Copertina
Autore Michael Polanyi
Titolo Scienza, fede e società
EdizioneArmando, Roma, 2007, Temi del nostro tempo , pag. 126, cop.fle., dim. 13,5x21,4x0,9 cm , Isbn 978-88-6081-160-8
OriginaleScience, Faith and Society [1946]
CuratoreCarlo Vinti
TraduttoreFrancesco F. Calemi
LettoreLuca Vita, 2008
Classe filosofia , epistemologia , scienze naturali
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Indice


Prefazione di Carlo Vinti                        7
Golfisti e scassinatori

Introduzione: Sfondo e prospettiva              27

Capitolo primo: Scienza e realtà                43

Capitolo secondo: Autorità e coscienza          65

Capitolo terzo: Dedizione o asservimento        87

Appendice                                      109

Bibliografia                                   123


 

 

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Pagina 43

Capitolo primo

Scienza e realtà


Quale è la natura della scienza? Data una qualsiasi quantità di esperienza, le proposizioni scientifiche possono essere derivate da essa attraverso l'applicazione di alcune regole procedurali esplicite? Per semplicità limitiamoci alle scienze esatte e assumiamo opportunamente che tutta l'esperienza rilevante ci è data nella forma della misurazione numerica; sicché siamo dinanzi ad una lista di cifre rappresentanti posizioni, masse, tempi, velocità, lunghezze d'onda, etc., dalla quale dobbiamo derivare una qualche legge di natura matematica. Possiamo farlo attraverso l'applicazione di operazioni definite? Certamente no. Concesso per assurdo che possiamo in qualche modo scoprire che le cifre possono essere connesse in maniera tale che un gruppo determini l'altro, vi sarebbe un infinito numero di funzioni matematiche utilizzabili per la rappresentazione dell'uno in funzione dell'altro. Vi sono molte forme di serie matematiche — come la serie di potenze, la serie armonica, etc. — ciascuna delle quali può essere usata in un'infinita varietà di modi per approssimare, ad un qualunque grado desiderato, la relazione esistente tra qualunque insieme specificato di dati numerici. Malgrado tutto non è mai stata stabilita una regola definita attraverso la quale possa essere riconosciuta una qualche particolare funzione matematica come l'unica che esprime una legge naturale, nell'infinito numero di quelle che si offrono alla scelta. È vero che nell'infinito numero di funzioni disponibili ciascuna, in generale, porterà ad una differente predizione quando applicata ad una nuova osservazione, ma questo non fornisce la prova necessaria per effettuare una selezione tra esse. Se noi individuiamo quelle che predicono in maniera corretta, ne avremmo ancora un numero infinito nelle nostre mani. Infatti la situazione sarebbe mutata solo per l'aggiunta di pochi dati in più – cioè, i dati 'predetti' – a quelli dai quali siamo originariamente partiti. Non ci siamo portati apprezzabilmente più vicino alla precisa selezione di una particolare funzione nell'infinito numero di quelle disponibili.

Ora, non sto suggerendo che è impossibile trovare leggi naturali; ma solo che questo non si fa, e non può essere fatto, attraverso l'applicazione di una operazione esplicitamente conosciuta ad una data evidenza costituita da misurazioni. E per portare il mio argomento un po' più vicino alla reale esperienza della scienza, lo riesporrò ora come segue. Chiediamo: una funzione matematica che connette strumenti di lettura osservabili può costituire ciò che nella scienza siamo abituati a considerare legge di natura? Per esempio, se dovessimo enunciare la nostra conoscenza riguardante l'orbita di un pianeta in questi termini: 'Collocando certi telescopi a certi angoli in certi tempi verrà osservato un disco luminoso di una certa ampiezza' – ciò esprimerebbe propriamente una legge naturale del moto planetario? No: è ovvio che una tale predizione non equivale ad una proposizione concernente il moto planetario. In primo luogo poiché, in generale, noi affermeremmo troppo e la nostra predizione si mostrerà spesso falsa quand'anche la sottostante proposizione sul movimento planetario fosse corretta: dal momento che una nuvola potrebbe rendere il pianeta invisibile all'occhio, oppure il terreno potrebbe cedere sotto l'osservatorio, o qualche altro degli innumerevoli possibili errori o ostacoli potrebbe falsificare l'osservazione o renderla impraticabile. In secondo luogo, affermeremmo troppo poco, in quanto la presenza di un pianeta in certi punti nello spazio – come postulato dalla sua legge di movimento – può manifestarsi in una indefinita varietà di modi, la maggioranza dei quali, in considerazione della loro palese moltitudine, non può mai essere esplicitamente predetta; e molti dei quali possono ancora essere impensabili oggigiorno poiché possono essere causati da proprietà della materia ancora sconosciute o da un mucchio di altri fattori sconosciuti al presente, sebbene inerenti al nostro sistema.

