Copertina
Autore Augusto Pompeo
Titolo Forte Bravetta
SottotitoloUna fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra
EdizioneOdradek, Roma, 2012 , pag. 302, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-96487-21-1
LettoreMargherita Cena, 2013
Classe storia contemporanea d'Italia , citta': Roma , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940
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Indice

Ringraziamenti                                        6
Introduzione                                          7

ABBREVIAZIONI                                        13


I.   LE FONTI, I LUOGHI, GLI UOMINI

Le vie della ricerca                                 15
Il tribunale di Mussolini                            17
Roma                                                 18
Forte Bravetta                                       27
Il carcere di Regina Coeli                           29
Gli oppositori interni                               32
Emigranti e fuorusciti                               39
Oggi in Spagna domani in Italia                      46
Il confine mobile                                    50
La guerra dei servizi                                56
Note                                                 59


II.  LE CONDANNE ESEMPLARI

Gli esordi                                           69
Trieste 1930                                         72
Il nemico che viene da fuori                         76
Note                                                 82


III. L'ITALIA IN GUERRA

Una condanna della Corte d'Assise                    85
Un ex ufficiale della Marina austro-ungarica         87
Gli agenti di Margherita Gross                       89
Un eroe del nuovo Risorgimento                       92
I nazionalisti croati e la rete Gržina               96
I Marsigliesi                                        99
Trieste 1941                                        104
L'occupazione italiana della Jugoslavia             107
La Vipavska četa                                    109
I commissari politici                               116
Rapinatori e borsari neri                           118
Una strana spia                                     121
Le spie venute dal mare                             123
Il caso Sauer                                       127
La catastrofe                                       128
Note                                                132


IV.  LA CITTŔ APERTA DI ROMA

L'occupazione tedesca                               141
Partigiani e oppositori                             143
Ordine pubblico e repressione politica              159
Polizie e reparti speciali                          165
Tribunali                                           169
Arresti e delazioni                                 172
Gennaio 1944                                        183
Lettere al Terzo braccio                            188
Pupe' va' da mamma e di' che papà è partito         192
Marzo 1944                                          198
Don Giuseppe Morosini e Pietro Benedetti            203
Le madri di via delle Ciliegie                      210
Torna il Tribunale speciale                         215
Gli Americani                                       217
Note                                                221


V.   LA RESA DEI CONTI

L'Alta Corte di giustizia                           239
Anche gli Americani fucilano                        252
La Corte speciale di assise                         255
La lapide di forte Bravetta                         259
Note                                                261

APPENDICE
ELENCO DEI CADUTI                                   267

INDICE DEI NOMI                                     277

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



Il 25 giugno 1942, a notte inoltrata, nel carcere giudiziario di Regina Coeli, a Roma, il detenuto Carlo Kaluža fu svegliato dagli agenti di custodia che lo ammanettarono e lo condussero nel cortile dell'edificio dove attendeva un furgone. Salito sull'automezzo Carlo ritrovò gli otto compagni che, come lui, il giorno precedente, erano stati condannati a morte. Al gruppo si unì il cappellano del carcere mentre gli agenti collocarono, in un angolo dell'automezzo, l'occorrente per l'esecuzione: corde, sedie, bende e paletti. L'autocarro risalì la via Garibaldi, raggiunse il Gianicolo, scese lungo Villa Pamphilj e raggiunse la via Aurelia, allora in piena campagna. L'umidità della notte portava odori di pascoli e di erba tagliata: gli stessi odori della terra di origine dei condannati, quella parte della Venezia Giulia, che nella loro lingua, lo sloveno, chiamavano Primorje. Durante il tragitto i detenuti cercarono di apparire tranquilli cantando in coro le loro canzoni; uno soltanto scoppiò in un pianto disperato.

