Autore Paolo Pombeni
Titolo Che cosa resta del '68
Edizioneil Mulino, Bologna, 2018, Voci , pag. 130, cop.fle., dim. 11x17,5x1,1 cm , Isbn 978-88-15-27424-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2018
Classe politica , movimenti , paesi: Italia: 1960












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione.
1968: la seconda rivoluzione degli intellettuali?             7


I.    La crisi del sistema educativo                         19

II.   «E noi faremo come la Cina, i professori all'officina» 31

III.  La fiera dei miti:
      dal capitalismo al consumismo                          43

IV.   La fine delle Chiese?                                  53

V.    La questione di genere                                 67

VI.   Dalle istituzioni al movimento:
      la rivoluzione politica?                               79

VII.  Dal mondo delle «comuni» al trionfo degli individui:
      senza merito né regole                                 91

VIII. Dal terzomondismo alla globalízzazione                105

IX.   Non è stato che l'inizio?                             117


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione



1968: la seconda rivoluzione degli intellettuali?





«Succederà un quarantotto»: la frase oggi, ammesso che qualcuno ancora possa pronunciarla, risulterebbe incomprensibile a molti. Qualcuno più avanti con gli anni potrebbe pensare che ci si riferisca allo scontro elettorale che nel 1948 contrappose in Italia la DC e il Fronte popolare, ovvero il mito di un comunismo all'italiana con l'immagine di un partito che poteva costruire una diga contro quella ipotesi. In realtà la frase si riferisce al 1848, alla memoria di quel vasto sommovimento che in Europa sembrò mettere in crisi la grande Restaurazione e aprire la via al cambiamento storico che avrebbe portato alla vittoria del costituzionalismo, al riconoscimento delle nazionalità come base delle grandi comunità politiche, a quella che poeticamente venne presentata come la «primavera dei popoli».

Ci si chiese a lungo se di quella grande rivoluzione, che interessò sia pure in misura diversa buona parte dei contesti europei, fosse rimasta più o meno intatta l'eredità. Si poteva dare una lettura del tutto negativa della faccenda, sostenendo che il costituzionalismo liberale non era poi stato quello immaginato dai «democratici» di allora, che il nazionalismo avrebbe ucciso lo spirito che riconosceva libertà a tutte le nazioni, che la primavera dei popoli sarebbe stata rapidamente stroncata da una sopravvenuta gelata di realismo politico. Cavour avrebbe cancellato Mazzini, Bismarck i convenuti a Francoforte che volevano creare la nuova Germania con un voto parlamentare, Napoleone III gli insorti di Parigi che inneggiavano al rinato albero della libertà.

Si sarebbe potuto essere più consapevoli delle leggi della storia e concludere che in fondo le idee del Quarantotto alla lunga avrebbero vinto perché le basi della legittimazione politica non sarebbero più state quelle di prima. Pur con trasformazioni, mediazioni, riletture, il mondo dell'Antico Regime non sarebbe più tornato. Quel tanto che era sopravvissuto conservava nomi e parvenze, ma era ormai altra cosa. Inoltre c'erano state trasformazioni che solo con una forzatura, magari per semplice coincidenza temporale, si potevano far risalire alla rivoluzione di quel periodo.

Tuttavia il ricordo di quell'anno, il «grande patatrac», come venne chiamato nella letteratura ironica tedesca, divenne simbolo di una profonda cesura e tale restò a lungo nella coscienza europea. Ma a chi si doveva quella cesura? Agli intellettuali, disse lo storico inglese Lewis Namier, riflettendo su quegli eventi in una conferenza del 1944, e non facendolo affatto per celebrarli, perché anzi, nel pieno della catastrofe della Seconda guerra mondiale, vedeva in essi i germi di una dissoluzione che avrebbe pesato sul continente.

Mi è venuto alla mente questo parallelo quando ho cominciato a riflettere, in vista del cinquantesimo, su quella ondata che sembrò rivoluzionaria e che toccò l'Europa nel 1968. Per la mia generazione e quelle limitrofe, prima e dopo, quell'anno è stato una specie di battesimo collettivo, il rito di passaggio da un mondo a un altro. I «sessantottini» sono diventati delle icone, positive o negative secondo i casi, e si è continuato a discutere se il buono o il cattivo della vita pubblica europea, e nella nostra fattispecie italiana, sia da imputarsi a quanto avvenne a partire da quell'anno fatale. Non si contano i ricordi proposti dai reduci, a volte celebrativi, altre volte dominati da un desiderio di autoflagellazione. Si è fatto spreco del termine «rivoluzione» e in verità qualche illusione in quella direzione ci fu, tanto che ricomparve in più contesti, senz'altro nel nostro, quel virus che è l'inclinazione alla violenza come (illusoria) levatrice della storia.