C'è, infatti, una caratteristica essenziale che manca nelle precedenti rappresentazioni della scienza, che forse può essere meglio posta in rilievo utilizzando però una terza immagine della scienza. Supponiamo di svegliarci nella notte al suono di un rumore simile al rovistare proveniente dalla vicina stanza libera. È il vento? Uno scassinatore [burglar]? Un topo?... Proviamo a ipotizzare. Era un rumore di passi? Questo indica uno scassinatore! Convinti, ci facciamo coraggio, ci alziamo e procediamo a verificare la nostra assunzione.

Qui ci sono alcune caratteristiche di una scoperta scientifica che precedentemente non avevamo considerato. La teoria dello scassinatore [theory of the burglar] – che rappresenta la nostra scoperta – non implica una qualche connessione definita di dati osservativi dai quali si possono predire con precisione nuove e ulteriori osservazioni. Essa è coerente con un numero infinito di possibili osservazioni future. Ciononostante la teoria dello scassinatore è sufficientemente solida e definita; in un tribunale essa può perfino essere dimostrata aldilà di ogni ragionevole dubbio. Alla luce del senso comune non c'è nulla di curioso in questo: ciò semplicemente rende chiaro che lo scassinatore è stato assunto come una entità reale, uno scassinatore reale. Sicché possiamo perfino rovesciare questo dicendo che la scienza assume qualcosa di reale ogni volta che le sue proposizioni somigliano alla teoria dello scassinatore. In questo senso una teoria concernente l'orbita di un pianeta può essere considerata una proposizione riguardante qualcosa di reale, essendo aperta alla verificazione non solo per mezzo di osservazioni definite ma anche per mezzo di molte osservazioni ancora del tutto indefinite. Spesso sentiamo di teorie scientifiche che ottengono conferma attraverso osservazioni successive in un modo descritto come sorprendente ed audace. L'impresa di Max v. Laue (1912) che ha contestualmente confermato attraverso la diffrazione dei raggi X nei cristalli sia la natura ondulatoria dei raggi X sia la struttura reticolare dei cristalli, è spesso celebrata come una straordinaria impresa di ingegno. Sembra parte dell'essenza delle proposizioni scientifiche il fatto che esse siano capaci di dare frutti così remoti ed inaspettati; e quindi possiamo concludere che è anche parte della loro essenza occuparsi della realtà.

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Effettivamente non ci possono essere dubbi che, almeno in matematica, la fase più importante della scoperta rappresenta un processo di emersione spontanea. Questo è stato descritto per la prima volta da Poincaré, che in Science and Methode ha analizzato il modo in cui sono state fatte alcune delle sue grandi scoperte matematiche. Egli ha notato che le scoperte non si presentano di solito al culmine di uno sforzo mentale – il modo in cui raggiungi la cima di una montagna spendendo il tuo ultimo grammo di forza – ma più spesso giungono in un lampo dopo un periodo di riposo o distrazione. Le nostre forze vengono spese, invero, in un inconcludente arrancare sulle rocce e nelle gole sui fianchi dell'altura e, proprio quando saremmo sul punto di rinunciare, almeno per il momento, e fermarci per un tè, ci ritroviamo improvvisamente proiettati in cima. Tutti gli sforzi dello scopritore non sono altro che preparazioni per l'essenziale evento della scoperta, che infine accade – casomai – attraverso un processo di riorganizzazione mentale spontanea non controllata da sforzo conscio.

Questo profilo della scoperta matematica è stato confermato da tutti gli scrittori successivi ed una simile successione è stata osservata riguardo un vasto campo di altre attività creative della mente. Le quattro fasi osservate nella scoperta matematica, vale a dire, Preparazione, Incubazione, Illuminazione, e Verificazione (come Wallas le ha chiamate) sono state trovate anche nel corso della scoperta nelle scienze naturali e similmente possono essere rintracciate nel processo che porta alla creazione di un'opera d'arte. Esse sono molto chiaramente riprodotte anche nello sforzo mentale che porta al ritrovamento di un ricordo perso. La soluzione degli enigmi, l'invenzione di stratagemmi pratici, il riconoscimento di forme indistinte, la diagnosi di una malattia, l'identificazione di una rara specie, e molte altre forme del corretto ipotizzare sembrano conformarsi al medesimo schema. Tra queste vorrei includere anche la devota ricerca di Dio. Il resoconto di S. Agostino riguardante i suoi lunghi lavori per raggiungere la fede cristiana, bruscamente culminati nella sua conversione, che egli ha immediatamente riconosciuto come decisiva ed alla quale ha fatto seguito la difesa, durata tutta la vita, della fede acquisita improvvisamente, certamente rivela tutte le fasi caratteristiche del ritmo creativo.

