Autore Alessandro Portelli
CoautoreZevi, Arru, Pupo, Franco, Santomassimo, Bermani, Tobagi, Urbinati, Lupo, Crainz, Gentiloni, Manconi, Graziani, Roghi, Natoli, Bravo, Ago, Gribaudi, Triulzi, Foa, Antonelli, Lerner
Titolo Calendario civile
SottotitoloPer una memoria laica, popolare e democratica degli italiani
EdizioneDonzelli, Roma, 2017, Saggine 283 , pag. 316, cop.fle., dim. 11,5x16,7x2 cm , Isbn 978-88-6843-577-6
CuratoreAlessandro Portelli
LettoreFlo Bertelli, 2017
Classe storia contemporanea d'Italia , politica , storia sociale , storia criminale , paesi: Italia: 2000 , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 1800












 

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Indice

 IX Per un calendario civile
    Introduzione di Alessandro Portelli


  3  27 gennaio. Giorno della memoria

        di Adachiara Zevi
 10     Nessuna scena di giubilo di Piero Terracina
 13     Se il cielo fosse bianco di carta di Ivan Della Mea

 15   9 febbraio. Proclamazione della Repubblica romana

        di Angiolina Arru
 24     Estratto dalla Costituzione della Repubblica romana (1849)
 27     Camicia rossa di Rocco Traversa e Luigi Pantaleoni

 29  10 febbraio. Giorno del ricordo

        di Raoul Pupo
 37     Quattro testimonianze di esuli
 39     1947 di Sergio Endrigo

 41   8 marzo. Giornata internazionale della donna

        di Vittoria Franco
 47     8 marzo di Marisa Rodano
 49     La Mimosa d'Amalfi di Sibilla Aleramo

 51  24 marzo. Eccidio delle Fosse Ardeatine

        di Alessandro Portelli
 57     Un lutto strano di Gabriella Polli
 62     La prima volta alle Ardeatine di Lia Albertelli

 65  25 aprile. Liberazione dal fascismo

        di Gianpasquale Santomassimo
 72     Gli ultimi giorni di Massimo Rendina
 75     Per il trentennale della Resistenza di Aldo Moro
 78     Dalle belle città

 81  1° maggio. Festa del lavoro

        di Cesare Bermani
 86     Primo Maggio a Portella di Franco Trincale
 88     Inno al Maggio di Pietro Gori

 91   9 maggio. Giorno della memoria delle vittime

        del terrorismo e delle stragi di tale matrice
        di Benedetta Tobagi
101     All'epoca ero proprio una ragazzina di Antonietta Sibio
105     Disamistade di Fabrizio De André

109  12 maggio. Introduzione del divorzio

        di Nadia Urbinati
117     Comizi d'amore di Pier Paolo Pasolini
119     La regina senza re di Ignazio Buttitta e Otello Profazio

123  23 maggio. Strage di Capaci

        di Salvatore Lupo
128     Discorso al funerale del marito Vito Schifani di Rosaria Costa
129     E adesso? di Giovanna Marini

131   2 giugno. Festa della Repubblica

        di Guido Crainz
136     Miracolo della Ragione di Piero Calamandrei
139     Addio Pippetto mio di Dante Bartolini

143  19 luglio. Bombardamento di Roma

        di Umberto Gentiloni
150     «A Roma all'allarme non gli dava retta nessuno...»
        di Rosario Bentivegna
152     San Lorenzo di Francesco De Gregori

155  21 luglio. Fatti del G8 di Genova

        di Luigi Manconi e Federica Graziani
164     Genova, Bolzaneto, Alessandria di Bruno Lupi
169     Rotta indipendente di Assalti Frontali

173   2 agosto. Strage di Bologna

        di Vanessa Roghi
184     Uno di ottantacinque. Sergio Secci
186     Per Sergio di Lucilla Galeazzi

189  1° settembre. Occupazione delle fabbriche

        di Claudio Natoli
197     La riconsegna delle officine di Giovanni Parodi
200     Guarda giù dalla pianura

203   8 settembre. Armistizio

        di Anna Bravo
210     L'8 settembre di Rosa S. raccontato dalla figlia Chiara
211     Tedeschi, partigiani e prigionieri di Carolina Zancolla
214     Ero povero ma disertore

217  20 settembre. Breccia di Porta Pia

        di Renata Ago
224     La breccia di Porta Pia di Edmondo De Amicis
226     La canzone dei berzajeri

229  29 settembre. Quattro giornate di Napoli

        di Gabriella Gribaudi
241     Un atto di resistenza di Antonio Amoretti
248     Napule nun t''o scurdà di Salvatore Palomba

251   3 ottobre. Giornata in memoria delle vittime dell'immigrazione

        di Alessandro Triulzi
258     Storia di Rashid
263     Tempo di volare di Ruth Padel

267  16 ottobre. Deportazione degli ebrei di Roma

        di Anna Foa
272     Era sabato e pioveva di Gabriella Ajò
276     Tornare e raccontare di Settimia Spizzichino
279     16 ottobre di Fabio Della Seta

281   4 novembre. Fine della prima guerra mondiale

        di Quinto Antonelli
291     Lettera dal fronte di Francesco Giuliani
293     Ponte de Priula

295  12 dicembre. Strage di piazza Fontana

        di Gad Lerner
305     Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo
309     Θ finito il Sessantotto di Paolo Pietrangeli


313     Gli autori

 

 

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Pagina IX

Per un calendario civile
Introduzione di Alessandro Portelli



«Il primo di novembre voi sapete che si fa tradizionalmente festa. Ora, si radunano [gli operai del lanificio Grόber di Terni] e vann'a chiedere al direttore che volevano fa' festa il 2 novembre. "Noi veniamo a chiedere una cosa da niente: spostare la festa, dai santi ai morti. Noi, veniamo a lavora' i santi; e i morti facciamo festa". Il padrone, che era cattolico, quelli confessionali, proprio bizzoconi, gli disse di no. E questi glie dissero: "Guardi, sa, che noi i santi non ce l'avemo, ma li morti ce l'avemo. E vogliamo andare a commemorare i nostri morti". Mio padre quando glielo diceva piangeva, che nel 1903 era morta mia madre. E allora glie dissero: "Domatina [Ognissanti], ce presentiamo ai cancelli". Difatti, lo stabilimento non fischia, gli operai tutti si presentano — la maggioranza erano donne — li trovano sbarrati. Il giorno appresso, 2 novembre, questi non vanno a lavora'. Cancelli aperti, non entra nessuno. Il giorno 3, il padrone dichiara la serrata. E durò, questa serrata, mesi: portando la gente alla fame» (Arnaldo Lippi, operaio, n. 1899).


Ha scritto Umberto Gentiloni: «Abbiamo quindi bisogno di un calendario civile che promuova partecipazione e conoscenza in forme nuove e non episodiche: guardare al passato per comprendere, celebrare per conoscere, trasmettere e ricordare rafforzando così il tessuto di una comunità nazionale. Ingredienti utili per sconfiggere i rischi dell'oblio, preziosi per costruire una cittadinanza capace di non smarrirsi nelle sfide del nostro tempo».

Fin dall'Unità nazionale, dalle origini del movimento operaio e poi della Repubblica, la questione di una ritualità altra, di un ciclo laico dell'anno, si è posta come fondamento di un'identità civile, non necessariamente antagonista ma indipendente rispetto al ciclo festivo e liturgico della Chiesa cattolica. Si celebravano il 20 settembre e la Repubblica romana (finché non furono cancellate dal fascismo), la battaglia di Mentana (3 novembre), si lottava per festeggiare il Primo maggio... Era in atto una vera e propria «lotta di classe per il rituale», in cui, come gli operai del lanificio Grόber di Terni ai primi del Novecento, si cercava di appropriarsi anche del significato delle festività ricevute.