Giunto a via di Bravetta, il furgone entrò all'interno di un edificio militare dove, su un terrapieno, attendevano un gruppo di magistrati e di funzionari e un plotone di «militi» della Milizia fascista armati di moschetto modello '91, comandati da un «capomanipolo». Gli agenti di custodia fecero scendere dal furgone un primo gruppo di cinque, sistemarono le sedie una accanto all'altra fissandole al terreno con i paletti, bendarono i condannati e li legarono alle sedie con le spalle rivolte verso il plotone. Poi i soldati si disposero su due file: una mirò alla schiena, l'altra alla testa; infine l'ufficiale lesse la sentenza e ordinò il fuoco. Subito dopo le stesse operazioni furono ripetute con gli altri quattro che caddero riversi sui corpi dei loro compagni. Dopo che il medico legale ebbe accertato i decessi, furono redatti gli atti di morte firmati dal giudice istruttore, dallo stesso medico e da un rappresentante del Governatorato di Roma. Sul verbale fu scritta l'ora: 5.15.

Il giorno del processo Carlo Kaluža aveva ascoltato, in una lingua che forse non comprendeva del tutto, le pesanti accuse che lo avrebbero condotto dinanzi al plotone d'esecuzione: diserzione, costituzione di banda armata, insurrezione contro i poteri dello Stato. Dopo il verdetto a Carlo era stato concesso, come consuetudine, di scrivere ai suoi cari un'ultima lettera:

Signora Kalusa Carolina,

Ti scrivo da Roma e precisamente per l'ultima volta. Ti prego di dire a mia moglie che mi lasci dimenticato, perché non ci vederemo mai più, e di dire alla mamma ed a Francesco che ci rivederemo sopra le stelle.


Durante i nove mesi di occupazione nazista della città, sul terrapieno situato all'interno di Forte Bravetta, furono fucilati molti militanti della lotta antifascista, e una lapide, posta dai familiari delle vittime nell'immediato dopoguerra appena varcato il cancello d'entrata, ricorda i nomi di settantasette caduti.

Fra questi non figura il nome di Carlo Kaluža perché il piccolo monumento tiene conto solo di chi fu fucilato durante l'occupazione tedesca di Roma.


Questo libro, invece, vuole dare un volto e un nome a tutti coloro che caddero all'interno del forte dalla costituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato che, di fatto, ripristinò la pena di morte in Italia nel 1927, fino al 1945, anno che vide l'ultima esecuzione a Roma. Il Tribunale speciale aveva la sua sede nella capitale e le sue sentenze di morte furono eseguite a forte Bravetta e, più raramente, in altri luoghi della città. Dal 1927, anno della sua costituzione, fino al 1933, il «Tribunale di Mussolini» emise dieci sentenze capitali; poi cessò temporaneamente di condannare a morte e riprese a farlo con una certa regolarità a partire dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, fino al 1943. In quegli anni colpì, in prevalenza, agenti al servizio di potenze straniere, «slavofili» e partigiani appartenenti a formazioni jugoslave operanti in Venezia Giulia e, con l'aggravarsi della situazione interna a causa del procedere del conflitto, rapinatori e «borsari neri».

Dopo l'8 settembre 1943 a ordinare le condanne a Roma furono, in massima parte, le autorità tedesche di occupazione che colpirono, in prevalenza, la Resistenza romana.

Le ultime fucilazioni, invece – eseguite dopo il 4 giugno 1944 furono decretate a conclusione di procedimenti condotti da tribunali italiani e alleati costituiti per punire chi aveva collaborato nei mesi precedenti con i tedeschi e con i fascisti repubblicani.

Le condanne considerate furono complessivamente centotrenta, delle quali cinquanta eseguite dal 1927 al 1943, settanta durante i nove mesi di occupazione tedesca e dieci dopo la Liberazione.

Negli stessi anni l'Italia ha conosciuto bruschi mutamenti politici e istituzionali: la trasformazione dello stato liberale operata dal fascismo, la temporanea caduta del regime fascista a seguito della sconfitta militare, l'occupazione tedesca, la costituzione della Repubblica sociale italiana, la Liberazione. Mentre nella penisola si avvicendavano e si scontravano eserciti, poteri e istituzioni, a forte Bravetta si celebrava periodicamente il crudele rito della condanna a morte con la stessa cupa solennità.