Tutti questi processi dell'ipotizzare creativo hanno in comune il fatto d'essere guidati dal bisogno di stabilire un contatto con la realtà, che è sentita essere presente ed in attesa di venire appresa. Ecco il motivo per il quale l'uovo di Colombo è il simbolo proverbiale della grande scoperta. Esso suggerisce che la grande scoperta è la realizzazione di qualcosa d'ovvio; una presenza che abbiamo sotto il naso, in attesa fino a che non apriamo i nostri occhi.

In questa luce può forse apparire più appropriato considerare la scoperta nelle scienze naturali come guidata non tanto dalla potenzialità di una proposizione scientifica, quanto da un aspetto della natura che cerca concretizzazione nelle nostre menti. Il processo dell'intuizione scientifica è poi stato posto in analogia con la percezione extrasensoriale, come stabilito da Rhine (1934). Esso sembrerebbe particolarmente affine agli atti di precognizione o di apparente chiaroveggenza, cioè all'indovinare cose non conosciute da nessuno. La fase intuitiva della scoperta naturale e la percezione extrasensoriale hanno in comune il fatto che esse, per evocare la conoscenza di una cosa reale mai vista prima, dipendono da uno sforzo di concentrazione mentale. Vi è abbondante evidenza che, come la percezione extrasensoriale, l'intuizione euristica funziona in un modo abbastanza determinato. Due scienziati che sono dinanzi ad un insieme simile di fatti si imbatteranno spesso nel medesimo problema e troveranno la medesima soluzione ad esso. Scoperte coincidenti o quasi coincidenti effettuate da investigatori indipendenti sono piuttosto comuni, e sarebbero anche più frequentemente notate se non fosse per il fatto che la rapida pubblicazione di un recente lavoro di successo spesso impedisce il completamento di altri che sarebbero seguiti di lì a poco. Quindi, negare che una scoperta possa essere realizzata effettuando un insieme di operazioni definite, non implica collocare il processo della scoperta completamente all'esterno delle leggi di natura, poiché si può continuare a considerare il suo corso come strettamente limitato dalle circostanze che sono dinanzi l'investigatore (i fattori che si trovano all'esterno del controllo delle circostanze saranno trattati nella Sezione v).

Ma lo studio della percezione extrasensoriale può fornire ulteriori indicazioni per la comprensione dell'intuizione. Una delle coincidenze più curiose della storia della scienza è stata la pressoché simultanea scoperta della meccanica quantistica per opera di Heisenberg e Born, nella forma delle matrici, e per opera di Schrödinger, nella forma della meccanica ondulatoria, poiché in questo caso le due forme sono state dapprima considerate in conflitto. I punti di partenza delle due teorie, le loro presentazioni del problema e il loro intero apparato matematico sono stati differenti; e soprattutto – come ha fatto notare Schrödinger nel suo articolo che stabilisce infine l'identità matematica delle due – il loro allontanamento dalla meccanica classica si è determinato in direzioni diametralmente opposte. Sembra molto più ragionevole descrivere questo evento dicendo che entrambi gli investigatori hanno avuto una percezione intuitiva della stessa realtà nascosta presente in natura, ma che hanno effettuato diverse descrizioni di esso; descrizioni così differenti che comparandole si è pensato rappresentassero oggetti distinti. Effettivamente Dirac ha presto provato che entrambe le rappresentazioni erano considerabilmente scorrette, poiché esse erano in conflitto con la relatività. Quando questa imperfezione è stata corretta la formulazione della meccanica quantistica si è trovata ad essere un'altra volta trasformata in maniera quasi irriconoscibile. Questo sembra conformarsi all'esperienza della percezione extrasensoriale. Quando il disegno di un oggetto è intuito per telepatia o precognizione non c'è propensione a riprodurre il suo contorno fisico indipendentemente dal suo significato ma al contrario '...tutto sembra accadere [scrive Whateley Carington] come se a quelli che hanno indovinato fosse stato detto, per esempio, "Disegna una mano" piuttosto che "Copia questo disegno di una mano". E, come uno potrebbe dire, l'"idea" o "contenuto", o "significato" dell'originale che riesce a esprimersi, non la forma'. Quindi possiamo ritenere di Heisenberg e Schrödinger che entrambi abbiano penetrato il medesimo significato pur tuttavia tracciandone immagini differenti: tanto differenti che essi stessi non hanno riconosciuto il loro identico significato.