C'è da chiedersi se davvero ci sia stato un qualche cosa che possa meritare l'epiteto di «rivoluzione». Il Sessantotto fu molte cose, ma fu senz'altro in gran parte un'operazione intellettuale. Furono i giovani universitari che in tutta Europa, convinti di mettere in pratica ciò che percepivano come eredità della grande frattura degli anni Quaranta, diedero il via a una ribellione contro la stabilizzazione che si era realizzata nel ventennio precedente. La tensione fra una presunta riforma radicale, forse addirittura una rivoluzione, che per molti era inevitabile dopo i sussulti del periodo resistenziale, e il ritorno a un regime autoritario, secondo i critici più severi para-fascista, si era stemperata nella routine di un paese dove, per fortuna, nessuna delle due opzioni era mai stata seriamente in campo. Quel che c'era non era forse proprio l'Italia di Peppone e don Camillo, così argutamente stilizzata da Giovanni Guareschi, ma era un paese che aveva trovato un suo equilibrio, certo non perfetto né privo di tensioni, eppure capace di accettare la modernizzazione imperante e di procedere senza cedere alle sirene dell'autoritarismo (vedi la crisi Tambroni del 1960), e tuttavia senza riuscire ad accogliere il colpo d'ala di un riformismo incisivo come si era visto nel precoce fallimento dell'esperimento politico di centrosinistra. C'erano insomma i motivi perché ci si sentisse defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità.

Non fu un fenomeno inatteso, perché segnali di inquietudine nelle nuove generazioni se ne erano avuti diversi, anche in risposta ai mutamenti sociali che aveva indotto la modernizzazione e a quel fenomeno di scardinamento degli orizzonti socioculturali che andrà sotto il nome di «secolarizzazione». Ciò che non ci si aspettava era che l'urto della contestazione giovanile avrebbe sfondato con facilità, perché davvero, per parafrasare un riferimento che andava di moda all'epoca, i sostenitori del vecchio sistema si rivelarono tigri di carta.

Certamente quella rivoluzione dei giovani intellettuali ebbe anche alleati piuttosto subdoli che essi sottovalutarono. Innanzitutto l'industria culturale, ma ancor più il mercato in generale. L'ora dei giovani era anche l'ora di un nuovo settore di consumo (molto redditizio) e, in fondo, i consumi avevano contribuito a dare loro un'identità. In secondo luogo molte «mosche cocchiere» non ebbero remore a infilarsi nei varchi che venivano aperti, e non certo per costruire teste di ponte a favore dei giovani, quanto per usarli come massa di manovra a sostegno dei loro disegni. Sono stati chiamati «cattivi maestri», ma probabilmente erano qualcosa di più e di peggio. Infine ci fu l'opera del sistema delle comunicazioni di massa che tutto ingoiava, tutto trasformava in maschere di una stereotipata commedia dell'arte e tutto banalizzava. Il teatrino della politica fece in quell'occasione un salto di qualità.

Sarebbe fuorviante dire che si trattava di semplice «utopia»: si discusse anche di temi che erano «importanti»: equità, lavoro, democrazia, squilibrio fra Nord e Sud del mondo, e via elencando. Ma era più un gioco di specchi che non un farsi carico delle complessità dei grandi problemi, in nome dei quali si abbandonava a un triste destino il faticoso e impegnativo riformismo di cui aveva bisogno l'Italia. È vero tuttavia che quando si mette in crisi un universo socioculturale difficilmente poi tutto torna come prima. È probabile che strada facendo ci si accorga che alla forza della pars destruens non si era affiancata una pars construens adeguata.

