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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Kari Polanyi-Levitt 11 Introduzione di Giorgio Resta 21 L'ECONOMIA, LA TECNICA E IL PROBLEMA DELLA LIBERTA Per un nuovo Occidente 51 La scienza economica e la libertà di forgiare il nostro destino sociale 57 La storia economica e il problema della libertà 65 Nuove frontiere del pensiero economico 75 LE ISTITUZIONI CONTANO Il contributo dell'analisi istituzionale alle scienze sociali 83 La natura dell'accordo internazionale 97 Il significato della pace 109 Le radici del pacifismo 119 La cultura nell'Inghilterra democratica del futuro 127 America 137 COME FARE USO DELLE SCIENZE SOCIALI Come fare uso delle scienze sociali 147 Sulla teoria politica 159 Opinione pubblica e arte di governo 167 Storia economica generale 175 Elementi di mercato e pianificazione economica nell'antichità 193 CRISI E TRASFORMAZIONE Quel che conta oggi. Una replica 213 Filosofie in conflitto nella società moderna 227 L'eclissi del panico e le prospettive del socialismo 259 Il tramonto della civilizzazione del XIX secolo 265 La tendenza verso una società integrata 271 Postfazione di Mariavittoria Catanzariti 279 Ringraziamenti e nota dei curatori 303 |
| << | < | > | >> |Pagina 21IntroduzioneKarl Polanyi è stato definito un pensatore inattuale. E ciò non soltanto per ragioni di carattere prettamente anagrafico. Nato nel 1886 a Vienna da padre ungherese e formatosi a Budapest in un clima di grande fervore intellettuale, Polanyi fu uno dei più lucidi testimoni e dei più acuti indagatori della dissoluzione del «mondo di ieri». Dopo aver prestato servizio militare nella Grande guerra come ufficiale dell'esercito austroungarico e avere assistito alle vicende della Rivoluzione ungherese, Karl Polanyi partecipò allo straordinario laboratorio culturale e politico della Vienna socialista, prima di emigrare a Londra in conseguenza dell'ascesa del nazionalsocialismo e trasferirsi poi definitivamente in Nord America, ove sperimentò le tensioni della guerra fredda. Sono piuttosto le idee di Karl Polanyi ad apparire inattuali, poiché profondamente distanti da quelle che dominano la nostra epoca. Sono idee, come ha ricordato Michele Cangiani, «di altri tempi» e «di altre situazioni», figlie di un contesto storico superato e di un'esperienza di vita del tutto particolare. Polanyi non intese mai il suo ruolo d'intellettuale come quello di un distaccato e impassibile «notaio della storia», ma fu sempre animato da un'intensa passione civile e da una fede anti-deterministica nella possibilità di «forgiare il nostro destino sociale», rendendolo conforme alle esigenze della personalità umana. La costruzione di un nuovo Occidente, incentrato sui valori della libertà, del pluralismo e della giustizia sociale (il vero patrimonio dell'«Occidente culturale», dilapidato dagli errori dell'«Occidente politico»), e dunque aperto al dialogo con le altre culture e non ripiegato su se stesso e sul suo discorso economicistico monologante, rappresentò sempre, sino agli ultimi anni di attività, uno degli obiettivi fondamentali dell'impegno politico e intellettuale di Polanyi. Egli sviluppò sin dall'adolescenza una convinta fiducia nella possibilità di attuare la democrazia, e dunque assicurare l'effettiva realizzazione delle libertà dell'uomo, attraverso il socialismo. Tale fiducia guidò costantemente il suo Lebensweg e operò da inesauribile stimolo intellettuale, orientando la direzione e la tipologia delle sue ricerche. Queste ebbero sempre un carattere pionieristico, anche grazie alla passione che le ispirava e alle finalità cui erano rivolte. «Rompi con la pace in te, rompi con i valori del mondo / lotta, ricerca qualcosa di più che l'oggi e lo ieri / in tal modo non diverrai migliore del tuo tempo, ma esprimerai il tuo tempo nella sua forma più elevata.» Questi i versi di Hegel, tratti dal poemetto Entschluss, che, sia pure in una forma abbreviata, Polanyi amava sempre citare. Versi che rispecchiano fedelmente non soltanto il suo ideale di vita, ma anche quella tensione tra il valore della libertà umana e la «realtà della società», che rappresenta uno dei fili conduttori della sua attività di ricerca. Uno studioso, dunque, che si è mosso sempre controcorrente e che a maggior ragione oggi può apparire in contrasto con lo spirito dei tempi. Eppure la sua riflessione, per quanto eterodossa, ha iniziato a riscuotere negli ultimi trent'anni un'attenzione e un interesse crescenti nell'ambito delle scienze sociali. La grande trasformazione è divenuto un classico, tanto da esser tradotto in più di quindici lingue. Ma anche le opere più tarde, e in primo luogo la ricerca su Traffici e mercati negli antichi imperi, hanno esercitato un'influenza considerevole su vari campi del sapere, come l'antropologia economica, la sociologia storica e la storia economica. La rinascita dell'eredità intellettuale di Karl Polanyi non può stupire: poche altre analisi della società moderna si rivelano così originali e profonde come quella proposta dall'autore ungherese, il quale ha sempre dimostrato nella propria attività di ricerca una spiccata capacità di varcare i tradizionali confini disciplinari e «leggere» la realtà circostante muovendo da una prospettiva complessa e mai riduzionistica. Nella sua riflessione, Polanyi è riuscito a conseguire un mirabile equilibrio tra diversi approcci, combinando la sensibilità del giurista (è bene ricordare, infatti, che Polanyi alle Università di Budapest e Koloszvar aveva studiato giurisprudenza), dell'economista (disciplina che iniziò ad approfondire sin dall'esperienza viennese, ove fu condirettore del settimanale economico e politico Der Österreichische Volkswirt), dello storico (competenza affinata soprattutto durante il periodo londinese) e dell'antropologo (l'interesse per l'antropologia, già testimoniato dalla Grande trasformazione, sarà particolarmente coltivato dopo l'emigrazione in Nord America). Una siffatta ricchezza metodologica, se per un verso ha esposto la sua opera ad alcune inevitabili critiche, per altro verso gli ha permesso di maturare una visione d'insieme dei fenomeni sociali e sviluppare alcuni strumenti analitici di indubbia rilevanza anche per la riflessione contemporanea (dalla distinzione tra il significato formale e quello sostanziale di economico alla nozione di embeddedness e alla categoria del «doppio movimento»). Ma oltre agli strumenti d'analisi, sono i temi studiati e i problemi sollevati da Polanyi che mantengono ancora oggi un'importanza centrale, sia pure all'interno di un quadro complessivo ovviamente mutato (si pensi soltanto alla rilevanza ormai assunta dall'economia finanziaria). Basterà elencarne alcuni: il problema del rapporto tra economia e democrazia; la tendenza alla universal commodification; la questione del controllo sulla tecnologia; la regolazione dei mercati transnazionali. Non può stupire, dunque, che Joseph Stiglitz , nel redigere la prefazione all'ultima edizione statunitense della Grande trasformazione, abbia osservato che «sembra spesso che Polanyi stia parlando delle questioni del presente»; e che soprattutto oggi, nel pieno di una nuova e drammatica crisi dell'economia capitalistica, il monito di Polanyi circa le tendenze distruttrici del mercato autoregolantesi risuoni insistente nelle sedi più diverse, dalle piazze alle aule universitarie, tanto da far parlare di una vera e propria «Polanyi's revenge». Gli interrogativi posti da Polanyi circa settant'anni fa non hanno dunque perso la propria rilevanza, anzi si ripropongono con un'intensità ancora maggiore nel contesto del «supercapitalismo» contemporaneo, il quale ha offerto un'ulteriore riprova del fatto che la rimozione generalizzata dei vincoli al funzionamento dei mercati rappresenti una minaccia serissima, oltre che per l'ecosistema, per la stessa praticabilità della democrazia.
La persistenza dei problemi denunziati da Polanyi, se da un lato accresce
l'evidenza della sua critica alla «società di mercato», dall'altro può
rappresentare un'insidia, poiché espone al rischio di banalizzarne il contenuto,
dissociando il discorso dell'autore dal suo contesto e perdendone
di vista premesse e implicazioni originarie. Come si è giustamente osservato, e
come insegna la stessa lezione di Polanyi sullo storicismo, tanto la
storia quanto le idee passate possono «servire a capire meglio il presente
solo se le differenze non vengono appiattite». Anche per questa ragione,
nell'accostarsi oggi al pensiero di Polanyi, è importante non limitarsi alla
considerazione delle opere principali, ma confrontarsi con l'intera sua
produzione, la quale annovera numerosi saggi, testi di conferenze e scritti
d'occasione, che, seppur meno conosciuti, rivestono un grande interesse
e contribuiscono a fissare con maggior precisione il suo percorso intellettuale.
Il lettore italiano gode, da questo punto di vista, di una posizione
indubbiamente privilegiata, potendo disporre di diverse raccolte degli
scritti minori dell'autore, tradotte e pubblicate negli ultimi anni soprattutto
grazie all'impulso e alla cura di Alfredo Salsano e Michele Cangiani.
Il volume che qui si presenta intende offrire un ulteriore contributo alla diffusione del pensiero di Karl Polanyi, in quanto rende per la prima volta accessibili una serie di scritti sinora inediti e conservati presso l'archivio del Polanyi Institute for Political Economy, Montréal. Si tratta di lavori che riflettono l'intero arco della produzione di Polanyi: dal saggio «Quel che importa oggi», redatto in tedesco e risalente agli albori del periodo viennese (1919), sino allo scritto, che dà il titolo al volume, «Per un nuovo Occidente», composto pochi anni prima di morire (nel 1958) e pensato come capitolo introduttivo di un omonimo libro, programmato e mai portato a termine dall'autore.