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Pagina 65

Capitolo secondo

Autorità e coscienza


Abbiamo visto che le proposizioni incluse nella scienza naturale non sono derivate dai dati dell'esperienza per mezzo di qualche regola definita. Esse sono, anzitutto, raggiunte attraverso una forma di ipotizzare basata su premesse che non sono affatto inevitabili e non possono essere nemmeno definite chiaramente; dopo di che sono verificate tramite un processo di consolidamento osservativo che lascia sempre gioco al giudizio personale dello scienziato. In ogni giudizio di validità scientifica resta così implicita la supposizione che noi accettiamo le premesse della scienza e che la coscienza dello scienziato è affidabile.

In questa mia lezione proverò ad esporre i fondamenti sui quali le premesse della scienza sono sostenute oggi tra gli scienziati e a mostrare come le coscienze degli scienziati si trovano radicate sullo stesso terreno.


I


Le premesse che sono alla base della scienza appartengono a due classi. Vi sono le assunzioni generali riguardanti la natura dell'esperienza quotidiana che costituiscono la prospettiva naturalistica – in quanto opposta alla magica, mitologica, etc. Accanto a queste vi sono assunzioni più particolari che sono alla base del processo della scoperta scientifica e della sua verifica. Né le une né le altre sono innate. I bambini degli indigeni primitivi, i cui genitori sono convinti in modo inveterato della loro interpretazione magica delle cose, possono essere allevati ed educati senza difficoltà ad una visione naturalistica della natura nelle scuole dirette da missionari locali. Non c'è dubbio che il contrario sarebbe altrettanto facile da ottenere: gli europei allevati a credere in un sistema elaborato di magia potrebbero essere resi così indifferenti alla scienza quanto lo sono gli indigeni primitivi oggi. La visione naturalistica sostenuta oggi dagli scienziati, così come da altri uomini moderni, ha la sua origine nella loro istruzione elementare.

Le premesse sottostanti ad un grande processo intellettuale non sono mai formulate e trasmesse nella forma di precetti definiti. Quando i bambini imparano a pensare naturalisticamente non acquisiscono una qualche conoscenza esplicita del principio di causalità. Imparano a considerare gli eventi in termini di ciò che chiamiamo cause naturali e, praticando giorno dopo giorno tale interpretazione, infine si convincono delle premesse sottostanti ad essa. Molto di questo accade già quando il bambino impara a parlare in un linguaggio che descrive eventi in termini naturalistici. Il processo d'acquisizione della lingua offre un buon esempio dei principi attraverso i quali le premesse del pensiero sono in genere trasmesse da una generazione ad un'altra. Il linguaggio è imparato tramite l'imitazione intelligente degli adulti. Ciascuna parola deve essere considerata in un certo numero di contesti fino a che il suo significato non sia approssimativamente colto; poi deve essere letta nei libri ed usata per qualche tempo nel discorso e nella scrittura, sotto la guida dell'esempio degli adulti, in modo tale che siano padroneggiate le sue sfumature di significato più importanti. Questo addestramento può essere integrato dal precetto, ma la pratica imitativa deve sempre restare il suo principio più importante. Lo stesso si può dire del processo tramite il quale sono assimilati i rudimenti delle arti superiori. Pittura, musica, etc., possono essere imparate solo tramite la pratica, guidata da imitazione intelligente. E ciò si applica anche all'arte della scoperta scientifica.

