Copertina
Autore Anna Politkovskaja
Titolo Cecenia. Il disonore russo
EdizioneFandango, Roma, 2009 [2006], Tascabili , pag. 218, cop.fle., dim. 12x17x1,2 cm , Isbn 978-88-6044-105-8
OriginaleTchéchénie, le déshonneur russe [2003]
PrefazioneRoberto Saviano, André Glucksmann
TraduttoreAgnès Nobécourt, Alberto Bracci
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe paesi: Russia , storia: Europa , storia criminale , guerra-pace
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Indice


Roberto Saviano
Chi scrive, muore                             5

André Glucksmann
La sindrome del "cardo ceceno"               17

Introduzione: Noi                            25

1. La zona di residenza                      27
2. I paraocchi dell'odio                     54
3. I combattenti ceceni                      78
4. La tragedia di Shatoi                     94
5. I frutti della disperazione              134

Perché non amo Putin                        164

Post scriptum                               183

Note                                        207


 

 

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Pagina 5

Roberto Saviano

Chi scrive, muore


Anna era tornata dal fare la spesa, il 7 ottobre 2006. Una donna dall'aria stanca, al supermercato lungo la Frunzenskaja, la strada che costeggia la Moskva. Sta tornando dall'ospedale dov'è ricoverata la madre divorata da un cancro. Suo padre, legatissimo alla moglie, appena ha saputo della notizia della malattia è morto d'infarto.

Sembra accanirsi il peggio della sorte in quei giorni. Divorziata, Anna, ha due figli ormai grandi che vede poco; a casa l'aspetta Van Gogh, ora un cagnone, ma era un cucciolo segnato dai maltrattamenti. Di lui scriveva: "È di muovo sera. Giro la chiave nella serratura e Van Gogh mi vola addosso, sempre e comunque. Anche se gli fa male la pancia, qualunque cosa abbia mangiato, anche se stava dormendo profondamente. È fonte di un affettuoso moto perpetuo. Tutti ti piantano, tutti si stancano di te: il cane non smette mai di amarti".

Ha tre borse della spesa nell'auto che ferma davanti al portone di casa sua al numero 8 della Lesnaja Ulitsa. Trovare parcheggio è facile. È un quartiere borghese abbastanza protetto e con un certo gusto. Ci abitano i professionisti della nuova Russia. Nei palazzi si entra solo con un codice d'accesso. Anna sale a casa e posa le prime due buste della spesa, piene di alimenti e roba per la casa. Poi riscende a prendere la terza busta, piena di oggetti sanitari per la madre, in ospedale mancano. Sale al primo piano con l'ascensore, appena si spalancano le porte, ancora dentro la cabina, incontra un uomo e una donna. Lui è magro, giovane, cappellino calzato con visiera a coprire gli occhi – diranno i testimoni – e accanto c'è la donna. Punta una pistola IZH silenziata al petto. Al lato sinistro del petto. Spara per tre volte. Due colpi prendono il cuore spaccandolo in tre parti, un terzo colpo si devia sulla spalla. Poi per avere la certezza di aver compiuto bene il lavoro, una volta caduto il corpo a terra spara alla nuca. Avevano seguito Anna dal supermercato e sapevano i codici per entrare nel palazzo e l'hanno aspettata sul pianerottolo. Dopo l'esecuzione lasciano la pistola con matricola abrasa nella pozza di sangue e vanno via. Una signora, poco dopo, chiama l'ascensore, quando questa riscende al piano terra e le porte si spalancano, lancia un urlo e subito dopo una preghiera. Trova il cadavere di Anna.

Era il cinquantaquattresimo compleanno del presidente Vladimir Putin e quella morte sembra un regalo. Anna Stepanovna Politkovskaja nata a New York con il cognome Mazepa, 48 anni, viene sepolta il 10 ottobre 2006 al cimitero Trojekurovo di Mosca. Dietro il feretro in prima fila i due figli, Ilja, di 28 anni, e Vera, di 26, la sorella, l'ex marito e il cane. La sua parola non poteva essere fermata che così. Solo in quel modo c'erano riusciti: con le pallottole. Tre anni dopo gli accusati dell'omicidio di Anna sono stati tutti assolti. Assolto Sergej Chadzikurbanov, ex funzionario del ministero degli Interni, assolti i due fratelli ceceni Dzabrail e Inragim Machmudov, il terzo, Rustam, implicato anche lui, fuggito all'estero e mai arrestato, e assolto il colonnello delle forze di sicurezza Pavel Rjaguzov. Assolti e liberati dal presidente della Corte militare Evgenij Zubov coloro che secondo l'accusa avevano seguito, e poi ucciso Anna. L'assassinio a oggi non ha colpevoli né mandanti. Ma le sue parole continuano a essere spine ficcate sotto le unghie e nelle tempie stesse del potere russo. Cecenia è un libro pericoloso. Anna Politkovskaja l'ha scritto con la volontà di raccontare una ferita che non riguardava solo una parte sperduta in qualche antro caucasico. L'ha scritto riuscendo a rendere la storia della guerra in Cecenia una realtà quotidiana di tutti. Ed è questo ciò che l'ha uccisa. La sua capacità di rendere la Cecenia dibattito necessario a Londra e a Roma, fornendo elementi a Madrid e a Parigi, a Washington e a Stoccolma. Ovunque le sue parole sono diventate nitroglicerina per il governo di Putin, al punto che questo libro è diventato più pericoloso di una trasmissione televisiva, della dichiarazione di un testimone, di un processo al Tribunale Internazionale. Perché Cecenia raccoglie tutto quello che Anna ha visto in una delle peggiori guerre che l'umana specie abbia mai generato, una guerra dove le donne violentate e i soldati torturati dovevano dichiarare a verbale di essere i reali colpevoli delle violenze subite. La sua poetica è possibile sintetizzarla in un aforisma di Marina Cvetaeva sulla qualle si era laureata: "Tutto il mio scrivere è prestare orecchio".

Anna Politkovskaja lavorava in una situazione complicatissima. Le trasferte le venivano pagate 30 dollari, non c'era possibilità di guadagno, il lavoro non era sostenuto da alcuna gratificazione economica. Zero soldi per viaggiare e la parte maggiore dello stipendio se ne andava per difendersi da querele e denunce, che piovevano ogni volta che appariva un articolo a sua firma. Sfiancarla era l'obiettivo. E deprimerla con una forte pressione diffamatoria senza fine. Il piano principale non era ucciderla, ma distruggerne l'immagine. Far credere a chi l'amava – ed erano in molti – che fosse un'arrivista pazza.

Non dimenticherò mai le parole pronunciate da Aleksandr Politkovskij, l'ex marito di Anna, all'indomani della sua morte: "Fu nel 1994, quando si occupò della lotta tra gli oligarchi Vladimir Potanin e Vladimir Gusinskij per il controllo di Norilsk Nickel, il più grande produttore mondiale di nickel, che doveva essere privatizzato. Vinse Potanin, ma a un certo punto Gusinskij chiamò Anna e le mostrò un dossier diffamatorio che aveva raccolto sulla nostra famiglia. Anna era spaventata, andai a prenderla e parlammo a lungo, seduti in macchina. Lì lei decise che sarebbe andata avanti comunque, anche se temeva il discredito più di tutto il resto". Meglio morire che essere diffamata. E tutto sommato è questa la vera consolazione. Terribile, tragica ma incredibilmente vera.

Almeno con la morte hanno smesso di tentare di screditarla. Il discredito è l'elemento primo di distruzione, si infanga la famiglia cercando di dimostrare collusioni, corruzioni e reati. Si va dai parenti delle vittime che ha raccontato e si fa pressione perché dicano che ha inventato tutto, che tutto è avvenuto diversamente. Si diffondono voci di calunnia: è menzognera, mitomane, matta, buffona, carrierista. Erano, in fondo, centinaia i cronisti in Russia che la odiavano perché il marito aveva fatto carriera già durante la Perestrojka, diventando la voce critica, sì, ma di una televisione dell'URSS. E poi Anna scriveva su un giornale in parte sotto il dirette controllo azionario di Gorbacëv e dell'oligarca Lebedev. Il venticello della calunnia era di far i rivoluzionari con lo spazio dato dai vecchi padroni comunisti. Non era difficile per il potere politico trovare appigli verosimili per rovinare la sua immagine. Così come oggi centinaia di suoi colleghi in ogni angolo del mondo la difendono e indagano su quanto accaduto.