La natura di questi scritti è eterogenea: oltre ai contributi
originariamente destinati alla pubblicazione in periodici o libri, si annoverano
— e sono la maggioranza — testi di conferenze e interventi a convegni, nonché
lezioni e corsi universitari tenuti in Inghilterra, prima del completamento
della
Grande trasformazione,
e negli Stati Uniti, dopo l'ultima delle molteplici emigrazioni di Polanyi. Il
loro interesse, come il lettore potrà constatare, va ben al di là della semplice
curiosità intellettuale. In essi l'autore,
oltre ad anticipare e sintetizzare temi già sviluppati nelle opere principali,
come il cortocircuito tra il dispositivo dei mercati autoregolantesi e la
democrazia parlamentare, o la distinzione tra la nozione formale e sostanziale
di «economico», si sofferma su questioni trattate altrove in maniera
occasionale. Si pensi, per fare soltanto qualche esempio, al rapporto tra
la struttura di classe e i caratteri della cultura inglese, al tema
dell'opinione pubblica e dell'arte di governo, al rilievo dei sistemi
d'istruzione per i caratteri della società americana, ai problemi del
pacifismo e alla
guerra come «istituzione», alle riflessioni in tema di sociologia della
conoscenza. La lettura di questi lavori può dunque essere d'ausilio per la
migliore comprensione del pensiero di Karl Polanyi, offrendo un ulteriore
saggio della multiformità degli interessi dell'autore, della sua straordinaria
capacità di indagare la società in tutte le sue sfaccettature e al contempo
dell'intima coerenza del suo itinerario intellettuale.
Il primo scritto in ordine cronologico è «Quel che conta oggi. Una replica», ultimato — secondo le fonti d'archivio — nel 1919. Verosimilmente esso fu composto a Vienna, in quanto Polanyi vi richiama l'esperienza della repubblica sovietica ungherese, considerandola conclusa; e la sua emigrazione in Austria coincide cronologicamente con l'ascesa al potere del governo reazionario di Miklòs Horthy. Tale scritto, benché strettamente legato alle vicende politiche dell'epoca, merita comunque di essere riletto, poiché in esso vengono anticipati temi e questioni che saranno ulteriormente sviluppati nei lavori degli anni venti e cominciano a delinearsi con precisione alcuni tratti distintivi della concezione politica di Polanyi. In particolare, il saggio traccia una genealogia del movimento del socialismo liberale — al quale Polanyi si era avvicinato sin dal periodo ungherese —, ne delinea le differenze con le posizioni marxiste e ne individua il nucleo aggregante nell'assunto per cui «la libertà è il fondamento di ogni vera armonia». Tale premessa costituisce il cardine della filosofia sociale dello stesso Polanyí, che consegna già a queste pagine una netta presa di distanza sia dalla prospettiva del «mercato anarchico dell'economia di profitto capitalistica» sia da quella dell'economia centralizzata e dirigistica di stampo comunista. Quanto alla prima, essa appare inaccettabile innanzitutto perché basata sullo sfruttamento del lavoro, che l'autore, richiamandosi alle tesi di Eugen Dühring, riconduce in ultima analisi alla «legge politica della proprietà basata sulla violenza» e alla mancanza di un regime di libero accesso alle terre coltivabili (qui affiora il tema dell' enclosure, che sarà indagato con attenzione nel terzo capitolo della Grande trasformazione, assumendo un rilievo cruciale nella ricostruzione dell'ascesa dell'economia di mercato); e inoltre perché la sua stessa dinamica intrinseca la porta a «spingere la produzione in contrasto con i bisogni sociali», non assicurando così alcuna forma di salvaguardia dell'interesse collettivo. L'idea che il mercato autoregolato sia strutturalmente inidoneo a orientare il processo economico a fini di utilità sociale — che qui affiora in maniera soltanto embrionale — verrà poi a precisarsi negli scritti degli anni venti sulla contabilità socialista, dove sarà sviluppato l'argomento per cui «l'economia privata, per sua natura, non riesce a comprendere l'effetto retroattivo del processo di produzione sulla vita della comunità»; e in quelli degli anni trenta, ove si sosterrà la tesi per cui, precludendo una reale supervisione (Übersicht) da parte degli attori economici delle conseguenze sociali delle proprie scelte, l'economia di mercato nega la responsabilità individuale, incrina l'appartenenza comunitaria e ostacola il comportamento morale dei singoli. Ma altrettanto impercorribile sarebbe la seconda prospettiva, quella della statalizzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione centralizzata. Innanzitutto essa si rivela in contrasto con l'ideale della libertà di scelta, che Polanyi non limita al piano individuale, ma traspone anche al livello dei gruppi intermedi. «Il socialismo liberale — scrive Polanyi — è, per la sua stessa concezione di fondo, contrario alla coercizione. Non soltanto lo Stato come organismo di dominio sulle persone, ma anche lo Stato come amministratore dei beni, è per esso, dal punto di vista pratico, un male necessario; dal punto di vista teorico, una costruzione superflua e dannosa. Ogni tentativo di sostituire con il potere statale ciò che può derivare soltanto dalla vita e dalla conoscenza dei singoli, porta inevitabilmente a conseguenze distruttive». Inoltre essa risulterebbe tecnicamente impraticabile per una ragione fondamentale: perché eliminando il sistema del libero scambio sarebbe impossibile far funzionare in maniera adeguata il processo economico. Nessun metodo di accertamento statistico sarebbe, infatti, in grado di svolgere una funzione analoga a quella esercitata dal libero incontro dell'offerta e della domanda. «L'economia — egli osserva da una prospettiva che rivela la sua vicinanza alla concezione "austriaca" del mercato — è un processo vitale, che non può in alcun modo essere sostituito attraverso un apparato meccanico, per quanto architettato in maniera sottile ed artificiale»; e il mercato si connota come «peculiare organo di senso, senza il quale il ciclo dell'economia non potrebbe aver luogo». L'economia prefigurata dal socialismo liberale — e dallo stesso Polanyi — non è quindi un'economia centralizzata senza mercato, bensì un'economia cooperativa, imperniata sulla rappresentanza organica delle forze del lavoro, del consumo e della produzione e sull'adozione di soluzioni concordate. «Il socialismo cooperativo è perciò economia di mercato. Ma non il mercato anarchico dell'economia di profitto capitalistica, quale luogo d'attuazione dei plusvalori nascosti nei prezzi, bensì un mercato organicamente ordinato di prodotti equivalenti del lavoro libero». Si profilano dunque chiaramente, già in questo scritto, due degli aspetti che diverranno centrali nel pensiero di Polanyi: la critica nei confronti del sistema di mercato autoregolantesi; l'insistenza sul valore della libertà come parametro di accettabilità sociale di qualsiasi assetto politico-economico. [...]
La prima è quella del controllo sulle forze della tecnologia,
dell'organizzazione economica e della scienza, in un contesto sempre più
artificiale e connotato — siamo nell'epoca della guerra fredda, con la minaccia
incombente del ricorso alle armi nucleari — da veri e propri rischi per la
sopravvivenza del genere umano. «Come restituire significato e unità alla vita
in una civiltà delle macchine» è la preoccupazione di fondo di Polanyi,
rafforzata dalla consapevolezza della responsabilità storica dell'Occidente per
la «traiettoria industriale, scientifica ed economicistica» impressa ai modelli
di sviluppo globali a partire dalla Rivoluzione industriale. Tale evento,
egli afferma in «Per un nuovo Occidente», costituì un vero e proprio spartiacque
nella storia dell'umanità. «Tre forze, la tecnologia, l'organizzazione economica
e la scienza (esattamente in questa sequenza), ognuna con
radici separate e autonome, si collegarono, all'inizio in modo discreto, per
poi formare, non più di cent'anni fa, un vortice sociale, il quale continua
ancora ad avvolgere con un impeto irresistibile milioni e milioni di persone.»
La sequenza ricostruita da Polanyi — che qui sintetizza in poche battute il
contenuto dell'analisi svolta nella
Grande trasformazione —
è molto precisa: prima vi fu l'introduzione dei nuovi macchinari industriali;
poi seguì il processo teso all'organizzazione dei mercati, che (contrariamente
alla vulgata liberale) non ebbe nulla di «naturale», ma fu una scelta
istituzionale deliberata; la scienza, aggiunge Polanyi, si unì per ultima, a
circa un secolo di distanza. «Tutte queste forze guadagnarono a quel punto
velocità: la tecnologia e la scienza formarono un'alleanza, l'organizzazione
economica sfruttò le proprie opportunità, elevando il principio dell'efficienza
della produzione — tanto attraverso il mercato, quanto attraverso la
pianificazione — a livelli vertiginosi». Subordinare tali forze (scienza,
tecnologia e organizzazione economica) «alla volontà di un progresso che sia
umano e alla realizzazione di una personalità che sia libera» costituisce ormai
una necessità per la sopravvivenza. E sull'Occidente, padre della civilizzazione
industriale, che grava il compito di «disciplinare le proprie creature». E ciò
non soltanto in ragione della propria responsabilità storica, ma
anche perché unicamente in tal modo — scrive Polanyi — sarà possibile
ristabilire un dialogo con le altre culture del globo, dimostrando una genuina
preoccupazione per i pericoli che coinvolgono l'intero genere umano e
non, invece, insistendo negli errori del passato, e in particolare nella miope
identificazione del progresso con il colonialismo e della democrazia con il
capitalismo. La critica feroce che l'autore muove all'«Occidente politico»
(ossia alle scelte compiute dall'insieme degli stati capitalisti) non risparmia
gli intellettuali, responsabili a suo avviso di aver tradito, con il loro
conformismo e con l'appiattimento sulle posizioni imposte dalla propaganda
governativa, il vero patrimonio della civilizzazione occidentale, ossia
l'universalismo personalista.
