Autore Anna Politkovskaja
Titolo La Russia di Putin
EdizioneAdelphi, Milano, 2022 [2005], Gli Adelphi 639 , pag. 376, cop.fle., dim. 12,7x19,5x2,8 cm , Isbn 978-88-459-3692-0
OriginalePutin's Russia
EdizioneThe Harvill Press, London, 2004
TraduttoreClaudia Zonghetti
LettoreRenato di Stefano, 2022
Classe paesi: Russia , storia: Europa , storia criminale , guerra-pace












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO                       13

L'ESERCITO DEL MIO PAESE. E LE SUE MADRI             15

Storia prima. Il settimo ovvero U-729343.
    Dimenticato sul campo di battaglia               18
Storia seconda. I cinquantaquattro soldati
    ovvero si emigra verso casa                      35
Qualche altra storia                                 41

IL NOSTRO NUOVO MEDIOEVO OVVERO
CRIMINALI DI GUERRA DI TUTTE LE RUSSIE               49

Parte prima. Stalin sarà sempre con noi              52
    Dossier                                          52
    La preistoria del processo                       53
    Vladikavkaz                                      59
    Il processo                                      67

Parte seconda. Il precedente del colonnello Budanov  70
    Il caso                                          72
    Il processo                                      98
    Giocando con le perizie psichiatriche           111
    Una breve parentesi                             143
    E gli altri?                                    151

TANJA, MIŠA, LENA, RINAT... CHE COSA CI Č SUCCESSO? 157
    Tanja                                           159
    Miša e Lena                                     176
    Rinat                                           185

STORIE DI PROVINCIA OVVERO APPROPRIAZIONE
INDEBITA CON LA CONNIVENZA DELLO STATO              195
    Fedulev                                         198
    Come è cominciata                               201
    I tutori dell'ordine                            203
    Le guerre della vodka                           207
    Senza vergogna                                  212
    La ridistribuzione                              218
    Kackanar                                        222
    Il sistema giudiziario degli Urali
        è il più corrotto del mondo                 227
    Il migliore                                     229
    I cattivi                                       234
    I superbuoni                                    240
    Un particolare importante della procedura
        penale russa odierna                        242

ALTRE STORIE DI PROVINCIA                           255
    Parte prima. Il vecchio di Irkutsk              255
    Parte seconda. La Kamcatka e la lotta
        per la sopravvivenza                        259
        Il capitano Dikij                           259
    Parte terza. Vecchie signore e «nuovi russi»    278

« NORD-OST ». STORIA DI UN MASSACRO                 287
    Storia prima. Il quinto                         289
    Storia seconda. N. 2551 - Non identificato      302
    Storia terza. Siraždi, Jacha e i loro amici     318

AKAKIJ AKAKIEVIČ PUTIN II                           339

POST SCRIPTUM                                       357

DOPO BESLAN                                         361

Glossario a cura di Claudia Zonghetti               371


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

DI CHE COSA PARLA QUESTO LIBRO?



Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati.

A scanso di equivoci, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin - figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese - non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.

Questo libro spiega inoltre come noi, che in Russia ci viviamo, non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all'Europa e all'America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati - ma pur sempre calzari di tenente colonnello - di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi.

Questo libro, però, non è un'analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perché per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno.

Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

L'ESERCITO DEL MIO PAESE.
E LE SUE MADRI



L'esercito da noi è un luogo chiuso. Chiuso come una prigione. Anzi no, è una prigione, solo che la chiamano diversamente. Nell'esercito, come in prigione, nessuno mette piede se le autorità (militari o carcerarie) non vogliono. Di conseguenza la vita nell'esercito è una vita da schiavi.

Vero è che non siamo i soli: qualunque esercito mira alla clausura, alla segretezza, ed è forse per questo che si è autorizzati a parlare dei generali come di un'unica casta internazionale con comportamenti analoghi in ogni angolo del pianeta a prescindere dal capo di Stato che ogni singolo generale serve.

Tuttavia, l'esercito russo ha delle peculiarità tutte sue, o meglio ad averle è il rapporto fra l'esercito e la popolazione civile. In Russia, cioè, manca il benché minimo controllo della società civile sull'operato dei militari. I soldati semplici - lo scalino più basso della gerarchia - non sono nessuno. Al di là dei muri di cemento di una caserma, un ufficiale può fare a un soldato quello che vuole, quello che gli passa per la testa in un determinato momento. Analogamente, quello stesso ufficiale può trattare come più gli piace un collega di grado inferiore.

«Č davvero questa, la situazione?» immagino che vi starete chiedendo. E ancora: «Ma no, non può essere davvero così...».

Non è sempre così, no. Ma eventuali eccezioni si devono solo a singoli individui che danno prova di una pur vaga umanità e la dimostrano richiamando all'ordine i propri sottoposti. Solo in questo modo, in forma di singole eccezioni e non di una regola sociale, si può scorgere un barlume di luce in fondo al tunnel. Il sistema in sé è chiuso, ed è un sistema schiavista.