D'altra parte, in Italia è proprio la ricchezza e la pervasività del rituale e della liturgia della Chiesa cattolica che da un lato fa sentire con particolare intensità la necessità di un rituale alternativo e dall'altro contribuisce a dargli forma. Questo vale non solo per la sfera pubblica ma anche per i passaggi della vita personale. Per esempio: «Io ero la madrina della bandiera. Quando che fa la bandiera, su 'n' associazione, c'è sempre la commare della bandiera. M'hanno fatto un vestitino rosso, co' un fiocco, poi hanno dato via parecchie ciambelle, pagnottine, vino. M'hanno messo sopra 'sto tavolo, m'hanno fatto di' qualche parola, e ecco è stata la commare della bandiera». Come ha scritto Luigi Manconi, «anche chi non ha una propria fede può avvertire comunque l'esigenza di elaborare una ritualità laica, capace di "celebrare" i passaggi essenziali dell'esistenza umana». Così, il calendario delle feste civili si è a lungo intrecciato con la costruzione di una ritualità alternativa attorno ai momenti cruciali della vita individuale e familiare: i «battesimi» comunisti e socialisti in sezione, i nomi estranei al canone dei santi, i funerali laici, i matrimoni e, oggi, le unioni civili, per i quali una ritualità è ancora in fase di riscoperta e ricostruzione.

La creazione del calendario civile non è stata un processo semplice: certe date hanno un'origine istituzionale (il 2 giugno, il Giorno del ricordo), altre sono state osteggiate e faticosamente conquistate, altre sono state costruite e affermate dal basso e fanno parte di una memoria di movimento – Genova 2001, il 3 ottobre (Lampedusa), il 12 dicembre (piazza Fontana)... Θ una memoria che spesso travalica i confini: il 27 gennaio è una data europea, e sono state celebrate a lungo date legate a una coscienza internazionalista – non solo il Primo maggio (come ci ricorda Cesare Bermani), o l'8 marzo, ma anche, per ricordarne alcune rimaste fuori da questo libro, l'11 settembre (prima il golpe cileno, più tardi l'assalto alle Twin Towers di New York) o il 14 luglio della presa della Bastiglia, il 7 novembre della rivoluzione bolscevica. D'altra parte, sono anche memorie radicate a partire da un luogo preciso: Roma (il 19 luglio, il 16 ottobre), Genova (il 21 luglio), Torino (le occupazioni delle fabbriche), Napoli (le Quattro giornate), Milano (piazza Fontana), Lampedusa (il 3 ottobre).

Gli anniversari, con la loro retorica, segnano un tempo ciclico, che torna sempre su se stesso. La memoria rappresentata dal calendario civile in questo libro è pensata invece come un tempo in divenire, non la ripetizione di singoli momenti nel tempo ma la continuità e l'evoluzione di un processo di cui quei momenti sono simboli, riferimenti, occasioni. Come scrive Gentiloni, non si tratta di celebrare l'anniversario ma di tenere viva la storia. Per questo, anche se a volte sono designate come feste (la «festa» della donna, la «festa» dei lavoratori), queste date sono profondamente diverse dalle feste tradizionali. Queste, come ha mostrato Alfonso Di Nola , sono spesso interruzioni del tempo ordinario («vacanze» nel senso non banale del termine), sospensioni delle regole e delle divisioni della quotidianità; l'intenzione del progetto «calendario civile» è piuttosto quella di intensificare il tempo e ribadire il senso delle regole condivise che rendono possibile la convivenza di diversità che costituisce la democrazia, non solo in quel giorno ma – come ricordano le donne a proposito dell'8 marzo – «tutto l'anno».

In un memorabile contrasto poetico a braccio in ottava rima, l'anziano poeta improvvisatore contadino Nello Innocenti chiedeva con sfida: «O scusate se so' così selvaggio/ ma perché si festeggia il Primo Maggio?». Già, perché, che cosa si festeggia – la festa dei lavoratori, la festa del lavoro, la festa di San Giuseppe artigiano (o più tardi lavoratore) – o magari, come in certe realtà alternative (e in un antico editoriale di Lucio Magri sul «manifesto»), una festa di liberazione dal lavoro? E lasciamo perdere come. L'interlocutore di Innocenti, il giovane operaio Adalberto Fornari, gli rispondeva in rima che c'è chi «fa l'omaggio» a «chi lavora adagio adagio» ma poi «a chi versa il sudore/ non dedica mai l'anima col cuore»: si può festeggiare il Primo maggio (o l'8 marzo) come se fosse una festa tradizionale, in cui rendere «omaggio» tutti insieme per un giorno ai lavoratori (o alle donne) e poi continuare tutto come prima. Oppure riconoscervi un momento in cui non tutti, ma una parte della società non solo afferma la sua presenza e la sua dignità, ma rivendica con forza i suoi diritti che un'altra parte nega o reprime.

Il calendario civile non ricostituisce la comunità come entità mistica e indifferenziata ma come luogo di differenze. Ammoniva un antico rivoluzionario galileo: «non sono venuto a portare la pace ma la spada» (Matteo 10, 34); e ci insegnano i semiologi moderni che più è ristretta la porzione di mondo che si può scambiare con un segno e più intensa è la comunicazione e meno generico il significato. Perciò le date del calendario civile sono spesso luoghi parziali di significati contesi – come erano il 1° e il 2 novembre per gli operai del lanificio ternano o il 4 novembre per gli operai milanesi di cui scrive Quinto Antonelli.

Il libro si apre con le riflessioni di Adachiara Zevi sulle contraddizioni, i consensi e i dubbi sulla Giornata della memoria: non solo su quale sia il modo più efficace di tenere viva senza banalizzarla la memoria della Shoah, ma anche su quale sia il significato e la funzione della memoria nel nostro tempo. E non è un caso se questa memoria, approvata all'unanimità, sia in realtà tanto divisiva e conflittuale che si è ritenuto necessario contrapporgliene subito un'altra, anche questa apparentemente unanime ma decisamente parziale, con il Giorno del ricordo. Il senso del 25 aprile si è ravvivato e intensificato proprio perché erano al potere forze politiche che lo negavano; in un'Italia attraversata da razzismo e xenofobia, il 3 ottobre è una data di lotta (persino una data blanda come l'anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, il 17 marzo 2011, ha acquisito senso proprio perché la Lega contestava l'idea dell'unità nazionale. E non parliamo del Gay Pride, insieme festa e protesta). Pensiamo a quello che è uno dei testi più alti di questo libro, le parole divise di Rosaria Costa, vedova di uno degli uomini uccisi a Capaci con Giovanni Falcone: da un lato, le parole pre-scritte della celebrazione liturgica controllata («uomini della mafia... io vi perdono... se avete il coraggio di cambiare»), dall'altro la loro negazione orale, l'irruzione irrituale di una diversità insopprimibile («loro non vogliono cambiare, loro. Loro non cambiano, loro non cambiano...»); e ancora: «Vi chiediamo... di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore, non c'è amore per niente».

Ora, la «spada» di Cristo non è uno strumento per uccidere, ma uno strumento per distinguere, un po' come lo slash che in semiologia genera il significato per via di divisione. La democrazia è appunto un'organizzazione della società che riconosce le divisioni e i conflitti e prova ad amministrarli senza farci la guerra; sono le regole di un vivere comune in cui siamo o dovremmo essere «uguali», dotati di pari diritti, proprio perché non siamo «uguali» nel senso di «identici». Lo dice bene una canzone di Giorgio Gaber sulle elezioni: la felicità di sentirsi uniti dal fatto di esercitare un condiviso diritto che consiste nell'esprimere scelte anche opposte, e di rispettare l'esito.