È su questo punto che si innesta la seconda delle questioni sollevate da Polanyi, e cioè la «fede dogmatica nel determinismo» come barriera ideologica ai processi di riforma del capitalismo preordinati all'attuazione delle garanzie di libertà e uguaglianza anche in campo economico. Nella consapevolezza che tale riforma presupponga necessariamente «il soddisfacimento dei presupposti della giustizia sociale, in quanto scopo umano consapevolmente perseguito», Polanyi s'impegna nel saggio «La storia economica e il problema della libertà» a confutare le tesi secondo cui un intervento sull'assetto delle libertà economiche avrebbe come automatico effetto quello di intaccare il quadro tradizionale delle libertà civili. Tale argomento, com'è noto, costituisce il nucleo centrale del discorso di von Hayek in La via della schiavitù, ove si sostiene che l'adozione di sistemi di pianificazione condurrebbe inevitabilmente alla scomparsa, oltre che del «mercato non regolato», anche delle libertà; ma a esso Polanyi assimila il ragionamento, uguale e contrario, fatto proprio dalle correnti marxiste, secondo cui il mutamento dell'organizzazione economica porterebbe con sé la scomparsa delle libere istituzioni, in quanto «frode borghese». Entrambe le posizioni, quella liberale e quella marxista, soffrirebbero del medesimo vizio di fondo: la fede dogmatica nel determinismo economico, ossia la convinzione che i rapporti economici non limitino soltanto, bensì determinino gli aspetti culturali di ogni società, e tra questi anche la presenza di «istituzioni della libertà». Per evidenziare l'inconsistenza di tale assunto, Polanyi attinge alla storia, mostrando che se il modello deterministico può apparire realistico nel contesto della società di mercato di stampo ottocentesco, ove cioè l'uomo (il lavoro) e il suo habitat naturale (la terra) sono costruiti come merci e assoggettati al funzionamento di mercati autoregolantesi, esso non lo è nella generalità dei casi. Pur ammettendo che il fattore economico e la base tecnologica di una società limitino più o meno profondamente le sue attitudini culturali, queste non sono di regola determinate dai rapporti di produzione. «Il modello della cultura, l'accento culturale prevalente in una società, non è determinato da fattori tecnologici, né da fattori geografici. Che un popolo sviluppi nella vita quotidiana un'attitudine cooperativa, oppure competitiva; che esso preferisca organizzare le proprie tecniche di produzione in maniera collettivística oppure individualistica: ciò è, in molti casi, significativamente indipendente dalla logica utilitaria dei mezzi di produzione e persino dalle specifiche istituzioni economiche di base della comunità». Ma lo stesso è a dirsi per la propensione di una comunità a garantire, attraverso specifiche istituzioni, le libertà civili: «Il rilievo attribuito alla libertà, alla personalità, all'indipendenza di pensiero, alla tolleranza e alla libertà di coscienza rientra esattamente nella stessa categoria delle attitudini cooperative e armoniose, da un lato, e delle attitudini antagonistiche e competitive, dall'altro. Si tratta di un pervasivo modello mentale espresso in innumerevoli modi, protetto dagli usi e dalla legge, istituzionalizzato in varie forme, ma essenzialmente indipendente dalla tecnica e persino dall'organizzazione economica». Di qui l'intrinseca fragilità delle tesi volte a prefigurare la scomparsa delle libertà civili a seguito della restrizione della libertà d'impresa: adducendo vari esempi, Polanyi mostra agevolmente come «in un regime di libera impresa, l'opinione pubblica può ben perdere ogni senso di tolleranza e libertà» e come, viceversa, sotto un'economia fortemente regolamentata possa raggiungersi un soddisfacente livello di garanzia delle libertà civili. La conclusione che discende da tale analisi è espressa in maniera molto netta nello scritto «Storia economica generale», ove riaffiora la questione del determinismo: «In realtà, avremo nel futuro esattamente tanta libertà quanta ne vorremo creare e salvaguardare. Le garanzie istituzionali della libertà personale sono, in linea di principio, compatibili con qualsiasi sistema economico. Soltanto nella società di mercato sarà il meccanismo economico a dettar legge. Tale condizione non è caratteristica della società umana in generale, bensì unicamente di un'economia di mercato non regolata». Al cuore del ragionamento di Polanyi risiede dunque la consapevolezza dell'assoluta specificità dell'economia di mercato, come sperimentata nel XIX secolo. In questo caso effettivamente il fattore economico avrebbe potuto ritenersi determinante rispetto alle altre istituzioni sociali. Una volta rimossi gli ostacoli normativi e culturali all'inclusione di terra e lavoro all'interno dei mercati concorrenziali ed elevati — grazie a un siffatto assetto istituzionale — il timore della fame e la brama di profitto a moventi economici, cioè specifici incentivi individuali alla partecipazione ai processi produttivi, erano effettivamente poste le basi per una completa autonomizzazione dell'economia e un radicale capovolgimento del rapporto tra essa e le altre sfere sociali. Questa è la nota tesi — sviluppata nella Grande trasformazione e qui ripresa nei saggi riprodotti nella quarta sezione: «L'eclissi del panico e le prospettive del socialismo» e «La tendenza verso una società integrata» — dell'economia disembedded come cifra distintiva della «società di mercato»: l'economia non risultava più costitutivamente inserita nelle istituzioni sociali, culturali, religiose ecc., ma al contrario era la società a essere ormai integrata nella rete dei rapporti economici. Sottovalutare la specificità storica e culturale di tale esperienza, elevando l'approccio determinista a legge generale, significherebbe per Polanyi incorrere in due errori fondamentali. Se proiettato nel futuro, tale modello darebbe vita, come si è appena visto, a un mero pregiudizio. Se rivolto al passato, invece, esso si tradurrebbe in un insostenibile anacronismo. All'approfondimento di quest'ultimo assunto sono rivolte le ricerche di storia economica condotte da Polanyi specialmente dopo il trasferimento negli Stati Uniti, e confluite in una serie di libri (Traffici e mercati negli antichi imperi; Il Dahomey e la tratta degli schiavi; La sussistenza dell'uomo) e saggi che hanno avuto una notevole influenza soprattutto in ambito antropologico e sociologico. I tratti più caratteristici dell'approccio di Polanyi sono riflessi in maniera particolarmente nitida negli scritti riprodotti nella terza sezione di questo volume: «Il contributo dell'analisi istituzionale alle scienze sociali»; «Elementi di mercato e pianificazione economica nell'antichità»; «Storia economica generale». Quest'ultimo lavoro è particolarmente interessante, in quanto esso riproduce le lezioni introduttive dell'omonimo corso tenuto da Polanyí presso la Columbia University agli inizi degli anni cinquanta e contiene una lucida esposizione della sua prospettiva metodologica. Polanyi sottolinea che l'obiettivo fondamentale che si propone la «storia economica generale» è quello di studiare la «posizione occupata dall'economia nella società nel suo insieme, ossia il cambiamento del rapporto tra le istituzioni economiche e quelle non economiche nell'ambito di una determinata organizzazione sociale». Per conseguire tali finalità, che Polanyi riconduce anche all'opera di Max Weber , lo strumentario analitico sviluppato dall'economia neoclassica non può essere d'ausilio e anzi rischia di falsare irrimediabilmente la percezione dei fenomeni osservati. Al problema consistente nella razionalizzazione teorica delle economie preindustriali «primitive» e arcaiche, Polanyi intende far fronte attraverso l'adozione di un metodo d'indagine di tipo istituzionale, ossia incentrato su un'accezione sostanziale e non meramente formale di «economico». Ciò significa, come l'autore spiega già nello scritto del 1950 «Il contributo dell'analisi istituzionale alle scienze sociali», riprodotto nella sezione seconda di questo volume, che l'economia deve essere concepita come l'interazione tra l'uomo e l'ambiente finalizzata al reperimento dei mezzi materiali necessari al soddisfacimento dei suoi bisogni e non soltanto, secondo il paradigma neoclassico, come l'insieme delle scelte relative alla «relazione tra risultati e mezzi scarsi passibili di usi alternativi». Tale prospettiva, che sarà teorizzata compiutamente in diversi lavori successivi e che costituisce una delle acquisizioni più note e durevoli del pensiero di Polanyi, rappresenterebbe il migliore antidoto contro la «fallacia economicistica», ossia l'errore logico di «identificare l'economia umana in generale con la sua forma di mercato». Sono così poste le condizioni per uno studio autenticamente «operazionale» e scevro da preconcetti dogmatici (in questo Polanyi si dimostra, assieme a Marcel Mauss , uno dei più fini interpreti del metodo della comparazione nel campo delle scienze sociali) di tutti i tipi di economia effettivamente esistiti nel passato o esistenti nel presente. Le economie empiriche saranno quindi descritte in base al modo in cui, «nelle diverse epoche e nelle diverse località, il processo economico è stato istituzionalizzato», e quindi anche in base al rapporto che intercorre in ciascuna società tra istituzioni economiche e istituzioni non economiche. Se un simile approccio consente a Polanyi di conseguire risultati significativi sul terreno specifico della storia e dell'antropologia economica – a partire dalla cruciale distinzione tra le tre forme di integrazione dello scambio, della reciprocità e della redistribuzione, qui richiamata negli scritti «Elementi di mercato e pianificazione economica nell'antichità» e «Storia economica generale» – può essere utile notare come anche gli studi più risalenti, alcuni dei quali riprodotti nella sezione seconda di questo volume, testimonino una spiccata sensibilità dell'autore per le prospettive di tipo istituzionalistico. [...] Se è vero che «niente ottenebra la nostra visione sociale altrettanto efficacemente quanto il pregiudizio economicistico», le pagine di Polanyi racchiudono una sofisticata critica dell'ideologia, la quale si traduce nella demistificazione di ciascuno degli assiomi dell'economia