Ma poi il marito continua a spiegare perché Anna temeva il discredito sopra ogni cosa: "Lei scriveva i suoi articoli per cambiare le cose. Ogni pezzo doveva aiutare qualcuno o contrastare un'ingiustizia. Doveva produrre qualcosa, anche poco, ma qualcosa. Se avesse perso la sua credibilità questo sarebbe diventato impossibile. Lo stesso le successe, anni dopo, con Ramzan Kadyrov, il governatore filorusso della Cecenia, che minacciò di trascinarla in una sauna e farla fotografare in pose sconce con uomini nudi". L'avrebbero narcotizzata, rapita e fotografata in pose porno con degli uomini, in una specie di orgia, di gang bang tra omaccioni unti d'olio con al centro la più pericolosa delle giornaliste. Come dire, ecco la vita che fa quella che va raccontando il suo paese come un inferno. Chi avrebbe creduto che era stata costretta e narcotizzata? Tutti avrebbero accettato quelle foto sconce, e avrebbero urlato al vizio, all'orgia, al piacere della nuova cortigiana che si credeva una combattente. In quel caso, dopo le foto sparate sulle prime pagine di molti giornali e sui siti di gossip di mezzo mondo, nessuna smentita, nessuna denuncia o dimostrazione di violenza avrebbero potuto togliere il fango sul viso. Un fango che avrebbe messo in dubbio e in discussione ogni reportage, ogni inchiesta, ogni parola. E questo è il pericolo primo. Prima delle pallottole o quando le pallottole non riescono nel loro intento, si arriva alla distruzione della credibilità, a inabissare l'autorevolezza, a rendere nulle le parole non partendo dalle parole stesse, ma creando un meccanismo che quelle parole priva di ogni senso, rendendole involucri vuoti.

Quando Anna decise di dismettere il ruolo di giornalista e partecipare attivamente a ciò che stava vedendo e raccontando, nell'ottobre del 2002, partecipò ai colloqui con i terroristi che avevano preso in ostaggio gli spettatori del musical Nord Ost al teatro Dubrovka di Mosca. Decise di farlo portando acqua agli ostaggi. Nel settembre del 2004, durante l'assedio della scuola di Beslan, voleva tentare la mediazione. E ci sarebbe riuscita poiché era rispettata da entrambi i fronti, ma Anna dichiarò di essere stata avvelenata proprio a bordo dell'aereo che la stava portando in Ossezia. Quel veleno doveva ammazzarla e impedirle di portare avanti una sua proposta per la soluzione della crisi. In un modo semplice, leggero, tentarono di eliminarla: con una tazza di tè. Dopo aver bevuto le iniziò a girare la testa e lo stomaco si contraeva in spasmi. Svenne, ma aveva avuto il tempo di chiedere aiuto alla hostess. Fu portata in ospedale a Rostov. Quando si risvegliò un'infermiera le sussurrò all'orecchio: "Mia cara l'hanno avvelenata ma tutti i test sul suo sangue sono stati distrutti per ordini dall'alto". Ricordo benissimo giornalisti italiani che alcuni giorni dopo la notizia si davano di gomito: "Ha visto troppo 007 la nostra Anna. E poi quando uno è in pericolo non lo sbandiera a tutte le conferenze, cerca di difendersi in silenzio". Questo il tenore dei commenti dopo che era sopravvissuta a un avvelenarriento senza prove.

Anna sapeva invece che il silenzio sarebbe stato un enorme regalo a chi la voleva zittire e delegittimare. Aveva ricevuto moltissime minacce, e per un periodo le fu pagata una scorta privata dal suo giornale, la Novaja Gazeta. Il 9 settembre 2004 scrisse un articolo su The Guardian, "Avvelenata da Putin", e in molti, in troppi non le credettero. Per strani meccanismi, l'invidia dei colleghi per la visibilità e la forza delle parole di Anna, che facevano identificare la lotta per i diritti civili in Cecenia con la sua penna e il suo viso, trasformandola in un simbolo, divenne spesso il maggior alleato delle voci ufficiali del governo che raccontavano di una donna presa da se stessa e dal suo progetto mitomane. E tutto questo la lasciava completamente isolata. Nell'articolo, del 9 settembre 2004 scriverà: "È assurdo, ma non era forse lo stesso durante il comunismo, quando tutti sapevano che le autorità dicevano idiozie ma fingevano che l'imperatore fosse vestito? Stiamo ricadendo nell'abisso sovietico, nell'abisso dell'informazione che crea morte dalla nostra stessa ignoranza... per il resto, se vuoi continuare a fare il giornalista, devi giurare fedeltà assoluta a Putin. Altrimenti può significare la morte, proiettile, veleno, tribunale o qualunque soluzione i servizi segreti, i cani da guarda di Putin, riterranno più adeguata".

A difenderla c'erano solo i suoi libri e i suoi articoli. I suoi libri sono immediati, veloci, hanno la potenza della scoperta, della novità, dell'informazione sconosciuta e resa nota. Ed è questo ciò che l'ha esposta.

In Memorie di un rivoluzionario, Victor Serge precisò: "Sono più interessato a dire che a scrivere, altri più bravi di me sapranno curare le parole assieme ai fatti, io ora non ho tempo, devo dire e basta". Sembra essere lo stesso per Anna. I suoi libri sono immediati, veloci, hanno la potenza della scoperta, della novità, dell'informazione sconosciuta e resa nota. "A chi in Occidente mi vede come la principale militante contro Putin rispondo che io non sono una militante, sono solo una giornalista. E basta. E il compito del giornalista è quello di informare. Quanto a Putin, ne ha fatte di tutti i colori e io devo scriverne", diceva dichiarando senza problemi che il suo non era un compito politico, ma assolveva alla necessità di scrivere. Detestava scrivere editoriali "non importa sapere che penso, ma quello che vedo" e andava avanti con i suoi racconti-inchiesta.

Anna Politkovskaja sapeva che solo i lettori l'avrebbero difesa, partecipava a moltissimi convegni internazionali, sapeva che la gente, gli occhi, l'interesse, avrebbero difeso le sue parole. E solo loro erano la sua scorta. I suoi strumenti erano il reportage e l'intervista e quando questa era diretta a un'autorità, se il politico o il burocrate era evasivo o mendace, la Politkovskaja passava alla denuncia. Sono dozzine i processi ai quali la scrittrice ha partecipato anche solo come testimone. In un'intervista al quotidiano inglese The Guardian, il 15 ottobre del 2002, raccontò: "Sono andata oltre il mio ruolo di giornalista. L'ho messo da parte e ho imparato cose di cui non sarei mai venuta a conoscenza se fossi rimasta una semplice giornalista, che sta ferma nella folla come tutti gli altri". Fu forse questa la ragione che la spinse in Cecenia nel 1999 e da allora, articolo dopo articolo, iniziò a montare questo libro che oggi rappresenta uno dei più grandi documenti letterari del nostro tempo per comprendere la fisiologia di ogni conflitto, feroce, nascosto, abominevole, terribilmente moderno.

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Pagina 25

Introduzione

Noi


Sul tavolo un orologio meccanico scandisce il suo tic-tac. È carico, conta solo le ore a venire. L'uomo, comprendendo le regole che governano l'orologio, lo carica ogni mattina, in modo che il tempo non si fermi mai.

Ma l'uomo è un essere strano. Si preoccupa molto delle lancette che gli indicano l'ora, ma riflette poco sul tempo.

Nel settembre del 1999 Vladimir Putin, dopo aver "ricaricato" un po' l'orologio e aver recitato con la gente la parte dell'antiterrorista, scatena in Russia la seconda guerra cecena.

È così che Putin è riuscito a mandare indietro il tempo. Ben presto, insieme alla seconda guerra cecena, si è scatenata in Russia una nuova guerra, questa volta intestina.

