Autore Dario Pontuale
Titolo Nessuno ha mai visto decadere l'atomo di idrogeno
EdizioneCartaCanta, Forlì, 2019 [2012], I Cantastorie , pag. 190, cop.fle., dim. 14,8x21x1,4 cm , Isbn 978-88-85568-49-5
LettoreGiorgio Crepe, 2020
Classe narrativa italiana









 

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Indice


L'importanza di un prologo decoroso                             7

Uno                                                             9
                            «Ognuno è fabbro della sua sconfitta,
                                   ognuno merita il suo destino».
                                             Francesco De Gregari

Due                                                            21
                    «La sera ritorno con la noia e la stanchezza,
                           non servono più eccitanti o ideologie,
                                         ci vuole un'altra vita».
                                                  Franco Battiato

Tre                                                            29
         «Ma l'abitudine di tutta una vita ha fatto sì che ancora
                    una volta per un minuto mi sia girato a veder
                                 se per caso Godot era arrivato».
                                                    Claudio Lolli

Quattro                                                        39
           «Un'idea, un concetto, finché resta un'idea è soltanto
                 un'astrazione. Se potessi mangiare un'idea avrei
                                       fatto la mia rivoluzione».
                                                    Giorgio Gaber

Cinque                                                         49
               «Andare via lontano a cercare un altro mondo, dire
                           addio al cortile, andarsene sognando».
                                                      Luigi Tenco

Sei                                                            63
                              «Non maleditemi non serve a niente,
                                  tanto all'inferno ci sarò già».
                                                Fabrizio De André

Sette                                                          75
                         «Gli anni io li ho amati da incosciente,
                                  ad uno ad uno senza preferenze»
                                                Roberto Vecchioni

Otto                                                           87
                      «Non si può perdere quello che mai in fondo
                            s'è tenuto, non si può perdere niente
                               se niente in fondo s'è mai avuto».
                                                Vinicio Capossela

Nove                                                          101
                   «Così l'albero cadendo ha sparso i suoi semi e
                    in ogni angolo del mondo nasceranno foreste».
                                                           Nomadi

Dieci                                                         115
             «Io che credevo alle favole e non capivo le logiche,
                             è una fortuna che sono ancora vivo».
                                                      Vasco Rossi

Undici                                                        127
              «Spenderò attentamente la mia sincerità, parlerò di
            rivolta con caparbietà; seguirò, traccerò un sentiero
                    ovunque sia, una strada buia, forse, ma mia».
                                               Pierangelo Bertoli

Dodici                                                        141
                               «Dammi il tempo che tempo non sia.
                               Dammi un sogno che sonno non dia».
                                                      Paolo Conte

Tredici                                                       159
                                         «La vita che buffa cosa,
                                     ma se lo dici nessuno ride».
                                                Francesco Guccini

La necessità di un epilogo onorevole                          177


Postfazione di Sandro Bonvissuto                              187


 

 

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Pagina 7

L'importanza di un prologo decoroso


Ho sempre preso tutto molto seriamente, tranne la vita, o forse è il contrario.

Come inizio non sembra male, incipit buono, non ottimo; rispondente, o quasi, ai tre parametri indispensabili per una dignitosa apertura: sintesi, efficacia, originalità.

Ho faticato per trovarne uno decente tanto quanto avere una storia interessante da raccontare. Non che abbia la vena del narratore, anzi, ma quanto accaduto necessita, se non altro, di una redazione, di una sorta di diario che ordini avvenimenti, persone, luoghi.

Dicevo che gli inizi sono decisivi, non soltanto nei libri.

Se attraenti, conferiscono rispettabilità al testo; se accattivanti, cautelano, almeno per qualche pagina, la pazienza del lettore. Quando capolavori, viceversa, garantiscono l'immortalità all'opera: «A lungo mi sono coricato di buonora» del sibillino Proust; «Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo» del profetico Tolstoj; oppure «Cantami o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei» dell'epico Omero. Con inizi del genere chi non avrebbe interesse a proseguire? A saperne di più? Ecco spiegato lo sforzo per trovare un incipit decoroso da proporre ai lettori.

