frequentava il luogo, porse loro le mammelle e uccelli di ogni sorta, portando pezzetti di cibo, imbeccavano i due piccini, finché un pastore vide con meraviglia questo fatto e portò via con sé i bimbi. [8] Salvati in tal modo, quando furono cresciuti assalirono Tarchezio e lo sopraffecero. Questa storia è narrata da un certo Promazione, che ha scritto una Storia d'Italia.


[3,1] Ma la storia maggiormente accreditata e fondata su moltissime testimonianze relative ai più importanti particolari, è quella che per primo pubblicò per i Greci Diocle di Pepareto, che anche Fabio Pittore seguì in moltissimi punti. Ci sono anche in questa storia alcune varianti; [2] ma in generale è press'a poco la seguente. La successione dei re d'Alba, discendenti da Enea, era toccata a due fratelli, Numitore e Amulio. Questi divise tutta l'eredità in due parti, mettendo da una parte il regno, dall'altra le ricchezze e l'oro portato da Troia. Numitore scelse il regno, [3] ma Amulio, avendo le ricchezze e acquistando per mezzo di queste maggiore potenza di Numitore, facilmente gli sottrasse il regno. Temendo poi che dalla figlia di lui potessero nascere dei figli, la fece sacerdotessa di Vesta, destinata a vivere per sempre nubile e vergine. Questa da alcuni è chiamata Ilia, da altri Rea, da altri ancora Silvia. [4] Non molto tempo dopo si scoprì che era incinta, contro la legge stabilita per le Vestali. Antho, la figlia del re, ottenne dal padre con le sue preghiere che non fosse punita con la pena capitale. Ma fu rinchiusa, lontana da ogni contatto col mondo esterno, perché non avesse a partorire di nascosto di Amulio. E dette alla luce due gemelli straordinari per grandezza e bellezza. [5] Perciò Amulio nutriva paura ancora maggiore e ordinò a un servo di prenderli e di gettarli via. Alcuni dicono che costui si chiamasse Faustolo, altri invece ritengono che così si chiamasse non lui, ma quello che li raccolse. Avendo dunque messo i due piccini in una cesta, il servo discese sulla riva del fiume per gettarveli, ma vedendo che le sue acque erano gonfie e impetuose, ebbe paura di accostarsi al fiume e, depostili vicino alla riva, se ne venne via. [6] Aumentando la piena del fiume, l'acqua prese e sollevò dolcemente la cesta e la portò in un punto moderatamente piano, che ora chiamano Cermalo, ma anticamente Germano, a quanto sembra perché anche i fratelli vengono chiamati «germani».


[4,1] V'era lì vicino un fico, che chiamavano Ruminale, o da Romolo, come i più ritengono, o perché vi facevano la siesta a causa della sua ombra le bestie «ruminanti», o — soprattutto — per l'allattamento dei due piccini, poiché gli antichi chiamavano «ruma» la mammella e Rumina chiamano una dea che ritengono abbia cura dell'allevamento dei bambini: a lei sacrificano senza vino e sopra le sue vittime versano libagioni di latte. [2] Raccontano che ai gemelli ivi giacenti una lupa desse il petto e che un picchio collaborasse con lei al loro nutrimento e li guardasse. Si ritiene che questi animali siano sacri a Marte, e il picchio è in grande venerazione e onore presso i Latini, onde si prestò particolare fede alla madre dei due bimbi, la quale affermava di averli generati da Marte. [3] Dicono tuttavia che questo a lei capitasse per un inganno subito, essendo stata deflorata da Amulio, che le si presentò in armi e la rapì. Il nome poi di chi li allevò, per la sua ambivalenza, offrì alla storia dei fatti la probabilità di deviare verso il leggendario. [4] «Lupe» infatti chiamavano i Latini tanto le femmine del lupo quanto le donne che si prostituiscono, e tale era la moglie di Faustolo, che fu quello che allevò i piccini: si chiamava Acca Larenzia. [5] In suo onore celebrano sacrifici i Romani e a lei offre libagioni nel mese di aprile il sacerdote di Marte: chiamano questa festa Larentalia.