ortodossa, e in primo luogo la razionalità strumentale, il paradigma della scarsità e la distinzione tra moventi economici e non economici. La sua analisi è infatti volta a dimostrare, con l'ausilio dei materiali empirici forniti dalle ricerche antropologiche (tra i suoi autori di riferimento vi sono, ad esempio, Thurnwald, Malinowski e Boas ), come il modello dell' homo oeconomicus e i suoi corollari siano dei costrutti culturali emersi parallelamente all'affermazione, nel XIX secolo, di uno specifico assetto istituzionale, connotato dai mercati liberi e interdipendenti della terra e del lavoro. Le istituzioni, dunque, nella sua ottica, precedono e condizionano il tipo di incentivi sottesi all'azione individuale e al suo modello di razionalità, e non viceversa. Sicché, mentre è possibile affermare che la società di mercato induce al calcolo economizzante, non è invece possibile spiegare il cambiamento istituzionale e l'emersione degli stessi dispositivi del mercato autoregolantesi alla luce della sola logica della massimizzazione delle utilità. Le prospettive aperte da Polanyi appaiono di particolare rilevanza, non soltanto per i cultori della sociologia e dell'antropologia economica, ma anche per i giuristi, i quali hanno avuto modo di sperimentare direttamente quello che oggi si definisce l'imperialismo economico, ossia l'aspirazione dell'analisi economica a porsi come teoria generale del comportamento umano, o, nelle parole di Foucault , «griglia di intelligibilità» di tutti í rapporti sociali e comportamenti individuali, compresi quelli generalmente ritenuti non economici. Il processo di sconfinamento all'interno di aree tematiche tradizionalmente rimesse alla competenza di altre discipline, come nel caso della persona, dei rapporti familiari, della criminalità (si pensi agli studi di Gary Becker), ha finito per moltiplicare le occasioni di contatto e interferenza con il diritto, ben al di là dei settori naturalmente condivisi (quale ad esempio quello dell'antitrust). La moderna law & economics ha esercitato le proprie virtù analitiche prima in funzione prettamente descrittiva, poi sempre più in chiave normativa (sottoponendo regole e istituti giuridici non già a un test di giustizia, bensì di efficienza), sino a legittimare oggi il ricorso a tecniche pseudoscientifiche di misurazione quantitativa dei sistemi giuridici in base al criterio dell'efficienza. In quest'ultimo caso – e segnatamente nella versione proposta dalla teoria delle legal origins, fatta propria dalla Banca mondiale nei celebri rapporti Doing business – il diritto è stato ridotto a mero vettore per lo sviluppo economico e indagato secondo una prospettiva prettamente funzionalistica, alquanto discutibile sia nei suoi presupposti sia nei suoi effetti. Se la pluralità dei metodi d'indagine dei fenomeni sociali è certamente un elemento apprezzabile e da salutare con favore, non lo è invece la recezione acritica di modelli analitici elaborati nell'ambito di altre discipline per risolvere tipi di problemi affatto differenti e suscettibili, se applicati in maniera incontrollata, di dar vita a esiti riduzionistici e controfinali. Anche su tale questione l'opera di Polanyi, e in particolare il saggio «Come fare uso delle scienze sociali» (che risale verosimilmente alla fine degli anni trenta), può offrire spunti di riflessione particolarmente significativi. Innanzitutto, tale lavoro è interessante per ricostruire il percorso intellettuale dell'autore, perché sviluppa alcune argomentazioni in ordine al rapporto tra nominalismo ed essenzialismo nel metodo delle scienze della natura e delle scienze sociali, alle quali Karl Popper («Karli» per la famiglia Polanyi, che lo riceveva assiduamente nell'appartamento della Vorgartenstrasse di Vienna) fa puntualmente riferimento nella Società aperta e i suoi nemici, menzionando però soltanto alcuni colloqui privati intercorsi con Polanyi, ma non scritti specifici. Più nel dettaglio, esso pone l'accento sui limiti alla possibilità di aggregare le varie scienze, in ragione delle peculiarità del loro metodo e del relativo «interesse originario»; e insiste, inoltre, su una differenza fondamentale tra le scienze naturali e le scienze sociali, la quale non attiene tanto alle caratteristiche dei metodi impiegati, quanto al diverso impatto che esse hanno sull'orientamento delle preferenze e sul quadro dei valori dell'uomo. «Se l'atteggiamento dell'uomo verso il suo ambiente materiale è dettato da scopi specifici, i quali non sono affatto influenzati dall'avvento [delle scienze naturali]», le scienze sociali esercitano «una notevole influenza sui desideri e i propositi dell'uomo», tanto da incidere sulla sua stessa esistenza «in maniera radicale e immediata». Di conseguenza, la funzione delle scienze sociali è duplice e la loro utilità deve essere giudicata considerando entrambi gli aspetti: «Non è sufficiente chiedersi in qual misura esse siano d'ausilio nel perseguimento dei nostri obiettivi; dobbiamo, altresì, domandarci quanto esse ci assistano, o ci ostacolino, nel chiarire a noi stessi tali finalità». Emerge qui in maniera limpida l'idea della dimensione normativa delle scienze sociali, che evidenzia quanto Polanyi fosse distante dalle posizioni più ingenue, incentrate sulla Wertfreiheit di queste ultime. La tesi di Polanyi, in particolare, è che l'itinerario verso la purezza metodologica e la graduale rimozione dei «residui metafisici» dal campo d'azione delle scienze sociali possono avere accresciuto la capacità dell'uomo di conseguire i propri fini, ma al contempo hanno diminuito la sua capacità di sapere in che cosa tali fini consistano. Vi è, dunque, una tensione intrinseca tra l'esigenza di assecondare il continuo progresso delle scienze sociali e quella di preservare «la dignità della metafisica nella sua sottolineatura del carattere composito dell'ordinaria consapevolezza umana, in quanto matrice dell'arte, della religione, della morale, della vita personale, e altresì della scienza». Ma è possibile salvaguardare la matrice della scienza, senza interferire con il suo sviluppo? È possibile addivenire a un «compromesso creativo, che lasci spazio al progresso, proteggendoci, al contempo, dal pericolo di smarrire la nostra direzione nella ricerca di esso»? Le condizioni prefissate da Polanyi per una risposta positiva a tali quesiti sono molto nette: i pericoli dello scientismo possono essere evitati soltanto se si percepisce la necessità di un'esistenza «orientata»; soltanto, cioè, se si consegue un consenso sufficientemente stabile su determinati valori guida, i quali siano «appositamente protetti dall'influenza corrosiva» delle scienze, «come le mani del manipolatore Roentgen lo sono dagli effetti dei raggi X». L'uso delle scienze, infatti, «non è un problema tecnico della scienza», ma «è il problema di attribuire alla società umana un significato, che permetta di preservare la sovranità dell'uomo sugli strumenti della vita, ivi inclusa la scienza». Si tratta di affermazioni impegnative, che a distanza di molti anni non hanno perso nulla della loro rilevanza. Da un lato lo sviluppo delle scienze della vita ha fortemente accresciuto l'attitudine destabilizzante delle stesse scienze naturali, facendo emergere regole e principi giuridici, come ad esempio quelli di dignità e di precauzione, i quali sono volti a restituire un fondamento sostanziale a una serie di interventi finalizzati proprio a «preservare la sovranità dell'uomo sugli strumenti della vita». Dall'altro lato, l'universalizzazione della ragione economica, quale nuova religione secolarizzata, rende ancora più attuale l'esigenza di riflettere criticamente sull'impatto che le indicazioni normative delle scienze sociali – in tal caso della scienza economica – hanno sul sistema dei valori e delle preferenze umane. Riemergono, dunque, tutti i limiti dell'idea della Wertfreiheit delle scienze sociali e si conferma l'importanza della prospettiva critica, storicistica e istituzionalistica, iscritta nelle pagine di Polanyi. Rileggere oggi tali pagine rappresenta un ottimo antidoto non soltanto contro l'atteggiamento ingenuamente «scientistico», ma contro i riduzionismi di qualsiasi tipo; quegli stessi riduzionismi che hanno prodotto – secondo le tesi dell'autore – la «sterilità dell'Occidente culturale nel suo incontro con il resto del mondo». Giorgio Resta | << | < | > | >> |Pagina 57La scienza economica e la libertà di forgiare il nostro destino socialeLa fede dogmatica nel determinismo economico, nelle sue diverse forme, è divenuta un ostacolo fondamentale per il progresso dell'umanità. Il quadro complessivo dal quale risulta tale prospettiva pessimistica è il seguente. Tutte le persone ragionevoli riconoscono la precarietà della condizione umana ai nostri giorni. L'uomo non è un essere semplice e può morire in più d'un modo. Guerra o non guerra, l'uomo, con quel modo d'essere mentale e morale in ragione del quale apprezziamo la nostra umanità, potrebbe scoprirsi incapace di preservare se stesso in futuro nell'ambiente tecnologico che egli ha creato. I processi di Mosca, Oswiecim [Auschwitz], Hiroshima, sono dei presagi. Poiché l'ipotesi di un ambiente sempre più artificiale non può — né dovrebbe — essere volontariamente esclusa, è necessario che la vita in un siffatto contesto si conformi ai requisiti di un'esistenza umana. Bisogna affrontare apertamente il problema di come restituire significato e unità alla vita in una civiltà delle macchine. Quale che sia il profilo dal quale ci si accosti a tale questione — sia esso quello dell'armonia culturale o dell'equilibrio emotivo, o anche solo quello della mera sopravvivenza nazionale — non può dubitarsi che tale adattamento richiede il soddisfacimento dei presupposti della giustizia sociale, in quanto scopo umano consapevolmente perseguito. È qui che iniziano a insinuarsi gravi perplessità. Infatti, nessuno contesterebbe che tra i requisiti di uno scopo meritevole debba annoverarsi in primo luogo la salvaguardia della libertà di coscienza: tale rivendicazione non può essere disattesa senza vanificare, al contempo, qualsiasi altro obiettivo. Invece la giustizia non sembrerebbe conseguibile se non al prezzo della libertà, e ciò per ragioni che si assumono radicate nella scienza economica. Il