Un personaggio di William Faulkner diceva che il passato non solo non è morto, ma non è nemmeno passato – non solo perché ne sentiamo ancora gli effetti (storia), ma perché ce lo portiamo tutto dentro in ogni momento (memoria). Θ questa intuizione che regge la forma di questo libro – o forse di ogni libro. Un libro, infatti, si legge in una sequenza convenzionale, una pagina dopo l'altra, che rinvia alla diacronia della storia; ma poi tutte le pagine sono presenti nello stesso momento, e possono essere ripercorse in ogni direzione, come nella sincronia della memoria: gli eventi si succedono nel tempo, ma sono tutti contemporanei nel ricordo perché nello stesso momento ricordiamo momenti diversi. In questo calendario civile, i saggi e gli interventi storici collocano ciascun evento ricordato nel suo tempo specifico e nei suoi effetti successivi; ma la loro compresenza simultanea nella materialità delle pagine invita a sinapsi imprevedibili, ad associazioni di significato che interrogano la soggettività di chi ricorda e di chi legge. Ognuno intreccia i fili e unisce i puntini a modo suo. Che ci fanno uno accanto all'altro il 9 e il 10 febbraio, Repubblica romana da una parte, esodo e foibe dall'altra, salvo evocare una doppia origine (la nazione e la repubblica), farci notare che la seconda data è una celebrazione ufficiale dello Stato e la prima una memoria ostinatamente difesa da minoranze, e interrogarci sul ruolo dell'oblio nella politica del ricordo? Come accostiamo San Lorenzo e Carlo Giuliani nella metà di luglio? E i deportati del 16 ottobre come i migranti del 3 ottobre non sono forse accomunati sia dalla pena del viaggio forzato, sia (come ha detto molto bene Luigi Manconi) dal «peccato dell'indifferenza» altrui? Che ci fanno quattro date diverse nel mese di maggio, cucite insieme da diverse forme di violenza, diversi modi di interferenza mafiosa, diverse articolazioni delle relazioni di genere? E se ci mettessimo pure il 24 maggio, e («involontaria ironia delle date», come qui scrive Gianpasquale Santomassimo) Giorgiana Masi, vittima della polizia dello Stato, accanto alla data che è oggi dedicata alle vittime del terrorismo, che ne sarebbe di maggio mese delle rose?

Questo libro, venuto a compimento in un momento di aspra divisione della nostra vita democratica, è un luogo di unità nell'adesione condivisa e convinta alle regole che ci permettono di vivere insieme, ma è anche un luogo di interrogazioni e di differenze. Sono differenti punti di vista, differenti modi di muoversi all'interno di una vasta e plurale cultura democratica, differenti estrazioni disciplinari (storici, architetti, giornalisti, letterati, politici...) degli autori dei brevi saggi che lo compongono, che abbiamo anche per questo rinunciato a omogeneizzare editorialmente. E sono diversità che riscontriamo nella molteplicità di linguaggi dei materiali che li accompagnano e che intrecciano documenti di memoria con quella indispensabile fonte storica e forma di memoria che è la musica e la letteratura. Anche qui, differenze: storie orali, documenti (alcune delle voci importanti della nostra storia recente, da Calamandrei ad Aldo Moro), testi letterari (da De Amicis a Pasolini passando per Sibilla Aleramo e Lia Albertelli), memorie scritte (lettere, autobiografie); teatro (Dario Fo), canzoni (dalla tradizione orale al rap, dai cantastorie a Ivan Della Mea, passando per Giovanna Marini, gli Assalti Frontali, Sergio Endrigo, Paolo Pietrangeli...). Il calendario civile è, in fin dei conti, un mosaico: tessere diverse ma capaci, tutte insieme, di formare un disegno che chi legge può ricostruire.

Roma, gennaio 2017 A. P.

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Pagina 3

27 gennaio
Giorno della memoria
Liberazione del campo di Auschwitz (1945)
di Adachiara Zevi



Tre attitudini accompagnano da sedici anni il 27 gennaio, giorno della liberazione nel 1945 del campo di Auschwitz, scelto nel 2000 dal Parlamento italiano come Giorno della memoria, con cinque anni di anticipo sugli altri paesi europei.

I fautori a oltranza si prodigano con ogni mezzo per affollarlo di appuntamenti e iniziative che tracimano inevitabilmente nei giorni successivi. Gli echi mediatici, il numero degli eventi e il grado di stanchezza di promotori e partecipanti sono l'unità di misura della sua buona riuscita. Agli antipodi, un piccolo ma agguerrito manipolo di detrattori mette in discussione l'opportunità stessa della celebrazione ma soprattutto le sue modalità e i suoi destinatari. In mezzo, i perplessi che, pur convinti della necessità della ricorrenza, temono che la memoria, affidata prevalentemente alla testimonianza individuale, sfugga alla verifica storica dei fatti e del loro contesto.

Se la tendenza dominante premia i fautori, tra i detrattori spicca, con il saggio stimolante e provocatorio Contro il Giorno della memoria, la scrittrice Elena Loewenthal. Ne spiega lei stessa le motivazioni. «Concepito e nato per ricordare l'orrore che l'Europa ha visto e annidato negli anni Quaranta del secolo scorso, il GdM è diventato ben presto una specie di (postumo) atto di omaggio agli ebrei sterminati. Una ricorrenza non introspettiva, bensì transitiva». «Ma da quando in qua la storia appartiene a chi ci muore dentro senza lasciare altra traccia se non una voluta di fumo da un camino altissimo?». «La memoria deve servire a tutt'altro. A educare nella direzione opposta. A divulgare il male per tenersene lontani. A riconoscere quella storia come propria. Italiana. Altro che ebraica... La memoria della Shoah è di tutti gli altri fuorché degli ebrei...». Verissimo. Nel tempo, il Giorno della memoria, nutrito di viaggi ad Auschwitz, dell'ascolto dei testimoni, di filmati, pubblicazioni, spettacoli teatrali, concerti, mostre, master universitari, rischia di diventare il Giorno della memoria della Shoah.

Del resto, se all'indomani dell'apertura dei cancelli di Auschwitz, silenzio e rimozione assecondavano una memoria così viva della Resistenza da assorbire in sé qualsiasi altra declinazione di lotta e persecuzione, a partire dal processo Eichmann nel 1961 ma soprattutto nel corso degli anni ottanta e novanta, la Shoah, finalmente riconosciuta nel suo orrore e nella sua specificità, ha assunto progressivamente il ruolo di protagonista, relegando in un cono d'ombra le altre forme di persecuzione e sterminio, politica, militare, rom, omosessuale. Così ragiona lo storico David Bidussa: «Si è dissolta la memoria dell'antifascismo; la memoria delle diverse deportazioni — politica, civile, militare — è arretrata. Due condizioni che chiamano in causa la fisionomia culturale dell'opinione pubblica per la quale la dimensione pubblica della Shoah sembra aver guadagnato spazio a scapito di qualcos'altro e per dare spazio a una rinnovata "indifferenza"». Ne è prova la sorte del Memoriale italiano nel Padiglione 21 di Auschwitz, «sfrattato» perché, orientato sul versante politico-resistenziale, è poco conforme agli attuali equilibri memoriali. Contro la guerra tra le identità e le memorie, lo storico Marcello Flores esorta a «incrementare il tasso di adesione identitaria ai valori universali che costituiscono il cuore della cultura dei diritti umani e che non permette distinzioni tra violenze, violazioni, crimini commessi verso i nostri vicini o verso chi sta più lontano».

Uno sguardo alla legge istitutiva del 20 luglio 2000, n. 211, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 177 del 31 luglio 2000, rivela la diversità degli intenti iniziali. Il titolo parla intanto di «Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Consta di due articoli. Recita il primo: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Non solo le vittime, dunque, ma anche i Giusti e quanti si sono prodigati per la protezione e la salvezza dei perseguitati. L'articolo 2 entra invece nel merito delle modalità della celebrazione: «In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere». Fare degli ebrei i destinatari privilegiati della giornata contraddice dunque lo spirito inclusivo della legge. Loewenthal riconosce la logica che sottende la scelta del 27 gennaio: quel giorno l'Europa intera e non solo le truppe dell'Armata Rossa hanno preso atto dell'esistenza del pianeta Auschwitz. «Θ la ricorrenza del primo sguardo dentro al campo [...] Allora, se una ricorrenza resta efficace e ha ancora qualcosa da dire, il punto di partenza è provare a immedesimarsi in quel momento», mettersi nei panni dei soldati russi e provare il loro stesso sgomento. Altrimenti, «ricordare perché non accada mai più rimane una frase vuota. Non solo, come aveva previsto Primo Levi , ciò che è accaduto continua ad accadere, ma il GdM non ha ridotto affatto il negazionismo, il razzismo e l'antisemitismo, li ha semmai amplificati attraverso la rete e aggravati con la declinazione anti-israeliana. Concorda il filosofo Tzvetan Todorov quando mette in guardia: «Ancora oggi, la memoria della seconda Guerra Mondiale è viva in Europa, sostenuta da innumerevoli commemorazioni, pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche o televisive; ma la ripetizione rituale del "non bisogna dimenticare" non ha alcuna visibile incidenza sul processo di purificazione etnica, di torture e di esecuzioni di massa che nello stesso tempo si verificano all'interno stesso dell'Europa». Tra i perplessi, si distingue la storica Anna Rossi-Doria che, pur non mettendo in discussione l'opportunità e l'utilità del Giorno della memoria, sottolinea le ambiguità contenute nel secondo articolo della legge. Ponendo sullo stesso piano «cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione», si rischia di non distinguere o addirittura di sostituire la memoria alla storia, fidando nel fatto che le testimonianze, dirette o trasmesse con film e documentari, rappresentino da sole uno strumento efficace di conoscenza. Una contraddizione difficilmente sanabile anche se la stessa storica intravede un sintomo di ricomposizione nel film del 1985 Shoah di Claude Lanzmann, un film che lo storico Pierre Vidal-Naquet giudica una grande opera storica, «la prova assoluta che lo storico è anche un artista. Un film che mostra quanto l'arte possa essere una delle vie maestre per salvare la memoria».