«Ma chi è al governo che fa?» mi chiederete. Il presidente non è anche, ex officio, il Comandante Supremo dell'esercito? E o non è responsabile in prima persona di quanto vi accade?

Per nostra sfortuna, quando si insediano al Cremlino i nostri leader (o presidenti che dir si vogliano) nulla fanno per mettere la parola fine a questo stato di cose, né per promulgare leggi che limitino l'anarchia dell'esercito. Sono più propensi al contrario, e cioè a concedere all'esercito poteri ancora maggiori sui sottoposti. Perché l'esercito osteggia o sostiene un capo di Stato a seconda della compiacenza che egli mostra nei suoi riguardi. Gli unici tentativi di dare un volto umano alle nostre Forze Armate furono fatti all'epoca di El'cin, nell'ambito di un programma che mirava a promuovere le libertà democratiche. Ma non durò: in Russia il potere in sé è cosa assai più preziosa delle vite dei soldati. Dunque anche El'cin dovette alzare bandiera bianca, cedendo alle pressioni di un indignato Stato Maggiore.

Putin non ci ha mai provato. Dirò di più: per definizione un presidente che sia un ex ufficiale è destinato a non provarci mai. Quando si delineò all'orizzonte politico russo in veste di probabile capo di Stato più che di impopolare direttore dell'universalmente inviso ex KGB (ora FSB), Putin esordì affermando che l'esercito screditato da El'cin (e intendeva con ciò gli esangui tentativi di porre un freno all'anarchia interna) sarebbe rinato a nuova vita. Quel che ci voleva per una rinascita completa e definitiva era una guerra, la seconda guerra cecena... La cronaca successiva degli eventi nel Caucaso Settentrionale è la conseguenza di questa premessa. Da quando è scoppiata la seconda guerra cecena, l'esercito ha avuto carta bianca, e il risultato più evidente è che alle elezioni presidenziali del 2000 ha votato all'unanimità per Putin.

Né c'è alcun dubbio che così abbia fatto anche nel 2004.

La guerra in atto è assai utile e redditizia per l'esercito, fonte di promozioni lampo e di un gran numero di medaglie, fucina di carriere fulminee per i giovani generali 'combattenti' che gettano le basi per future scalate politiche e finiscono catapultati nell'élite di Stato. Putin, intanto, martella il Paese con i suoi slogan: la rinascita dell'esercito è un dato di fatto e lui solo, Putin, ne è l'artefice perché ha rimesso in piedi un esercito umiliato (da El'cin) e offeso (nella prima guerra cecena).

Le storie che seguono mostreranno di quale 'sostegno' si sia trattato. A voi trarre le conclusioni, magari cercando di mettervi nei nostri panni. Vorreste vivere in un Paese in cui le tasse che pagate vanno a foraggiare una simile istituzione? Come vi sentireste con un figlio diciottenne precettato quale «materiale umano», come lo si definisce qui da noi? Che ne dite di un esercito da cui i soldati disertano in massa ogni settimana (e solo per avere salva la vita), talvolta in intere squadre o compagnie? Che cosa pensereste di Forze Armate che in un solo anno, il 2002, hanno perso più di cinquecento uomini - un intero battaglione - non in guerra, ma per le percosse subite? Un esercito in cui gli ufficiali rubano di tutto: ai soldati i dieci rubli mandati dai genitori, e allo Stato intere colonne di carri armati? In cui gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali? In cui questi ultimi sfogano sui soldati semplici l'odio che provano per i superiori? In cui ufficiali e sottufficiali sono accomunati dall'odio per le madri dei soldati, colpevoli di protestare occasionalmente - vivono nel terrore e lo fanno solo quando le circostanze di una morte sono troppo scandalose -- e di chiedere giustizia?...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 49

IL NOSTRO NUOVO MEDIOEVO
ovvero
CRIMINALI DI GUERRA DI TUTTE LE RUSSIE



Al momento in Russia ci sono due tipi di criminali di guerra. I loro misfatti hanno a che vedere con la seconda guerra cecena, iniziata nell'agosto del 1999 (con la nomina di Vladimir Putin a primo ministro da parte del presidente El'cin), durata per tutto il tempo del primo mandato presidenziale di Putin e tuttora in corso.

I crimini di guerra hanno una caratteristica comune: l'ideologia più che la giustizia. Inter armas silent leges, come si suol dire: in tempo di guerra la legge tace. I colpevoli non sono stati condannati secondo la procedura giuridica determinata dalle leggi, ma in base alle folate dei venti ideologici che spiravano dal Cremlino in quel dato momento.

