Autore Nicola Porro
Titolo La disuguaglianza fa bene
SottotitoloManuale di sopravvivenza per un liberista
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2016, le Onde 6 , pag. 320, cop.fle., dim. 13x19,8x2,5 cm , Isbn 978-88-9344-048-6
LettoreGiovanna Bacci, 2016
Classe destra-sinistra , economia , politica , paesi: Italia: 2010









 

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Indice


 11    Introduzione

 31 1. Senza un padre ricco san Francesco non sarebbe mai diventato povero

 37    Antiseri, Il "buono-scuola" per una "buona scuola"
 45    Martino, Un reddito per tutti. Ma non a 5 stelle
 50    Ricossa, I pericoli della solidarietà
 55    Salin, La tirannia fiscale
 61    Martino, Stato padrone
 66    Jefferson, La terra appartiene ai viventi

 71 2. Nell'era dei vegani affamare la Bestia è ancora più difficile

 77    Butler, Tutto inizia a Vienna
 81    Smith, La ricchezza delle nazioni
 87    Baechler, Le origini del capitalismo
 91    Romani, La società leggera
 96    Rossi, Siamo sudditi
100    Mises, Dove non arrivano le tasse ci pensano i burocrati
104    Huerta de Soto, La truffa dei depositi
109    Paul, Ha ragione Apple?
113    Taleb, Il cigno nero

117 3. Che ne sai tu di un campo di kamut

121    Mingardi, Il falso mito della decrescita
125    Ricossa, Impariamo l'economia
130    Iannello e Infantino, Idee di libertà
134    Seitz, Il grande inganno sul riscaldamento globale
136    Lomborg, L'ambientalista scettico
142    Crichton, Stato di paura
147    Anderson e Leal, L'ecologia di mercato

153 4. La disuguaglianza fa bene

159    Friedman, Liberi di scegliere
166    Frankfurt, Sulla disuguaglianza
171    Menger, Quanto vale una matita
175    Cofrancesco, Amicizia e proprietà
181    Block, Difendere l'indifendibile
187    Tocqueville, Discorso contro il diritto al lavoro

193 5. Io a Capalbio non ci vado

199    Ricossa, Straborghese
203    Aron, L'oppio degli intellettuali
207    Mamet, Diario di un liberale nuovo di zecca
211    Coase, Sull'economia e gli economisti
217    Alesina e Giavazzi, Il liberismo è di sinistra
222    Mingardi, L'invenzione del neoliberismo
228    Ippolito, Lo spirito del garantismo
232    Brambilla, L'eskimo in redazione

237 6. Anche la destra legge

243    Manzoni, I promessi sposi
248    Gibson, Neuromante
254    Rand, La fonte meravigliosa
259    Mandeville, La sua favola
264    France, La violenza legale
268    Houellebecq, Sottomissione

273 7. Lasciate in pace Einaudi

279    Bedeschi, Storia del pensiero liberale
283    Einaudi, Prediche inutili
289    Einaudi, Libertà economiche
295    Marongiu, Il maggiordomo e le pere del Quirinale
300    Forte, Einaudi versus Keynes
306    Einaudi, La guerra e l'unità europea

313    Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

Introduzione




La destra è fuorilegge


In questo paese essere di destra è un tabù. La parola "destra" è confinata in uno sgabuzzino del dibattito politico. Più o meno lo stesso accade con "liberista". La demonizzazione di queste etichette nasce dal fatto che in Italia, per anni, si sono autodefiniti di destra solo gli eredi del fascismo e i reduci della Repubblica di Salò. Ecco perché l'appartenenza alla destra in Italia è sempre stata associata al fascismo.