È però piuttosto ipocrita addossare la colpa di questo alla generazione del Sessantotto. So bene che a questa operazione hanno contribuito molti pentiti di quella stagione, una volta che sono riusciti a conquistare per sé le posizioni che avevano tanto criticato nei loro anni ruggenti. Ci si sono aggiunti, ma c'era da aspettarselo, quelli che allora non avevano avuto il coraggio o l'opportunità di trovare un ruolo su quella scena, quelli che, per dirla coi versi romantici del Manzoni, «dovrà dir io non c'era / e la santa vittrice bandiera / salutata quel dì non avrà». In realtà, come capitò a quelli che nella poesia manzoniana «affilavan nell'ombra le spade», di bandiere della vittoria non se ne videro sventolare allora e nemmeno dopo. Eppure, per continuare nella metafora, più di una bandiera innalzata in seguito deve non poco a quegli anni di passione.

Oggi esiste una memoria relativa di quegli anni ruggenti. Alcuni nomi sono stati dimenticati – tranne che nei club degli aficionados: Sabino Acquaviva, Giulio Girardi, tanto per citarne alcuni –, altri si fa fatica a immaginarli nelle organizzazioni dell'estrema sinistra post-studentesca ora che sono opinion leader sui giornali e alla TV, qualcuno ha vissuto vicende alterne di fuochi d'immagine e di meritato oblio ( Toni Negri ). Altri ancora, che fanno bella mostra di sé nei nuovi movimenti dell'estrema sinistra, hanno un passato di adesione piuttosto a universi di legge e ordine: risparmiateci di citarli per dar loro modo di stracciarsi le vesti.

A mezzo secolo di distanza è forse venuto il momento di tentare una prima valutazione («bilancio» sarebbe una parola eccessiva) di cosa resta di quel momento che è stato, lo si voglia o meno, storico. È quanto cercherò di fare in questo libricino. Lascerò da parte una puntuale ricostruzione di cosa fu il Sessantotto, anzi di cosa furono i diversi aspetti che esso assunse, perché il fenomeno non fu affatto unitario. Sarebbero da esaminare i vari contesti geografici in cui si esplicò, perché, tanto per dire, Francia e Germania vissero questo periodo in maniera diversa; il Belgio conobbe una sua importante stagione che però non trovò visibilità e ricezione (almeno in Italia); negli USA la storia fu piuttosto peculiare per il confronto con la guerra in Vietnam (che lì non era un mito come in Europa, ma una realtà che toccava la vita dei giovani studenti richiamati alle armi); da noi si intrecciarono con più incisività la questione politica e la questione religiosa. Mi accontenterò di esaminare l'eredità che lo scossone di quegli anni ha lasciato nel nostro paese. Sarà una modesta riflessione che viene da chi nel 1968 aveva vent'anni e partecipò, sia pure in quinta fila, a quegli eventi, ma nei cinquant'anni seguenti per varie vicende ha dovuto misurarsi con l'eredità di quella fase.

Intendiamoci: i fenomeni che mi accingo a descrivere non sono imputabili semplicemente all'impatto che la rivolta degli studenti universitari esercitò su un paese che credeva di avere stabilizzato il proprio universo socio-culturale e che fu costretto a scoprire che così non era. Per dirla con una metafora, il castello di carte costruito da quell'universo stabilizzatosi negli anni Cinquanta crollò perché era arrivato il vento della protesta, ma al tempo stesso perché era per l'appunto costruito da carte che si reggevano in un equilibrio precario. Se fosse stato una solida costruzione di pietra avrebbe probabilmente resistito e costretto gli assalitori a conquistarlo davvero per trasformarlo dall'interno, piuttosto che bearsi della contemplazione delle sue rovine rase al suolo con troppa facilità.

Da più di un punto di vista il Sessantotto fu forse l'ultima ribellione fondata sulla «scienza», o almeno su quello che i giovani di allora pensavano fosse tale. Non era affatto, come dissero molti avversari, una rivolta nichilista, perché davvero si credeva fosse possibile costruire una nuova civiltà sugli spazi conquistati. Che l'obiettivo fosse spropositato per le forze che erano in campo è un altro paio di maniche. Non a caso la gaia scienza che più o meno tutti seguirono fu una specie di marxismo immaginario. Marx era lo scienziato sociale che voleva raddrizzare un modo di pensare che camminava sulle mani, e a lui si ispiravano, o credevano di ispirarsi, quei movimenti che nel concreto sembravano in grado di creare i famosi cieli nuovi e terre nuove: la Cina e in genere quel Terzo Mondo che si riteneva potessero replicare la rivoluzione che il Nuovo Mondo aveva portato secoli prima e che adesso aveva abbandonato. Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato. La fuga nell'utopia sarà il cascame del fallimento dei sogni di allora, nell'illusione che ciò che non si era potuto costruire con la ragione alternativa si sarebbe potuto fare col miracolo del ritorno allo stato di natura.