laissez-faire ci appare, di conseguenza, come il prezzo che paghiamo per la libertà. Ciò in quanto le libertà che veneriamo si sono sviluppate – questo è innegabile – nelle pieghe della nostra economia e sono destinate, così si argomenta, a sparire con essa. Dietro questo rigido e inquietante determinismo economico, nel quale ci si imbatte sempre più di frequente, si celano forti convinzioni tanto in ordine al ruolo preminente del fattore economico nel mondo contemporaneo, quanto al suo carattere decisivo per la storia umana in generale. Io ritengo che una siffatta diagnosi della situazione complessiva nella quale ci troviamo oggi contenga sia una verità fondamentale sia un errore radicale. Si ritiene a ragione che le nostre istituzioni siano determinate dal profilo economico della vita; ma tale circostanza viene erroneamente attribuita a una qualità immanente e senza tempo dell'economico in quanto tale. La società nella quale viviamo, a differenza delle società tribali, ancestrali o feudali, è una società di mercato. L'istituzione del mercato costituisce qui l'organizzazione di base della comunità. Il legame di sangue, il culto degli antenati, la fedeltà feudale sono sostituiti dalle relazioni di mercato. Una siffatta condizione è nuova, in quanto un meccanismo istituzionalizzato offerta/domanda/prezzo, ossia un mercato, non è mai stato nulla più che una caratteristica secondaria della vita sociale. Al contrario, gli elementi del sistema economico si trovavano, di regola, incorporati in sistemi diversi dalle relazioni economiche, come la parentela, la religione o il carisma. I moventi che spingevano gli individui a prendere parte alle istituzioni economiche non erano, solitamente, di per sé «economici», ossia non derivavano dal timore di rimanere altrimenti privi degli elementari mezzi di sussistenza. Quel che era ignoto alla maggior parte delle società – o meglio a tutte le società, a eccezione di quelle del laissez-faire classico, o modellate su di esso – era esattamente la paura di morire di fame, quale specifico stimolo individuale a cacciare, raccogliere, coltivare, mietere. Infatti, la produzione e la distribuzione di beni materiali e servizi nella società non sono mai state organizzate, prima del XIX secolo, attraverso un sistema di mercato. Quest'innovazione prodigiosa fu realizzata includendo i fattori della produzione, il lavoro e la terra, all'interno di quel sistema. Il lavoro e la terra furono essi stessi trasformati in merci, cioè, vennero regolati come se si trattasse di beni prodotti per la vendita. Ovviamente essi non costituivano vere e proprie merci, dal momento che o non erano stati affatto «prodotti» (come la terra), o, comunque, non lo erano «per la vendita» (come il lavoro). La reale entità di un siffatto mutamento può essere misurata se si ricorda che il «lavoro» è soltanto un altro nome per l'uomo, come la «terra» lo è per la natura. La costruzione fittizia della merce consegnò il destino dell'uomo e della natura alle dinamiche di un automa, che si muove sui propri binari ed è governato unicamente dalle proprie leggi. L'economia di mercato creò così un nuovo tipo di società. Il sistema economico o produttivo fu affidato a un dispositivo autoregolantesi. Un meccanismo istituzionale controllava tanto le risorse della natura quanto gli esseri umani nelle loro attività quotidiane. In questo modo venne a esistenza una «sfera economica», la quale era nettamente separata dalle altre istituzioni sociali. Poiché nessuna comunità umana può sopravvivere senza un apparato produttivo funzionante, ciò ebbe l'effetto di trasformare il «resto» della società in una mera appendice di tale sfera. Questa sfera autonoma, ripetiamo, era regolata da un meccanismo che controllava il suo funzionamento. Di conseguenza, quel meccanismo di controllo divenne determinante per la vita dell'intera compagine sociale. Non v'è da stupirsi che l'aggregazione umana emergente fosse «economica» a un livello al quale in precedenza non ci si era mai nemmeno avvicinati. I «moventi economici» regnavano allora supremi nel loro proprio mondo; l'individuo era costretto ad agire secondo la loro logica, a pena della propria estinzione. In realtà, l'individuo non è mai stato così egoista come preteso dalla teoria. Benché il meccanismo di mercato renda manifesta la sua dipendenza dai beni materiali, le motivazioni «economiche» non hanno mai costituito per l'uomo l'unico incentivo al lavoro. Invano gli economisti e i moralisti utilitaristi lo hanno esortato a non considerare negli affari se non motivazioni di carattere economico, ad esclusione di tutte le altre. Osservando più da vicino il suo comportamento, è apparso evidente, tutt'al contrario, come questo rispondesse ad una serie di motivazioni di natura significativamente «composita», ivi comprese quelle derivanti dal senso del dovere verso se stesso e verso gli altri (e forse, persino, godendo in segreto del lavoro come fine in sé). Tuttavia, non dobbiamo qui occuparci dei moventi reali, ma soltanto di quelli presunti, dal momento che le teorie sulla natura umana non sono fondate sulla psicologia, bensì sull'ideologia della vita quotidiana. Di conseguenza, la fame e il profitto vennero isolati come «moventi economici» e si iniziò a presumere che l'uomo agisse, in concreto, in base a essi, mentre le altre motivazioni apparivano più eteree e distaccate dai fatti prosaici dell'esistenza quotidiana. L'onore e l'orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza, furono ora ritenuti irrilevanti per i rapporti produttivi e significativamente compendiati nella parola «ideale». Si ritenne, perciò, che nell'uomo fossero presenti due elementi, uno maggiormente attinente alla fame e al profitto, l'altro all'onore e al potere. L'uno «materiale», l'altro «ideale»; l'uno «economico», l'altro «non economico»; l'uno «razionale», l'altro «non razionale». I filosofi utilitaristi giunsero sino al punto di associare i due campi semantici, così attribuendo al termine «economico» un'aura di razionalità. Se qualcuno si fosse rifiutato di pensare di agire unicamente per il profitto, costui sarebbe stato considerato non soltanto un immorale, ma anche un folle. L'immagine dell'uomo e della società risultante da tale premessa era la seguente. Rispetto all'uomo, fummo indotti ad accettare la teoria per cui i suoi moventi possono essere descritti come «materiali» e «ideali» e gli stimoli, sulla base dei quali è organizzata la vita quotidiana, derivano dai moventi «materiali». Rispetto alla società, fu propugnata una tesi analoga, secondo la quale le sue istituzioni sono «determinate» dal sistema economico. In un contesto di economia di mercato entrambe le asserzioni erano, ovviamente, vere. Ma soltanto all'interno di un simile assetto economico. Rispetto al passato, tale prospettiva era nulla più che un anacronismo. Rispetto al futuro, essa era un mero pregiudizio. Ciò perché questo nuovo mondo dei «moventi economici» era basato su un errore. Intrinsecamente, la fame e il profitto non sono più «economici» dell'amore o dell'odio, dell'orgoglio o del pregiudizio. Nessun movente umano è di per sé economico. Non esiste alcuna esperienza economica sui generis, nello stesso senso in cui l'uomo può avere avere esperienze religiose, estetiche o sessuali, che diano origine a moventi i quali tendano globalmente a suscitare esperienze simili. Questi termini non hanno alcun significato immediato in relazione alla produzione materiale. Il fattore economico, che è alla base di tutta la vita in società, non è in grado di dare vita a stimoli specifici, più di quanto non possa fare l'altrettanto universale legge di gravità. È di tutta evidenza che, se non mangiassimo, saremmo destinati a morire, non diversamente da quanto accadrebbe qualora fossimo schiacciati dalla caduta di una roccia. Ma i morsi della fame non si traducono automaticamente in un incentivo a produrre. La produzione non è un affare individuale, bensì collettivo. Se un individuo ha fame, non v'è nulla di specifico che egli debba fare. Ridotto alla disperazione, egli potrebbe rapinare o rubare, ma tali azioni non possono certo essere definite «produttive». Per l'uomo, in quanto animale politico, ogni cosa è determinata non già da circostanze naturali, bensì sociali. Ciò che portò il XIX secolo a concepire la fame e il profitto come «economici» fu semplicemente l'organizzazione della produzione — altamente artificiale e deliberata, propria di un'economia di mercato. Ma il meccanismo di mercato creò anche l'illusione del determinismo economico come legge generale. In un'economia di mercato — ripetiamo — tale determinismo ha senso, in quanto il funzionamento del sistema economico non soltanto «influenza» il resto della società, ma lo determina (come in un triangolo i lati non soltanto influenzano, ma determinano gli angoli). Si prenda ad esempio la stratificazione in classi della società. L'offerta e la domanda, nel mercato del lavoro, coincidevano con le classi dei lavoratori e dei datori di lavoro, che le impersonavano. Le classi sociali dei capitalisti, dei proprietari terrieri, dei fittavoli, dei commercianti, degli intermediari, dei professionisti liberali, e così via, erano delimitate dai corrispondenti mercati della terra, della moneta, dei capitali; dei loro usi o dei vari servizi. Ciò in quanto il reddito di queste classi veniva fissato dal mercato, mentre il loro rango e la loro posizione sociale dal loro reddito. Mentre le classi sociali erano direttamente determinate dai meccanismi di mercato, altre istituzioni lo erano in maniera soltanto indiretta. Lo Stato e il governo, il matrimonio e la crescita della prole, l'organizzazione della scienza e dell'istruzione, della religione e delle arti, la scelta della professione, dell'abitazione, di dove stabilirsi, la stessa estetica della vita privata, dovevano adeguarsi al modello utilitaristico o, almeno, non interferire col funzionamento del meccanismo di mercato, dal quale dipendeva la sopravvivenza di tutti. Era quasi impossibile sottrarsi all'erronea conclusione per cui, come l'uomo «economico» era l'uomo «reale», così il sistema economico costituiva la società «reale». Il rigore con cui opera il dispositivo di mercato fu erroneamente ascritto alla forza delle motivazioni economiche. In realtà, non