Il primo tipo di criminali comprende coloro che in guerra ci sono effettivamente stati e hanno combattuto. Essi sono, da un lato, i militari russi che hanno partecipato alle cosiddette «operazioni antiterrorismo» in Cecenia, e dall'altro i guerriglieri ceceni sul fronte opposto. I primi hanno visto cancellati i propri misfatti. I secondi si vedono affibbiare ogni sorta di crimini. I primi vengono assolti dal sistema giudiziario anche in presenza di prove certe (e pure questo è un fatto raro, in quanto la procura si preoccupa raramente di raccogliere le prove della loro colpevolezza). I secondi ricevono condanne severissime.

Il caso 'russo' più noto è quello del colonnello Budanov, comandante del 160° reggimento carristi del ministero della Difesa russo, che il 26 marzo del 2000 (giorno in cui il presidente Putin fu eletto) rapì, stuprò e uccise El'za Kungaeva, diciottenne cecena che viveva con i genitori nel villaggio di Tangi-Ču, alla cui periferia era temporaneamente di stanza il reggimento del colonnello Budanov.

Il caso 'ceceno' più noto è quello di Salman Raduev. Celeberrimo comandante e generale di brigata responsabile di attacchi terroristici sin dalla prima guerra cecena, nonché a capo del cosiddetto «Esercito del generale Dudaev», Raduev venne catturato nel 2001 e condannato all'ergastolo; morì in circostanze mai chiarite nella prigione di massima sicurezza di Solikamsk (nota città 'penitenziaria' degli Urali, nella regione di Perm', dove si trovano delle miniere di salgemma; sin dai tempi degli zar è stata luogo di deportazione ed esilio per molte generazioni di russi). Raduev era il simbolo del guerriero indomito che combatte per l'indipendenza della Cecenia. Processi come il suo sono eccezioni, e di norma si svolgono a porte chiuse, così da non lasciar trapelare informazioni all'esterno (anche se il motivo di una tale scelta resta oscuro). Č capitato - anche se raramente, in segreto e con grande fatica - di poter visionare i materiali processuali contro i guerriglieri, ed è risultato che si trattava di processi ideologici 'al contrario': i crimini venivano ascritti senza curarsi di trovare le prove. «Condannare sempre e comunque», questo il principio da seguire.

La prima categoria di criminali di guerra, dunque, russi o ceceni che fossero, non ha mai avuto un processo degno di questo nome. E la conseguenza principale è che, emesso il verdetto, i combattenti ceceni non sopravvissero a lungo in colonie o prigioni lontane. Morirono tutti in circostanze poco chiare, «tolti di mezzo» per espresso desiderio del potere. Alcuni sondaggi sull'argomento hanno rivelato che il governo e il presidente sono ritenuti responsabili di tali morti anche da quella parte della popolazione che è loro favorevole: in Russia nessuno - o quasi - crede che la giustizia sia imparziale, e anzi la considera politicamente schierata.

La seconda categoria di criminali di guerra è costituita da coloro che erano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone finite tra gli ingranaggi della storia. Uomini e donne che non hanno mai combattuto, ma che sono nati ceceni e che perciò vanno condannati. Un caso tipico è quello di Islam Chasuchanov. Un caso che ci riporta al 1937, l' annus horribilis delle purghe staliniane. Č come se Stalin fosse ancora vivo e la Ceka ancora in forze: confessioni strappate a furia di botte, torture, uso di droghe psicotrope allo scopo di spezzare la volontà dell'imputato... Questo il calvario di buona parte dei ceceni finiti nelle celle dell'ex KGB o di altre istituzioni analoghe che in Cecenia hanno carta bianca, come i 'kadyroviani', un gruppo di sostenitori di Ahmat-Haci Kadyrov, capo del governo fantoccio filomoscovita, che torturano nei comandi militari, nelle fosse scavate nelle caserme, nelle celle di isolamento dei commissariati di polizia...

A capo di tutto c'è l'ex KGB. Gli uomini di Putin. Che godono del suo sostegno. Che esaudiscono ogni suo desiderio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 143

UNA BREVE PARENTESI



Nei tre anni del caso Budanov il comportamento delle donne russe mi ha lasciato, francamente, senza parole... Le donne sono più della metà dell'intera nostra popolazione, e almeno quella metà era tenuta a disprezzare gli stupratori.

Invece no.

Decine di milioni di uomini russi, inoltre, hanno figlie femmine. Una ragione sufficiente, a mio modo di vedere, per capire e comprendere, da genitori, il dolore della famiglia Kungaev.

E invece no.

La televisione ha trasmesso le interviste alla moglie di Budanov, che ha farfugliato qualcosa sul suo povero marito che doveva sopportare perizie e processi, e sulla loro povera figlioletta stanca di aspettare che il papà tornasse a casa. E il Paese si è schierato con lei, l'ha compatita. Mentre non ha compatito i Kungaev, che non l'avrebbero più vista tornare a casa, la loro El'za...