Accanto a questa via di fuga si installò il più pericoloso di tutti i virus postrivoluzionari: quello che consente la mutazione genetica degli avversari che rubano i vestiti dei contestatori e li usano come maschere per finire indisturbati l'opera di smantellamento delle vecchie certezze ormai non più difendibili, ma che non lo fanno per costruirne di nuove, bensì per mantenere una sorta di «terra di nessuno» dove regni l'anarchia delle lotte fra le diverse tribù. E poiché si era stabilito che la società non dovesse avere gerarchie e che la conoscenza non aveva alcun carattere di obiettività, non ci sarà poi scontro reale tra una verità, per quanto relativa, e un contesto di menzogne ingannatrici. Tutto dovrà essere sullo stesso piano, ciascuno potrà reclamare la libertà di non confrontarsi sulla base di percorsi di conoscenza controllabili, senza accorgersi che a determinare vittorie e sconfitte saranno allora i parametri della forza di cui sono dotati i vari attori in campo (magari anche solo la forza di suggestione).

Dunque quella che abbiamo chiamato la seconda rivoluzione degli intellettuali ha alla fine prodotto il tramonto della razionalità occidentale? La questione posta in questi termini è troppo pomposa e troppo ardua perché la si possa risolvere nelle pagine che seguono e richiederebbe una mente più dotata di quella del loro povero autore. Si può solo dire che cinquant'anni dopo è venuto il momento di provare a offrire un quadro di ciò che resta del Sessantotto.

Non sarà un quadro né trionfalistico, né sconsolato. La storia non procede per sorti magnifiche e progressive. Si viene facendo in mezzo a quel groviglio di debolezze e di speranze, di progettualità e di verifiche amare che sono gli uomini nel loro vivere concreto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 127

Il fatto è che le questioni poste dall'inquietudine che prese corpo nei movimenti del Sessantotto sono ancora sul tappeto, anzi si sono ampliate e hanno acquistato maggior spessore. L'eredità di quanto si manifestò in quell'anno non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. Non è neppure nel movimentismo come risposta alle ansie sociali, che allora si seppero in qualche modo anticipare, mentre oggi quasi sempre ci si limita a rincorrerle. È davvero nella ripresa di quel grido, profetico al di là di ciò che allora si percepiva: «Non è che l'inizio».

C'è dunque una lotta da continuare, ed è quella per dominare razionalmente una transizione storica riuscendo ad approdare a nuove forme di equilibrio per la vita degli individui e delle molteplici comunità in cui vivono. È un lavoro lungo che la generazione del Sessantotto – se è consentito che lo affermi uno che partecipò, sia pure in quinta fila, alla temperie di quegli anni — non è riuscita ad avviare che in minima parte.

Toccherà ancora una volta ai giovani continuare la lotta. L'augurio è che non si facciano irretire da quelli che li vorrebbero ingabbiati in un culto magari inconsapevole di quel passato, trasformandoli in ripetitori aggiornati dei vecchi slogan che continuano a circolare. Ciò di cui dovremmo far tesoro è la coscienza dei limiti e degli errori del Sessantotto. Non affermando scioccamente che si sarebbero potuti evitare perché quella è la visione di chi non sa cosa sia la storia.

Le giovani generazioni potrebbero avere un compito e un'occasione di importanza storica: riuscire a stabilizzare in senso positivo, a dare uno sbocco costruttivo alla grande transizione in cui ci troviamo coinvolti, si potrebbe dire immersi. Quella svolta, rivoluzione, transizione (la si chiami come si vuole) che i giovani sessantottini intuirono in termini vaghi, più per sensibilità che per ragione, e che oggi è diventata palese, vorrei dire quasi palpabile. Se e quando riuscissero in questa impresa, le nuove generazioni potrebbero guardare con indulgenza e forse con qualche considerazione a quanto è accaduto dal Sessantotto ad oggi, riconoscendo che effettivamente quello non era che l'inizio.

| << |  <  |