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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Umberto Galimberti ix Al lettore xvii Avvertenza xxi Giobbe 1,1 1 1,2-3 3 1,4-5 4 1,6-7 7 1,8 8 [...] 42,10-16 173 42,17 167 |
| << | < | > | >> |Pagina IXPrefazione
di Umberto Galimberti
Perché il commento a un libro della Bibbia in una collana di pratiche filosofiche? Perché la filosofia non conosce confini. E come Platone attinge pensieri dal mito, così la filosofia occidentale, che ha le sue radici nel pensiero greco e nella tradizione giudaico-cristiana, non di rado si è rivolta alla Bibbia per accogliere riflessioni sul senso dell'uomo e sul senso di Dio. Del resto gli scenari religiosi, come peraltro gli scenari mitici, contengono le metafore di base, a partire dalle quali l'umanità ha costruito se stessa e l'immagine che si è fatta di sé. Sono scenari dell'immaginazione da cui, in seguito, è scaturito il linguaggio concettuale, che forse non avrebbe trovato le sue parole se il mito o la religione non gli avessero fornito i simboli che, come cascate, le hanno generate una dopo l'altra. Ma col vincolo che nessuna parola avrebbe avuto senso se si fosse staccata dal simbolo che l'aveva generata. Nella narrazione simbolico-metaforica si dibattono temi, che poi la filosofia farà propri, discutendone non solo con l'attenzione rivolta alla correttezza dell'argomentazione, ma anche alla qualità del sentimento che ha generato il problema. Ne è un esempio il concetto di "causa", in greco aitía, che significa anche "colpa". E come la colpa genera un sentimento che chiede la "pena", così la causa esige un seguito che si chiama "effetto". La correlazione di causa ed effetto, che la fisica farà propria, nasce dunque da un sentimento morale che, di fronte a un colpa, esige una pena. E nel caso di Giobbe? Qui ci troviamo di fronte a una pena senza colpa. Condizione questa che ricorre di frequente nelle vicende umane e che esige una riflessione filosofica per capire quali altri sensi e quali altri nessi accompagnano le interrogazioni dell'uomo al di là dei rapporti di causalità. Andrea Poma offre queste riflessioni, da cui emerge che l'azione giusta non attende compenso, perché la moralità è un valore in sé e non ha bisogno, per la sua legittimazione, di un ipotetico o reale risarcimento. Per quella strana vertigine in cui talvolta ci sorprende il pensiero fu proprio l'illuminismo, che inaugura l'epoca dell'emancipazione dagli scenari religiosi, a riprendere il motivo che agita il libro di Giobbe, e a chiedersi se la condotta giusta non abbia valore in sé, indipendentemente dalla ricompensa terrena o celeste. Al punto che, in considerazione di questa ricompensa che il cristianesimo promette, Rousseau senza esitazione dichiara: "Il cristiano non può essere un buon cittadino". Infatti, argomenta Rousseau, assegnando all'individuo una destinazione ultraterrena, il cristianesimo lo disimpegna da quella terrena, per cui l'esistenza cristiana, pur svolgendosi in questo mondo, dovrà essere separata dal mondo, e il senso della sua vita privatizzato o spiritualizzato. All'individuo il compito di conseguire la propria salvezza ultraterrena, alla società e a chi la governa il compito di ridurre gli ostacoli che si frappongono a questa realizzazione. Per il cristiano, infatti, la felicità, oltre a non essere di questo mondo, può essere conseguita solo a livello individuale, non collettivo. Morale e politica – che il pensiero greco antico unificava perché non si dà realizzazione dell'individuo se non nella comunità, nella relazione con gli altri, quindi nella città – divaricano nel pensiero cristiano, perché la destinazione dell'individuo non ha più parentela con la destinazione della società. Per questo Rousseau può scrivere che: "Il cristianesimo, lungi dall'affezionare i cuori dei cittadini allo Stato, li distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale. [...] Il cristianesimo è infatti una religione tutta spirituale, occupata unicamente dalle cose del cielo; la patria del cristiano non è di questo mondo. Egli fa il suo dovere, è vero; ma lo fa con una profonda indifferenza riguardo al buono o cattivo esito dei suoi sforzi. Purché non abbia nulla a rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù. [...] L'essenziale è andare in paradiso, e la rassegnazione non è che un mezzo in più per raggiungere questo scopo". In quegli stessi anni Kant negava che la morale cristiana potesse essere una "vera morale", perché l'azione giusta non è compiuta dal cristiano per la doverosità che è intrinseca all'azione giusta, ma per un motivo estrinseco quale può essere l'esecuzione della volontà di Dio, a sua volta caparra per la ricompensa eterna. Infatti, scrive Kant: "La volontà di Dio e la conformità ad essa possono divenir cause determinanti della volontà solo per la felicità che noi aspettiamo da esse". L'etica cristiana non è quindi un'etica autentica perché è retributiva, perché prescrive di fare il bene in vista del premio. Come si fa con i bambini quando la ricompensa attesa motiva il loro agire bene e il loro astenersi dal male. Forse anche per questo l'illuminista Kant considera l'età dei lumi "l'uscita dell'umanità da uno stato di minorità". | << | < | > | >> |Pagina 11,1
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C'era un uomo nella terra di Us, di nome Giobbe, e quell'uomo era
integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male.