Oggi le nostre lancette girano solo all'indietro. La nuova guerra civile non è stata dichiarata contro un unico popolo del territorio russo, ma contro tutti. Ognuno ci mette un po' del suo. La guerra lascia la sua impronta in ogni città, ogni regione, ogni repubbliea. Ha invaso tutto e tutti vi partecipano, neanche l'autrice di questo libro sfugge alla regola.

In che epoca viviamo? Cos'è questa nuova guerra? Quale ritmo imprime alla nostra società? Chi siamo noi, cittadini russi dell'inizio del ventunesimo secolo?

Noi? Noi siamo pronti a scannarci per ogni parola che non ci piace. Siamo intolleranti e intransigenti.

Noi? Noi, molto semplicemente, abbiamo ricominciato a mettere in circolazione concetti gravi come quello di "nemico del popolo", e affibbiamo questa etichetta a tutti quelli che non la pensano come la maggioranza, senza alcuna distinzione.

Noi? Noi abbiamo riconosciuto che una pallottola in testa è il mezzo più semplice e più naturale per risolvere qualunque conflitto, per minimo che sia.

Noi? Noi, inariditi dalla guerra, odiamo più spesso di quanto non amiamo. L'odio è la nostra preghiera. Stringiamo i pugni volentieri, ma abbiamo difficoltà a riaprire le mani. E ancora una volta, invece di respirare l'aria a pieni polmoni, ci nutriamo del sangue dei nostri compatrioti senza battere ciglio.

Non è forse guerra civile, questa?

Il testo che segue raccoglie le impressioni dell'autrice sul mondo che la circonda, sulla guerra che divampa in Russia, su quello che sta succedendo alla nostra società.

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Pagina 27

1. La zona di residenza


"Perché l'hai ucciso?"

"Non lo so."

"Perché gli hai tagliato le orecchie?"

"Non lo so."

"Perché gli hai fatto lo scalpo?"

"Ma è un ceceno!"

"Capisco."

(Tratto dall'interrogatorio di un soldato di 19 anni della 22ma brigata del ministero dell'Interno russo, di stanza in Cecenia nel corso dell'estate 2001. Interrogatorio eseguito da un ufficiale inquirente del tribunale di Grozny. I loro nomi? Che sprofondino nell'oblio!)


Contrariamente a quanto affermano medici, neurologi e psichiatri sulle nostre infinite possibilità, ogni uomo dispone di una resistenza morale limitata al di là della quale si apre il suo abisso personale. Non è necessariamente la morte. Ci possono essere situazioni peggiori, ad esempio la perdita totale della propria umanità, come unica risposta alle innumerevoli nefandezze della vita. Nessuno può sapere ciò di cui sarebbe capace in guerra.

La Grozny di oggi fornisce all'uomo tutte le buone ragioni per cadere in questo abisso. Qui, è stato creato un mondo di totale irrazionalità militare, e anche se la guerra finisse domani, chissà, esso durerebbe ancora a lungo, per forza d'inerzia. Ne sono certa.

In che cosa consiste questa irrazionalità cecena?

Un uomo sensato, abituato sin dall'infanzia ai riferimenti della vita normale, non può capire l'origine degli eventi che straziano la Cecenia. Non importa che quest'uomo sia ceceno o russo. Che sia un soldato, un militante della resistenza o un semplice cittadino che cerca di rimanere al di fuori di tutto per salvare la pelle... Dopo un certo periodo, in mancanza di risposte ragionevoli, la sua coscienza comincia a disgregarsi come un fungo marcio e la sua mente finisce in un vicolo cieco.

Tuttavia non è follia, è un fenomeno diverso. E come se tutti i pilastri che hanno sostenuto la tua vita fino a quel momento fossero crollati. Comincia con l'impressione che anche tu potresti permetterti qualcosa in più di prima, che la morale non è altro che una stupidaggine inventata da ignoranti, mentre tu, ormai, sei portatore di una conoscenza particolare.

All'inizio pensi ancora a quel "qualcosa in più". Poi, poco a poco, il meccanismo che ti trattiene si allenta e sprofondi ogni giorno di più. È raro che qualcuno vi resista.

Non sono parole. Io stessa ne ho fatto l'esperienza. Nonostante conosca questa realtà e sia abituata all'irrazionalità che mi circonda, nonostante abbia, al contrario dei ceceni, la possibilità di respirare ogni tanto l'aria di Mosca dopo quella di Grozny, eppure,..

A volte passeggio tra le rovine della capitale cecena. Parlo con i suoi abitanti, li guardo negli occhi, ripenso alle loro storie e mi rendo conto che la mia mente rifiuta di credergli, contesta, respinge i loro racconti. Semplicemente per proteggersi. Ci credo e non ci credo, vorrei non farmi contaminare. Sono realmente qui, ma allo stesso tempo è come se fossi in un film...

Non è possibile, urla la mia coscienza, che le nostre autorità si ostinino in modo così imbecille a opprimere quelli che vivono qui! Perché continuare a perseguitare abitanti che hanno già sopportato fardelli disumani per il solo fatto di essere rimasti in questa orribile città? Perché far sentire loro ogni giorno – anzi, ogni minuto - che non sono altro che feccia, neanche feccia umana, feccia animale? E i soldati? Mandano qui ragazzi di diciotto o diciannove anni completamente ignoranti, grazie allo sfacelo totale del sistema scolastico degli anni Novanta. A cosa serviranno queste lezioni impartite nella primavera della loro vita? E gli ufficiali? Come potranno, dopo, tornare alle proprie famiglie e crescere i loro figli?

Non ci sono risposte. Come trovarle? Qual è l'origine "razionale" del caos in atto in Cecenia che sta distruggendo l'intero paese?


Solo per una birra

Sultan Khajev, il giovane primario zoppo dell'ospedale n. 9 di Grozny, l'unico che funzioni dall'inizio della guerra, si appoggia pesantemente al bastone per riuscire a muoversi e scostare la coperta dal paziente del letto sotto la finestra, nella stanza n. 1.

Lì giace un corpo di donna, creatura divina celebrata da pittori e poeti di tutte le epoche e di tutti i paesi. Ma quel corpo sembra essere stato svuotato come un pollo e poi ricucito.

È una visione insostenibile. I chirurghi hanno aperto questa donna dal petto al pube. Le linee tracciate dal bisturi non sono dritte: si ramificano come un albero genealogico reale. A tratti, i punti di sutura hanno ceduto lasciando emergere piaghe purulente..

Al suo fianco sta un'infermiera. È abituata ai pazienti degli ospedali militari, non prende alcuna precauzione particolare: con l'aiuto di una lunga pinza metallica, spinge compresse di garza nelle piaghe lacerate come fossero cavità insensibili, come se intervenisse su un pezzo di legno anziché su un corpo umano.

"Devo farlo", borbotta l'infermiera. "È solo garza imbevuta di medicamento. Ti farà bene."

La donna martoriata si chiama Aisha. Non piange nemmeno quando l'infermiera le spinge la pinza nel corpo. Gli occhi di Aisha sono pieni d'indifferenza per se stessa e per il mondo.

"Non sento niente." Muove le labbra grigie cercando di parlare e, allo stesso tempo, tenta di fermare le gocce di sudore che le rigano il volto scivolando giù dai capelli rosso scuro. Ha enormi difficoltà. I movimenti delle labbra non corrispondono alle parole che vorrebbe pronunciare. L'impressione è quella di vedere un film straniero doppiato da un'attrice che non rispetta i ritmi del parlato.

"Mi hanno sparato", prova a spiegare Aisha con estremo sforzo, dopo aver perso brevemente conoscenza. "A bruciapelo."

"Dio mio! Ma perché?"

Ancora una volta, cerco di capire. Di nuovo, l'irrazionale prende il sopravvento.

"Per una birra!"

Due settimane prima, un giovane soldato russo originario di un villaggio della regione di Riazan, Oleg Kuzmin, in servizio da nove mesi, aveva fatto sedere davanti a sé, sul letto, una donna di Grozny di sessantadue anni, Aisha Suleimanov, e le aveva sparato a bruciapelo cinque pallottole calibro 5.45, vietate da tutte le convenzioni internazionali. Si tratta di pallottole dal baricentro decentrato, assolutamente disumane: attraversano il corpo con traiettorie bizzarre facendo esplodere gli organi al loro passaggio. Ecco cos'è successo ad Aisha, a casa sua, in un sobborgo di Grozny chiamato Michurin.