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Pagina 21

Come sopravvivere alla sinistra


Un Manuale di sopravvivenza per un liberista (si sarebbe potuto intitolare anche Manuale di sopravvivenza per un uomo non di sinistra) non ha grandi ambizioni intellettuali: è più o meno un collage, in forma di biblioteca, del grande pensiero liberale che parte da Smith, passa per la scuola austriaca, transita per i monetaristi di Chicago e sbuca nel litigioso anfratto del pensiero liberale italiano, che pure agli albori del XX secolo era tra i più floridi. Un manuale, soprattutto, che cerca di dare un po' di coraggio ai numerosi liberali insidiati dal pensiero mainstream. Purtroppo l'Italia, oltre a non aver mai conosciuto una rivoluzione liberale, non ha conosciuto i fondamenti di quel pensiero. Non ha pubblicato i classici liberal e non li ha letti, pur avendone tra le mani un esempio eccellente come I promessi sposi. Siamo stati sopraffatti dalla sistematica opera gramsciana di annientamento, pezzo per pezzo, della vecchia egemonia culturale borghese. Per sostituirla, appunto, con un'altra egemonia, quella di sinistra.

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Pagina 28

Ridete? Pensate allo zucchero e alla vostra naturale accondiscendenza verso una norma che ormai date per acquisita, e in fondo capirete bene a cosa corrisponda l'egemonia culturale gramsciana. Le scelte private sono state subordinate a quelle pubbliche, che sono invece consacrate come ottime e sempre necessarie. Spesso per il solo fatto di essere state celebrate da una liturgia parlamentare. Il mercato, l'individuo, fallisce spesso, e per questo intervengono i burocrati a mettere a posto le cose. Lo stato non fallisce mai (sic). Ecco perché sostengo che viviamo in una bolla collettivista. Non è un'esagerazione. Accettiamo lo zucchero in bustina, poco male, subiamo un'imposizione fiscale da esproprio, decisamente peggio, e domani potremmo regalare un pezzo delle nostre libertà civili. Senza accorgercene. Sedati dal pensiero unico.

Siamo talmente assuefatti da avere l'impressione che sia lo stato a produrre reddito, ricchezza, servizi e giustizia. Si tratta al contrario di un vigile urbano che smista i nostri quattrini e nel farlo, dietro al paravento democratico, utilizza il grado massimo di arbitrarietà e si tiene una bella fetta di commissioni per sé. Siamo assuefatti dalla droga intellettuale per la quale i quattrini non sono prodotti da nessuno: esistono e basta.

Per alimentare questa tossicodipendenza è fondamentale che l'élite politica diffonda il più possibile questo germe statalista e per farlo, da sempre, è necessario comprarsi la cultura, cioè finanziarla. Se la difesa del ruolo pervasivo dello stato è fatta dai politici, che hanno tutto l'interesse nel difendere il proprio ruolo egemone, la credibilità rischia di essere minima. Ecco perché la politica sceglie come sponsor giornalisti, opinion leader, scrittori, attori, intellettuali vari, si riempie la bocca con l'importanza della cultura e spesso la finanzia. Si dice che investire in cultura sia un veicolo per l'innalzamento collettivo. Si tralascia di ricordare che queste risorse pubbliche (cioè prelevate dalle tasche dei cittadini, supposti incolti) come primo effetto hanno l'aumento del reddito di chi ottiene il finanziamento. Idea geniale: una sorta di mecenatismo rovesciato, a spese non del principe ma dei contribuenti. Che, inconsapevoli, si prestano a un dilemma del prigioniero in cui perderanno sempre. Sono chiamati a sostenere una élite culturale che grazie a quel finanziamento coatto sarà legata mani e piedi alle risorse dello stato, che a sua volta continuerà a obbligare il contribuente a pagare, in un circolo vizioso micidiale. Le élite culturali sopravvivono grazie alla politica, ed entrambi i clan ci fanno credere che lo stato produca ricchezza, mentre si limita a distribuirla.

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Pagina 31

1. Senza un padre ricco san Francesco non sarebbe mai diventato povero


Se non ci fosse stato Pietro di Bernardone, sarebbe stato molto difficile per Francesco diventare santo e soprattutto venir definito "il poverello di Assisi". Di poverelli ad Assisi (come in centinaia di città italiane alla fine del XII secolo) ce n'erano assai, molti più di quelli che facevano da quinta alle rappresentazioni di Zeffirelli, ma nessuno di loro ha fatto la storia: la particolarità di Francesco è che il suo titolo di povero se lo è conquistato nonostante le ricchezze del padre mercante e l'educazione che quelle ricchezze gli avevano garantito. È una parabola al contrario quella che vogliamo raccontare: senza un papà ricco la storia di Francesco non sarebbe stata santa, ma semplicemente ordinaria. Così come senza i "ricchi" è difficile finanziare uno stato che possa aiutare i più deboli. In fondo tutto ciò si chiama economia.