Giobbe è un uomo giusto, il modello dell'uomo giusto: come Noè e Daniele (cfr. Ez 14,14-20). Il Libro di Giobbe è essenzialmente il libro dell'uomo giusto, e non dell'uomo sofferente. Il grande dibattito che si svolge riguarda lo scontro e l'incontro tra la giustizia di Dio e la giustizia dell'uomo. Certo la giustizia di Giobbe viene provata e rivelata nella sofferenza e nella sofferenza nasce la domanda drammatica sulla giustizia di Dio; ma Giobbe è giusto già prima, nella benedizione. Giobbe, dunque, non sono io! Chi di noi può dire di essere Giobbe, poiché questa identificazione non si misura sul grado di sofferenza, ma sul grado di giustizia? Se il libro cominciasse: "C'era un uomo nella terra di Us, di nome Giobbe, e quell'uomo soffriva", allora chi di noi non sarebbe Giobbe? Ma invece Giobbe è innanzitutto un uomo "integro e retto", e allora dobbiamo guardare lui, non noi stessi. Non l'immedesimazione nella figura di Giobbe ci permette di comprendere il libro, ma la contemplazione di essa, perché Giobbe è la figura del Messia, del Cristo. Non compiangendoci, compiangendo in Gesù le nostre sofferenze, seguiamo il Cristo, ma dimenticando le nostre nelle sue. Solo a questa condizione sono vere le parole di Gesù: "Il mio giogo è soave e il mio peso leggero" (Mt 11,30). Giobbe è "integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male": il timore di Dio e la legge morale non sono in alternativa, ma in consonanza. Questo è importante, perché altrimenti, provato nonostante la sua giustizia, Giobbe avrebbe potuto e dovuto bestemmiare Dio. L'avere sottovalutato questo aspetto della giustizia dell'uomo, della giustizia di Giobbe, o meglio il non aver creduto nella sua genuinità, è l'unico errore nei calcoli di Satana. Eppure questa continuità tra timore di Dio e moralità umana è anche uno dei motivi principali della tensione drammatica che percorre il Libro di Giobbe: in essa, come si vedrà più avanti, consiste la sapienza, il bene più prezioso, la cui conservazione è una conquista continua. | << | < | > | >> |Pagina 31,2-3
2
Gli erano nati sette figli e tre figlie.
3
I suoi averi ammontavano a settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento
coppie di buoi, cinquecento asine e a una assai numerosa servitù. Quell'uomo era
il più in vista tra tutti gli Orientali.
In primo luogo, Giobbe è giusto e timorato di Dio; in secondo
luogo, è ricco e felice. C'è un rapporto tra le due cose: a causa della
sua giustizia, Dio ha concesso a Giobbe ricchezza e felicità. La ricchezza e la
felicità non sono sempre frutto della colpa e dell'ingiustizia (cfr. il
moralismo a tutti i costi, a priori, di Elifaz, in 22,5-11:
siccome Giobbe era ricco e felice e ora è povero e sofferente, ergo
la sua ricchezza doveva essere frutto di ingiustizia e la sua sofferenza la
punizione per quella). Talvolta la ricchezza e la felicità sono il
frutto della benedizione di Dio (cfr. Dt 28,1-14). Giobbe sa bene
che la sua ricchezza e la sua felicità vengono da Dio (cfr. 1,21). Egli
sa che la sua fortuna è dovuta alla benedizione di Dio. Tra le due
situazioni, giustizia e felicità, vi è un rapporto, poiché a causa della
prima Dio ha concesso a Giobbe la seconda. Solo questo è il rapporto, non altro.
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