Suo figlio, adulto, le sta accanto all'ospedale. Non si è rasato da alcuni giorni. Significa che recentemente c'è stato un funerale in famiglia. Mi guarda freddamente, come da una grande distanza. Mi odia e non lo nasconde.

Di quando in quando sembra che abbia voglia di parlare. Ma, con una smorfia di disgusto, si ferma alla prima mezza parola:

"Non tocca a voi avere pietà di noi... Non a voi!". Un urlo muto e disperato che sembra inghiottire tutta la stanza in una specie di vortice: "Non a voi! Non a voi!".

Noi siamo noi, i russi.

Il figlio di Aisha stringe così forte la sbarra di ferro opaco del letto d'ospedale che le ossa sporgenti delle sue falangi diventano bianche. "Non a voi!"

"E a chi, allora?"

Non sente la mia domanda muta... Non vuole? Piuttosto, non può.

La guerra mette alla prova le persone senza chiedere loro il permesso: affina l'udito degli uni e rende sordi gli altri.

Ma, grazie a Dio, Aisha ha voglia di parlare: ha bisogno di condividere la sua sofferenza, e così facendo di alleggerirla un po', questa sofferenza immeritata, incomprensibile e quindi ancora più pesante da sopportare.

"Eravamo già coricati... A un tratto, alle due del mattino, credo, bussano alla porta. Qualcuno che bussa alla porta, a quell'ora, con il coprifuoco, non significa niente di buono. Ma siamo costretti ad aprire, sennò si rischia grosso. Perciò mio marito e io abbiamo aperto. Sulla porta ci sono due soldati. Dicono: 'Dateci una birra!'. Gli rispondo: 'Non vendiamo birra'. Insistono: 'Vai, portaci un po' di birra!'. Allora dico: 'Da noi non c'è birra, le nostre leggi lo proibiscono'. Rispondono: 'Bene, nonna', e se ne vanno. Noi siamo tornati a letto."

Aisha si sente male. Le sue labbra non sono più grigie ma blu, rigate di nero. Si tormenta il collo, come se avesse una crisi di asma. Ma è un'ondata di lacrime che la sommerge.

Dietro di me risuona la voce del dottor Khajev:

"Non sarebbe meglio smettere? Andiamo nella stanza accanto".

"Per favore, no...", Aisha alza la testa dal cuscino e ci chiede di rimanere; Ha bisogno di parlare e spiega perché: "I russi non vengono mai qui e io voglio che sappiano... Che abbiano pietà di noi. Perché ci fanno questo? Perché?".

Aisha ha sessantadue anni. Ha vissuto quasi tutta la sua vita in Unione Sovietica e, nonostante la deportazione sotto Stalin e gli anni duri che erano seguiti, si considerava ormai una cittadina di quello stesso stato che ha scatenato una guerra contro di lei e i suoi cari. Cerca senza riuscirci; come tanti altri anziani ceceni, di capire perché un soldato del suo stesso paese abbia tentato di uccidere lei e la sua famiglia.

"Perché?", ripete trattenendo i singhiozzi. Le ferite infette le fanno troppo male. Aisha afferra la spalla di suo figlio per appoggiarsi e prosegue:

"Poi siamo tornati a letto... Più o meno un'ora dopo, mi sono svegliata con quei due soldati che andavano da una stanza all'altra. Frugavano ovunque. Perquisivano. Ci hanno detto: 'Stavolta siamo venuti per una zaciska'. Ho subito capito che ci volevano punire perché avevamo rifiutato di dar loro la birra e mi sono pentita di non aver loro proposto dei soldi in cambio. I soldati hanno frugato la piccola farmacia – mio marito era asmatico – pensando forse di trovarvi qualche droga. Invano... Poi uno di loro è andato nella stanza dove dormivano i nostri nipotini: quattro mesi, un anno e mezzo e cinque anni. Ho avuto paura che violentassero mia nuora davanti ai bambini, perché li ho sentiti urlare. L'altro soldato ha ordinato a mio marito di seguirlo in cucina. Abas aveva ottantasei anni. Sento che gli propone dei soldi perché se ne vadano tutti e due. E poi, a un tratto, un urlo. Il soldato aveva ammazzato mio marito con una coltellata. Uscito dalla cucina, mi ha portato in camera, ero pietrificata. Capisco tutto ma non riesco a opporre resistenza. Con un tono dolce e indicandomi il letto con la mano, mi dice: 'Siediti lì, nonnina, chiacchieriamo un po'. E si è seduto di fronte a me. 'Non siamo degli scellerati, siamo OMON, è il nostro lavoro', e i bambini continuavano a piangere dall'altra parte del muro... Gli ho :detto: 'Non fare paura ai bambini'. 'Non si preoccupi', mi ha risposto con voce soave. E con queste parole, senza alzarsi dalla sedia, mi spara addosso. Mia nuora mi ha raccontato che, dopo, hanno chiuso la porta piano piano e sono andati via".

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Pagina 40

Ma torniamo alla storia di Malika, vittima dell'orgia sanguinaria organizzata da quei banditi a Grozny. Malika giace immobile sul letto, al pronto soccorso dell'ospedale n° 9. L'oltraggio alle donne del palazzo era durato fino alle cinque del mattino; a Grozny, chiunque sa che i predatori lasciano il luogo del delitto all'alba, appena prima della fine del coprifuoco, per non incontrare testimoni.

"Guardi le cifre", dicono i medici, "e capirà qual è il livello di delinquenza a Grozny. Le basti questo! In quattro mesi, abbiamo ricevuto in ospedale 267 persone ferite da spari ed esplosioni, di cui la maggior parte vittime della delinquenza notturna."

Una visita in questo ospedale permette di capire e di sapere quello che succede a Grozny. È qui che finiscono tutti i drammi della capitale cecena. Mentre le autorità parlano di "costruire la pace" in Cecenia (cosa che permette loro di riempirsi le tasche), militari associati a banditi continuano ad ammazzare e a martirizzare la popolazione. Ma cerchiamo di essere concreti. Chi è che terrorizza i cittadini con la copertura del coprifuoco?

Giunta al suo terzo anno, la guerra ha partorito un'idra mostruosa: le brigate criminali russo-cecene. Queste brigate riuniscono militari, o ex militari russi, e ceceni, ex della resistenza o altro, quasi a dimostrare che il conflitto non ha alcun fondamento morale. Queste bande, che saccheggiano e uccidono, violentano e torturano, se ne fregano altamente delle controversie ideologiche, religiose e nazionali tra Russia e Cecenia di cui, invece, si nutrono politici e politologi di Mosca. In questo "ambiente" davvero internazionale (che non ha niente a che vedere con il presunto terrorismo internazionale), conta solo il saccheggio e la razzia. Questo "ambiente" è molto più potente degli stati maggiori dell'esercito o della milizia, incapaci di fermare il sanguinario rullo compressore. È chiaro che gli appetiti di queste formazioni di delinquenti di nuovo genere non si limitano alla popolazione esangue, sarebbe ridicolo per gente così "seria". Altre attività sono molto più fruttuose. Queste brigate garantiscono la "sicurezza" dei distributori illegali di petrolio, fanno la guardia ai derricks e ai punti in cui gli oleodotti sono stati perforati per rubare l'oro nero, eseguono omicidi su commissione, azioni di intimidazione, infine controllano il racket dei mercati laddove quello esercitato dai militari non sia abbastanza efficace, sempre che non se ne occupino insieme. Anche il controllo delle piazze sul mercato petrolifero illegale, vicino al centro del distretto Kurchaloi (che esisteva già prima dell'inizio di questa guerra), è una fonte di guadagno particolarmente curata. Naturalmente queste bande ne controllano solo una parte, l'altra è in mano ai militari di stanza nella zona.

Tutte le persone coinvolte in questo business militar-criminale ceceno si intendono a meraviglia: ognuno vi trova il proprio tornaconto: Anche se il conflitto si concludesse (così come annunciato da Mosca per motivi di opportunità), queste brigate non metterebbero fine alla loro guerra "commerciale" e troverebbero il modo di dimostrare la necessità che le "azioni militari" proseguano. Del resto, perché dovrebbero cercare altri modi di guadagnare soldi quando gli affari stanno andando così bene?