Le scariche di fucileria hanno colpito uomini con personalità e storie individuali del tutto diverse.

Alcuni, come Carlo Kaluža, erano nati in Venezia Giulia o nell'allora regno di Jugoslavia. Altri, pur nati in Italia, avevano trascorso una parte importante della loro vita lontano dalla penisola per sfuggire alle persecuzioni politiche o per cercare migliori condizioni di vita nei paesi che per tradizione accoglievano l'emigrazione italiana. Altri si erano trovati, non più giovani, a fare la «scelta di campo» nella «Città aperta» di Roma dopo aver trascorso una vita di opposizione, clandestina e non, alla dittatura fascista e dopo aver conosciuto, in alcuni casi, la durezza del confino in Italia e l'esperienza della lotta armata in Spagna e sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale. Altri ancora, se pure in minima parte, erano stati condannati per aver commesso delitti comuni, o per aver collaborato con i fascisti e con i nazisti. Molti erano stati combattenti perfettamente consapevoli del loro sacrificio e dei valori di cui erano stati testimoni, e per questo sono celebrati nei libri di storia – come Fabrizio Vassalli, don Giuseppe Morosini e Pietro Benedetti – altri, invece, erano stati travolti da vicende più grandi di loro.

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IV. LA CITTŔ APERTA DI ROMA



L'occupazione tedesca

Dopo l'annuncio dell'armistizio, il re Vittorio Emanuele III e il capo del governo Pietro Badoglio lasciano Roma e, a bordo di una nave da guerra, da Pescara raggiungono Brindisi nella zona già occupata dagli Alleati. L'esercito italiano, lasciato senza ordini, quasi ovunque si dissolve e i tedeschi, che da tempo hanno fatto affluire rinforzi attraverso il Brennero, occupano la parte centrosettentrionale della penisola, procedendo alla cattura dei militari italiani e avviandoli all'internamento in Germania.

Molti soldati italiani, abbandonate le armi e le divise, cercano di tornare a casa, altri si oppongono con le armi alla cattura.

A Roma, dopo appena mezz'ora dalla proclamazione dell'armistizio, un reparto della Seconda divisione paracadutisti tedesca attacca di sorpresa il «Posto di blocco n. 5» schierato a difesa del ponte sulla Magliana e gli scontri si spostano sulla via Laurentina, sulla via Ostiense e su via della Cecchignola. Il giorno dopo si combatte alla Montagnola e a porta San Paolo; la battaglia si estende ad altri punti di Roma e del Lazio e termina il 10 pomeriggio con la resa delle truppe italiane.

La battaglia per Roma assume un alto valore politico e simbolico.

Le truppe italiane combattono prive di indicazioni e, di fatto, abbandonate dagli alti comandi, ma al loro fianco accorrono molti civili e questo dà alla vicenda un carattere insurrezionale. E il numero dei caduti civili e militari di parte italiana dà efficacemente il senso dell'asprezza dello scontro. La partecipazione dei civili è la grossa novità. Nuclei spontanei e organizzati di cittadini si recano alle caserme, chiedono anni e munizioni e, in alcuni casi, prendono d'assalto le armerie.

A via Taranto, in un edificio del Governatorato, un uomo che le forze di polizia indicano come «sovversivo» e che conoscono come «lo zoppo», distribuisce armi alla popolazione; è probabile, come ha scritto Donatella Panzieri, che si tratti dell'ex fornaciaio di Anzio ed ex combattente delle Brigate internazionali Vittorio Mallozzi.

Anche i nuclei politici antifascisti, che hanno cominciato a organizzarsi a partire dal 25 luglio, partecipano alla battaglia. Fra questi un gruppo della formazione comunista «Bandiera Rossa», del quale fa parte Tigrino Sabatini, blocca per dodici ore le truppe tedesche all'altezza di Portonaccio.