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[13,1] Fondata la città, per prima cosa Romolo divise in formazioni militari tutta la popolazione in età atta a portare le armi. Ogni reparto era costituito da 3.000 fanti e 300 cavalieri, e fu chiamato «legione» per il fatto che erano truppe da combattimento «scelte» fra tutta la popolazione. [2] Poi con tutti gli altri formò il «popolo» e populus fu chiamata la moltitudine. Cento dei migliori cittadini egli nominò consiglieri e li chiamò «patrizi», mentre il loro insieme chiamò «senato». [3] La parola «senato» propriamente significa «Consiglio di Anziani». Che i senatori fossero chiamati «patrizi», alcuni dicono perché essi erano padri di figli legittimi; altri piuttosto perché essi erano in grado di poter dichiarare chi fosse il proprio padre, ciò che non era possibile a molti dei primi accorsi a formare la città, altri infine dicono dal «patrocinio» da loro esercitato. [4] Così infatti chiamavano e chiamano tuttora la protezione degli inferiori, credendo che un certo Patrono, uno di quelli che erano con Evandro, proteggesse e aiutasse coloro che erano nel bisogno, e che dal suo nome avesse lasciato a chi esercitava questa attività siffatto titolo. [5] La maggiore probabilità di cogliere nel verisimile avrebbe però chi pensasse che Romolo così li abbia chiamati perché riteneva giusto che i più ragguardevoli e i più potenti cittadini dovessero occuparsi con sollecitudine e con cura paterna dei più poveri e perché voleva nello stesso tempo insegnare agli altri a non temere i più potenti e a non sentire il peso delle loro cariche, ma ad amarli, credendoli e chiamandoli loro padri. [6] Difatti sino ai nostri giorni quelli che fanno parte del loro senato sono chiamati dagli stranieri «capi». Ma i Romani li chiamano «padri coscritti», usando un titolo che indica grandissima dignità e onore e non suscita affatto invidia. Da principio li chiamarono soltanto «padri», ma poi, quando molti furono aggiunti al loro numero li chiamarono «padri coscritti». [7] Questo era per Romolo il titolo di maggior venerazione con cui era distinta la dignità senatoria dalla comunità popolare. Anche con altri titoli distinse i potenti dalla moltitudine, chiamando gli uni «patroni», cioè «protettori», gli altri «clienti», cioè «sottoposti». Nello stesso tempo creò fra di loro rapporti di obbligazioni che dovevano divenire base d'importanti rapporti giuridici. [8] I patroni infatti si prestavano ai loro clienti come interpreti delle norme di legge, come patroni nei processi e come consiglieri e sostenitori in ogni circostanza. I clienti si mostravano devoti verso i loro patroni non solo onorandoli, ma anche fornendo la dote alle loro figlie in caso di bisogno e pagandone i debiti. Nessuna legge né alcun magistrato obbligava un patrono a testimoniare contro un suo cliente o un cliente contro il suo patrono. [9] In seguito, rimanendo in vigore gli altri privilegi, fu ritenuta cosa turpe e illiberale che i potenti prendessero danaro dai più poveri. Ma su questo argomento basta quanto abbiamo detto.

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[26,1] Questa fu l'ultima battaglia combattuta da Romolo. Poi non poté sfuggire neppure lui a quello che capita a molti, o meglio, tranne poche eccezioni, a tutti quelli che vengono innalzati da grandi e inaspettati eventi di fortuna al potere e agli onori. Ma imbaldanzito per le sue imprese e assumendo un atteggiamento più autoritario, rinunciò ai suoi modi popolari e passò dall'aspetto con cui prima si presentava a quello di un monarca oppressivo e sgradito. [2] Si vestì infatti di una tunica rossa, portava una toga orlata di porpora e sbrigava gli affari seduto su di un trono munito di schienale. Erano sempre intorno a lui dei giovani chiamati «Celeri» dalla velocità con cui compivano il loro servizio. [3] Si faceva precedere da altri uomini muniti di verghe con cui tenevano lontano il popolo e che portavano cinture di cuoio con cui legare subito chiunque egli avesse ordinato di legare. «Legare» i Latini in antico dicevano ligare e ora dicono alligare, per cui quelli che portavano le verghe erano chiamati lictores. Le verghe sono chiamate in latino bacula, per l'uso che allora facevano di bacteriai [= bastoni]. [4] Ma è chiaro che ora vengono chiamati lictores per l'inserzione di una «c», mentre prima si chiamavano litores, che corrisponde al greco leitourgói. I Greci infatti anche ora chiamano il popolo léiton e laós la moltitudine.

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CONFRONTO TRA TESEO E ROMOLO