Occorre, in ogni caso, un ulteriore chiarimento. La vicenda di cui verrete a conoscenza è, per quanto assurda, reale. Non userò lo stratagemma manzoniano del ritrovamento di un antico manoscritto per addebitare ad altri mie responsabilità; al contrario, queste righe serviranno per ordinare la serie di incredibili episodi succedutisi recentemente. Tenterò di seguire un ordine cronologico, tralasciando poco, in modo da capire se sia stato tutto uno strano scherzo del destino o invece un segno contorto del caso. Non prometto nulla di completo perché ogni cosa umana che si proponga di esserlo, sicuramente, per definizione, avrà delle lacune.


Dicono che tutto, quasi tutto, si comprenda agendo o ritirandosi. A me si è mostrata una terza possibilità. A voi spetterà l'indulgenza, se vorrete, di attendere l'ultima riga prima di sbilanciarvi in un giudizio, nondimeno stabilire l'eventuale grado di follia che investirà queste pagine. Alla fine potrete pure chiamarlo libercolo.


C'è chi, per trovare la propria Odissea, erra vent'anni e chi, all'inverso, restando fermo si imbatte nella sua. L'avventura umana ha, nel suo immodesto carattere, l'esigenza di dover essere raccontata, che piaccia o meno.


Dimenticavo, mi chiamo Zeno Bizanti e sarò il vostro narratore, che piaccia o meno.

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Pagina 16

Ammetto, con lealtà, che l'indolenza e un posato distacco verso le smanie collettive che attanagliano il novantanove percento dell'umanità mi hanno condotto alla soglia dei quarantacinque anni senza visibili traumi psicofisici. Per smanie collettive intendo le operazioni, o faccende ragionevolmente necessarie, che dovrebbero succedersi in ordine lievemente variabile, in ogni vita considerabile tale. Nascere, crescere, studiare, lavorare, sposarsi o convivere, acquistare una casa, riprodursi, invecchiare e infine morire. Pur se convinto della terribile ripetitività dell'esistenza umana e dell'incredibile monotonia, non sono mai stato contrario a ciò. Con la dovuta calma e parsimonia, con un pizzico di sarcasmo, in nessun tempo ho osteggiato siffatto ciclo produttivo. Ho, casomai, affrontato il tutto senza l'angoscia che queste cose potessero deprezzarsi o ammuffire; certo che, escludendo inizio e fine, un ordine prestabilito non c'è e non ci debba essere. Sono stato un mediocre alunno liceale ma brillante universitario; ho trovato lavoro senza cercarlo e l'ho mantenuto con disprezzo. Ho sperperato mucchi di soldi in affitti senza bramare una casa di proprietà, infine l'ho acquistata. Ho visto nascere e morire due storie d'amore, la prima finita in divorzio, la seconda in Africa. Ho desiderato dei figli non avendoli e chissà che un giorno non accada. In fondo non ho fatto che seguire i miei tempi, ritmi, convinzioni, semmai assecondando un po' troppo un carattere dedito all'irresponsabilità o alla beata innocenza. Appagato dal piacere delle passioni, intese come interessi, ho inseguito oltremisura una curiosità fagocitante, perdendo inevitabilmente qualcosa per strada. In nessun caso mi sono accanito verso me stesso, pochi alibi e tante assoluzioni. Moderate esaltazioni per i successi, come neppure eccessivi tormenti per le sconfitte. Pur sognando la luna, ho comunque seguito il flusso connaturale dell'istinto, senza scalette, tabelle, piani, programmi. Razionale come impulsivo, comico quanto serio, tanto allegro quanto nostalgico, idealista come disilluso. Perdutamente convinto che l'esistenza non è altro che una grana dopo l'altra e che per le grane non c'è alcuna fretta. Imparando che probabilmente il succo migliore del vivere è godersi il fugace istante che intercorre fra una seccatura e la successiva. Ecco meglio spiegato, almeno per ora, quanto sopra affermato: prendere tutto molto seriamente, tranne la vita, o forse il contrario.