Eppure nulla è meno conosciuto dei suoi meccanismi di base. È un paradosso: per tutti, tutto ha una motivazione economica. È la grande contraddizione in cui viviamo. Immersi nel pregiudizio che l' homo sia oeconomicus, ma senza capire appieno il suo significato. Potremmo dire che è la grande vittoria della teoria marxiana del materialismo storico, ma non vogliamo essere troppo difficili, anzi cercheremo di spiegarla in poche parole. Quando scoppia una guerra, anche locale, il nostro primo istinto è quello di ritenere che essa derivi da motivazioni prettamente commerciali. Magari fosse così. Con gli affari si ragiona, con gli isterici e gli spiriti meno. Diceva giustamente Bastiat che dove non passano le merci, passano le armi. Insomma se fosse per l' homo oeconomicus le guerre non si farebbero. Servono solo per certe industrie, il resto viene spazzato via. Ma l'angusta spiegazione economica non si ferma alle guerre. Pensate al fenomeno del fondamentalismo islamico. Giovanni Belardelli, che insegna storia delle dottrine politiche, scrive benissimo: una lettura solo economica del terrorismo è sbagliata, la religione resta centrale. "È come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della 'sovrastruttura', laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della 'struttura', cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell'economia."

Tutto dipenderebbe dai rapporti economici eppure, dicevamo, i meccanismi di mercato li conosciamo poco o niente. Cosa sia un prezzo, cosa sia una tassa, cosa sia il reddito nazionale è nella maggior parte dei casi un sentito dire.

Uno dei pregiudizi più pericolosi e duri a morire è che l'economia sia un "gioco a somma zero", e cioè che i guadagni di qualcuno determinino necessariamente le perdite di pari entità di qualcun altro. Come dice Antonio Martino: "Non è affatto vero che la ricchezza dei ricchi sia causa della povertà dei poveri. È quasi sempre vero il contrario: i poveri sarebbero meno poveri se il numero dei ricchi fosse maggiore." Una delle battute di Ronald Reagan che fece maggiore scalpore era proprio di questo tenore. A un giornalista che gli chiedeva come combattere la povertà, il presidente americano disse che "il modo migliore per non essere poveri è cercare di non far parte di loro".

Se una battuta a questo punto ci è concessa, vogliamo dire che per la storia del progresso e dell'umanità è stata più interessante e utile la vita di Pietro di Bernardone che quella di san Francesco: grazie a Pietro e a quelli come lui, le nostre città si sono sviluppate, le nostre case sono state riscaldate, sono stati introdotti i gabinetti e l'igiene, il cibo è stato diffuso, gli animali (così amati dal figlio) sono ormai nutriti come nel Medioevo non si alimentavano i cristiani, l'educazione è diventata di massa e la speranza di vita è cresciuta in tutto il mondo e si è quasi triplicata rispetto ai tempi di Francesco. Tutto questo sarebbe stato possibile solo grazie a fratello Sole e sorella Luna? Si direbbe proprio di no. Chiunque, per carità, è autorizzato a far del bene. Ma a proprie spese.

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Pagina 45

Martino, Un reddito per tutti. Ma non a 5 stelle


I più oggi conoscono Antonio Martino come uno dei fondatori di Forza Italia e per essere stato ministro degli esteri e poi della difesa della Repubblica italiana. Sbagliano. Martino è soprattutto uno dei migliori e più lucidi economisti italiani. È in quella ristretta cerchia di studiosi che non hanno cantato con il coro, che si sono abbeverati alla cultura pragmatica e individualista anglosassone, come Sergio Ricossa. Ma il professore siciliano ha una carta in più: gran parte della sua formazione, oltre che della sua vita professionale, è legata all'Università di Chicago e agli insegnamenti del premio Nobel Milton Friedman, di cui è stato discepolo e amico.