E chi più ne ha più ne metta. L'assoluzione medico-scientifica di Budanov (il fatto che fosse incapace di intendere e di volere nel brevissimo lasso di tempo in cui aveva commesso il crimine) e la circostanza che il reato di stupro fosse stato stralciato non hanno generato alcun moto di indignazione. Non c'è stata una sola dimostrazione di protesta organizzata dalle associazioni femminili e femministe. Non sono scesi in strada nemmeno gli attivisti per i diritti umani. La Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni... I rapimenti erano ammessi... Era ammesso infierire su un cadavere... E la conseguenza era che il criminale restava libero.

Viviamo in un Paese tremendo. Le gesta del colonnello Budanov sono la norma per la maggioranza schiacciante dei russi.

Č un'aberrazione che si riscontra in un Paese in cui l'impunità è divenuta legge. In cui sono tutti impazziti. Dal primo all'ultimo, dalle alte sfere ai bassi ranghi.


L'"assoluzione" cartacea del colonnello, nel 2002, diede il via libera a tutti coloro che avevano compiuto crimini di guerra in Cecenia barricandosi dietro il paravento della guerra e delle crudeltà perpetrate su entrambi i fronti. Per tutto il 2002 le epurazioni in Cecenia sono continuate su una scala e con una brutalità mai viste, accompagnate dalla voce monotona del giudice Kostin e dei suoi verdetti 'assolutori'. Interi villaggi sono stati circondati: le donne stuprate, gli uomini portati via. Molti vengono uccisi, molti altri spariscono senza lasciare traccia. La vendetta è assurta a giustificazione dell'omicidio commesso per una «giusta causa»; i pubblici ministeri, di fatto, sono riusciti a legalizzare il primato della vendetta sul diritto. La giustizia sommaria - occhio per occhio, dente per dente - è stata incoraggiata dal Cremlino stesso. Ci siamo dunque ritrovati nel Medioevo o in un bolscevismo a noi ideologicamente più vicino. Non eravamo dove credevamo di essere arrivati plaudendo a Gorbačëv e scendendo in piazza con El'cin, ma a metà strada tra Stalin e Brežnev. Il nostro cammino va a ritroso: dalla stagnazione di Brežnev verso il «tutto è permesso» di Stalin. Terribile... Terribile perché questa è la gente che ci governa e terribile perché siamo come siamo. O forse è questo il governo che ci meritiamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 155

Come già accaduto agli Stati Uniti del dopo-Vietnam, anche la Russia deve rispondere a una domanda: chi sono i soldati e gli ufficiali che ogni giorno, in Cecenia, uccidono, saccheggiano, torturano e stuprano? Sono criminali di guerra? O sono combattenti inflessibili e crudeli di una guerra globale al terrorismo internazionale in cui ogni mezzo è lecito e la salvezza del genere umano è il fine che giustifica i mezzi a cui si ricorre? E la posta ideologica in gioco in questa guerra moderna è talmente alta da indurre a ignorare ogni altra cosa?

Al momento la Russia non ha una risposta da dare.

Un occidentale risponderà, spero, che spetta al tribunale trovare le prove e mettere ogni cosa al suo posto.

L'uomo russo di oggi, l'uomo dell'era Putin, ha il cervello offuscato dalla propaganda, ma non ha ancora disimparato del tutto a pensare con la propria testa.

Oggi, con alle spalle i cinque anni dell'efferata seconda guerra cecena, il milione e più di soldati e ufficiali che l'hanno combattuta e la stanno ancora combattendo è avvelenato da quell'esperienza; e continua a esserlo anche dopo, a casa propria. Quei soldati e ufficiali sono diventati un serio problema per la vita di una società civile, un problema che non si può più eludere, a cominciare dalla domanda: ma per che cosa hanno combattuto?

Budanov e il massacro di Daj sono casi evidenti, tragici e drammatici, e hanno portato allo scoperto tutti i nostri problemi: la nostra vita ai margini della seconda guerra cecena, la nostra condotta irrazionale riguardo alla guerra e al governo Putin, il nostro modo di distinguere tra colpevoli e innocenti nel Caucaso Settentrionale e, soprattutto, i dolorosi cambiamenti che il nostro sistema giudiziario ha subito con Putin al governo e la guerra sullo sfondo. La riforma della giustizia che le forze democratiche hanno cercato di propugnare e che El'cin aveva fatto di tutto per promuovere è crollata sotto il peso del caso Budanov.

Ma è anche risorta... L'esempio del giudice Bakreev ne sia la dimostrazione più lampante. Come anche quello del procuratore Veršinin.

Tuttavia, prescindendo da singoli individui in grado di compiere nobili gesti, la Russia ha capito chiaramente di non avere un sistema giudiziario indipendente. Quel che abbiamo sono verdetti pilotati dalla politica e decisi dalla congiuntura del momento.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 157

TANJA, MIŠA, LENA, RINAT...
CHE COSA CI E SUCCESSO?