Mentre Rossi-Doria rifiuta categoricamente ogni idea di «indicibilità» della Shoah, Loewenthal ammette di non riuscire «nemmeno lontanamente a sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose [...]. Non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile». Una posizione estrema assimilabile a quella dello psicoanalista francese Gérard Wajcman quando giudica parimenti impossibile rappresentare ciò che nessuno ha visto, l'assenza cioè, quell'invisibile che è il «cuore assoluto di questo secolo moderno» e che coincide con il baratro della Shoah. A differenza di Loewenthal, però, Wajcman crede nella capacità dell'arte di mostrare ciò che non è rappresentabile né a parole né in immagini. Per questo plaude a Duchamp e Malevič e, oggi, a Lanzmann e a Jochen Gerz, autore nel 1986 del Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza – per la pace e i diritti umani: una colonna di piombo che sprofonda nel terreno nel giro di sette anni grazie alle firme impresse dai visitatori sulla duttile superficie. La memoria passa così dal memoriale ormai invisibile ai testimoni che hanno contribuito alla sua sparizione. C'è in realtà un modo di ricordare discreto, privo di enfasi e di retorica, su cui tutti concordano: restituire a ciascuno il proprio nome, «l'unica cosa che si possa riavere dopo la morte [...] la traccia che l'individuo lascia sul mondo». Θ il compito titanico assuntosi dall'archivio di Yad Vashem a Gerusalemme, lo stesso dell'artista tedesco Gunter Demnig quando nel 1990 decide di ricordare tutti i deportati indistintamente, uno per uno, interrando davanti alla casa di ognuno uno Stolperstein, una «pietra d'inciampo», recante il suo nome, la data di nascita, di deportazione e di morte, l'intero ciclo cioè di una esistenza tragica, in uno spazio appena sufficiente a contenerla. Ogni anno, in gennaio, in occasione del GdM, il rituale dell'installazione delle pietre si ripete uguale a se stesso, nelle premesse e negli esiti; anche se cambiano ogni volta i nomi, le storie, i luoghi, il disegno dunque della mappa della memoria europea costruita già da 60 000 pietre. Il GdM è infatti una ricorrenza e, come tale, deve essere pubblicamente riconoscibile attraverso quella ripetizione rituale che caratterizza tutte le altre ricorrenze del nostro calendario. Perché allora la ricerca compulsiva di novità? «C'è un equivoco di fondo, sul GdM. Che non è sentito tanto come una ricorrenza intrinseca al calendario civile, come un evento entrato nella comune percezione del tempo laico, con i suoi rituali e le sue commemorazioni, quanto come una sorta di "intrusione" dall'esterno...».

Alla luce di posizioni tanto variegate, cui possono ricondursi le voci di altri storici, filosofi, psicoanalisti, artisti, occorre ribadire l'opportunità e l'indiscutibile utilità del Giorno della memoria come occasione di studio, riflessione e formazione sulla storia del secolo passato e dei suoi orrori. E la voce degli ultimi testimoni deve essere una fonte preziosa e insostituibile, anche perché, come osserva Annette Wieviorka, «riscalda le gelide stanze della storia». Per scongiurare il doppio rischio della «sacralizzazione» e della «banalizzazione» della Shoah, della sua inconfrontabilità o della sua assenza di specificità, Auschwitz va «pensata storicamente», non per tributare un omaggio alle vittime né per risarcirle, dunque, ma per «guardare quel passato e non negare che riguarda se stessi. Non perché colpevoli ma perché quella storia è imprescindibile dalla propria identità collettiva».

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Pagina 10

Testimonianze e documenti


Nessuna scena di giubilo
di Piero Terracina
[1998]



«Io mi ricordo, quando so' stato liberato, che è stato il 27 gennaio, sono stato liberato dalle truppe sovietiche a Birkenau – non a Birkenau, ad Auschwitz; e mi ricordo che i soldati sovietici quando ci guardavano, avevano come un senso di ribrezzo. Non si avvicinavano. D'altra parte eravamo ridotti in condizioni tali che non eravamo più... non eravamo più persone. Poi fisicamente ridotti completamente all'estremo. Io mi ricordo quando sono stato liberato, che... i tedeschi avevano abbandonato il campo, poi erano tornati, ci avevano fatti uscire dal campo di Birkenau dove stavamo, ormai eravamo rimasti pochissimi, ci fecero uscire tutti, dissero se c'è qualcuno che non è in condizioni di, di camminare rimanga, si metta da una parte, proprio all'ingresso: mi ricordo, uscendo dal campo, sulla sinistra, e noi invece gli altri sulla destra. E, a un certo punto cominciarono questa colonna, di larve umane, cominciò a muoversi, tra cui ero io; fatto qualche centinaio di metri sentimmo delle scariche di mitra – e quelli che erano rimasti da una parte ai quali avevano detto che non potendo camminare sarebbero stati, sarebbero passati i camion per prenderli, e invece...

Comunque la nostra colonna cominciò a muoversi; stava annottando. Quindi io con altri miei compagni rimanemmo indietro, i tedeschi non erano molti che sorvegliavano le file; e quindi rimanemmo, e gli altri continuarono a andare avanti. Poi ho saputo invece che anche quegli altri che erano sorvegliati da poche SS, questi qui a un certo momento avevano abbandonato completamente, erano fuggiti e l'avevano lasciati, l'avevano lasciati così, in balìa di loro stessi. Il freddo era terribile, perché era gennaio, oltre tutto gennaio del '45 è stato un inverno tremendamente freddo. E quindi dovevamo necessariamente ripararci. E quindi uscimmo, camminammo non so per quanto, a me sembrarono ore, probabilmente non erano ore, ma la fatica era tanta, co' la neve, il freddo terribile, coperti male eccetera, alla fine vedemmo delle sagome di costruzioni e decidemmo di entrare. E non era nient'altro che il campo di Auschwitz, noi venivamo da Birkenau che era sempre Auschwitz ma Auschwitz secondo, Birkenau è il campo costruito per lo sterminio, esclusivamente per lo sterminio. Invece arrivammo a questo campo di Auschwitz che dista tre chilometri da Birkenau; ma, io non so, a me è sembrato di aver camminato per diverse ore. Probabilmente o camminavamo in tondo, oppure, oppure la fatica era tale che quello che normalmente si poteva fare forse in mezz'ora, tre quarti d'ora, ci abbiamo messo delle ore per farlo. Comunque entrammo lì, i tedeschi non c'erano, il campo era, anche lì era disseminato di corpi, di quelli che erano, che erano morti. E, ricordo una mattina, nella tarda mattinata, aprii la porta della baracca, per andare a raccogliere un po' di neve da sciogliere, da poter bere. Vidi una figura di un – soldato; era completamente vestito di bianco o ci aveva sopra un mantello bianco o una coperta per mimetizzarsi con la neve – sentì aprire la porta, istintivamente tirò fuori il mitra da sotto questo mantello e però si rese conto subito che non... non potevo nuocergli, mi fece cenno co' la mano di rientrare. Perché evidentemente era pericoloso, perché sparavano. Stavano lì attorno al campo, c'erano ancora i tedeschi, si sentivano i colpi di fucile in lontananza, si sentivano i colpi di cannone, quindi mi fece rientrare e comunicai ai miei compagni che erano arrivati i russi.