Per l'ex «sorvegliato» abruzzese Riziero Fantini, che ha partecipato per anni alle lotte sociali in America e poi in Italia, si avvera a Roma il sogno di una vita: opporsi in armi agli oppressori. Lo ricorda il figlio Adolfo:

In quei giorni lavoravo con mio padre in un cantiere ad Ostiense, vicino al gasometro. Quando si sono sentiti i primi spari mio padre è scomparso, l'ho rivisto solo il giorno dopo e ho saputo che aveva preso parte agli scontri con un mitra trovato lì in strada.

I reparti italiani si arrendono, ma la lotta armata contro i tedeschi non finisce; soldati e civili, insieme e separatamente, sotto la guida di ufficiali dell'Esercito e delle forze politiche antifasciste, formano nuclei clandestini di opposizione e la Resistenza, iniziata a Roma, continua anche nel resto d'Italia.

Un'Italia cambiata, però, dagli eventi bellici in corso: Benito Mussolini, che il 12 settembre è stato liberato al Gran Sasso da un commando tedesco, annuncia alla radio dalla Germania, dove è stato condotto dai suoi liberatori, che ha costituito un nuovo governo (il 1° dicembre sarà proclamata la Rsi); gli Alleati, conquistata la Sicilia, sono risaliti lungo la penisola, mentre i tedeschi hanno occupato la parte centrosettentrionale del paese e si sono attestati lungo la linea Gustav, che segue il corso del Garigliano dalla foce fino a Cassino, attraversa le montagne dell'Abruzzo e raggiunge l'Adriatico. Il 29 settembre, nel Trentino e in Venezia Giulia i tedeschi istituiscono due Operationszone: Alpenvorland (province di Trento, Bolzano, Belluno) e Adriatisches Küstenland (province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana).

In un'Italia divisa in due parti lo stato monarchico controlla, sotto il comando alleato, poco più di un terzo del territorio nazionale nel Meridione, mentre nel resto d'Italia si sta costituendo la Rsi. A Roma, dopo la cessazione dei combattimenti, è confermato lo status di «Città aperta», proclamato unilateralmente dal governo monarchico l'agosto precedente. Ma i tedeschi continuano a occupare militarmente la città e vi resteranno fino al 4 giugno dell'anno successivo.

La condizione di città aperta non è una garanzia per Roma: l'aviazione alleata attacca quotidianamente i convogli militari che percorrono le vie consolari dirette al fronte e martella le vie di accesso alla città, le linee e le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e gli stabilimenti industriali.

I quartieri periferici e le borgate saranno colpiti duramente, fino all'arrivo delle truppe alleate, da almeno sessanta incursioni aeree, come attestano i mattinali dei commissariati di PS e i registri degli ospedali. La guerra e l'occupazione poi, hanno profondamente modificato anche la composizione della città: i ministeri, con parte del personale, si trasferiscono al Nord, molti giovani richiamati alle armi non sono ancora rientrati, continui e massicci sono gli arrivi degli sfollati dalle province di Frosinone e poi di Littoria, zone di operazioni. Gli occupanti hanno bisogno di braccia per scavare fortificazioni a sostegno del vicino fronte e da impiegare in Germania in sostituzione dei soldati impegnati in guerra; rimasti inascoltati i primi «bandi», iniziano i rastrellamenti per l'arruolamento della forza lavoro con l'ausilio della polizia italiana e delle unità fasciste repubblicane.

Per nove mesi, mentre infuria la battaglia degli eserciti regolari, a pochi chilometri di distanza, a forte Bravetta, continueranno, più frequentemente che nel passato, le fucilazioni.

Le esecuzioni descritte nei capitoli precedenti di questo lavoro erano state ordinate per punire reati commessi anche in località diverse da Roma, perché il Tsds, l'organo che istruiva i procedimenti, esercitava la sua giurisdizione sull'intero Stato italiano. Dall'11 settembre 1943 al 4 giugno 1944 le condanne capitali riguarderanno presunti reati commessi nella città di Roma o nelle sue immediate vicinanze e, sul terrapieno del forte, cadranno sessantanove persone, mentre un'esecuzione avverrà a piazza di Siena.