I membri russi di queste brigate non sono reclutati solo tra coloro che hanno già finito il servizio militare in Cecenia e sono ormai riservisti. Tra loro ho personalmente incontrato soldati e ufficiali delle forze federali di stanza in Cecenia, doppiolavoristi e sono contemporaneamente (o di volta in volta) guardiani dell'ordine costituito e saccheggiatori. Gente che non smette di voler dimostrare che la situazione in Cecenia è instabile e che è indispensabile proseguire con la "operazione antiterrorismo":

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Una nazione di paria

Saluto Khajev, il medico zoppo. Hanno già trasportato Malika in sala operatoria e Khajev mi accompagna verso l'uscita. Mi sento vuota e triste. Anche il dottore sembra vuoto e triste. In Cecenia ci si abitua alla depressione che regna sovrana, raramente si sente qualcuno ridere e si è persa, ormai, l'abitudine di ridere di se tessi.

"Siamo una nazione di paria. E anche chi ci appoggia diventa un paria." Il medico dice ad alta voce quello che sto pensando. Sembra volersi giustificare, anche questo è un comportamento nuovo. I ceceni si sentono in dovere di giustificarsi per qualsiasi cosa. "Non si preoccupi, non è niente. C'è di peggio", aggiunge saggiamente Khajev.

"Certo. Ma ho dimenticato di chiederle: cosa le è successo? Come mai zoppica? Una vecchia ferita?"

"No", sorride il dottore. "È per lo stesso motivo che le ho accennato prima. Perché sono un paria."

Mi racconta che a mezzogiorno del 12 giugno 2001, giorno di festa nazionale, la sua macchina è stata investita da un blindato russo assegnato al comando militare del distretto "Lenin" di Grozny.

"Intralciava la circolazione? Si era rifiutato di lasciare passare il blindato?"

"Niente affatto. È il blindato che ha attraversato l'incrocio a tutta velocità... Forse dovevo stare più attento... Ma in realtà, non ho neanche avuto il tempo di vederlo. La mia piccola Jiguli è stata ridotta in polvere, non è rimasto altro che la targa posteriore e il cofano del portabagagli. È un miracolo che io sia vivo. Sono stato operato qui, dai nostri medici."

"Conosce il numero di targa di quel blindato? È stata aperta un'inchiesta?"

"Sì, conosco il numero e l'inchiesta è stata aperta. Ma è solo una formalità. Nessuno ha intenzione di denunciare l'autista."

"Perché?"

"Perché sono ceceno. E la Cecenia è una zona in cui alcuni hanno tutti i diritti e gli altri si devono rassegnare."

Ecco la risposta alla domanda più importante: quali sono gli obiettivi della Russia in Cecenia? E cosa si aspetta dai ceceni e dagi altri abitanti della Cecenia?

La Russia neosovietica plasmata dalla macchina statale putiniana ha deciso di creare sul proprio territorio un'enclave di assenza di diritti civili. Possiamo anche chiamarla zona di residenza, o ghetto per ceceni.

È fondamentale capire questo punto. Il paese, che ha vissuto settant'anni sotto il socialismo e ballato il valzer democratico per una decina d'anni, è pronto a ritornare, per una nuova tappa della sua storia, alla brutta tradizione dell'epoca zarista.

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In realtà l'Occidente non si prende la briga di riflettere sul prezzo del "fenomeno Putin": sui diritti dell'uomo in Cecenia, che fanno parte di questo prezzo, sulla giustizia sommaria diventata la norma, sulla possibilità dell'esistenza di un ghetto nell'Europa del ventunesimo secolo.

Perché? Non lo so davvero. Per decenni il mondo occidentale si è proclamato difensore dei diritti umani. A un tratto, dalla fine del ventesimo secolo, l'Occidente ha adottato un doppio standard: esistono i diritti dell'uomo canonici e inalienabili per un utilizzo interno, occidentale, e altri diritti più labili, quasi inesistenti, per gli ex sovietici, ivi compresi i ceceni oppressi dal pesante arbitrio dei militari.

Come faccio a dirlo? È semplice. Non vedo ancora tra i leader del G7 un presidente o un primo ministro che cerchi di cambiare la situazione! Non vedo nessuno uscire dai ranghi e dire: "Diamo un ultimatum a Putin: o mette ordine in Cecenia e riprende il controllo del suo esercito, o non possiamo più essere amici!".

Non lo fa nessuno. E ciò va benissimo al capo di stato russo, lo aiuta a preservare il suo potere personale. Ma attenzione, non bisogna confondere quel potere con tutta la Russia. Mentre l'America, l'Europa e il nostro presidente sono così contenti gli uni degli altri, la Russia bella, intellettuale, potente, paga anch'essa il prezzo del "fenomeno Putin".

Ognuno ha il diritto di pensare ciò che vuole della globalizzazione, dove gli interessi generali trionfano sugli interessi privati. È in questi termini che vedo l'amore tra Europa, Stati Uniti e Putin. Ma mi si drizzano i capelli sulla testa quando penso che questo "amore" non ha un controvalore. Perché io ricordo le facce di persone che ho conosciuto e che sono morte da martiri in Cecenia. Morti in nome di quest'intesa globale fondata sul sangue degli altri. Ricordo Aisha crivellata di pallottole vietate, le ciocche di capelli strappati dalla testa di Malika e la tomba di Vakha che aveva provato a proteggere gli abitanti del suo villaggio di Tovzeni.

E mi sento come un animale braccato.

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Consigli di sopravvivenza

Poco a poco, verso metà novembre, ritrovai la capacità di percepire la realtà. In quel periodo incontrai un "vecchio" amico dei miei figli, Il'ja Lyssak, musicista nell'orchestra del Nord-Ost che era stato uno degli ostaggi. Avevamo deciso di incontrarci per una conversazione in tutta franchezza. A dire il vero, quando il 25 ottobre 2002 avevo accettato di entrare nel teatro occupato dai terroristi, avevo pensato soprattutto a Lyssak, che conoscevo fin da piccolo. Speravo che avrei potuto essergli d'aiuto. Ma alla luce di quanto succedeva in quel posto, mi ero rapidamente resa conto che era impossibile salvare qualcuno per amicizia, privando magari gli altri di una possibilità.

Riporto il nostro dialogo:

"In seguito a questa azione terroristica, la Duma ha votato una legge che limita le possibilità della società civile di influenzare i terroristi durante un sequestro. È impossibile, ormai, condurre una trattativa con i terroristi. È vietato scambiare gli ostaggi. E naturalmente è vietato riottenerli pagando un riscatto. Che ne pensi tu che hai vissuto gli ultimi avvenimenti; quelli dal 23 al 26 ottobre, non su una poltrona da deputato della Duma ma nel ruolo di ostaggio?".

"Non avere contatti con gli ostaggi, non poter parlare loro, è una pessima soluzione. I momenti più duri per noi erano quelli in cui eravamo tagliati fuori dal mondo esterno. Invece avevamo un bisogno folle di sentire della solidarietà. Credo che le autorità abbiano scelto la via facile. Hanno dimostrato che erano incapaci di condurre trattative, e ora dimostrano che non vogliono neanche imparare. Fabbricano i terroristi della Cecenia con le loro stesse mani, la Duma non vota per protestare contro questo stato di cose e nello stesso tempo il potere non ha voglia di imparare a padroneggiare situazioni di sequestro. Un gioco magnifico, dove l'unico bersaglio è la popolazione civile!"

"Forse è meglio che impariamo a sbrogliarcela da soli. Che lezione hai tratto tu personalmente da questa tragedia? Come ci si deve comportare se si viene presi in ostaggio?"

"La cosa essenziale è controllare tutti i movimenti e mantenere la calma. Io cercavo di analizzare tutte le varianti possibili. Seduto al mio posto, studiavo le varie eventualità: quanto tempo ci vuole per correre fino alla porta, qual è il posto più sicuro in caso di attacco. Dovevo tenere presente le possibili reazioni di quelli seduti vicino a me. Con un mio vicino, analizzavamo la psicologia dei terroristi: quello si sarebbe fatto esplodere subito, quell'altro era un po' più lento, e la terrorista che ci controllava avrebbe potuto avere una reazione sconsiderata. Per me personalmente l'importante era controllarmi, vista la mia indole riscosa. Certe volte i boieviki si distraevano, e teoricamente avremmo potuto dar loro una botta in testa e impadronirci delle armi. Ma le conseguenze avrebbero potuto essere drammatiche, così tenevo a bada i miei impulsi."