v'era alcuna connessione tra i due elementi. Il meccanismo di mercato non conosce se non rigide alternative, quali che siano i moventi degli individui che partecipano al mercato. Il sistema offerta/domanda/prezzo funziona allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che i moventi individuali siano deboli o forti, razionali o irrazionali, utilitaristici, politici o religiosi. La scoperta del determinismo economico da parte degli intellettuali del XIX secolo non fu nient'altro se non la scoperta del mercato e della necessità formale, per cui esso si muove tra alternative inevitabili, conformi o meno al sistema economico (indifferentemente, cioè, dalla natura delle merci, reali o fittizie, scambiate nel mercato). Il determinismo economico come fenomeno sociologico coincide con il mercato, al di fuori del quale può esistere soltanto in una forma indistinta. Così vacue sono, pertanto, le fondamenta del determinismo economico. I fattori economici influenzano il processo sociale (e viceversa) in innumerevoli modi; tuttavia, in nessun caso, se non sotto un sistema di mercato, í suoi effetti si rivelano più che limitanti. Né la sociologia, né la storia contraddicono questo assunto. E gli antropologi negano, a ragione, che la particolare connotazione di una determinata cultura sia dipendente dall'assetto tecnologico o persino dall'organizzazione economica. Si è constatato che attitudini così opposte, come la cooperazione e la competizione, prevalgano in società diverse, dotate di strumentari quasi identici e di un ambiente economico molto simile. Cosa potrebbe esservi di più vitale per l'intera atmosfera culturale e morale di una comunità della prevalenza di attitudini cooperative o competitive? Cosa potrebbe dimostrarsi più profondamente radicato nell'essenza del patrimonio ideale di un uomo della distinzione tra principi di solidarietà e di autoaffermazione? Eppure, persino tali radicali divergenze ideologiche non sono influenzate da fattori economici. Ora, io sostengo che le libere istituzioni non siano nient'altro se non l'espressione di principi persuasivi, come la cooperazione e la competizione, i quali, fino a prova contraria, devono essere reputati indipendenti dagli aspetti tecnologici e organizzativi dell'economia. La libertà trova la sua espressione istituzionale nel rispetto garantito alla personalità, all'integrità, al carattere e al non conformismo. Le istituzioni libere dipendono dal valore attribuito alle libertà civili. E come ha scritto John Stuart Mill , l'organizzazione del commercio, sia pubblico sia privato, non è una questione di libertà individuale (come da lui intesa). Le libertà coinvolte nell'organizzazione del commercio e dell'impresa hanno ben poco a che fare con la valutazione della libertà di coscienza e con loro salvaguardia istituzionale. Queste ultime dipendono dalla cultura complessiva di una società e non sono i fattori di natura economica a determinare su quali aspetti tale cultura ponga l'accento. Non spetta all'economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile. Una cosa abbonda in una società industriale, e cioè il benessere materiale, oltre il necessario. Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell'amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo. Il messaggio degli storici dell'economia ai filosofi dovrebbe essere, oggi, il seguente: possiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi. | << | < | > | >> |Pagina 65La storia economica e il problema della libertàSono stato invitato a discutere un problema, che appare chiaro e semplice. Il problema della libertà consiste nella nostra capacità di preservare il patrimonio della libertà in un mondo che cambia. Ma basta evocare l'idea di un «mondo che cambia», per udire immediatamente suoni di battaglia da destra e sinistra — specialmente dalla destra e dalla sinistra —, essendo piuttosto equivoco e, temo, poco chiarificatore parlare di figli della Luce e figli delle Tenebre (in realtà si vorrebbe sapere qualche volta con sufficiente certezza quale sia la luce e quali siano le tenebre). Per «libertà» io intendo istituzioni concrete, i diritti civili — le libertà (al plurale) -, la possibilità di seguire le convinzioni personali, alla luce della propria coscienza; la libertà di differenziarsi, di avere proprie opinioni, di essere in minoranza e ciononostante di sentirsi membri rispettati di una comunità, nella quale si assume il ruolo vitale del non conformista. È la libertà di seguire ciò che gli anabattisti, e successivamente i quaccheri, definivano la «luce interna»; ossia, nei termini della teoria politica, essere saldamente in possesso dell'inestimabile conquista del secolo di John Stuart Mill. Riconosco che possa porsi il dilemma della sicurezza nazionale versus le libertà civili. Ignorarlo sarebbe come nascondere la propria testa nella sabbia. Tuttavia, ove venga affrontato con uno spirito aperto sia alla realtà delle condizioni circostanti sia al principio trascendente della libertà politica, non è affatto detto che esso si dimostri fatale per la libertà. Ammetto, altresì, volentieri di non intendere per «libertà» il diritto di sfruttare i propri simili; o di conseguire smisurati guadagni senza un proporzionale servizio alla comunità; o di far sì che le invenzioni tecnologiche non vengano impiegate per finalità di interesse generale; o, ancora, la libertà di derivare profitti da calamità pubbliche architettate per vantaggi privati. Se tali libertà scompaiono, tanto meglio. John Stuart Mill, benché fosse all'epoca un convinto fautore dell'economia del laissez-faire, negava che il commercio o l'impresa privata rientrassero tra le libertà individuali, in quanto privi di qualsiasi correlazione con i fondamentali valori della libertà di pensiero, opinione e coscienza. Il problema della libertà – ripeto – è costituito dalla nostra capacità di preservare il patrimonio della libertà in un mondo che cambia. Si sostiene, infatti, che il cambiamento sia destinato a distruggere le libere istituzioni. Ciò viene argomentato in due diverse chiavi di lettura, ossia per dirla con Milton, quella di Satana e quella della schiera angelica. Satana sostiene: «Non preoccupatevi, andate avanti! Le libere istituzioni sono una frode borghese e il cambiamento farà inevitabilmente giustizia di queste ideologie del capitalismo». Dall'altra parte si ribadisce la premessa per cui il cambiamento eliminerà la libertà, ma per trarne conseguenze opposte: «Stop! Non cercate di riformare il capitalismo, perché se interferite con la libera impresa finirete inevitabilmente per perdere la vostra libertà». Schiacciati tra il determinismo marxista delle potenze delle tenebre e il determinismo liberista della schiera angelica, ci scopriamo vittime di due tipi di ineluttabilità: 1) l'ineluttabilità marxista, che proclama, talora in maniera quasi esultante, l'inevitabilità della perdita delle nostre libertà, a meno che non ci rassegniamo allo status quo, all'assenza di cambiamento e ad una distruzione certa; 2) l'ineluttabilità liberista, che proclama precisamente quella fatale immutabilità in un mondo mutevole, l'aderenza ai preconcetti del laissez-faire, sotto la minaccia di una schiavitù altrimenti inesorabile. A mio avviso, queste non sono altro che due diverse forme del medesimo credo del determinismo economico – un'eredità materialistica del XIX secolo –, il quale non trova riscontri nella storia economica. Il determinismo marxista è basato su un modello di sviluppo sociale in qualche modo simile all'orario ferroviario: alle società schiaviste segue il feudalesimo; al feudalesimo il capitalismo; al capitalismo il socialismo. Le ideologie si muovono in parallelo: una sorta di prospetto à la Auguste Comte della teologia, della metafisica, della scienza positiva. Ogni cosa è in definitiva predeterminata, comprese le ideologie, istituzionalizzate o meno. Nel lungo periodo la base economica della società, cioè la tecnologia, determina le condizioni della produzione, cioè il sistema della proprietà, e questi fattori congiuntamente determinano la sovrastruttura delle idee e delle valutazioni istituzionalizzate. La tecnologia dell'irrigazione non produce soltanto una società schiavistica, ma una tale società deve anche esprimere, alla fine, un'idolatria feticista; la macina a mano non soltanto conduce a una società feudale, ma una simile società deve anche portare, in ultimo, a una religione ecclesiastica; il motore a vapore non produce soltanto una società borghese, ma tale società deve anche dar vita, alla fine, alle ideologie della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità; l'elettricità, e a fortiori l'era atomica, deve produrre il socialismo, sotto il quale la libertà, l'uguaglianza e la fraternità scompaiono nuovamente in quanto ideologie dominanti e sono sostituite dal materialismo dialettico. Ora, in tutto ciò v'è un elemento di fondamentale verità. La tecnologia e l'ecologia limitano in maniera decisiva la struttura di base della società umana e possono influenzare profondamente la sua ideologia. Ma è unicamente nel contesto dell'economia di mercato che i fattori economici non limitano semplicemente, bensì determinano la cultura. Soltanto qui l'economia determina il carattere e la forma di una società. Il determinismo economico costituisce, in questo caso, un fatto imponente. Ma soltanto in questo caso. Come modello descrittivo delle epoche più antiche, il determinismo rappresenta un mero anacronismo; come previsione del futuro, invece, esso non è altro se non un pregiudizio. | << | < | > | >> |Pagina 213Quel che conta oggi. Una replica [1919][...] Sin dalla comparsa dell'era capitalistica tutte le filosofie sociali si sono divise in due tronconi: uno apologetico, l'altro socialista. Quest'ultimo esige l'abolizione dello sfruttamento, e si pone come scopo la creazione di una società libera e uguale. Le scuole socialiste del XIX secolo hanno preso, a loro volta, due direzioni diverse: quella dei marxisti socialisti, che come partito riformista si chiameranno poi socialdemocratici e oggi, come partito rivoluzionario, bolscevichi (comunisti); e quella dei socialisti liberali – noti come riformisti, radicali e riformisti agrari – che, come partito rivoluzionario, si dissolvono nei gruppi degli anarchici.