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Pagina 53

Aveva la faccia rossa come un tramonto infuocato. La stretta vigorosa sembrò smentire gli anni dichiarati dalle rughe e dalla rada barba. L'età di un individuo è celata nelle parole e nei gesti, piuttosto che nell'aspetto, specialmente quando la vita ha corso oltre il dovuto. Graffi di sopracciglia delimitavano la fronte spaziosa, la stempiatura pronunciata. La mascella squadrata, l'occhio marrone dall'aria ostinata, l'espressione velata dalla vecchiaia eppure quasi felina. Sembrava la fotocopia di Robert Duvall in Un giorno di ordinaria follia. Dalla pietra arenaria si affacciò una donna sui cinquanta con i capelli raccolti e la riga nel mezzo. Ferma sulla soglia con le mani chiuse sul grembo, composta in un vestito fiorato e una lunga collana, attese per ricevermi. La somiglianza con la Kidman di The Hours fu immediata e presentandosi riconobbi la voce soffice con la quale parlai. Comodi sul divano di vimini, regolammo nella frescura del portico e nel fruscio del glicine ogni presentazione. Gradii da bere e, rimasto solo, colsi l'occasione per guardarmi intorno nell'aria appartata di quello spicchio di collina. A fianco alla religiosa pigrizia di un orto, la casa cresceva su tre piani e dagli ampi infissi svolazzavano chiare tende di cotone. I rumori distanti della natura evocavano quelli di rugginosi attrezzi adesso sommersi di ragnatele. Nella quiete ovattata del grande edificio echeggiava ancora il virile baccano di uomini dalle robuste braccia e il vociare delle donne all'inseguimento di figli sgambettanti. Si udiva tutto perfettamente, bastò appena un sottile moto della mente.

«Gradisce una limonata?» propose poggiando il vassoio con una caraffa ghiacciata.

Accettai. Le gocce sul bicchiere parevano luccicare quanto i pendenti di giada appesi ai lobi della donna. Non affrontai il motivo della visita, ma lo feci:

«Ha portato con sé i quaderni?»

Glieli porsi. Le ciglia lunghe curiosarono tra le pagine scribacchiate intanto che narravo ogni vicissitudine accadutami, non tralasciando nulla. Con quella rassomiglianza alla Virginia Woolf del cinema e i modi vellutati, prestò attenzione sospendendo la lettura per dirottare occhiate clementi verso di me. Carezzava con le dita magre il bicchiere appannato. Dallo sguardo non traspariva incredulità, sembrava che ogni parola servisse a rafforzare le proprie convinzioni. Scolai la limonata tra dubbi e supposizioni; tra domande e affermazioni. Mi versò un secondo bicchiere risedendosi con le gambe accavallate e la schiena eretta. Appena conclusi il monologo, posò i quaderni sul tavolo:

«Se vogliamo accomodarci in salone, credo che il pranzo sia pronto».

Entrai in punta di piedi, un lastricato scuro conduceva fino alla camera da pranzo con odori di rosmarino e menta sparsi nell'aria. Su una tovaglia di fiandra, porcellane ben ordinate attendevano portate d'antichi sapori. A mio agio, versai vino rosso in capienti coppe, le finestre ossigenavano la stanza arredata in arte povera. Avrei potuto esigere delle risposte, almeno dei chiarimenti, viceversa indugiai senza frenesie cittadine. Fu una scelta indovinata, la donna esordì: «È giunto il momento che le racconti dello zio Eugenio».

Ricettivo, assentii con un semplice sguardo attento.

«Lo zio è stato colui che molti chiamerebbero un eccentrico e altri un pazzo».

Come dichiarato nel prologo, adoro gli incipit efficaci e questo lo fu. Restare muto seguendola con un sorriso fu il migliore apprezzamento.

«Si laureò in filosofia, con il massimo dei voti, cercando in seguito ostinatamente una professione che gli garantisse la necessaria tranquillità per le proprie letture. Poco gli importava della retribuzione o della qualifica, principale era poter leggere. Mio padre, nonché fratello maggiore, trovò un posto da guardiano notturno in una fabbrica di alcolici, l'attuale obbrobrio architettonico che vede dal suo giardino».

«Parla del centro commerciale? Effettivamente è decisamente bruttino» un ghigno appena, poi. «Beh, però lavorando la notte poté realizzare i suoi desideri».

«Ci riuscì per oltre trent'anni vivendo da scapolo al primo piano di quella casa, sopra di lui viveva, invece, l'altro guardiano, quello diurno».

«Perché, lo stabile era di proprietà dell'azienda?» chiesi stendendo il tovagliolo sulle ginocchia.