[...]

Martino, come si intuisce anche da queste sue brevi note, ha una dote particolare: come tutte le persone che hanno le idee chiare, si fa capire bene. Quello che presentiamo non è tecnicamente un libro del professore, ma un libretto curato e introdotto nel 1977 dall'allievo di Friedman per il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi dal titolo: Un reddito garantito per tutti?

Il volume presenta uno studio dell'OCSE sull'imposta negativa sul reddito, la Prefazione consiste in una dozzina di pagine. Straordinarie. L'economista riesce a far capire anche a un asino come il problema della giustizia sociale sia un falso problema. Ogni distribuzione imposta dall'alto è per sua natura instabile e per renderla fissa occorrerebbe un sistema di repressione sovietico. Un liberale sposta il focus dalla cosiddetta giusta distribuzione del reddito (assurda) a un metodo efficace per combattere la miseria. Sapendo che la povertà è un concetto relativo e più una società si evolve, più il concetto stesso di miseria cambia. Insomma azzerarla è impossibile. L'unica società senza differenza di ricchezze, potremmo dire, è quella ugualmente povera.

Ciò non vuol dire che non si possa fare nulla. Martino, già in quegli anni, riteneva che lo stato assistenziale e paternalista fosse destinato al fallimento e che i danni da esso provocati li avremmo pagati nel futuro (cioè oggi). E con estrema chiarezza percorre la proposta di Milton Friedman sull'imposta negativa sul reddito, elencandone non solo i numerosi vantaggi, ma anche i possibili svantaggi. Se mai un rappresentante del Movimento 5 Stelle leggesse queste nostre note e soprattutto quel libricino, capirebbe alcuni dei limiti del reddito di cittadinanza da loro ideato. Ma questo è un altro discorso.

La proposta di Friedman è che si fissi una soglia sotto la quale si integri il reddito del contribuente. Il meccanismo è quello di un'aliquota fiscale. Poniamo la soglia a 1000 euro. E l'aliquota al 50 per cento. Se il mio reddito fosse di 500 euro, avrei diritto a 250 euro. Se invece il mio reddito fosse pari a zero, avrei diritto sempre al 50 per cento della soglia e cioè 500 euro.

Martino elenca i numerosi vantaggi che si conseguirebbero rispetto alle impalcature dello stato sociale: niente più costi burocratici, benefici in denaro e non in natura che lascerebbero libertà di scelta anche ai poveri, e infine un sistema produttivo dei beni collettivi che si metterebbe in concorrenza. Non nasconde come possibile, gigantesco, svantaggio il disincentivo al lavoro che potrebbe derivarne.

A seguire arriva la vera ricerca dell'OCSE, cinquanta pagine accurate e approfondite che riescono a non citare né menzionare mai l'inventore della proposta: Milton Friedman. È così: Martino e Friedman non sono mai stati assorbiti dalla cultura economica mainstream. È forse per questo che a quarant'anni di distanza non passano di moda. Anche se in pochi, c'è da scommettere, oggi associano i cosiddetti "monetaristi", o la famigerata "scuola di Chicago", o peggio ancora i "neoliberisti" all'unica proposta seria fatta per combattere la miseria. Una lezione a cui, in questo libretto, ci abitueremo. Liberali e socialisti concordano sulla necessità di aiutare i più deboli. Ma i primi pensano che senza costruzione della ricchezza ci siano poche chance di riuscirci. E che la lotta alla disuguaglianza non c'entri un'acca con la battaglia ben più importante che è quella contro la povertà.