"Quanto tempo avreste sopportato ancora di rimanere seduti in quel teatro ad aspettare non si sa che?"

"Credo un paio di giorni al massimo. Poi la gente avrebbe detto: 'Sparateci e andate al diavolo!', e avrebbe cominciato ad alzarsi senza osservare più nessuna precauzione. Io avrei certamente cercato di approfittare della situazione per impadronirmi di un'arma e tentare una sortita..."

"È bene che gli ostaggi parlino ai terroristi, o assolutamente no?"

"È meglio parlargli. Quando ti rivolgi alla persona che ha intenzione di nuocerti, hai una chance di cambiare qualcosa. Nella nostra zona di sala avevamo parlato con i ceceni. Avevo l'impressone che, almeno durante la conversazione, arrivassimo a calmare la loro aggressività. Mi chiedevo se queste persone così risolute a commettere un crimine fossero altrettanto capaci di fare marcia indietro. Del resto ci sono stati casi in cui i terroristi, dopo lunghe e difficili trattative, si sono arresi... Succede. Non bisogna assolutamente impedire i contatti, in nessun caso!"

"Però hanno sparato alla prima vittima, una giovane donna, proprio perché lei si era rivolta ai terroristi! Era un'esecuzione dimostrativa, per dare un esempio agli altri ostaggi?"

"No, l'hanno semplicemente portata fuori e fucilata. Le porte erano tutte chiuse tranne una, vicino a dove ero seduto io. Ho visto tutto ciò che il resto della sala non ha visto. La ragazza aveva un comportamento impossibile, cercava la morte, l'hanno visto tutti. Era totalmente ubriaca e umiliava i terroristi: 'Cos'è questa pagliacciata? Cosa vai farneticando tu? Pensi di farmi paura con quel fucile e quella maschera?'. Allora uno di loro ha detto: 'Fucilatela'. L'ho sentito. Lei ha detto: 'Avanti, portami fuori. Forza!'. La gente intorno supplicava: 'No, vi prego..:', ma loro l'hanno spinta avanti, le hanno fatto superare la porta e le hanno sparato con un kalashnikov. Era la prima esecuzione che vedevo in vita mia. Ovviamente, a partire da quel momento abbiamo capito con chi avevamo a che fare. Prima di questo episodio pensavamo che ci potesse essere una via d'uscita pacifica."

"Era possibile scappare, in quella situazione?"

"Non credo che sarebbe stato giusto farlo. Due ragazze sono riuscite a scappare dalla toilette, ma la cosa ha causato agli altri parecchi problemi. Sasa, il nostro tecnico, ha avuto più volte l'occasione di fuggire, ma ha evitato di farlo perché sapeva le ripercussioni che la sua fuga avrebbe avuto sugli altri."

"Come mai ha avuto queste possibilità di fuga?"

"I terroristi non riuscivano assolutamente a orientarsi all'interno del teatro. È un errore credere che la loro azione fosse stata preparata con cura: Non avevano neanche la pianta dell'edificio! Non sapevano, per esempio, dove si trovassero i pannelli di controllo dell'illuminazione e come azionarli. Hanno preso Sasa perché li accompagnasse. Li ha condotti in certi punti dove gli sarebbe bastato fare due passi nell'oscurità per riacquistare la libertà, ma la gente rimasta in sala ne avrebbe potuto soffrire."

"Vuoi dire che la salvezza individuale è egoista, che bisogna fare gioco di squadra?"

"Bisogna sopravvivere insieme. La cosa più orribile in questa situazione è restare soli. La prima mattina un uomo ha tirato fuori un panino da un tovagliolino e l'ha mangiato, e una terrorista ha detto ad alta voce: 'Guardate, si è mangiato il panino senza spartirlo...'. Allora un'altra donna ha tirato fuori dalla borsa una tavoletta di cioccolato e l'ha divisa in pezzetti per i suoi vicini, avevano tutti fame. Se le persone si trovano in una stessa situazione, devono condividerla."

"C'è qualcuno che ha cercato di mettersi d'accordo con i terroristi a titolo individuale?"

"Sì. Posso parlare solo di quelli che si trovavano nel mio campo visivo. Non potevamo guardare la sala; non potevamo girare la testa. Un uzbeko si è avvicinato a un terrorista e gli ha detto: 'Siamo musulmani tutti e due, siamo fratelli'. Il terrorista gli ha puntato l'arma contro e gli ha detto: 'Siediti al tuo posto, fratello'. Si è avvicinato un altro: 'Lasciami andare via. Sono musulmano, ho una famiglia, dei bambini'. E il terrorista gli ha risposto: 'Se sei musulmano, recita una preghiera'. Ora, questo tipo viveva a Mosca e non conosceva nessuna preghiera. Quindi respinto anche lui. In seguito l'ho rincontrato in ospedale e mi ha detto: 'Se l'avessi saputo, avrei imparato due o tre preghiere'. C'era anche un uomo, molto chic, catena d'oro e anelli alle dita. Propose loro del denaro, e una terrorista gli disse: 'Accanto a te c'è una donna, e non ha denaro. Perché dovrei rilasciare te e non lei?'. E non è stato liberato."

"E le donne? Non hanno chiesto di lasciarle andare via?"

"Le donne piangevano e supplicavano di lasciar andare via i bambini, ma non hanno chiesto niente per loro stesse.

"ual è stato il momento più difficile?"

"All'inizio. Poi ho cominciato ad adattarmi e a osservare chi era chi, ad analizzare il comportamento dei boieviki."

"Gli altri facevano lo stesso?"

"Non tutti. Ero seduto vicino a uno dei nostri tecnici: ha dormito quasi tutto il tempo durante questi tre giorni. Era la sua reazione. È lo stesso tipo a cui i ceceni hanno reso mille dollari. L'hanno arrestato in un piccolo locale al di sopra delle scene, da dove controllava l'illuminazione. Prima gli hanno levato soldi e telefonino, poi glieli hanno resi."

"Perché rendere tutto se avevano l'intenzione di morire?"

"Non lo so. E perché portare le maschere per tre giorni di seguito, se avevano l'intenzione di morire? Una terrorista ci ha detto che a casa aveva lasciato un bambino di un anno e che non era venuta qui per morire, ma per ottenere 'la liberazione della sua terra'. Molte cose sono poco chiare... Guardando la sala, la gente elegante, la scena, quella donna ha detto: 'Vi divertite, qui. Da noi è otto anni che non abbiamo cose del genere'. Il secondo giorno, il capo è andato in balconata e vi ha trovato un generale del MVD. Si è messo a gridare, allora, facendosi sentire da tutta la sala: 'Guardate un po' chi c'è! Un generale di stato maggiore! Ho sognato tutta la vita di catturare un generale'. Era euforico, era una gioia enorme per lui. I ceceni hanno messo il generale e la sua famiglia da un'altra parte, sotto sorveglianza speciale."

"È sopravvissuto, questo generale?"

"Sì. E anche sua moglie e suo figlio, mentre la figlia è morta. Erano in quattro a vedere lo spettacolo. Uno dei miei amici si è ritrovato con il generale all'ospedale n. 13. Della nostra orchestra, è morta una persona su tre. Due clarinettiste, una violinista, un trombettista, due violoncellisti, un flautista e un tamburo. Tutti morti a causa del gas. Erano tutti bravi musicisti. È talmente difficile formare un bravo musicista... Bisogna vivere in un ambiente che ti sostiene, e poi studiare molto e lavorare enormemente, fin dall'infanzia."

"Erano tutti giovani?''

"No. Fëdor Ivanovic, il trombettista, aveva una certa età. E uno dei clarinettisti, Sergej Pavlovic, anche. Il trombone, Misa, è uscito dall'ospedale e il giorno dopo ha avuto un attacco cardiaco."