«Era l'alloggio fornito ai dipendenti. Quando anni fa la fabbrica decise di migrare in zone extraurbane, offrì allo zio, ormai prossimo alla pensione, la possibilità di acquistare lo stabile a poco prezzo. Accettò restando nella vecchia casa con i libri e le sue stramberie».

Versai altro rosso. Una domestica curata e silenziosa portò in tavola pane tostato con sopra pomodori bagnati d'olio e basilico. Il profumo salì a toccare il lampadario.

«Perché dice stramberie?» permettendomi di osservare. «Fu una scelta particolare, non stramba». Specchiandomi nelle posate brunite.

«Fino alla pensione no, dopo il livello di sana follia s'impennò; chissà, forse le troppe letture generarono un corto circuito».

«Un novello Don Chisciotte» scherzai rubando un sorriso dall'agreste volto della Kidman.

«Il nome può far ridere, ma ha mai sentito parlare della Patafisica e di Alfred Jarry ?» riprese lei.

«Mai» affermai schietto.

«Non è l'unico. Jarry è un francese di fine Ottocento ideatore di questa filosofia, anzi pseudofilosofia, definita come "la scienza delle soluzioni immaginarie". Cerco di spiegarle in modo più semplice, non è facile, anch'io ho impiegato un po' per comprenderla».

Stringendo la salvietta seriosa, cedette a una sospensione.

«La scienza si fonda sul principio dell'induzione, osserva cioè che il più delle volte un fenomeno procede in una maniera e prosegue in un'altra, concludendone che sarà sempre così. Invece Jarry affermava ciò come sbagliato, perché tutto dipende dai punti di vista, poiché la Patafisica è la scienza non del generale, bensì dell'eccezione».

Il filosofico concetto mi paralizzò la mandibola sull'ultimo boccone d'antipasto, intanto che una fragranza si frappose tra noi.

«Assaggi queste linguine, sono fatte in casa, la nostra cara Emma è una bravissima cuoca» proruppe Matilde liberata dal peso.

Dietro abbondanti porzioni, il disordine mentale cozzava contro un massiccio insormontabile di quesiti. Che attinenza c'era tra lo zio Eugenio, le Moleskine, la vita da guardiano e la Patafisica? Assaggiando la pasta invocai chiarimenti:

«Ha ragione» scusandosi la donna. «Lo zio restò talmente colpito da simili teorie che divennero condotta di vita, guardò il mondo sotto un'ottica nuova, dal suo punto di vista appunto. Abbracciò la Patafisica, ed essendo Jarry antesignano dell'assurdo, iniziò a comportarsi in modo bislacco, perfino nell'abbigliamento».

«Ovvero?»

«Girava con un mantello, un cilindro e dggli stivali smeraldo con la punta all'insù. Affermava che la verità fosse la più immaginaria di tutte le soluzioni e che esisteva un mondo supplementare a questo. Un mondo che si può vedere, che si deve vedere al posto del tradizionale. Era irremovibile su ciò, categorico dichiarava addirittura di vederlo e che presto l'avrebbe palesato ai restanti».

Senza dileggio commentai: «Effettivamente un po' bislacco lo era, non proprio visionario ma...»

«E dopo l'ictus peggiorò» aggiunse.

«Fu la causa del decesso?» tornato serio e cacciando le ultime linguine nel piatto.

«No, è morto a causa di un infarto, ma l'ictus lo invalidò gravemente. Fu un attacco atipico, rarissimo, che colpì una regione del cervello senza menomarlo fisicamente. L'area occipito-temporale sinistra, se ricordo bene, la responsabile della decodifica delle lettere e delle parole».

«Cioè» intervenni per assicurarmi di aver capito «non fu più in grado di leggere?»

«Proprio così» confermò muovendo il capo e le gocce di giada appese ai lobi. «Un uomo che aveva vissuto per leggere si trovò incapace di farlo. Uno scherzo del destino che peggiorò lo zio, il quale, per fermare il tempo e ricordare, conservò qualunque cosa. I medici lo definirono disposofobico. Sa, coloro che accaparrano compulsivamente tutto?»

«Ne ho sentito parlare».