Be' insomma, non... Si può pensare che, chissà quali scene di giubilo. Niente, assolutamente niente. Niente; un silenzio totale, qualcuno... qualcuno cominciò... Mi ricordo che c'era uno che aveva preso dell'acqua e si stava, stava facendo dell'abluzioni – dell'acqua, della neve che aveva sciolto eccetera – stava facendo dell'abluzioni con grande soddisfazione eccetera, quando glielo dissi continuò senza dire neanche una parola. E così tutti gli altri. Poi qualcuno cominciò a pregare, qualcuno cominciò a piangere ma, nessuna scena di giubilo, nessuna scena d'entusiasmo. Poi ho rivisto dei, dei filmati colla liberazione di Auschwitz dove si vedono i prigionieri festanti, i russi che tolgono, che tagliano la catena che chiudeva il cancello del campo: è stato girato una settimana dopo, e io ho visto tutto da lontano. Perché in quel momento non c'è stata assolutamente nessuna scena di entusiasmo, niente.

E quindi questa è stata diciamo un po', la mia storia, ripeto... quello ch'ho raccontato è soltanto la quotidianità, del campo. Perché le cose più atroci, alle quali siamo stati costretti ad assistere, be' credo che pochi di noi hanno il coraggio di raccontarle. Io, per più di quarant'anni non ne ho mai parlato. Non ho mai parlato neppure con le persone più care. Poi invece, è scattato un qualche meccanismo, per cui piano piano son arrivato invece alla, alla decisione opposta. Non è stata una decisione, è avvenuto da sé. Direi che il momento in cui proprio ho deciso, forse una qualche idea ce l'avevo già da prima, in cui ho deciso che il momento di cominciare a parlare e che non potevamo, non potevo più tacere, è stato quando c'è stata la profanazione del cimitero di Carpentras. In Francia. Credo che sia stato quello il momento in cui ho detto non... è più possibile. Non è più possibile tacere».

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Se il cielo fosse bianco di carta
di Ivan Della Mea



    Se il cielo fosse bianco di carta
    e tutti i mari neri d'inchiostro
    non saprei dire a voi, miei cari,
    quanta tristezza ho in fondo al cuore,
    qual è il pianto, qual è il dolore
    intorno a me.

    Si sveglia l'alba nel livore
    di noi sparsi per la foresta,
    a tagliar legna seminudi,
    coi piedi torti e sanguinanti;
    ci hanno preso scarpe e mantelli,
    dormiamo in terra.

    Quasi ogni notte, come un rito,
    ci danno la sveglia a bastonate;
    Franz ride e lancia una carota
    e noi, come larve affamate,
    ci si contende unghie e denti
    l'ultima foglia.

    Due ragazzi sono fuggiti:
    ci han raccolti in un quadrato,
    uno su cinque han fucilato,
    ma anche se io non ero un quinto
    non ha domani questo campo...
    ed io non vivo.

    Questo è l'addio
    a tutti voi, genitori cari,
    fratelli e amici,
    vi saluto e piango.

    Chaìm.

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25 aprile
Liberazione dal fascismo
Proclama di insurrezione generale del Cln a Milano (1945)
di Gianpasquale Santomassimo



Già nel 1944, mentre la lotta di liberazione era ancora in atto, il governo Bonomi aveva istituito una «Giornata del partigiano», fissata, per inconsapevole ironia delle date, al 18 aprile. C'era infatti una grande enfasi attorno ai combattenti italiani, in divisa e per bande, che doveva servire a facilitare quelle che venivano immaginate normali trattative di pace. Non servirà a molto su questo terreno, ma per altri versi non sarà affatto inutile: la nuova immagine degli italiani si costruisce anche attraverso il riconoscimento internazionale dell'esistenza di combattenti italiani per la libertà.

A Liberazione avvenuta fu scelto il 25 aprile: la data del proclama di insurrezione, non quella della Liberazione effettiva, il 28, con la parziale resa dei conti e la fucilazione dei gerarchi. Che avrebbe potuto suonare ancora più sgradevole all'Italia che in quegli uomini si era a lungo identificata e che avrebbe dovuto essere lentamente «rieducata». Proposito che non si realizzò mai del tutto, anche per la difficoltà di metabolizzare l'esperienza fascista da parte della società italiana. Allo stesso modo era significativa la scelta del termine «Resistenza» per descrivere il complesso di vicende intervenute tra il 1943 e 1945: termine tradotto a posteriori dall'esperienza francese, che non era mai circolato tra i contemporanei (a differenza di movimento partigiano, movimento di liberazione, patrioti in armi), ed era termine «allusivo e metaforico, reticente e ridondante insieme».

Ma la formula predominante per oltre un decennio nella memoria pubblica sarà quella del «Secondo Risorgimento», che nasce prestissimo. Il termine, adottato concordemente, assume di fatto significati diversi. Non era solo retorica «moderata», come è rimasto nella memoria di molti, anche se è indubbio che la formula si sarebbe prestata a lungo a una celebrazione virata in chiave esclusivamente patriottica. All'origine, per alcuni dei suoi più convinti formulatori, il «secondo» stava a indicare non una pura ripetizione ma incremento, accrescimento, completamento («secondo» anche e soprattutto perché diverso dal primo, per la presenza delle masse popolari e, in particolare, dei contadini – sarebbe stata la tesi, ad esempio, di Gaetano Salvemini ). La simbologia risorgimentale del resto era fin dall'origine patrimonio di gran parte dell'antifascismo – e a partire dagli anni trenta anche del movimento comunista – e l'iconografia del movimento operaio trovava in Garibaldi un riferimento solido e stabile, anche nelle sconfitte elettorali.

Evocare il Risorgimento serviva inoltre a conferire alla vicenda resistenziale il connotato di una lotta pressoché esclusiva contro lo straniero, mettendo in secondo piano gli elementi di guerra civile: era il riannodarsi ovviamente a un'epica popolare elaborata nel tempo (il Risorgimento era stato anche e soprattutto guerra tra italiani, ma di questo si era persa memoria).

Il 25 aprile si affermò comunque come la festa più popolare e partecipata, di fatto superando il 2 giugno, che nel calendario istituzionale aveva un rango superiore, ma che dopo i primi anni si risolse nella parata militare ai Fori Imperiali, non sempre effettuata, e a lungo spostata, per motivi economici, alla prima domenica di giugno.

Il 25 aprile invece fu sempre giornata di festa popolare e di grandi manifestazioni di massa in tutte le città italiane, anche se non condivisa da tutti e interpretata in maniera diversa dalle forze politiche e dalle culture che nella Liberazione si riconoscevano. Dopo i primi anni, intervenuta la rottura politica tra le forze che avevano costituito il Cln, il 25 aprile sembrò per alcuni anni un problema assai più che una risorsa per l'Italia governativa. Ricordo di una «guerra fratricida» (è l'espressione che nel primo quindicennio della Repubblica – ma anche oltre – sostituisce il termine «guerra civile» nel discorso pubblico con un significato deprecativo molto più intenso), per molti anni verrà stancamente celebrata – il rilievo riguarda anche e soprattutto le molte e diverse realtà locali – solo in chiave «nazionalpatriottica».

L'appello alla «concordia nazionale» sarà, doverosamente e responsabilmente, presente in tutti i discorsi istituzionali dal 1945 a oggi. Può significare nel tempo cose molto diverse, che variano in base alla sensibilità e alla disposizione culturale e politica delle autorità: annullare retoricamente i contrasti oppure contribuire a superarli, e anche qui in forme variabili, oscillando tra due ipotesi estreme – «rieducare» i fascisti oppure incontrarsi con loro a mezza strada.