Le premesse della scienza vengono oggi insegnate attraverso tre fasi. La scienza insegnata nelle scuole educa ad usare con facilità i termini scientifici per esprimere le dottrine istituzionali: questa è lettera morta della scienza. L'università prova a rianimare questa conoscenza facendo comprendere allo studente le sue incertezze e la sua continua natura provvisoria, e dandogli forse una vaga idea delle implicazioni latenti che possono nondimeno emergere dalla dottrina istituzionale. Essa impartisce anche i principi del giudizio scientifico insegnando la pratica della prova sperimentale e consentendo una prima esperienza di pratica di ricerca. Ma una piena iniziazione alle premesse della scienza può essere guadagnata solo dai pochi che hanno il talento per diventare scienziati indipendenti, e di solito costoro raggiungono questo obiettivo solo tramite un legame stretto e personale con l'intima visione e la pratica di un maestro insigne. Nella grande scuola di ricerca sono allevate le promesse più vitali della scoperta scientifica. Il lavoro giornaliero di un maestro rivelerà questo allo studente intelligente e gli inculcherà anche alcune delle sue intuizioni personali, intuizioni dalle quali il maestro è guidato nel suo lavoro. Il modo in cui il maestro sceglie i problemi, seleziona una tecnica, reagisce a nuovi indizi e a difficoltà impreviste, discute il lavoro di altri scienziati, e continua a speculare senza sosta riguardo centinaia di possibilità che non si avvereranno mai, può trasmettere almeno un riflesso delle sue visioni essenziali. Ecco perché così spesso i grandi scienziati seguono come apprendisti i grandi maestri. Il lavoro di Rutherford portava la chiara impronta del suo apprendistato sotto J. J. Thomson. E non meno di quattro premi Nobel sono stati vinti, a turno, dai discepoli personali di Rutherford. Alcune forme di scienza, come la psicoanalisi, difficilmente possono essere trasmesse tramite precetto. Oggi ogni psicanalista è stato analizzato o da Freud o da un altro psicanalista che è stato, a sua volta, così analizzato, etc. (forse una versione moderna della successione apostolica). In Gran Bretagna la ricerca nella chimica dei carboidrati è stata pressoché interamente costituita dal lavoro di quattro scienziati, Purdy, Irvine, Haworth e Hirst, i quali si sono succeduti l'un l'altro in un singolo settore come maestri e discepoli.

Ogni sforzo fatto per comprendere qualcosa deve essere sostenuto dalla credenza che vi sia qualcosa che può essere compreso. Lo sforzo del bambino ad imparare a parlare è dettato dalla convinzione che il linguaggio significa qualcosa. Guidato dall'amore e dalla fiducia nei suoi modelli, egli percepisce la luce della ragione nei loro occhi, nelle loro voci, nella loro condotta e si sente istintivamente attratto verso la sorgente di questa luce. È spinto ad imitare – e a comprendere sempre più – le azioni espressive delle sue guide adulte.

L'apprendistato nelle arti superiori, e nella scienza in particolare, è accettato e perseguito su fondamenti simili. Il futuro scienziato è attratto dalla letteratura scientifica popolare, o dai compiti scolastici di scienza, molto tempo prima che si possa formare un'idea vera della natura della ricerca scientifica. Le briciole di scienza che può raccogliere — sebbene spesso noiose o anche speciosamente abbellite — infondono in lui il preannuncio di tesori intellettuali e di gioie creative che sono aldilà della sua comprensione. La sua comprensione intuitiva di un grande e valido sistema di pensiero e di un'interminabile percorso di scoperta lo sostiene nell'accumulare laboriosamente conoscenza e lo stimola a penetrare in intricate teorie rompicapo.

Talvolta egli troverà anche un maestro del quale ammirerà il lavoro e ne accetterà, come guida, i modi e le vedute. Così la sua menta assimilerà le premesse della scienza. Da allora in poi l'intuizione scientifica della realtà modellerà la sua percezione. Egli apprenderà i metodi dell'indagine scientifica ed accetterà gli standard della valutazione scientifica.

Ad ogni fase del suo progresso verso questo fine, l'allievo è stimolato dalla credenza che certe cose che finora sono oltre la sua conoscenza e, perfino, oltre la sua comprensione, sono tutto sommato vere e preziose, sicché vale la pena impiegare i propri sforzi più intensi per comprenderle a fondo. Questo rappresenta un riconoscimento dell'autorità di ciò che egli imparerà e di coloro dai quali imparerà. È il medesimo atteggiamento del bambino che ascolta la voce della madre e assorbe il significato della parola. Entrambi sono basati su una credenza implicita nel significato e nella verità del contesto, che chi impara, sta provando a padroneggiare. Un bambino non può mai imparare a parlare se assume che le parole che giungono al suo udito sono senza significato; o anche se assume che cinque parole su dieci sono senza significato. Ed analogamente nessuno può diventare uno scienziato a meno che non presuma che la dottrina scientifica ed il metodo sono fondamentalmente validi e che le loro premesse fondamentali possono essere accettate incontestabilmente. Abbiamo qui una istanza del processo descritto epigrammaticamente dai Padri della Chiesa cristiana nelle parole: fides quaerens intellectum, la fede cerca la comprensione (faith in search of understanding).

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