«Un disturbo terribile. Riempì la casa di oggetti raccolti ovunque, perfino nei cassonetti. Non risparmiava nulla. Poveretto, tentava disperatamente di afferrare un'esistenza indecifrabile, impenetrabile. Immagini cosa significhi non saper leggere, cessare di interpretare il basilare registro comunicativo. Come un bambino diede importanza alle cose, a qualunque: vecchia, nuova, rotta, usurata, tutto divenne unico, intimo legame con il passato. Dopo la sua morte, ci vollero giorni per sgomberare le stanze con fatica incredibile, tanto che in cantina le forze ci abbandonarono. Probabilmente se ne sarà accorto» disse sorridendo con una dolcezza che la scagionò da ogni colpa.

«Sarebbe stato impossibile, si figuri che non sono neppure riuscito a mettere piede in quel labirinto».

«Espressione perfetta: un labirinto, un immenso labirinto con pertugi tanto stretti da passarci a stento».

Adagiò le posate nel piatto con semplicità, la medesima con la quale cominciai a sistemare il mosaico fino ad allora fluttuante.

«Oltre al seminterrato, diciamo in disordine,» sorrisi «avete lasciato anche l'iscrizione?»

« Servabo

«Per l'appunto!»

«Si, sono certa che lo zio avrebbe voluto conservarla; la considerava uno stemma araldico, un motto erudito di cui reputo superfluo spiegarle il senso».

«Ovvio» chiarii porgendo la scodella alla governante. «Forse sarà contenta nel sapere che è rimasta dov'era».

«Ne sono davvero felice e lo sarebbe stato anche il caro zio».

A uno stufato fumante al centro della tavola fecero corolla pirofile di melanzane sottolio, peperoni alla griglia e cipolline in agrodolce. «Tutti prodotti del mio orto,» esultò raggiante Matilde «e delle sapienti mani di Giorgio».

«È fortunata ad avere un simile raccolto» complimentandomi senza originalità.

«Coltiviamo legumi, verdure e frutta, in piccole quantità s'intende, per le grandi invece basta l'uva».

«Sono sue le vigne attorno?» tagliando la carne tenera.

«In buona parte, come nostro è il vino che stiamo bevendo. Dico nostro perché Giorgio da oltre vent'anni coltiva le viti con amore e le sento mie quanto sue. Ho sempre sognato di vivere in campagna e produrre vino e grazie alla creatività di mio padre è stato possibile».

Non c'era boria in quelle parole, piuttosto la sincerità di ammettere la propria fortuna senza discolparsi.

È incredibile come della buona sorte persgnale ci si vergogni camuffandola fino a renderla meno invidiabile e a tramutarla in surrogato del proprio merito. Data la franca affermazione, non titubai nel domandare:

«Era un inventore?»

«Un compositore per l'esattezza. Rammenta la musichetta che accompagna da decenni lo spot di quel noto liquore?»

Trascinato dalla confidenza e dalla bontà delle melanzane, accennai un fischiettio stridulo.

«Proprio quella» divertita per gli indegni virtuosismi. «L'ha composta mio padre e grazie ai diritti la vita diciamo è stata, e lo è tuttora, senza particolari affanni. A dir la verità, papà è stato un ottimo direttore d'orchestra, ma nessuno se lo ricorda tranne me». Sollevò per un attimo le spalle, lasciandole subito ricadere.

«A volte bastano poche note giuste» considerai.

«Pochissime, creda, pochissime. In un certo senso la sigla fu un'opportunità anche per lo zio, poiché il lavoro ottenuto fu proprio nella fabbrica del motivetto».

Finimmo di pranzare senza altre notizie; mi raccontò degli anni investiti nell'azienda vinicola e di quanto il vino rappresentasse per lei. Mi spiegò la passione necessaria per concepire un buon vino e come occorra un artista per produrne uno. Parlammo a lungo. L'argomento dell'incontro sembrò essere messo da parte, le Moleskine e Tlon spettri senza identità. Le sottili rughe attorno agli occhi sembrarono scomparire a ogni sorriso, quella serenità mite e rassicurante mi distolse dalle domande irrisolte, fin quando:

«Se vuol seguirmi, mangeremo il dessert nell'altra stanza».