Dei settanta caduti sette saranno fucilati su sentenza del Tribunale militare del Comando della città aperta, uno dopo un procedimento sommario del ricostituito Tsds. I restanti sessantadue saranno consegnati al plotone d'esecuzione dal comando tedesco e, di questi, uno sarà condannato per reati comuni e gli altri cadranno perché accusati di aver svolto attività politica o militare contro l'occupante come combattenti o come fiancheggiatori delle numerose formazioni partigiane sorte a Roma e nel resto del Lazio.


Partigiani e oppositori

L'opposizione cresce e si estende rapidamente, svolge propaganda clandestina, raccoglie e trasmette informazioni di carattere militare destinate ai comandi alleati e al Comando Supremo di Brindisi. E la Resistenza non è solo armata e non è solo politica in senso stretto. Resistere significa disattendere e vanificare le disposizioni degli occupanti, sottrarsi alle ripetute richieste di arruolamento e di collaborazione, nascondere ebrei, disertori, prigionieri alleati e uomini in età di leva. Resistere significa anche intraprendere quotidianamente una difficile lotta per sopravvivere, per procurarsi il minimo indispensabile in momenti in cui tutto manca; resistere significa scoprire, in momenti drammatici, l'importanza della solidarietà, dell'aiuto e del sostegno. Luca Canali , partigiano comunista operante nel Prenestino, individua in questi atteggiamenti, molto diffusi soprattutto negli strati più deboli della popolazione, un tratto distintivo della «Resistenza impura» tipica della Resistenza romana, a tratti diversa, ma non meno significativa di quella che si svilupperà al di là della «Linea gotica» nei mesi successivi. Č un'impostazione questa, sicuramente valida ma con qualche precisazione. Se, da una parte, la popolazione romana reagisce alla violenza e alla durezza degli occupanti con una «Resistenza non armata» a volte non politica, non ideologica e spesso dettata da una pura logica di sopravvivenza, d'altra parte le formazioni politiche che scelgono di opporsi combattendo creano seri problemi anche di natura militare ai nazisti e ai loro alleati contando, in questo, su una tradizione di opposizione intransigente e di ribellismo sociale profondamente radicati negli ambienti operai e artigiani nella città di Roma fin dalla fine del secolo precedente.

I primi partigiani, poi, come si è visto, in tutta l'Europa occupata, sono proprio i soldati scampati alle razzie tedesche che si uniscono, formano «bande», organizzano i civili che vogliono resistere e li addestrano all'uso delle armi e delle preziose «ricetrasmittenti».

E sono molti i soldati italiani scampati alla cattura nell'Italia occupata che, dopo la capitolazione, tornano e si nascondono nella capitale.

Ettore Arena che, l'8 settembre, è a Venezia come allievo elettricista nella Marina militare, torna a Roma, si unisce ai partigiani di «Bandiera Rossa» e diventa membro del Comitato Romano dell'organizzazione.

Un ufficiale d'artiglieria, Fabrizio Vassalli, con mezzi di fortuna, giunge dall'Albania in Puglia, si offre volontario per attraversare le linee e porta a Roma un cifrario, che verrà utilizzato per trasmettere informazioni a Brindisi. Assume il nome di battaglia «Franco Valenti» e la rete informativa che organizza, forte di quarantacinque effettivi, sarà conosciuta come «gruppo Vassalli».

Mario Carucci, sergente dei paracadutisti, lascia Viterbo, dove il suo reparto è rimasto senza ordini e torna a Roma, dove risiede la sua famiglia. Qui entra in un gruppo del Movimento dei Cattolici comunisti, poi lascia la città e, assieme al compagno di lotta Rolando Spacatini, si sposta sul colle San Marco, a quattordici km da Ascoli Piceno, dove il tenente degli Alpini Spartaco Perini sta organizzando una brigata partigiana formata da soldati del disperso esercito regio.