Ma cosa siamo diventati, tutti quanti? Noi ex cittadini dell'URSS? Noi che avevamo tutti, più o meno, un lavoro fisso e uno stipendio regolare, a scadenze definite, noi con la nostra fiducia sterminata e inflessibile nel presente e nel futuro? Noi che credevamo che i medici dovessero per forza curare e gli insegnanti insegnare? E senza che si sborsasse un soldo? Che vita è cominciata, per noi, quando tutto questo è scomparso? O ancora: quale destino incombe su di noi? Come ci siamo ridistribuiti nello spazio postsovietico dopo un triplo salto mortale?

Triplo, sì. E tengo a sottolinearlo. Il primo è stato quello della metamorfosi del singolo (parallela, è ovvio, a quella della società) con la caduta dell'URSS e con l'era El'cin, quando di colpo non avevamo più nulla, dall'ideologia al salame più scadente, dai soldi alla convinzione che al Cremlino ci fosse un «Grande Padre» che poteva anche essere un despota cattivo, ma che comunque si curava di noi.

Il secondo è stato quello della crisi del 1998. A partire dal 1991 - anno dell'inizio effettivo dell'economia di mercato in Russia - molti di noi erano riusciti a mettere da parte qualche soldo, e si era andata formando una classe media che poco aveva a che spartire con quella occidentale ma che tale restava, puntello della democrazia e del mercato. Da un giorno all'altro ci ritrovammo con un pugno di mosche a ricominciare tutto da capo. Molti, però, erano stanchi di combattere, e invece di risollevarsi finirono giù, sul fondo, per sempre.

Il terzo salto mortale, infine, è stato quello di, e con, Putin. Sullo sfondo la nuova tappa di un capitalismo dal volto neosovietico - un modello economico sui generis dell'era del secondo presidente russo, un ibrido bizzarro fra leggi di mercato, dogma ideologico e molto altro ancora. Gli ingredienti sono forti capitali, un'ideologia di taglio marcatamente sovietico posta al loro servizio, e un numero crescente di poveri. Fu subito chiaro, inoltre, che un vecchio ceto stava rinascendo a nuova vita: la nomenklatura, l'élite di governo, un anello fortissimo della catena di potere dell'era sovietica che stava marciando sui binari di un'economia a cui aveva saputo adattarsi in un batter d'occhio. I rappresentanti di questa nomenklatura hanno tutte le intenzioni di vivere nell'agio quanto i «nuovi russi», ma ufficialmente ricevono stipendi ridicoli. Non ritornerebbero mai indietro ai vecchi tempi sovietici, ma nemmeno i nuovi soddisfano del tutto il loro desiderio di ordine e legalità (che la società chiede con sempre maggior insistenza). Perciò perdono molto del proprio tempo ad aggirare la legalità e l'ordine costituito in favore del proprio arricchimento personale. La conseguenza è una rinascita assai rigogliosa della corruzione, che con la nuova vecchia nomenklatura putiniana ha raggiunto vette inattingibili per i comunisti o per El'cin e compagni, una corruzione che stritola le piccole e medie imprese (e la classe media con loro) e sostiene («fa fiorire», cioè predilige quali erogatori di tangenti) i grandi e i grandissimi gruppi e i monopoli paragovernativi, che sono quelli che portano alla Russia le entrate maggiori, le più stabili, e non solo ai manager e ai padroni del vapore, ma anche a chi, nello Stato, offre loro protezione (e in Russia non si fanno grossi affari senza sponsor nel governo). Sullo sfondo di tale e tanto sfacelo - che nulla ha a che spartire con il mercato - la nostra nuova «nomenklatura di partito» (hanno ricominciato a chiamarla così, come in epoca sovietica) è rosa da una forte nostalgia per l'URSS, per i suoi miti e i suoi fantasmi. Tenuto conto che Putin cerca di raccogliere attorno a sé e alla sua bandiera una pletora di 'ex' - dunque di gente con esperienza di governo in era sovietica -, il rimpianto è tale che l'ideologia al servizio del capitalismo putiniano rimanda sempre più marcatamente a quella dei peggiori anni della stagnazione brezneviana, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento.

Tanja, Miša, Lena, Maša, Saša, Tolja sono persone reali, non personaggi di fantasia. Č gente comune, gente che ha lottato per sopravvivere insieme al proprio Paese e che non sempre ce l'ha fatta. Niente cognomi. Erano (e sono) miei amici, persone che conoscevo (e che conosco), dunque se usassi nomi e cognomi non mi sentirei libera di dire fino in fondo ciò che penso. Mentre è quello che devo fare per capire che cosa è successo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 339

AKAKIJ AKAKIEVIČ PUTIN II



Ho riflettuto a lungo sul perché ce l'ho tanto con Putin. Che cosa me lo fa detestare al punto da dedicargli un libro? Non sono un suo oppositore politico, sono solo una cittadina russa. Una moscovita quarantacinquenne che ha potuto osservare l'Unione Sovietica all'apice della sua putrefazione comunista, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e non vuole ricascarci.