Non obiettai. Ci accomodammo su un grande divano con i poggioli in legno davanti a una libreria che rasentava il soffitto. Alle spalle altri ripiani, ovunque libri a circondare la stanza. Colonne di volumi poggiati in terra, altri ammassati su sedie e tavoli, ovunque libri sparsi a centinaia.

«Questa è la collezione dello zio, non sono ancora riuscita a sistemarli per quanti sono. Ho perfino ordinato dei nuovi scaffali».

«Lo credo, avrei difficoltà ad approssimare una cifra».

«Non saprei neanch'io; però forse qualcos'altro posso dirgliela».

Si avvicinò a una libreria correndo con l'indice sulle coste ordinate, sfiorò volume dopo volume fin quando ne estrasse uno sottile dallo scaffale. Si sedette di fronte a me con il libro poggiato sulle ginocchia chiedendomi:

«Conosce per caso Jorge Luis Borges?»

«Lo scrittore argentino?»

«Proprio lui. Ha mai letto qualcosa?»

«In gioventù».

«Mi dica,» porgendomi il testo «conosce questo?»

Raccolsi il volume girandolo tra le mani; Finzioni recitava il titolo. Non conoscendolo sfogliai qualche pagina ammettendo l'ignoranza.

«Immaginavo,» poggiandosi allo schienale «altrimenti avrebbe compreso il significato delle Moleskine evitandosi di arrivare fin qua».

Restai stupito: «Si spieghi non capisco».

«Mi scusi. Uno dei racconti che compongono l'opera s'intitola Tlon, Uqbar, Orbis Tertius ed è la trascrizione fedele di quanto riportato nelle Moleskine. Prendo i quaderni dimenticati nel portico e glielo mostro».

Uscì dalla stanza, ma non rimasi solo. Restai in compagnia di uno stordimento repentino.

«Vede,» irruppe fogli alla mano «le parole sono identiche, neppure una virgola cambiata, soltanto i nomi propri».

Confrontai, non c'erano dubbi, tranne i nomi. Tutto corrispondeva:

«Aspetti un attimo, però» osservò assorta e paragonando i testi. «Manca un pezzo,» riprese «come può notare il racconto conta due parti, la prima, quella di cui siamo in possesso e la seconda un poscritto di pochi fogli. Nelle Moleskine, però, non c'è traccia dell'ultima parte».

«Come mai?» inseguendo spiegazioni.

«Non saprei, forse fu volontà dello zio interrompere. Le ultime pagine di entrambi i quaderni sono bianche; spazio per scrivere ce ne era ancora».

«Allora perché smettere?»

«Lo ignoro, non rammento così bene la trama del racconto da ricordare il contenuto del poscritto».

Assorto, guardai il libro sottile nelle sottili mani della donna. Sentii l'esigenza di riprendermi, di restare solo. Chiesi del bagno e imboccai il corridoio. Sciacquai il viso e, nell'odore di sandalo, mi sedetti sul bordo della vasca. Specchiato nelle maioliche verde mare, tentai di capire chi fosse Eugenio Bisigato e cosa inseguisse. Dunque: filosofo, guardiano notturno, colpito da ictus, patafisico, disposofobico, ma non studioso, affatto ricercatore, al massimo trascrittore parziale. Il motivo? Il fine ultimo? Perché disseminare per la città quei quaderni? Eccentricità mista a follia? Perché chiederne la restituzione considerato, inoltre, l'impossibilità di leggerli? Era incapace di scrivere, ma non di copiare. Quindi perché? Perché proprio quel racconto? Troppi dubbi. Tornai dalla padrona di casa, trovando una fetta di torta alla frutta ad attendermi. Tagliai la frolla con decisione, la stessa con la quale domandai:

«Ha idea del perché suo zio abbia macchinato tutto questo?».

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Lo stesso giorno conobbi Oscar Gaffriedi, il produttore esecutivo della Demolen, o meglio l'executive producer, come preferiva etichettarsi. Aveva il doppio dei miei anni, un imprecisato titolo di studio e un rosario di master raccolti negli States. Sempre abbronzato, denti da cavallo, per tutti Oscar e basta. Fido braccio destro del presidente e tre imperativi: la TV americana come riferimento assoluto. L'uso totalizzante dell'inglese, nondimeno per termini o verbi elementari, con coniugazioni incomprensibili e mai uguali. Fiducia cieca nei brainstorming, come tramandato da Alex Osborn in persona, tanto da rispettarne devotamente i dettami. Un animatore, cioè Oscar in persona, un registratore e un gruppo di partecipanti, esattamente cinque, tanti quanti eravamo noi giovani cavie. Questi brainstorming duravano massimo trenta minuti e l'animatore aveva il compito di creare l'ambiente ottimale per favorire la "fecondazione" reciproca di idee. Si procedeva a ruota libera senza interruzioni, si incoraggiava la quantità; la qualità, semmai, veniva dopo. Si miglioravano le idee altrui e, non ultimo, era vietato criticare.