La formazione concentra armi, scava trincee, si dispone lungo i pendii del colle in assetto di combattimento e il 2 ottobre è attaccata dalle truppe tedesche. La battaglia si protrae fino al giorno successivo con uso di mitragliatrici e di mortai e si conclude con la sconfitta delle armi italiane. Mario, fatto prigioniero, è ricondotto a Roma, in un primo momento in un campo alla Camilluccia, poi al carcere di Regina Coeli.

Nel Reatino il sergente maggiore Giorgio Labò combatte contro la Divisione paracadutisti Student inquadrato in un gruppo formato da oppositori appena usciti dalla clandestinità e da alcuni ufficiali dell'esercito reduci dagli scontri avvenuti a Monterotondo il 9 e il 10 settembre. Č probabile che l'esplosione di un treno carico di munizioni a Poggio Mirteto provocata il 19 settembre sia opera sua.

A novembre Labò viene a Roma e si mette a disposizione di Antonello Trombadori che sta organizzando i gruppi armati del Pci:

Ho conosciuto Giorgio Labò nel mese di novembre del 1943. Non l'ho conosciuto per caso. Mi ha voluto conoscere lui. Mi disse di voler combattere e non voleva temporeggiare: mi disse che conosceva gli esplosivi, sapeva costruire le bombe, far saltare un binario, un ponte, un palazzo. (...) Lo feci entrare nella cellula degli artificieri dell'Organizzazione romana. E cominciò a lavorare.

Un'altra testimone, Marisa Musu, ricorda:

Io mi ricordo la prima volta che Labò mi diede questa bomba. Me la diede ad un passo da dove lavoravano in via Giulia, dove sono stati arrestati, e l'appuntamento era all'angolo con Ponte Sisto. Arrivò, mi ricordo che aveva l'impermeabile di colore chiaro, con questo pacchetto e mi disse: «Ecco, questo è il nuovo esplosivo. Lo devi rivoltare e schiacciare, troverai un pirulino, schiaccia e mi raccomando voltalo perché sennò non succede niente». Mentre stavamo andando via disse: «Senti questa è la prima che ho fatto. Non è che sono proprio sicurissimo...». Gli dissi: «Scusa, che vuoi dire?». Disse: «Vuol dire che non sono proprio sicuro che l'esplosivo...». «Va bè — faccio io — al massimo non scoppierà». Dice: «No, non sono sicurissimo che non scoppi anche prima!». Poi invece la bomba funzionò perfettamente e fu usata più volte in seguito.

La vicinanza del fronte e la speranza che la liberazione della città sia prossima condizionano le scelte e le strategie dei comandi partigiani. Questi, infatti, in un primo momento, riflettono sull'impostazione da dare alla lotta: se gestire la situazione, preparando una successione la più possibile indolore o passare senza indugi e senza quartiere allo scontro armato contro l'occupante o, più esattamente, se agire di supporto e di sostegno alle forze alleate o muoversi in modo del tutto autonomo, pur mantenendo collegamenti con gli eserciti regolari. I primi provvedimenti dei tedeschi nei confronti della popolazione (la razzia nel ghetto del 16 ottobre, l'eccidio di Pietralata del 20 dello stesso mese, gli arruolamenti coatti, il duro regime poliziesco, lo scioglimento dell'Arma e la caccia ai carabinieri definiti «badogliani», le prime fucilazioni) e la presenza di nuclei operativi nella città lasciano poche possibilità di scelta.

La direzione politica della lotta condotta dai partigiani è sostanzialmente unitaria; dal punto di vista operativo, tuttavia, ogni singolo nucleo si muove in autonomia.