Di fatto, molte celebrazioni della Liberazione si svolgeranno nei primi anni cinquanta in tono minore, quasi rimosse dalle autorità governative. L'«Avanti!» del 26 aprile 1953 segnalava che molti provveditori agli studi avevano preso l'abitudine di comunicare alle scuole che la vacanza era dovuta alla celebrazione del «genetliaco di Guglielmo Marconi».

Il mito della Resistenza tradita, già prefigurato nella lunga serie di «delusioni storiche» che prendono corpo ancora in corso d'opera, dalla svolta di Salerno in poi, assume ora una rilevanza centrale e destinata a pesare per decenni nel modo stesso di pensare la Resistenza. Era un mito sterile, ma in quegli anni appariva legittimato dal clima politico e culturale. La riapertura dei processi ai partigiani sembrava inverarlo: repubblichini amnistiati con formula piena, e processi che si riaprivano per i partigiani: è una singolare forma di quella «egemonia dell'antifascismo» tante volte asserita dal giornalismo storico sull'Italia repubblicana. L'antifascismo diviene da ora in poi elemento di tensione e di contraddizione — riaffiorante nella storia repubblicana — tra la Costituzione scritta antifascista e la Costituzione materiale anticomunista che si impone nel primo quindicennio repubblicano.

Dopo il primo decennale, nel 1955, le cose cominciano lentamente ad evolvere, si riannodano iniziative unitarie tra le stesse forze partigiane, investite anch'esse dalla lacerazione che aveva distrutto l'unità del Cln. La presidenza di Giovanni Gronchi, con il richiamo esplicito alla Resistenza e alla Costituzione da attuare, contribuisce molto al mutamento del clima.

Sarà soprattutto la prova di forza del luglio 1960, che vede l'inattesa presenza di una nuova generazione nelle piazze, a favorire l'avvento di un centrosinistra che trovava anche nell'antifascismo uno dei suoi motivi ispiratori. Torneranno celebrazioni unitarie nel giorno della Liberazione, la Costituzione entrerà nelle scuole, si terranno cicli affollatissimi di lezioni sul fascismo e sull'antifascismo in molte città italiane. Il ventennale nel 1965 registrerà una radicale differenza di clima rispetto al passato più recente. Mentre si attenua e perde di intensità pur senza mai spegnersi del tutto il richiamo al Risorgimento, ora la Resistenza diviene realmente non solo «evento fondatore» della Repubblica, ma anche punto di partenza per la crescita democratica e sociale del paese.

In questi anni Autorità e Popolo formeranno l'endiadi celebrativa della retorica unitaria. Ma si produrranno anche fiumi di vuota retorica, che suscitano diffidenza nelle generazioni più giovani. Nel settennato della presidenza Saragat si introduce nelle celebrazioni ufficiali la formula, illusoria e infondata, di un «popolo unito in lotta contro la tirannide». Il problema del fascismo nella storia italiana, già eluso nel decennio precedente, veniva ora risolto circoscrivendo nei minimi termini la sua portata.

Prende corpo un antifascismo giovanile, che si collega in forma critica, a volte fino all'irridenza, alla memoria dell'antifascismo. A lungo la Resistenza sarà sottovalutata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivoluzionario». Alla svolta degli anni settanta verrà improvvisamente reinventata in forma favolistica, scambiando una parte per il tutto e attribuendo al popolo italiano una propensione rivoluzionaria in gran parte illusoria. Viene istituito un parallelismo tra Resistenza e lotte anticoloniali e antimperialiste; il richiamo al Vietnam era stato a partire dal 1965 elemento ricorrente nelle celebrazioni della Resistenza da parte della sinistra. «Negli ultimi anni la Resistenza si è chiamata Cuba, Algeria, Congo e oggi si chiama Vietnam». Gran parte del fascino della Resistenza nei suoi aspetti strettamente militari e guerreggiati riposerà nel corso degli anni settanta implicitamente – ma spesso anche in forma esplicita – nella sua possibilità di attualizzazione non solo metaforica, che diverrà particolarmente ingombrante negli anni del terrorismo.

Sul piano ufficiale viene sanata quasi del tutto la divisione istituzionale tra le forze dell'antifascismo storico, che aveva teso a ricomporsi in forma ampia già negli anni sessanta. Si va ormai oltre questo orizzonte: nelle celebrazioni del Trentennale nel 1975 l'elemento di novità più vistoso è la massiccia presenza dell'esercito accanto alle associazioni partigiane. Nel 1978, nel pieno del dramma di Aldo Moro, sfileranno anche gli agenti di polizia. Sembra chiudersi il lungo periodo in cui l'antifascismo aveva «attraversato la storia repubblicana nella duplice veste di vinto e vincitore»; per un breve periodo l'antifascismo, alla vigilia della sua eclissi, diviene «ufficialità» e appare vincitore, se pure in lotta contro pericoli prima inimmaginabili.

Ma tra le opposte retoriche di Resistenza «rossa» e «tricolore» correva spesso il rischio di venire stritolata la Resistenza popolare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua pluralità di pratiche e di motivazioni, che con grande fatica gli storici faranno emergere negli anni successivi, e che comprendeva inevitabilmente memorie anche «divise» e conflittuali, che potevano riconoscersi e riconciliarsi, ma non avrebbero mai potuto convergere in una «memoria unica».

Gli anni della «seconda Repubblica» sembreranno per quasi un ventennio dominati dall'ansia di offrire una legittimazione storica alla nuova destra, in larga misura estranea oppure ostile alla Liberazione, che emerge con ampio consenso dopo il dissolvimento del vecchio equilibrio. Ascolteremo nei discorsi ufficiali di presidenti e ministri il richiamo ricorrente alla «buona fede» dei fascisti sconfitti, attribuendo rilievo e centralità a una constatazione di banalità disarmante, perché la buona fede sul piano storico non si nega a nessuno, ed era attribuibile a giusto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di insediamento dei presidenti della Repubblica il richiamo alle «ragioni» della parte sconfitta nel 1945 apparirà improvvisamente problema attuale di cui farsi carico, fino all'eccezione rappresentata da Sergio Mattarella che con un limpido richiamo alla Costituzione antifascista porrà fine a quella pratica discorsiva.

Oggi l'ossequio esteriore alla Liberazione non è più messo in discussione, la sua simbologia è divenuta talmente diffusa da prestarsi a banalizzazioni e improvvisazioni estemporanee, come nel proclamare da parte governativa il 25 aprile «Festa del coraggio», svuotata di ogni riferimento storico. E non a caso, dopo aver votato la fiducia su una legge elettorale che di fatto abrogava la democrazia parlamentare, i deputati della maggioranza intonavano Bella ciao.

Per questo negli ultimi anni la ricorrenza del 25 aprile appare sempre più una mesta cerimonia degli addii, un prendere congedo dalle speranze e dalle conquiste di una civiltà repubblicana che nel tempo sembra deperire e affievolirsi.

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Testimonianze e documenti


Gli ultimi giorni
di Massimo Rendina
[2007]



«Quando scendemmo dalle montagne ci ponemmo il problema di che tipo di guerriglia fare. In pianura dovevamo inventare, e io, per carità non pretendo di essere uno stratega, fui uno dei fautori della guerra delle volanti – cioè prendemmo dei camion grossi, li facemmo corazzare, il padre di Sergio Pininfarina ci fece corazzare dei camion con delle lastre di metallo, e quattro cinque di quei camion diventavano una volante, si facevano delle azioni molto veloci soprattutto contro i posti di blocco, e ci si ritirava. Durante i rastrellamenti si nascondevano questi camion, li avevamo anche interrati con delle fatiche spaventose per fare delle buche enormi per questi camion. Facemmo delle azioni, prendemmo anche una piccola città, Chieri, neutralizzando con le volanti i presidi vicini. Per sbaglio nelle prime luci dell'alba io sparai un colpo di bazooka contro il campanile. La presa di Chieri, che prelude a Torino, fu interessante perché queste brigate nere erano gente feroce per cui trovammo nei sotterranei gente moribonda perché avevano messo fra le dita dei piedi del cotone imbevuto di qualcosa che bruciava e gli avevano bruciato i piedi, erano in cancrena... E decidemmo di fucilarli in piazza, e li fucilammo dopo un processo in cui il presidente della corte era un ufficiale dei carabinieri che poi diventò il comandante dei carabinieri a Roma.