"Lo capisci perché questa gente è stata sacrificata?"

"No. Li ha uccisi il gas. Non sono morti in sala, ma dopo. Non avevano alcun rapporto con la guerra in Cecenia, non hanno mai avuto armi tra le mani. Io, per esempio, detesto qualsiasi arma, da fuoco o meno. Le armi non sono una soluzione. Chissà se uno diventa musicista perché è incapace di fare la guerra..."

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Che vergogna! Sono tutti una manica di ipocriti. L'idea secondo cui al processo l'avvocato Trunov non dovrebbe difendere gli interessi dei suoi clienti ma quelli delle autorità, obbedendo alla loro volontà, viene evocata pubblicamente. La società commette di nuovo un errore tragico e totalmente immorale rifiutando, una volta di più, di riflettere. Ha già fatto lo stesso errore in Cecenia, ignorando la situazione reale che vi regna dall'inizio della seconda guerra. La maggior parte degli abitanti della Cecenia si sente in un vicolo cieco. Quando dei figli, dei padri, dei fratelli vengono portati verso una destinazione sconosciuta senza che si sappia perché, le autorità militari e civili dicono alle loro famiglie: "Basta. Smettetela. Non li cercate più. Sono in gioco gli interessi supremi della lotta antiterrorista". E questi funzionari e militari scoppiano di rabbia quando le madri affrante esigono di sapere perché i loro figli sono stati uccisi.

Ma la nostra società è stata zitta. La schiacciante maggioranza guardava con indifferenza alla Cecenia, fino a che non è successo il fatto del Nord-Ost. Il potere ha applicato la stessa logica alle vittime dell'azione terrorista e alle loro famiglie. È come se avessero detto loro: "Smettetela. Dimenticate. Bisognava farlo. Gli interessi superiori hanno la precedenza sulle vostre vite individuali". Con le vittime del Nord-Ost, le autorità si sono comportale alla stessa maniera che nei confronti della popolazione cecena durante questi tre anni e mezzo di guerra, anche se qui, alla fine, hanno dovuto pagare delle indennità seppur irrisorie, dai cinquantamila ai centomila rubli. In Cecenia, ovviamente, di indennizzi non se ne parla.

E la società? E il popolo? In linea generale non ci sono slanci di compassione né proteste sociali che le autorità si sentano in dovere di prendere in considerazione. Al contrario, la società perversa reclama ancora una volta benessere e tranquillità al prezzo della vita altrui. Ed elude la tragedia del Nord-Ost preferendo credere al lavaggio del cervello di stato anziché alla parola di un vicino che è stato tenuto in ostaggio.

"Abbiamo paura. Ci hanno già fatto capire che può succederci di tutto, se insistiamo troppo. Abbiamo paura... Non per noi, per i nostri figli minori", mi dice Tatjana salutandomi.

Tutta la verità sta qua. È un condensato della nostra storia contemporanea. Eccola la nostra "democrazia", dove è vietato richiedere trenta milioni di rubli per la scomparsa di un essere umano. Ancora una volta nella storia russa, la nostra vita non vale niente.

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6. Perché non amo Putin


Chi ha scolpito la società russa nella sua forma attuale?

Lo scultore capo della Federazione russa, in questo inizio di ventunesimo secolo, è senza dubbio Vladimir Putin. E per quanto mi riguarda, non lo amo proprio per come ha scolpito questa Russia.

Vorrei essere capita bene: voglio cercare di spiegare perché io, normale cittadina, contribuente e giornalista, non amo il presidente del mio paese, visto che nel 2000 è stato eletto dalla schiacciante maggioranza dei miei concittadini e gode ancora oggi di un margine di popolarità molto elevato. Non ho niente di personale contro di lui, né lo conosco direttamente. Per me Putin è una funzione, non una persona. Riguardo a questa funzione ho delle esigenze molto semplici: un presidente deve operare per far diventare il suo paese migliore e più prospero. Ma da noi non è successo niente del genere. Moralmente, la Russia di Putin è ancora più sporca di quella di Eltsin, è una discarica di immondizia coperta di rovi.

I motivi sono molti, ma il principale è sicuramente la seconda guerra cecena in cui è invischiata tutta la società, Putin compreso. Dalle elezioni del 2000 a oggi, la guerra rimane la sua grande causa. In Russia, Putin e il suo popolo hanno dato la loro benedizione a qualcosa che nessun paese, che non sia totalitarista, può approvare: una corruzione fondata sul sangue, migliaia di vittime che non suscitano stupore né protesta, un esercito corroso dall'anarchia militare, uno spirito sciovinista in seno all'apparato di governo spacciato per patriottismo, una retorica sfrenata dello stato forte, un razzismo anticeceno ufficiale e popolare con metastasi che si estendono ad altri popoli della Russia.

Non amo Putin perché per sedersi sul trono e regnare da padrone (e continuare ad avere buoni sondaggi d'opinione) ha incoraggiato la cancrena morale della Russia.


Pericolosi giochi ideologici

Tutte le mattine, al giornale, ricevo della posta. Talvolta, come un attacco dì tachicardia o aritmia, queste lettere mi fanno dimenticare le preoccupazioni o cambiano il corso dei miei pensieri.

La lettera di cui voglio parlare porta il timbro postale di Mosca, 15 aprile 2002:

Buongiorno, le scrivo perché sono un suo fedele lettore e non so a chi altro rivolgermi. Il mio problema è che sono ceceno. Me l'ha spiegato un miliziano "tutore dell'ordine pubblico". Immagino che anche lei abbia i suoi problemi, spero tuttavia che possa aiutarmi.

Il 23 marzo scorso rientravo a casa alle dieci e mezzo di sera. Durante il tragitto, sono stato fermato da una pattuglia della milizia. Mi hanno chiesto i documenti. Erano in regola. Allora mi hanno perquisito, poi hanno preteso che mostrassi loro le mani perché, a quanto mi dissero, ero molto pallido (è il modo in cui molto spesso, per strada, la polizia diagnostica il consumo di droghe). Ma addosso non avevo niente.

A quel punto è cominciato tutto. Mi è stato ingiunto di spogliarmi. Naturalmente ho rifiutato, oltre tutto la temperatura era gelida. Allora due membri della pattuglia si sono messi a colpirmi sui reni con i manganelli gridando che bisognava fare fuori tutti i ceceni. A ogni colpo che mi dava, uno di loro diceva che era per vendicare i soldati russi morti in Cecenia.

Avrebbero finito per uccidermi, ma per fortuna è intervenuto un terzo miliziano, che a differenza degli altri due non era ubriaco. Ha detto qualcosa agli altri: mi hanno assestato ancora qualche colpo, poi hanno preso tutti i soldi che avevo e mi hanno mandato via con la minaccia che avrebbero di nuovo incrociato la mia strada.

Non posso neanche permettermi di aver paura di loro, perché le autorità sono tutte dalla loro parte. Dovunque mi rivolgo non trovo aiuto né consiglio.

Non posso darle il mio nome né il mio indirizzo. Pubblichi questa lettera, se possibile, e mi dia dei consigli su cosa fare: I milizíani hanno affermato di avere mille maniere per sbattermi in prigione. MI AIUTI!

A. Aslan, Mosca


Questa lettera, emblematica, mi aiuta a spiegare perché non amo Putin. In redazione, lettere del genere arrivano tutti i giorni.

Non amo il presidente del mio paese perché ha giocato (e continua a giocare) giochi ideologici pericolosi con il mio paese.

Il primo gioco, probabilmente il più pericoloso, porta il vecchio nome di razzismo. L'anonimo che si fa chiamare A. Aslan ne è la vittima. Non c'è dubbio che in Russia, paese perennemente occupato a trovare nemici interni responsabili di tutte le sue disgrazie, il gioco sia molto redditizio in termini di popolarità. È lo stesso meccanismo che spiega il recente picco di popolarità di Jean-Marie Le Pen in Francia. Sia qui che in Francia, si fa appello ai bassi istinti della folla.

Ma attenzione, non bisogna assolutamente pensare che Putin faccia discorsi razzisti. Niente del genere. Putin è furbo e abile, e ha un ricco bagaglio di esperienza maturata nel KGB. È difficile coglierlo in flagrante e accusarlo di razzismo. Un'abilità, questa, che consente a numerosi intellettuali russi di trovargli delle scusanti: non bisogna demonizzarlo, dicono.