[30(1),1)] Queste sono le cose degne di essere ricordate su Romolo e Teseo che a me è capitato di apprendere. Innanzi tutto appare chiaro che Teseo per libera scelta, senza che nessuno ve lo costringesse, ma pur essendogli possibile regnare liberamente a Trezene, in quanto erede di un regno non privo di fama, con una decisione autonoma si volse a compiere grandi imprese. Romolo, di contro, sfuggendo alla servitù in cui si trovava e alla condanna che incombeva su di lui, divenne realmente, come dice Platone, «coraggioso per la paura», e per la paura di soffrire mali estremi si dette a compiere per necessità grandi imprese. [2] In secondo luogo la più grande impresa da lui compiuta fu quella di uccidere una persona, il tiranno di Alba, mentre episodi marginali e preliminari dell'altro furono Scirone, Sinide, Procuste e Corinete, togliendo di mezzo e punendo i quali liberò la Grecia da terribili tiranni prima che quelli che da lui erano stati salvati potessero saperlo. [3] E a lui sarebbe stato possibile viaggiare liberamente per mare senza pericolo di ricevere offese dai predoni; a Romolo non sarebbe stato possibile evitare fastidi finché fosse stato in vita Amulio. V'è una grande prova della superiorità di Teseo: questi senza aver ricevuto nessun torto si lanciò contro i malfattori in difesa degli altri; Romolo e Remo finché essi stessi non ebbero a ricevere del male dal tiranno, lasciarono che egli ne facesse a tutti. [4] Che se grande impresa di Romolo fu l'essere stato ferito in combattimento contro i Sabini, l'aver ucciso Acrone e l'aver sgominato molti nemici in battaglia, è possibile mettere a confronto con queste azioni la Centauromachia e la battaglia contro le Amazzoni. [5] Ciò poi che osò fare Teseo a riguardo del tributo da pagare ai Cretesi, offrendo se stesso in pasto a un mostro o come vittima sulla tomba di Androgeo o in schiavitù ingloriosa e disonorevole presso uomini violenti e crudeli (il che sarebbe stato il male minore fra quelli detti) quando partì con fanciulle e fanciulli in tenera età, nessuno potrebbe dire di quanta audacia o magnanimità o giustizia per il bene comune o di quanto amore di gloria e di virtù fosse prova. [6] Sicché a me sembra che non male i filosofi definiscano l'amore « una prestazione divina per la cura e la salvezza dei giovani». L'amore infatti di Arianna più di ogni altro sembra opera di un nume e un espediente per salvare Teseo. [7] Non è giusto biasimare Arianna per essersi innamorata di lui, ma piuttosto ci si deve meravigliare che non tutti i giovani e le giovani abbiano avuto la stessa disposizione nei suoi confronti. Che se ella sola fu capace di questo sentimento, io per parte mia non senza ragione affermerei che era degna dell'amore di un dio, in quanto amante del bello e del buono e innamorata delle più alte virtù.


[31(2), 1] Romolo e Teseo furono per natura tutt'e due portati al governo dello Stato, ma nessuno dei due mantenne il comportamento di re: ambedue deviarono da questo ed effettuarono un cambiamento, Teseo in direzione democratica, Romolo in quella dispotica, ambedue cadendo nello stesso errore, spinti da opposte passioni. [2] È necessario infatti che chi detiene il potere sappia per prima cosa conservarsi il potere stesso e questo egli conserva non meno se si tiene lontano da ciò che è sconveniente che se si attiene a ciò che è conveniente. [3] Chi allenta o stringe il potere non rimane né re né capo di governo, ma divenuto o demagogo o despota, suscita nei sudditi odio e disprezzo. Ché errore di benevolenza e umanità è quello, di egoismo e di severità questo.


[32(3), 1] Se anche le disgrazie non bisogna del tutto attribuirle alla fortuna, ma bisogna ricercarne le cause anche nei diversi comportamenti del carattere e nella diversità delle passioni, nessuno assolverà Romolo dall'essersi lasciato prendere da un'ira irragionevole e portatrice di un'insensata rapidità d'azione nei confronti di suo fratello, né Teseo per il suo comportamento nei confronti del figlio. Ma piuttosto la causa che ha suscitato l'ira attenua la colpa di chi ha reagito a un'azione piuttosto grave come a un colpo di notevole violenza. [2] Per Romolo, infatti, essendo sorta una lite col fratello da una voluta ricerca del bene comune, nessuno potrebbe ritenere proporzionato il rapido attuarsi, in tanto grande sconvolgimento, della sua intenzione; ma Teseo indussero in colpa nel suo comportamento verso il figlio l'amore, la gelosia e le calunnie della moglie, cose a cui pochi uomini riescono a sfuggire. [3] Ma quel che è più importante è che l'ira di Romolo precipitò in un'azione e in un fatto con esito letale, l'ira di Teseo si limitò ad esplodere in parole, imprecazioni e maledizioni di un vecchio, mentre per il resto il ragazzo sembra essere incorso nella cattiva sorte. Di guisa che uno darebbe, in questo, il suo voto di preferenza a Teseo.


[33 (4), 1] Ma primo grande merito di Romolo è che egli mosse a compiere le sue imprese cominciando da piccolissimi inizi. [2] Erano chiamati, Romolo e Remo, servi e figli di porcari; ma prima ancora di essere liberi, poco mancò che avessero liberato tutti i Latini, raggiungendo in un solo tempo tutti i titoli più nobili, di uccisori dei nemici, di salvatori degli amici, di re di popoli e fondatori di città, non di trapiantati in altre città, come fu di Teseo, il quale riunì e consolidò un solo complesso abitativo, demolendo molte città che portavano il nome di antichi re ed eroi. [3] Romolo, sì, fece più tardi queste cose costringendo i nemici ad abbattere le loro abitazioni e a sparire fondendosi coi loro vincitori, ma all'inizio non trapiantò né ingrandì una città già esistente, ma la creò dal nulla, procurandosi insieme territorio, patria, regno, stirpe, nozze, parentele senza toglier di mezzo né uccidere alcuno, ma beneficando quelli che senza patria e senza casa volevano far parte di un popolo e divenire anche cittadini. [4] Non mandò a morte predoni e malfattori, ma si aggregò popoli vincendoli in guerra, sottomise città e trionfò su re e condottieri.

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