Mi sono prefissa di concludere il libro oggi, 6 maggio 2004. Domani sarà tutto finito. Non ci sono stati miracoli quali la contestazione delle elezioni del 14 marzo; l'opposizione ha accolto i risultati a testa bassa. Ragion per cui domani verrà varato il Putin bis, voluto dalla stragrande, folle maggioranza dei voti dei suoi concittadini (più del settanta per cento). Pur sfrondando la percentuale di un venti per cento di brogli, il risultato basterebbe comunque a garantirgli la presidenza.

Ancora poche ore, e il 7 maggio del 2004 Putin, tipico tenente colonnello del KGB sovietico con la forma mentis - angusta - e l'aspetto - scialbo - di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d'occhio i colleghi, quell'uomo vendicativo (alla cerimonia di insediamento non è stato invitato nessun rappresentante dell'opposizione o di qualunque partito che non sia in completa sintonia con il suo), quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l'Akakij Akakievič gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà a insediarsi sul trono. Sul trono di tutte le Russie.

Brežnev è stato pessimo. Andropov sanguinario sotto una patina di democrazia. Černenko un idiota. Gorbačëv non piaceva. El'cin ogni tanto ci costringeva a farci il segno della croce per timore delle conseguenze delle sue decisioni...

Questo è il risultato. Domani, 7 maggio, colui che è stato una loro guardia del corpo, assegnato allo scaglione 25 con il compito di starsene impalato nel cordone di sicurezza quando il corteo vip sfrecciava oltre, proprio lui, Akakij Akakievič Putin, incederà sul tappeto rosso della sala del trono del Cremlino. Da padrone. Tra lo scintillio degli ori degli zar appena tirati a lucido, mentre la servitù sorriderà sottomessa e i suoi sodali - tutti ex pesci piccoli del KGB assurti a ruoli di grande importanza - gonfieranno tronfi il petto.

Forse si sarà pavoneggiato a quel modo anche Lenin, quando nel 1918 mise piede nel Cremlino conquistato con la rivoluzione. La storia ufficiale (altre non ne abbiamo) ci dice che l'incedere era timido, ma potrei scommettere che la sua fosse pura insolenza: «Eccomi qui, modesto modesto. Pensavate che fossi una mezza tacca? E invece ho vinto, ho spezzato la Russia, l'ho costretta a inchinarsi a me...».

E anche il nostro segugio del KGB - una mezza tacca pure lui - incede allo stesso modo per il Cremlino. Intorno ai suoi passi aleggia un'aura di rivalsa.

Ma riavvolgiamo il nastro della storia.

[...]

Del resto il revanscismo sovietico seguito all'ascesa e al consolidamento del potere di Putin è lampante.

A renderlo possibile, però - e va detto -, non sono state solo la nostra negligenza, l'apatia e la stanchezza seguite a tante - troppe - rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano.

Il nostro ex KGBista non ha trovato inciampi sul suo cammino. Né in Occidente, né in un'opposizione seria all'interno del Paese.

[...]

Una breve parentesi. Non su Putin, ma su noi russi. I putiniani - quelli che l'hanno messo dov'è, che volevano che salisse al trono una prima volta, quelli che ora siedono nell'ufficio del presidente e di fatto guidano il Paese (non il governo, che esegue le volontà del presidente, e non il Parlamento, che ratifica le leggi che il presidente vuole) - seguono con grande attenzione le reazioni dell'opinione pubblica. Non è vero che se ne infischiano. E ciò significa una cosa importantissima: i veri responsabili di quanto sta accadendo siamo noi. Noi, e non Putin. Il fatto che la nostra reazione a lui e alle sue ciniche manipolazioni si sia limitata a sparuti borbottii da cucina gli ha garantito l'impunità nei primi quattro anni di mandato. La nostra apatia è stata senza confini e ha concesso a Putin l'indulgenza plenaria per i quattro anni a venire. Le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto non sono state solo fiacche, ma impaurite. Abbiamo mostrato di aver paura dei čekisti, inducendoli a perseverare nel trattarci da popolo bue. Il KGB rispetta solo i forti, i deboli li sbrana. E lo dovremmo sapere, ormai. Invece ci siamo scelti la parte dei deboli e siamo stati sbranati. La paura è pane per i denti di un čekista. Non c'è nulla di meglio, per lui, del sentire che la massa che vorrebbe sottomettere trema come una foglia.

Era ciò che volevano. Giornali e televisione traboccavano della nostra paura. L'opposizione non faceva che ripetere quanto grande fosse il pericolo - e dunque la sua paura - che Putin fosse rieletto... E anche lei è stata sbranata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 361

DOPO BESLAN



Il 1° settembre del 2004 a Beslan è stato commesso un atto terroristico senza precedenti, e d'ora in poi il nome di questa cittadina dell'Ossezia del Nord sarà sinonimo di un incubo che nemmeno Hollywood è stata capace di immaginare.