Rispetto all'edificio unitario del socialismo marxista elaborato e lasciato
in eredità da Marx ed Engels, il socialismo liberale si presenta come
una libera comunità intellettuale di pensatori indipendenti del XIX secolo. A
partire da Quesnay e Adam Smith questo filone annovera Carey,
Proudhon, Dühring e Bastiat, sino ad arrivare a H. George, H. Spencer,
R. Wallace, Krapotkin, Hertzka e Oppenheimer.
Il tema comune della loro opera si rivela ben più limpido e importante di quanto
li distingue e divide, sopravanzando tali elementi di divisione.
Questo tema è il seguente:
la libertà è il fondamento di ogni vera armonia.
La condizione, che deriva dalla libertà, è la condizione naturale e l'armonia
che si basa su di essa, è stabile e incrollabile. Non sono i «precetti del
diritto naturale» che conducono a questo modello ideale di ogni vita umana, ma,
al contrario è questo modello ideale che porta necessariamente al concetto del
diritto naturale. Questo modello è, al di là di ogni arbitrio, un modello
preciso e ottimale, necessario ed evidente di quella condizione a cui deve
condurre l'assenza di ogni violenza
(Gewalt),
e dunque la vera e autentica libertà.
1. L'ideale economico L'obiettivo delle grandi rivoluzioni, inglese e francese, era stato quello di attuare tale libertà in campo economico; ma tale opera è rimasta incompiuta. L'impianto feudale del monopolio terriero è sopravvissuto alla rivoluzione, tanto da trasformare le nuove forze della libera economia nel loro contrario. La libera proprietà fondiaria avrebbe dovuto affiancarsi alla libertà di circolazione al fine di mettere liberamente in connessione il lavoro e le forze della natura. È sorto così il capitalismo, come un ibrido tra violenza (Gewalt) e libertà, come il prodotto delle rozze forze del passato con le forze nuove di un futuro libero. Esso non rappresenta alcuna «fase necessaria dello sviluppo», ma l'effetto dell'arresto di tale sviluppo proprio nel punto in cui il suo significato ordinante era già venuto pienamente a esistenza. Il profitto dei capitalisti è la conseguenza della mera rendita fondiaria, non la rendita differenziale di Ricardo, che gioca un ruolo subordinato, ma di quella rendita che deriva anche dai terreni marginali, in quanto, a causa del violento monopolio fondiario (gewaltsamen Bodensperre), vi saranno comunque lavoratori privi di terra, i quali sono disposti a svolgere lavoro dipendente contro una remunerazione, la quale è minore dei profitti che potrebbero essere conseguiti dal lavoro esercitato su un proprio terreno. Il plusvalore, che la classe dei non possidenti trasferisce alla classe dei proprietari terrieri, viene distribuito ai singoli membri di questa classe in ragione della quota di «capitale». Finché persista tale recinzione dei fondi, non soltanto la terra ma ogni capitale è destinato a «produrre profitto». Nessun reddito da lavoro è in grado di crescere al di sopra del livello dei salari dei lavoratori agricoli «marginali», atteso che è sempre il loro compenso da fame che determina la base della piramide dei salari. Il profitto da capitale si fonda perciò sulla pura e semplice rendita fondiaria, non è invece la rendita fondiaria che si fonda sul profitto da capitale, come assumono i marxisti. Ciò perché lo sfruttamento non è dettato dalla legge economica della libera concorrenza, che si presume dominante, ma dalla legge politica della proprietà «basata sulla violenza» (Gewalteigentum), la quale è realmente dominante ed elimina la libera concorrenza. Le forme di assoggettamento del lavoro sono state da sempre effetti politici della violenza. La schiavitù e la servitù, i prodotti della conquista politica, sono le basi dello sfruttamento economico. Il capitalismo, come torchio del plusvalore, si fonda sulla forma di assoggettamento del lavoro, che prende il nome di monopolio fondiario (Bodensperre). L'esercito della forza lavoro a basso costo, sospinto dalla fame a lasciare la campagna alla volta delle città, costituisce ovunque l'origine dell'industria capitalistica, essa stessa un mero frutto delle forme dominanti di sfruttamento del lavoro: del monopolio terriero. Non è la libertà che domina oggi nell'economia, bensì il monopolio: e questo monopolio della terra non è affatto il «risultato della libera economia», come assumono i marxisti, ma è appunto ciò che non fa emergere un'economia libera; esso è quel «potere extra-economico» (Marx) che impedisce l'economia di uomini liberi e uguali e che trasforma la libera concorrenza di oggi nel suo contrario: nello sfruttamento della classe dei non possidenti a opera della classe dei possidenti. Il plusvalore non si origina conformemente alla legge del valore dell'economia libera, bensì in contrasto con essa, perché la libera economia viene limitata dalla «proprietà basata sulla violenza». Questo schema argomentativo è stato per la prima volta sintetizzato nelle seguenti affermazioni di Eugen Dühring: «Istituzioni come la schiavitù e la servitù, alle quali si associa come loro gemella anche la proprietà "basata sulla violenza", devono essere considerate come forme istituzionali economico-sociali di natura autenticamente politica; esse formano, nel mondo così come lo abbiamo sin qui conosciuto, la cornice, entro la quale soltanto si sono potuti manifestare gli effetti delle leggi economiche naturali». F. Engels ha definito tale riflessione come il «tema fondamentale» dell'intera opera di Dühring e ha cercato invano, a nostro avviso, di confutarla. Il male fondamentale del capitalismo, ossia l'ingiustizia della sua costituzione economica e lo sfruttamento che ne è la base, rappresenta per il socialismo liberale la conseguenza della restrizione della vera libertà del lavoro. Anche i mali secondari del capitalismo traggono origine dalla medesima fonte. In un'economia liberata da tutto il plusvalore, la domanda e l'offerta operano come regolatori armonici della produzione e della distribuzione. Non v'è qui alcun «profitto d'impresa» che non sia se non un particolare reddito da lavoro; non vi sono crisi, poiché i prezzi non comprendono più plusvalori nascosti, ma soltanto uguali valori del lavoro. Le assurdità dell'«economia del profitto», che sono in grado di spingere la produzione in contrasto con i bisogni sociali, si ribaltano in un'immanente salvaguardia dell'interesse sociale. In questa struttura sociale la libera cooperazione viene elevata a forma generale di collaborazione. L'organizzazione del consumo e della produzione in una struttura organica di autonome cooperative organizza il mercato stesso fino a eliminare completamente tutta l'intermediazione, tutta la speculazione e le altre forme parassitarie. Tale organizzazione è, tuttavia, organica e non più meccanica. Ciascun membro è in grado, nella stretta cerchia della propria cooperativa di consumo, di produzione o altro, di valutare la propria posizione rispetto all'ambiente; di far sorgere, dall'immediata percezione, le forze propulsive così dell'interesse economico, come dell'altruismo cooperativo; di sperimentare sempre il nuovo, conservarlo e alimentarlo attraverso la propria intera personalità. Viene così rimossa in maniera organica la seconda causa delle crisi, cioè l'insufficiente organizzazione del mercato, senza distruggere l'operosità individuale, invisibile cellula motoria dell'intero organismo. Dunque il socialismo liberale ha in mente, come immagine della vita sociale adeguata alla realtà, quella del modello organicistico. L'economia è un processo vitale, che non può in alcun modo essere sostituito attraverso un apparato meccanico, per quanto architettato in maniera sottile ed artificiale. Il socialismo liberale considera assolutamente infondata e priva di prospettive la speranza di accertare, attraverso metodi statistici, i bisogni, le capacità e gli interessi «della società», onde costruire un sistema che a essi corrisponda, senza che lo stesso operato del sistema faccia appello ai bisogni, alle capacità e agli interessi dei singoli. [...] 3. Quel che conta oggi Quel che conta oggi, dunque, è comprendere che il liberalismo non è la politica del passato e l'anarchismo non è la politica del futuro, bensì che il loro comune patrimonio di idee è ciò che fonda la realtà del presente. Quel che conta oggi è capire che sono le istanze secolari dei socialisti liberali e anarchici che trovano oggi realizzazione. Non nella loro forma utopistica, ma nell'effettività del loro contenuto in termini di realtà politica. La rivoluzione mondiale non realizzerà il comunismo, ma il socialismo liberale. Quel che conta oggi è comprendere finalmente che l'economia cooperativa è incompatibile con il comunismo, poiché essa può realizzarsi unicamente quando coesistano la libera collaborazione e il libero scambio. In verità, chiunque partecipi alla lotta deve sapere di essere chiamato non ad imporre all'umanità la propria salvezza, bensì a restituirle la libertà, e deve sentire nel suo intimo che ciò che ridarà al mondo la salvezza è la libertà, e null'altro. Questo conta oggi. | << | < | > | >> |Pagina 271La tendenza verso una società integrata1. La separazione della politica e dell'economia La società del XIX secolo era basata sui due pilastri del capitalismo liberale e della democrazia rappresentativa. La sfera politica e la sfera economica erano separate. Questa è la chiave per comprendere il suo crollo repentino. Infatti, l'aspettativa che tale stato di cose potesse essere tutto, fuorché una situazione transitoria, costituiva un'illusione. Una società che racchiude al suo interno una sfera economica separata, autoregolantesi e autonoma, è una pura utopia. In apparenza, questa può sembrare un'affermazione paradossale. Nulla ci appare più ovvio del fatto che una società debba mantenere questi due sistemi istituzionali così distinti e separati come le esigenze che essi soddisfano. Non hanno forse gli esseri umani bisogni economici, come quello del cibo, e bisogni politici, come quelli della sicurezza e della protezione? Per quanto una persona possa preferire il burro ai cannoni o, se del caso, i cannoni al burro, fintanto che sia padrona delle proprie facoltà mentali, essa non confonderà mai i cannoni con il burro. Sembra conforme alla natura delle cose che in una società vi siano istituzioni economiche e politiche separate.