Da quel primo giorno, perdemmo l'individualità per diventare squadra, anzi team. Voglio puntualizzare: come prendere seriamente qualcosa che tradotto letteralmente significa "tempesta cerebrale"? Specialmente vedendo le facce dei partecipanti, in primis la mia e di Oscar? Chiamarla semplicemente riunione non sarebbe stato più decoroso? Tuttavia è nota la smania di grandezza americana e noi dovevamo lavorare come loro. Per questo l'uso, meglio l'abuso, di vocaboli stranieri continua a procurarmi orticarie, che ho comunque imparato ad alleviare con l'ironia. Un anno e mezzo tra pre-time, day-time, lead-in, brand, bridging, blunting, tent-poling, meters, pitch, concept, target, core-target, money budget, time budget, sit-com, zapping, flipping, zipping, grazing, game show, talk show, entertainment. Diciotto mesi tra terminologie arcane e immancabili brainstorming. Due elementi del team ci lasciarono: una ragazza fu stroncata dallo stress, un altro preferì l'attività familiare. Resistetti impassibile grazie alla proverbiale distrazione; durante i brainstorming pensavo ad altro. Apparivo accondiscendente, con la testa altrove e persino scrupoloso ai principi di Osborn. Eppure un malaugurato giorno fui tirato in ballo.

La Demolen era in crescita, operava, però, ancora in appalto per un paio di emittenti regionali. C'era da riempire la fascia oraria pomeridiana, risollevando l'audience con un programma. Ero seduto accanto alla finestra e fuori splendeva un bel sole di inizio giugno, invidiai profondamente chi poteva starsene al mare. Interpellato in quel raptus, e venendo da settimane di muti brainstorming, dovetti inventare qualcosa. Per volontà di Osborn, provvidenziale, nessuno poteva contraddirmi. Bisognerebbe, alle volte, sapere affondare con dignità; perché annaspare raramente conduce a buoni esiti.

Domandai quali peccati capitali fossero bonariamente confessati dalla gente. Risposero gola, accidia, lussuria e così via tranne l'invidia, nessuno la pronunciò perché è tra tutti il peccato meno ammissibile. Non che gli altri lo siano di più, ma l'invidia patenta come rancoroso chi la nutre, etichetta scongiurata dai golosi o dai pigri. Secondo tale considerazione l'invidia di rado si palesa, casomai si pratica segretamente, attuando operazioni mirate alla sottrazione di quanto invidiato. Più parlavo e più i partecipanti si appassionarono a quelle parole incoscienti. Urgeva una conclusione, la sostanza, il contenuto del programma insomma. Proseguii spedito proponendo un programma che, valendosi delle gelosie dei telespettatori, architettasse imposture da servire agli invidiati. Un tiro mancino, una forma di rivalsa, ammisi candidamente. Un modo per prendersi una rivincita meritata. Senza aspettative, soltanto per legittima difesa perpetrai il primo di una serie di reati vergognosi contro la decenza. Tramutai quel che normalmente viene riconosciuto come colpa o misfatto inammissibile, quasi ammirevole.

I colleghi furono entusiasti, Oscar altrettanto. La Demolen e la rete ancora di più. Gli inserzionisti praticamente in estasi. Il programma si concretizzò, la gente lo acclamò con audience inimmaginabili per una piccola TV. Ebbi una stanza per me, una scrivania e da allora mi chiamarono producer. Un anno dopo la Demolen vendette il format alla più grande rete privata nazionale; mentre l'invidia finalmente confessata della gente ci arricchiva. Un vile scoppio di sole aveva ispirato, uno smodato estro aveva concepito, un maliardo potere incantatore televisivo aveva realizzato.