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Pagina 117

3. Che ne sai tu di un campo di kamut


L'ambientalismo è diventato una religione, e come tutte le religioni va avanti per dogmi. Non si discute. I suoi sacerdoti sono venerati come divinità in terra e sono ovviamente intoccabili. Chi li contesta viene addirittura definito un negazionista: termine al quale si è sempre ricorso parlando dell'Olocausto. Viviamo in un'epoca in cui la liturgia ambientalista si è complicata. Fino ad alcuni lustri fa il problema era l'inquinamento del pianeta e la nostra presunzione (questa sì davvero divina) di mutarne le forme. Le preoccupazioni per lo stato di salute della nostra Terra restano. Ma alcune evidenze stanno smontando l'imminenza della catastrofe: la Terra si riscalda meno del previsto, l'ozono non si è bucato, il petrolio ancora viene estratto e anzi negli Stati Uniti non se ne importa più, il cibo non scarseggia come un tempo e l'aspettativa di vita è aumentata ovunque.

La religione ambientalista muta forma e cambia obiettivi. Da quelli collettivi si passa a quelli nell'orto sotto casa. I comportamenti di consumo individuali sono ora messi in discussione. Tutti sognano un campo di kamut nella propria periferia. Non si contesta più il nucleare, ma la stessa estrazione del petrolio. Il cibo non si utilizza come spunto di una battaglia sociale, ma come strumento di purificazione. Si pretende, ora, di averlo coltivato vicino casa a chilometro zero, magari con poca acqua, senza sostanze chimiche, rispettando il ciclo delle stagioni. Uccidere gli animali per farne bistecche, è da sconsiderati. A maggior ragione lo è utilizzarli per coltivare i campi. Ma visto che gli idrocarburi inquinano, questi campi di kamut a chi li facciamo arare?

Restano gli uomini in carne e ossa. Quelli che hanno un bilancio familiare da far quadrare. Non sempre possono scegliere il bio a chilometro zero, ma quasi sempre si fanno (e molto bene) gli affari loro. Dopo lo scandalo delle centraline taroccate della Volkswagen le vendite sono crollate in Italia del 7 per cento (dati ottobre 2015). Passano pochi mesi (basta poco per cambiare idea) e gli italiani sono corsi dai concessionari a comprare Golf, facendo segnare un balzo delle vendite VW del 27 per cento rispetto all'anno precedente.

A tutti piace salvare il pianeta, ma molti capiscono che la religione ambientalista non ce la racconta giusta.

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Pagina 153

4. La disuguaglianza fa bene


Ci sono pochi preconcetti così diffusi e indiscutibili come quelli che riguardano la disuguaglianza. Essa starebbe clamorosamente aumentando e, ça va sans dire, sarebbe la causa dei grandi mali del secolo. Non c'è giornalista, opinionista, commentatore e "twittarolo" (essere umano che grazie alla piattaforma digitale chiamata Twitter pretende di avere un'opinione su tutto) che non tiri fuori, a un certo punto, la vicenda del mondo diseguale. Parafrasando Ricossa: l'idiozia della disuguaglianza è stata ripetuta abbastanza spesso da abbastanza economisti, per essere ormai diventata un dogma. Da salotto. Ma pur sempre un dogma. Per fortuna alcuni libri che ci facciano pensare diversamente esistono e li abbiamo scovati con il lumicino. In questo capitolo cercheremo di dimostrare come la favola della disuguaglianza in aumento ce la raccontano da millenni (già Luigi Einaudi diceva che si trattava di una "divulgatissima idea" anche se del tutto sbagliata): e in genere a farlo sono i privilegiati che da una parte si battono il petto per combatterla, dall'altra proprio grazie a questa battaglia perpetrano i loro vantaggi. Ma cercheremo anche di far capire come la disuguaglianza in sé non sia un problema economico, sociale e tanto meno filosofico. E ancora come gli strumenti per contrastarla siano spesso peggiori della, presunta, situazione critica che dobbiamo affrontare. In questo senso la disuguaglianza fa bene.

L'ultimo profeta della bontà in terra si chiama Thomas Piketty. L'autore del best seller del secolo, Il capitale nel XXI secolo, o nell'originale in francese Le capital au XXIe siècle. Un libro grazie al quale il patrimonio e la notorietà del Nostro non hanno eguali tra i suoi simili.