La mattina del l° settembre un commando internazionale di criminali ha preso in ostaggio la scuola n. 1 di Beslan, chiedendo di fermare immediatamente la seconda guerra cecena. L'occupazione è avvenuta durante la linejka, la tradizionale festa di inizio anno scolastico che si celebra in tutte le scuole. Č una festa a cui partecipa tutta la famiglia, genitori, nonni e zii, e soprattutto coloro che accompagnano il proprio figlio a scuola per la prima volta.

Così era stato anche quel giorno. Per questo i sequestratori avevano potuto prendere in ostaggio quasi millecinquecento persone tra alunni, madri, padri, fratelli, sorelle, maestre, figli delle maestre...

Quanto è successo in Russia tra il 1° e il 3 settembre e anche dopo, fino a oggi, non ha nulla di casuale, anzi segue una logica ineccepibile. E la quintessenza, l'apoteosi del regime di Putin, che si incentra sul potere personale, mortifica il buon senso e soffoca qualsiasi iniziativa.

Il 1° settembre, dicevamo. L' intelligence prima e le autorità poi ci informano che nella scuola ci sono «poche persone»: 354 in tutto. «Bene, vuol dire che alla fine resterete in 354» comunicano i terroristi ai loro ostaggi. Fuori, i parenti radunati attorno alla scuola urlano di non credere a quella cifra: sono più di mille, là dentro.

Nessuno li sente. Nessuno li ascolta. Cercano di arrivare fino alle alte sfere tramite i giornalisti giunti a Beslan, ma quelli continuano a riferire le stime ufficiali. Alcuni rappresentanti della stampa finiscono malmenati dai parenti degli ostaggi.

Il 1° settembre e metà del giorno successivo trascorrono in uno stato di choc e confusione inammissibili: non sono in corso trattative da parte delle autorità, in quanto il Cremlino non le ha autorizzate. Chiunque cerchi di fare qualcosa in quella direzione finisce vittima di intimidazioni, mentre coloro che i terroristi chiedono come controparte svicolano o lasciano il Paese. Si comportano da vigliacchi quando non hanno alcun diritto di farlo. Sono i presidenti dell'Inguscezia e dell'Ossezia del Nord, rispettivamente Zjazikov e Dzasochov, il consigliere di Putin per la Cecenia Aslachanov e il dottor Rošal'. Più tardi tutti avrebbero trovato una scusa, ma resta il fatto che nessuno di loro è mai entrato in quell'edificio.

Su questo sfondo di viltà i parenti degli ostaggi temono soprattutto una seconda Dubrovka, un'irruzione nella scuola con la strage che ne può seguire.

Il 2 settembre nell'edificio entra Ruslan Aušev, ex presidente dell'Inguscezia e persona invisa al Cremlino per i suoi ripetuti inviti a stabilizzare la crisi in Cecenia e ad avviare trattative di pace, e perciò costretto a lasciare 'volontariamente' la sua carica per cederla all'eletto del Cremlino, il generale del KGB-FSB Murat Zjazikov.

Come racconterà poi, Ausev si trova di fronte uno scenario tremendo. Scopre che, a un giorno e mezzo dall'occupazione della scuola, nessuno nel quartier generale delle «operazioni per la liberazione degli ostaggi» ha il potere di decidere chi debba entrare a trattare: attendono istruzioni dal Cremlino e temono le ire di Putin. Perché le sue ire possono equivalere alla fine di una carriera politica, e una carriera finita fa molta più paura delle sofferenze di qualche centinaio di ostaggi. Meglio perdere qualche vita umana, ché tanto si può dare la colpa ai terroristi. Perdere i favori di Putin non è solo l'anticamera dell'oblio, ma un vero e proprio suicidio.

Il nocciolo della questione è il seguente: in quei giorni, a Beslan, i rappresentanti del governo si preoccupano più di intuire che cosa voglia Putin che di contrastare quanto sta accadendo dentro la scuola. E quando Putin parla, nessuno osa contraddirlo. Aleksandr Dzasochov, per esempio, avrebbe poi riferito ad Aušev di aver ricevuto una telefonata da Putin che gli vietava categoricamente di entrare nell'edificio se non voleva finire in tribunale.

E Dzasochov era rimasto fuori. Il dottor Rošal' aveva fatto altrettanto. Pur essendo un pediatra, decise anche lui di salvare se stesso e non quei bambini. Un funzionario (rimasto anonimo) dell' intelligence - dirà poi Rošal' - lo aveva convinto che i terroristi avevano fatto il suo nome solo per ucciderlo.

E anche Rošal' restò fuori.