In effetti Putin, in pubblico, ha un comportamento riservato e corretto, come si conviene a un uomo di Stato. Ma malgrado le sue parole compite, si comporta male. Questa combinazione di ipocrisia e memzogna spacciate per il loro contrario è tipicamente sovietica.

Il razzismo di Putin si manifesta per gradi in tutta la sua politica reale, e prima di tutto nella sua politica del genocidio, perpetrata in Cecenia. Poi nella sua politica sul resto del territorio russo al di fuori della Cecenia, dove ceceni e caucasici in genere vengono perseguitati, per strada, perché hanno la faccia sbagliata. Esattamente come racconta A. Aslan. Quindi a queste persone è molto difficile trovare un impiego e non hanno altra possibilità che lavorare in nero. Hanno difficoltà anche a iscriversi a scuola o all'università. Incontrano complicazioni enormi per affittare o comprare un appartamento fuori dalla Cecenia o dal Caucaso. Nessuno infatti ha voglia di affittare o vendere un appartamento a una famiglia cecena o caucasica, per timore di essere sospettato dalle autorità di "fornire appoggio" ai terroristi, con le immaginabili conseguenze.

Sebbene siano cittadini russi, A. Aslan e i suoi simili sono dei paria. Questa messa al bando della società risulta dalla volontà delle autorità, locali e superiori. E le autorità agiscono in totale impunità: se Putin non considerasse questi soprusi come la norma, molte teste sarebbero già cadute e molte poltrone si sarebbero liberate.

Ma niente del genere è successo. Dall'inizio della seconda guerra cecena, nessun funzionario o militare si è trovato a dover rispondere di azioni razziste o di mancato rispetto della Costituzione.

Ciò dimostra che la pratica razzista è autorizzata dai massimi vertici dello stato. Così la pensa il presidente russo, pertanto non c'è modo di punire nessuno. Altrimenti come spiegare che nessun tribunale prenda in esame le denunce delle vittime del razzismo? La Russia è fatta così: da noi dipende tutto dallo zar, dal capo, dal segretario generale, dall'autorità suprema.

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Come tutti i dittatori del ventesimo secolo, Putin gioca con i sentimenti più bassi del popolo. Non lo amo, perché immagino facilmente quale sarà la reazione di un adolescente russo dopo aver visto quel telefilm e sentito il discorso del presidente: si alzerà dal divano, pronto ad andare a combattere contro "loro". Ma cosa proverà l'adolescente ceceno? Un'intransigenza e un odio feroce verso di noi, non ha altra scelta se non è un infame. La stessa reazione si applica agli adulti. Ne concludo che Putin sponsorizza la guerra civile nel suo paese. È un crimine di stato mettere una contro l'altra le differenti componenti etniche di una stessa nazione, generando necessariamente separatismo, terrorismo ed estremismo, nonché violenza della peggior specie. La cosa è tanto più criminale in quanto Putin non agisce per stupidità ma per calcolo, con l'unico obiettivo di mantenere intatta la sua reputazione. In Europa il razzismo trova terreno fertile nelle categorie svantaggiate. In Russia, dove la maggiorarza della popolazione ha perso i suoi punti di riferimento ed è immersa nella miseria, il razzismo ha un'eco fantastica e ciò fa magnificamente al caso di Putin, aiutandolo a mantenersi su un trono al quale è giunto quasi per caso.

Questo gioco, questo sfruttamento del sentimento razzista, è cominciato con la guerra in Cecenia. A voler essere precisi, la guerra non sarebbe cominciata se l'ancora poco conosciuto tenente-colonnello Putin non avesse avuto bisogno di ampliare la sua quota di popolarità in vista delle elezioni presidenziali. Continuando questa guerra vergognosa dopo essere stato eletto, il presidente ha rinforzato la "fede" dei suoi partigiani, subito convinti che i ceceni, se non sterminati, dovevano almeno essere confinati in un ghetto circondato dall'esercito. Ma le conseguenze non si sono fermate lì. Il razzismo si è allargato a macchia d'olio tra coloro che erano in dubbio. Oggi la Russia di Putin produce ogni giorno nuovi appassionati di pogrom. Le aggressioni ai caucasici nei mercati della maggior parte delle nostre città fanno parte della routine quotidiana, e la televisione non parla che delle più sanguinose. Ma Putin non ferma né rallenta la macchina infernale che ha messo in moto, per la semplice ragione che deve ancora aggiudicarsi le elezioni presidenziali del 2004.

Il risultato di tutto ciò? La Russia conta oggi milioni e milioni di cittadini con opinioni razziste ben sedimentate. È una catastrofe planetaria, se consideriamo le dimensioni del nostro paese.

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Cosa siamo diventati dopo aver vissuto due anni interi sotto Putin? Che trasformazione abbiamo subito? E in che misura Putin stesso è cambiato, contemplando la docilità servile del suo paese dove di nuovo, come all'epoca sovietica, neanche gli istinti biologici resistono al dovere civico imposto dallo Stato? Alludo alle migliaia di madri di soldati che hanno perduto i figli in guerra e non osano, non si sognano nemmeno di levare la loro voce contro l'incessante ecatombe nel Caucaso del Nord. E che per giunta sono pronte a baciare la mano del responsabile dell'omicidio dei figli e ad assicurargli la loro perenne devozione.

Da nome proprio, Putin è diventato un nome comune. È diventato il simbolo della restaurazione di un regime neosovietico in Russia.

E noi? Noi siamo il suo popolo. Assicuriamo questa restaurazione. Siamo un popolo di tovarich, di "compagni" che per un certo periodo si sono considerati gospoda, "signori", e che ora desiderano tornare alla situazione di prima. Non abbiamo cambiato, mettendoci sotto la bandiera di Putin, siamo solo tornati a casa. Questa è la cosa principale. Non c'è stata alcuna metamorfosi, abbiamo semplicemente fatto marcia indietro verso il nostro recente passato sovietico. Putin si è limitato a sfiorare il nostro punto sensibile e noi, come tante rane di laboratorio, abbiamo reagito alla lieve scossa elettrica con un brivido collettivo.

Ma qual è questo "punto sensibile"?

È il nostro servilismo, uno stato che ci è caro. Come è noto, alla fine del periodo eltsiniano la maggior parte dei cittadini russi ripensava all'epoca sovietica come a un periodo felice. Ricordavano l'URSS come un gigantesco impero che faceva paura a tutto il mondo, dove la popolazione era sicura del domani. Non sapendo come gestire il nuovo corso economico, la maggioranza della gente, invece di rimboccarsi le maniche e mettersi a costruire una società democratica, era divenuta nostalgica di quella comoda epoca dove non eravamo responsabili di quasi niente, dove quasi non lavoravamo ma avevamo comunque pane e salame assicurato: una nostalgia battezzata "salame da due rubli e venti", dal nome dell'indigesto prodotto dell'epoca sovietica alla portata di tutti.

Se pensate che Putin abbia genialmente percepito i desideri della folla e vi si sia appoggiato per costruire la sua politica sciovinista dello stato forte, vi sbagliate di grosso. Non è un genio, è fatto della stessa pasta della nostra folla, che è insieme filosovietica e postsovietica, ed è proprio da qui che nascono i nostri problemi attuali. Anzi, la folla lo apprezza proprio perché fa corpo con lei. È lui stesso un "salame da due rubli e venti", sinceramente convinto che l'epoca sovietica sia stata la migliore e che bisognerebbe restaurarla. Era l'epoca in cui il KGB era all'apogeo del suo potere, tutti ne avevano paura senza precisamente sapere perché. L'epoca in cui si aveva una doppia vita e una tripla morale. L'epoca in cui il capo aveva una faccia per l'Occidente e una per il suo popolo. L'epoca in cui la potentissima macchina per il lavaggio dei cervelli funzionava giorno e notte sotto la direzione del partito. L'epoca in cui solo i cinici avevano una probabilità di successo.

A dire il vero, ho fatto un ritratto della Russia di oggi, di questo inizio di ventunesimo secolo. Il passato è tornato.

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