I ricordi si affastellano, sono anche dolorosi perché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca – una zona vicino a Torino, giovanissimi, avevano costituito un distaccamento e fatto delle azioni – una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, diciassette anni, e avevano molta fiducia in me. Il rapporto di fiducia col comandante era importante, non perché fosse più valoroso o coraggioso ma perché ti dava un minimo di sicurezza in una guerra così insicura come quella della guerriglia. Io avevo l'esperienza della guerra di Russia ma ho avuto delle paure terribili. Tu non puoi avere paura: devi recitare, di fronte agli altri, perché se no li fai morire; la paura del comandante è la morte dei sottoposti. Tu devi recitare di sapere quello che vuoi, non avere incertezze; se mandi uno in un certo posto è perché sai che dev'essere così, questo l'avevo imparato in guerra in Russia.

E così arrivammo agli ultimi giorni tormentati della presa di Torino. Noi ci attestammo sul Po, arrivò l'ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di attestarci prima sul Po per dividere le zone d'attacco. E mentre eravamo lì ricevemmo l'ordine di non entrare a Torino. Il colonnello Stevens della radio inglese aveva avuto informazioni dal comando generale dell'esercito inglese che c'era un raggruppamento di divisioni tedesche che stava puntando su Torino. Stevens diceva che se noi entravamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il sangue sarebbe corso in un modo spaventoso. Noi ci fermammo per qualche ora, meditammo — ma la città era insorta, già nelle fabbriche si combatteva. Allora Colajanni, che si chiamava Barbato come nome di battaglia, che era il comandante della zona attestata sul Po, disse: bisogna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che passarono il Po. Il comandante si incavolò come una bestia perché lasciai il posto per andare con loro, però rientrai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il sidecar. E furono giorni di combattimenti feroci.

Torino è l'unica città dove si è veramente combattuto tanto, e ci sono degli episodi che non sono stati forse raccontati. La cosa terribile di Torino è che c'erano i franchi tiratori, i quali non sparavano contro i partigiani: sparavano contro chiunque, era un'azione terroristica. E chi li organizzava era questo Solaro che fu poi impiccato allo stesso albero di Ignazio Vian che era un eroico partigiano nostro impiccato dai fascisti. Solaro fu preso non so come, e cominciò a dire che era un uomo di sinistra, che aveva aderito al partito fascista perché voleva che diventasse comunista... Il tribunale militare ne ordinò la morte. Mi ordinò di farlo impiccare. Fu incaricato un gruppo della 19ma, però andai anch'io. Ed è una cosa spaventosa, questo uomo distrutto che sa di essere ammazzato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall'amore di giustizia, ti fa sempre male vedere un uomo morire in quelle condizioni. Io ero contrario alle impiccagioni, tanto è vero che ho chiesto se potevamo fucilarlo, mi dissero no; qualcuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che volevano restituire alla popolazione questa visione del colpevole, l'organizzatore dei franchi tiratori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per salvarlo, mi sembrava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popolazione sopraffece lo schieramento di questi uomini della 19ma, lo impiccarono e impiccato lo portarono in giro per Torino fin quando lo buttarono nel fiume».

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12 dicembre
Strage di piazza Fontana
Attentato neofascista alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano (1969)
di Gad Lerner



Il 9 maggio 2009, in occasione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, propiziò un incontro al palazzo del Quirinale fra Licia Rognini, vedova del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, e Gemma Capra, vedova del commissario di polizia Luigi Calabresi.

La fotografia di quel breve incontro venne elevata da più parti a simbolo di una non meglio precisata «pacificazione». Ci si compiacque di descriverla come passaggio conclusivo della «stagione dell'odio» rispetto alla quale – parole ecumeniche di Napolitano – tutti gli italiani perbene avevano diritto di sentirsi un po' vittime.

Erano trascorsi ormai quarant'anni dalla strage perpetrata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano, deponendo una borsa contenente sette chili di tritolo nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Non era l'unico ordigno sincronizzato per esplodere quel pomeriggio. Contemporaneamente scoppiarono tre bombe a Roma e ne fu disinnescata un'altra a Milano. Ma fu in piazza Fontana che i registi della «strategia della tensione», mirante a sconvolgere l'intero paese, riuscirono a spargere il maggior numero di vittime innocenti: 13 morti sul colpo, che saliranno in totale a 17; e oltre 80 feriti.

Né l'anarchico Pinelli né il commissario Calabresi furono colpiti direttamente dalla bomba del 12 dicembre. Pinelli e Calabresi spirarono rispettivamente tre giorni e tre anni dopo, entrambi di morte violenta. Il primo mentre si trovava in stato (illegale) di fermo negli uffici della Questura di Milano, dunque sotto la diretta responsabilità dello Stato. Il secondo colpito alle spalle da un killer armato di pistola appena uscito di casa. Intorno a queste due figure e alle loro vicende, col passare degli anni, si è allestita una simbologia di comodo giunta fino a presentarli come buoni amici, sebbene collocati su fronti opposti; e comunque esponenti virtuosi e innocenti di schieramenti in cui loro malgrado si annidava il male. Una vera e propria caricatura romanzata a lieto fine, una falsificazione melensa della realtà.

Questo bisogno di edulcorare una vicenda che fu cruenta e senza esclusione di colpi si è manifestato però solo a molti anni di distanza da quegli eventi tragici. Solo dopo il completo fallimento delle inchieste della magistratura che hanno riconosciuto la matrice di destra e le protezioni istituzionali degli stragisti, ma senza giungere mai alla condanna penale dei responsabili.

Come vedremo, il 12 dicembre continuerà a suscitare passioni fredde, sofferenze ignorate, rancori che periodicamente riesplodono in pubblico. Neanche la «pacificazione» officiata da Napolitano potrà impedire, a quasi mezzo secolo dai fatti, che la nomina a direttore del quotidiano «la Repubblica» del figlio del commissario Calabresi comporti l'immediato distacco dal giornale del suo editorialista Adriano Sofri, condannato quale ideatore di un omicidio attribuito a Lotta continua, nonostante egli scontando la pena abbia sempre respinto l'accusa. A ben pensarci non è così strano che una viva ostilità persista a essere dichiarata pubblicamente, decenni dopo, solo nei confronti di Sofri e di chi gli è rimasto accanto. Tacciato di arroganza per la tenacia con cui ha affrontato i processi e la detenzione respingendo però l'addebito infamante. Lo sconfitto che non si rassegna a tacere, indispettisce a lunga distanza. Specie quando richiama, con la sua testimonianza, la compromissione diretta di singoli esponenti e di interi apparati statali nell'uso della violenza contro i movimenti di lotta dell'epoca.

Subito dopo l'esplosione delle bombe a Milano e Roma quel 12 dicembre 1969 si trattò di riconoscere chi fosse, da dove venisse, l'apparato che le aveva concepite. Si misero in moto delle congetture e delle ricostruzioni di comodo. Non era facile spiegarsi un evento di criminalità politica talmente inusitato dentro a una società italiana che era, certo, lacerata, e però al tempo stesso dinamica e in forte crescita economica.

Una serie di goffe messinscene finalizzate a far ricadere sull'estrema sinistra la responsabilità della strage resse solo per pochi mesi grazie al sostegno di una televisione di Stato in regime di monopolio e di una stampa conservatrice allarmata dal protrarsi di una conflittualità sociale che in altri paesi si era placata dopo il Sessantotto. Anche il potere politico incontrava crescenti difficoltà nel garantire protezione ai numerosi funzionari degli apparati di sicurezza che (autorizzati o meno) agivano nell'illegalità e tramavano d'intesa con le organizzazioni parafasciste. L'estrema destra era ringalluzzita dal recente colpo di Stato dei colonnelli in Grecia e sapeva di poter contare sul sostegno dei servizi segreti occidentali impegnati nella guerra fredda.