A uno sguardo più attento, tuttavia, questo si rivela un postulato del
tutto gratuito, che non si regge su altro se non sulle convenzioni e sulle
abitudini di poche generazioni. Gli esseri umani devono avere cibo e
sicurezza, ma non hanno bisogno di distinte categorie di istituzioni per
soddisfare tali esigenze. Non hanno bisogno, cioè, di istituzioni basate su
motivazioni specifiche e dirette da un autonomo gruppo di persone operanti sulla
base di tali motivazioni. Al contrario, a eccezione della limitata esperienza di
alcune società del XIX secolo, tutte le società umane del
passato sembrano essersi fondate sull'unità istituzionale della società; il
che vale a dire che un unico gruppo di istituzioni era preordinato a soddisfare
tanto i bisogni economici quanto i bisogni politici di una società.
2. Un'economia di prezzi o di mercato Il capitalismo liberale è, essenzialmente, un'economia di prezzi, o di mercato. Ciò significa che la produzione e la distribuzione dei beni sono controllate da prezzi risultanti dal funzionamento di mercati. Vi sono mercati per tutti i tipi di beni: mercati delle merci per tutti i generi di merci; mercati dei capitali per l'uso dei capitali; mercati immobiliari per l'uso della terra; mercati del lavoro per l'uso della forza-lavoro. In questo modo, ogni fattore della produzione ha il suo mercato. Di conseguenza, esistono prezzi per tutti i tipi di beni: prezzi per le merci, definiti comunemente prezzi; prezzi per l'uso del capitale, qualificati come interessi; prezzi per l'uso della terra, chiamati rendite; prezzi per l'uso del lavoro, definiti salari. Così ogni fattore della produzione ha il suo prezzo. Il risultato dell'azione dei mercati è duplice. Da un lato viene determinata la produzione dei beni, in funzione della variazione delle relative quantità e qualità, disponendosi automaticamente delle risorse di un paese (si tratti della terra o del lavoro, del capitale o delle merci). Dall'altro viene stabilita, mediante il medesimo meccanismo, la distribuzione dei beni così prodotti. Alcuni di questi prezzi costituiscono, infatti, il reddito di coloro i quali «vendono» determinati beni. Così v'è l'interesse per chi concede l'uso del capitale; la rendita, per chi concede l'uso della terra; il salario, per chi concede l'uso della forza-lavoro; e infine, v'è il profitto per chi vende ogni genere di merce, profitto rappresentato dal surplus dei prezzi di vendita rispetto ai costi (ove questi ultimi sono costituiti, com'è ovvio, semplicemente dai prezzi delle risorse necessarie per la produzione dei beni in questione). Con il totale di questi redditi viene scambiato il totale dei beni prodotti in un determinato periodo di tempo. Il sistema dei prezzi, così, distribuisce automaticamente i beni prodotti in base a esso. Quanto si è appena osservato concerne il mero meccanismo dell'economia di mercato, presentato in maniera schematica. Se si considera, per un istante, che centinaia di migliaia di beni sofisticati sono prodotti da molti milioni di persone e poi distribuiti tra loro mediante e attraverso tale meccanismo, il quale regola ogni dettaglio del processo tecnologico, finanziario e di consumo, allora non si potrà non concordare sul fatto che questa è una conquista dell'ingegno umano, rispetto alla quale le piramidi d'Egitto appaiono poca cosa. Non vi è da stupirsi che, non appena ciò emerse all'orizzonte della consapevolezza umana, l'uomo ne fu abbagliato e sconcertato come se i suoi occhi avessero incrociato il sole. La rivoluzione industriale e l'epoca delle macchine, che avevano fecondato la società europea, divennero così le fonti di un'ispirazione sufficientemente potente da aiutare l'umanità a superare l'inferno del primo industrialismo, fino a che non divennero realmente evidenti i primi straordinari benefici materiali del sistema. Ma il dogmatismo dell'economista liberale aveva anche un'altra causa. Difatti, quanto più un'economia di prezzi o di mercato è sviluppata, tanto più essa deve essere radicale nell'attuazione dei propri principi. Se i primi liberoscambisti come Adam Smith potevano sembrare dogmatici, il loro dogmatismo non era nulla rispetto a quello della più tarda scuola manchesteriana e gli stessi liberali di Manchester erano esitanti e pronti al compromesso rispetto agli odierni protagonisti del capitalismo liberale. Un Cobden e un Bright ci appaiono come dei semplici opportunisti, se posti a confronto con l'inflessibile fanatismo di un Lionel Robbins o di un Ludwig von Mises. Tutto ciò ha delle ragioni piuttosto semplici. Un'economia di mercato, se funziona, funziona soltanto nella misura in cui non si interferisca con i prezzi, siano questi í prezzi delle merci, le rendite fondiarie, i salari o gli interessi. Questo perché un sistema autoregolantesi di prezzi dipende per sua operatività dal fatto che vi sia un surplus tra prezzi di vendita e costi; nulla può essere prodotto se non esiste un tale surplus. Perciò, se i prezzi di vendita cadono, si deve consentire anche ai costi di cadere. Ciò è indipendente dalla volontà umana, dai sentimenti o dagli ideali. Una produzione che sia costantemente in perdita è automaticamente esclusa dalle regole del gioco.
Questo è il motivo per cui deve esistere, in un siffatto sistema, un libero
mercato di tutti i fattori della produzione: non soltanto delle merci,
ma anche della terra, del lavoro e del capitale. Se il dispositivo dei prezzi
non è flessibile e a essi non è concesso di muoversi liberamente, in accordo con
l'intercomunicazione dei vari mercati, il sistema cessa di essere
auto-regolantesi persino in linea di principio e l'intero meccanismo è destinato
a incepparsi, ponendo l'umanità di fronte all'immediato pericolo
della disoccupazione di massa, dell'interruzione della produzione, della
perdita dei redditi e, conseguentemente, dell'anarchia sociale e del caos.
3. La società e il mercato Ma l'assunto, apparentemente semplice, per cui tutti i fattori della produzione devono avere liberi mercati implica, in pratica, che l'intera società debba essere subordinata alle esigenze del sistema di mercato. Tra i fattori della produzione rientrano la terra e il lavoro, entrambi i quali possono essere trattati come merci soltanto su una base più o meno fittizia. Ciò perché l'espressione lavoro non significato altro se non gli esseri umani, che costituiscono la società, e la «terra» è soltanto un'altra parola per madre natura, che offre loro la sussistenza. Nel tentativo di istituire un'economia di mercato separata all'interno della società, l'intera società viene così subordinata ai bisogni di un'economia di mercato. Quasi involontariamente viene posta in essere un'entità sin qui mai conosciuta: una società economica, cioè una comunità umana basata sull'assunto per cui l'esistenza della società dipende soltanto da beni materiali. Tale assunto è palesemente falso. La sicurezza personale è indispensabile almeno quanto il cibo quotidiano; e non può aversi alcuna precisa preferenza tra burro e cannoni, se l'alternativa è quella di essere uccisi all'istante. Ma perché una società possa continuare a esistere, vi sono una serie di altre condizioni, alle quali essa deve provvedere, come dei rapporti ragionevolmente stabili con l'ambiente circostante, cioè la natura, con i nostri vicini, con la nostra professione; caratteristiche militari dei suoi membri, anche sul piano della salute e della costituzione fisica; prospettive sufficientemente sicure riguardo al futuro, tali da poter porre le fondamenta per lo sviluppo della personalità umana e formare una nuova generazione. Tali presupposti non possono evidentemente essere surrogati soltanto dall'abbondanza dei beni materiali. Il «macchinario satanico» del mercato finirebbe presto per determinare una società, in cui la terra sarebbe parcellizzata o abbandonata a se stessa; la forza-lavoro sfruttata sino allo stremo o fatta arrugginire. Tale società, infine, indurrebbe il suo sistema creditizio a precipitare nell'inflazione o a strangolare l'attività economica, in base ai capricci di un meccanismo cieco, rimosso per sua stessa natura dai bisogni della comunità vivente di ogni società umana.
Diviene così evidente la reale natura dei pericoli, che sono
indissolubilmente legati all'utopia del mercato. Per il bene della società deve
porsi un freno al meccanismo del mercato. Ma non è possibile far ciò senza
sottoporre la vita economica, e di conseguenza la società nel suo insieme,
a un grave pericolo. Siamo presi tra i corni di un dilemma: o continuare
sul cammino di un'utopia destinata alla distruzione; o arrestarci e rischiare di
bloccare questo sistema meraviglioso, ma estremamente artificiale.
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