La maggior parte dei partiti antifascisti si riunisce sotto la sigla del Comitato di Liberazione nazionale, mentre i soldati e gli ufficiali rimasti fedeli al governo monarchico formano il Fronte militare clandestino di resistenza agli ordini, inizialmente, del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Molti partigiani sono originari del Lazio o risiedono a Roma da molto tempo, altri provengono da altre zone d'Italia. La «minoranza» che sceglie la lotta clandestina è formata da uomini e da donne di ogni condizione: soldati e ufficiali dell'Esercito regio con mesi di guerra alle spalle, carabinieri e finanzieri alla «macchia», militanti politici già noti alla PS, che non hanno mai cessato di opporsi al regime, studenti e intellettuali che, negli anni passati, hanno appreso pochi rudimenti di marxismo e di democrazia attraverso le letture di cui la censura ha consentito la circolazione, ex prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento, uomini in età da lavoro o di leva che vogliono sfuggire ai reclutamenti forzati o al lavoro coatto nelle retrovie e in Germania, sacerdoti che interpretano il loro ufficio a favore degli oppressi proteggendo gli oppositori e che diventano, in qualche caso, autentici militanti. Come diverse sono le motivazioni: la continuazione e la ripresa, sotto l'aspetto più chiaramente militare, della lotta politica antifascista, il recupero degli ideali risorgimentali abbandonati dal fascismo, il desiderio di riscatto da una guerra perduta, condotta con una direzione infelice e al fianco di un alleato non gradito, la volontà di trasformare radicalmente la società.

Il movimento di resistenza, che si organizza e si sviluppa nel Lazio e nel resto d'Italia, ha precedenti e modelli di riferimento: il 25 luglio e l'8 settembre per alcuni non costituiscono un brusco passaggio dall'attesa all'azione e non rappresentano una «presa di coscienza» improvvisa; in loro maturano piuttosto le condizioni perché si continui, sotto altre forme, un'opposizione da tempo condotta in patria e fuori. Si è visto come la Francia e anche altri paesi abbiano accolto esuli italiani e come questi si siano organizzati fin dagli anni Venti e Trenta. Molti di costoro si ritrovano a Roma e portano nella Resistenza l'esperienza politica fatta come «fuorusciti». Fra questi gli ex combattenti di Spagna Vittorio Mallozzi e Riccardo Di Giuseppe: il primo diventa uno dei dirigenti del Pci, il secondo si inserisce in un gruppo di opposizione a Mandela. Un altro già «italiano all'estero» (negli USA) è Riziero Fantini che costituisce un nucleo a Montesacro. Si combatte a Roma, poi, con la consapevolezza che l'obiettivo non è soltanto la liberazione d'Italia, ma l'affermazione di valori e di diritti validi per tutti i paesi. C'è stato un grande precedente in questo senso: la Spagna, dove le «Brigate internazionali» hanno combattuto contro il franchismo e il fascismo. E il ricordo dell'epopea spagnola è presente nell'artificiere Giorgio Labò:

(...) Poi mi disse [a Trombadori] che sempre gli avevano fatto una grande impressione i racconti dei minatori delle Asturie, durante la guerra di Spagna (...)

Come avvenne durante il Risorgimento, a un'indubbia motivazione patriottica e nazionale si aggiunge, nella Resistenza italiana, una visione «internazionale» dello scontro ormai consolidata e favorita anche da particolari situazioni create dalla guerra. Nessun conflitto, come la Seconda guerra mondiale, ha visto combattere dalla stessa parte tanti soldati di nazioni così numerose come sul fronte italiano. Le armate alleate, che possono contare su un contingente italiano, sono formate da soldati che provengono dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dall'Africa, dall'Oceania, dall'India, dal Brasile, dal Canada e dalla Polonia. Le stesse forze tedesche hanno, ormai, arruolato croati, sloveni, russi, ucraini, boemi e anche italiani. Nella zona occupata, soprattutto nelle campagne, si nascondono soldati di tutte le nazionalità e le vicende dei prigionieri alleati e dei disertori tedeschi e i rischi che ha corso la popolazione italiana per aiutarli devono essere ancora raccontate.

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