Proviamo a partire dalla coda, per poi arrivare alla testa. Come ben sappiamo non è importante ciò che è davvero reale, ma ciò che ci piace che lo sia. Insomma la nostra invidia ci porta sempre a pensare che il nostro vicino sia ingiustamente più ricco, più gratificato, e dunque abbia più cose rispetto a quelle che meriterebbe. Ci piace dire che la disuguaglianza esiste, perché ci piace dire che essa non è giusta. Se fosse in qualche modo giustificata, dovremmo discuterne. Ma se già diamo per acquisito che il denaro sia lo sterco del demonio e che dietro a ogni successo o patrimonio ci sia un grande furto, il gioco è fatto. Prima certifichiamo l'esistenza della disuguaglianza e poi ci compiacciamo del fatto che essa sia figlia di un'usurpazione. Il passaggio successivo è dare una dimensione globale al fenomeno: forse per farci sentire meno meschini, o banalmente meno invidiosi del nostro vicino di casa, abbiamo via via sostenuto con il medesimo meccanismo intellettuale l'esistenza di un'insopportabile disuguaglianza planetaria. Anche in questi casi con il senso di colpa connesso. Il Sud del mondo è meno ricco del Nord, anche perché il secondo l'ha sfruttato per secoli. Con l'avvento della globalizzazione, con lo spostamento dell'asse dello sviluppo dall'Occidente all'Oriente, dall'Europa all'Asia, la "disuguaglianza colonialista" ha perso un po' di appeal.

Le battaglie degli anni settanta contro la fame nel mondo non sono minimamente paragonabili a quella per la tutela del lavoro dei produttori cinesi di iPhone o di quelli vietnamiti di Polo. Nel nuovo millennio la disuguaglianza non è più vissuta in termini di fame e di sete, ma assume sfumature più moderne: sanità, istruzione, arretramento digitale. Un bel passo in avanti, non c'è che dire. Siamo forse ugualmente diseguali rispetto al passato, ma una cosa è esserlo sulla quantità di grano o riso che ingeriamo, altra cosa è esserlo sulla quantità di bytes che riusciamo a procurarci. Ebbene, la disuguaglianza è aumentata o no? Piketty scrive più di 900 pagine per dirci che viviamo nel periodo più diseguale del mondo. E provate a contestarlo. Ormai l'idea è passata. Nonostante Matthew Rognlie, un giovane laureato del MIT, abbia sbugiardato uno degli assunti di Piketty e il "Financial Times" abbia sorpreso il grande economista a immettere dei dati sbagliati proprio in quelle tabelle Excel che dimostrerebbero l'aumento della disuguaglianza. Scaramucce tra economisti.

Resta il fatto che ormai tutti hanno la sensazione di vivere nel mondo delle disuguaglianze. Grazie al cielo, pensa un liberale: pensate che orribile sarebbe la sensazione contraria. Come mi ha suggerito il costituzionalista Michele Ainis, quel che conta è l'uguaglianza delle speranze.

Un'ultima considerazione bisogna riservarla agli stessi che sono così ostili alla diseguale distribuzione del reddito, ma sono anche i primi a essere comprensivi delle differenze di genere, razza, sesso e religione. Anzi queste ultime sono disuguaglianze che debbono essere con forza protette. È necessaria una grammatica di genere, bisogna rompere la nostra tradizione pubblica e storica per rispettare le nuove religioni (quella islamica) e le loro differenti tradizioni e costumi. Il presidente degli Stati Uniti, Obama, ha lanciato una campagna in grande stile per il "Terzo Bagno", sostenendo che gli studenti delle scuole americane hanno il diritto di scegliere il gabinetto in base alla loro identità di genere e non al sesso anatomico. Non bastano quelli che un tempo i maschilisti omofobi definivano gli "attributi" a renderci uguali.

In questi campi le disuguaglianze fanno bene. Ci vogliono tutti uguali economicamente, ma devono essere protette, anzi incentivate, tutte le altre disuguaglianze.

Il borghese, l'eroe di Ricossa, sente poco l'invidia "perché riconosce a tutti il suo stesso obiettivo di eccellere e non vuole ricevere senza dare, non vuole dare senza ricevere. Egli scambia." Ma ha anche un certo rispetto per la sua storia e la sua tradizione.

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