Le carriere erano salve, i bambini no. Il 3 settembre è ancora di là da venire, ma è ormai chiaro che la 'verticale del potere' fondata sul timor panico e una totale dipendenza da una sola persona (Putin, appunto) non è in grado di fare alcunché, non è in grado di salvare delle vite quando serve.

Con queste premesse, Aušev stampa da Internet una dichiarazione di Aslan Maschadov che, quale leader di quell'opposizione cecena nel cui nome i terroristi pretendono di agire, condanna senza appello il sequestro dei bambini. Con quel foglio in mano Aušev va a parlare con i terroristi. Č l'unico, in quei giorni, a cercare di intavolare dei negoziati.

Per questo, in seguito, il Cremlino lo avrebbe coperto di fango e accusato di ogni possibile nefandezza, prima fra tutte la connivenza con i terroristi.

«Non hanno voluto che parlassimo in vainach» ha poi raccontato Aušev. «Anche se c'erano dei ceceni e degli ingusci. Hanno voluto che usassimo il russo. Per negoziare volevano un ministro, uno tipo Fursenko, il ministro della Pubblica Istruzione. Ma il Cremlino era contrario, e nessuno se l'è sentita di entrare».

Aušev è rimasto nella scuola per un'ora circa. Ha portato fuori, a braccia, tre neonati, e altri ventisei bambini sono usciti insieme a lui. La mattina del 3 settembre è iniziato l'attacco. Gli scontri sono proseguiti fino a notte fonda. Molti terroristi sono stati uccisi, ma molti altri sono riusciti a passare il blocco e a fuggire. Poi è cominciata la conta degli ostaggi caduti, che continua ancora oggi. Alla periferia di Beslan è stato arato un campo, che è diventato un enorme cimitero con centinaia di tombe. A tutt'oggi mancano all'appello un centinaio di ostaggi, classificati come dispersi. C'è chi dice che siano stati portati via dai terroristi in fuga. Altri pensano che siano stati inceneriti dalle cariche termobariche dei bazooka in dotazione alle squadre speciali.

Subito dopo i fatti di Beslan la Russia ha annunciato l'ennesimo giro di vite politico. Putin ha dichiarato che la tragedia era stata un atto di terrorismo internazionale, cancellando ogni traccia cecena e imputando l'accaduto ad al-Qaeda. Aušev è stato coperto di fango e i mass media, istruiti dal Cremlino, ne hanno fatto un complice dei terroristi, e non l'unico con un po' di fegato, il solo eroe sullo sfondo di una marmaglia di vigliacchi. Al rango di eroe, invece - perché la gente ha bisogno di eroi - è stato innalzato il dottor Rošal'.

Ma questo è il côté morale della storia. Quello concreto, materiale, è stato che la tragedia di Beslan non è servita a indurre il Cremlino a riflettere sui propri errori. Anzi, ha dato la stura a un vero e proprio sciacallaggio politico.

Dopo Beslan lo slogan di Putin è stato à la guerre comme à la guerre, la verticale del potere va rafforzata.

[...]

Qual è, dunque, la situazione dopo Beslan? Un tempo si diceva che popolo e partito erano la stessa cosa. Oggi come oggi popolo e partito non sono mai stati così distanti nella vita reale e così vicini in televisione. L' homo sovieticus si fa di giorno in giorno più forte e più sfrontato, e con lui incombe l'inverno della politica, una glaciazione che si annuncia perenne. Non ci sono segni di un rialzo termico. Ben ammaestrata dalle menzogne ufficiali sul teatro Dubrovka, la Russia non chiede giustizia nemmeno per Beslan. In questo senso la responsabilità di quanto accaduto è anche nostra. Dalla tragedia di Nord-Ost ai fatti di Beslan sono passati due anni, anni in cui abbiamo continuato a dormire pacificamente nelle nostre case o a ballare in discoteca, distraendoci da tali amene occupazioni solo per andare a votare Putin. La gente non si è data la pena di pretendere la verità su Nord-Ost o di curarsi del dolore delle vittime, ed è stato questo il momento cruciale: il potere ha capito di essere riuscito a piegare il proprio popolo. Su quest'onda è venuta Beslan.

Non possiamo tollerare altri decenni di glaciazione politica. Vorrei davvero essermeli lasciati alle spalle. Vorrei davvero che i nostri figli potessero essere liberi. E che i nostri nipoti ci nascessero, liberi. Per questo invoco il disgelo. Gli unici a poter cambiare il clima, però, siamo noi. E nessun altro. Aspettarcelo dal Cremlino, com'è accaduto con Gorbačëv, oggi è sciocco e irrealistico. Né ci potrà aiutare l'Occidente, che poco si cura della «politica antiterrorismo di Putin» e che invece mostra di gradire la vodka, il caviale, il gas, il petrolio, gli orsi e un certo tipo di persone... L'esotico mercato russo è attivo e reattivo, e l'Europa e il mondo non chiedono altro alla settima parte del globo terrestre, la nostra.

| << |  <  |