Trame nere. Strage di Stato. Strategia della tensione. Nel lessico pubblico e nel senso comune entravano nuove espressioni che non facevano altro che confermare gli effetti di un dato storico già acquisito: la sostanziale continuità di carriera di molti dirigenti delle forze di polizia che si erano formati nell'anteguerra sotto il regime fascista. Pur appartenendo a una generazione successiva, lo stesso giovane commissario della squadra politica Luigi Calabresi partecipa – non è dato sapere con quanto zelo e quanta convinzione – all'azione orchestrata dai suoi superiori per incolpare della strage gli anarchici. Contro di lui si concentra una campagna personalizzata, minacciosa e accanita, attribuendogli la responsabilità diretta della morte dell'anarchico Pinelli. Fino al suo omicidio il 17 maggio 1972, assunto sinistramente come un atto nel quale il proletariato avrebbe potuto riconoscere la sua volontà di giustizia. Ignominie di un tempo in cui davvero si era costretti a contemplare che lo Stato commettesse stragi contro i suoi stessi cittadini. E in cui più viva che mai era la vigilanza di una generazione di antifascisti nei confronti di ufficiali di polizia tuttora in servizio che li avevano incarcerati venticinque anni prima.

Solo due mesi prima dell'omicidio Calabresi nella periferia est di Milano, il 14 marzo 1972, era morto dissanguato Giangiacomo Feltrinelli, arrampicatosi su un traliccio che intendeva sabotare con dei candelotti di dinamite. Ex partigiano, fondatore di una straordinaria biblioteca del movimento operaio e poi di una casa editrice di alta qualità, Feltrinelli aveva deciso di entrare in clandestinità subito dopo le bombe del 12 dicembre 1969, convinto che lo scontro sociale in Italia stesse trasformandosi in lotta armata per volontà di settori dello Stato. A suo modo anche Giangiacomo Feltrinelli può considerarsi una vittima di piazza Fontana?

Di certo la nozione di «strage di Stato», per quanto rimanesse circonfusa in un alone di genericità, trovò corrispondenza nell'esperienza della politica democratica dell'epoca, e troverà controprove documentali negli archivi statunitensi così come in numerosi atti processuali. Ma siccome riconoscere la complicità dello Stato in attività violente ai danni di suoi cittadini sarebbe dirompente, chi in tempi più recenti ha preso il posto dei funzionari infedeli ha manifestato un comprensibile istinto autoassolutorio. Meglio stendere un velo pietoso, magari beatificando insieme Pinelli e Calabresi.

Anche per questo fu molto enfatizzato, quarant'anni dopo, l'abbraccio fra le due vedove sotto l'egida del Quirinale. Commozione e sollievo vennero trasmessi dal vertice delle istituzioni giù giù per li rami di un sistema mediatico in larga misura diretto da ex giovani che del 12 dicembre conservavano un ricordo diretto, confuso e imbarazzato. L'umanità fragile delle vedove diventava opaca coltre protettiva distesa su di una vicenda prolungatasi nell'ingiustizia. Le ferite rimaste purulente, gli equilibri sociali e politici sovvertiti, le morti violente e gli anni di carcere seguiti al 12 dicembre 1969? Ridotti a una generica scia di violenza e rancore. Più che mai, in un caso come questo, toccava ai vincitori scrivere la storia. Solo che stavolta anche loro ne avrebbero fatto volentieri a meno.

L'iconografia degli smemorati, giunta a volerci presentare come buoni amici Pinelli e Calabresi, è propensa ad accontentarsi della versione benevola secondo cui gli apparati di sicurezza restarono «leali» ma furono infiltrati da entità oscure venute da oltreoceano e/o dal passato. Sul fronte opposto, viene presa per buona la versione secondo cui un'intera vasta categoria d'intellighenzia di sinistra si sarebbe fanatizzata per subalternità opportunistica alla propaganda di pochi leader estremisti. Per fare bella figura coi rivoluzionari alla moda.

Per la verità Licia Rognini Pinelli non smise mai, neanche dopo l'incontro del 2009 al Quirinale, di raccontare quali fossero stati i veri rapporti della sua famiglia con il commissario Luigi Calabresi. Così Piero Colaprico riferisce, sulle pagine milanesi di «Repubblica» nel novembre 2009, la telefonata fatta in Questura il 15 dicembre 1969 da Licia Pinelli per avere notizie di suo marito fermato tre giorni prima.

Licia Pinelli: «Dov'è mio marito?»

Luigi Calabresi: «Al Fatebenefratelli».

Licia Pinelli: «Perché non mi ha avvisata?»

Luigi Calabresi: «Ma sa, signora, abbiamo molto da fare».

Mentre il commissario capo della squadra politica teneva a bada così l'inconsapevole moglie di un uomo agonizzante, il questore di Milano in persona, Marcello Guida, faceva intendere ai giornalisti che Pinelli si era lanciato fuori dalla finestra dopo che il suo alibi era crollato.

Rievoco un dettaglio certamente marginale dentro a una vicenda storica di così vasta e drammatica portata, per evidenziare le sensibilità persistenti che continuano a fare del 12 dicembre una data controversa, difficile da riconoscere insieme in un calendario civile. Dal 1969 fino a tutto il secondo decennio del secolo in corso, a Milano il 12 dicembre le manifestazioni commemorative sono sempre state separate, se non contrapposte. Chi scrive è entrato a far parte di Lotta continua solo nel 1973, quattro anni dopo la strage e un anno dopo l'omicidio Calabresi, eppure il vissuto personale rimane ugualmente intenso, per quanto lo si voglia seppellire. Già nel 1970, pochi mesi dopo, Dario Fo e Franca Rame mettevano in scena Morte accidentale di un anarchico. All'estero il successo di questo teatro di denuncia contribuì all'assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Fo nel 1997. In Italia ne comportò l'essere derubricato nel teatro minore.

Questa mia riflessione sul 12 dicembre non sarebbe dunque completa se non ne condividessi anche la componente di ricordi più soggettiva, nel testo che segue.




«Impossibile, grida Pinelli/ un compagno non può averlo fatto»... Quante volte l'ho cantato a squarciagola anch'io, sulle note della ballata di Pino Masi. Ma soprattutto l'ho pensato fin da subito, con la certezza di un adolescente che il 12 dicembre 1969 aveva appena compiuto quindici anni e frequentava la quinta ginnasio al Parini di Milano (l'anno dopo, trasferendomi al liceo Berchet, avrei fatto in tempo a incrociarvi Marco Tullio Giordana, regista nel 2012 del film Romanzo di una strage). Nelle assemblee e nei cortei ci eravamo sentiti già adulti, respiravamo libertà; nel silenzio allibito di piazza Duomo il giorno dei funerali – c'eravamo tutti – percepimmo l'esistenza di un nemico feroce, senza scrupoli, come il nazifascismo al tempo di guerra.

Perché negarlo? Ci incarognimmo, anche. Quando la televisione proclamava «belva umana» il ballerino anarchico Pietro Valpreda, e la Questura da cui usciva senza vita Pinelli aveva per capo l'ex sorvegliante dei confinati politici antifascisti a Ventotene, Marcello Guida, chi di noi poteva avere fiducia nello Stato?

Le indagini erano già partite a senso unico nell'estrema sinistra per le bombe piazzate fra Roma e Milano nei mesi precedenti la strage di piazza Fontana. Si accerterà poi che le avevano fatte esplodere i fascisti di Ordine nuovo, che godevano di complicità negli apparati di polizia. Certo che in piazza anche fra noi c'erano delle teste calde con nostalgie ottocentesche («Bombe, sangue, anarchia») o infatuazioni castriste latino-americane (alla Giangiacomo Feltrinelli). Ma si trattava di richiami a tradizioni in disuso o comunque di avventurieri isolati. Il progetto brigatista della lotta armata era ancora in forma embrionale. Niente a che vedere con la sincronizzazione micidiale di cinque bombe fatte esplodere in contemporanea.

La trama tipica da guerra fredda che già aveva orchestrato il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia nel 1967, e che ora puntava in Italia a neutralizzare gli effetti politici dell'Autunno caldo operaio e delle lotte studentesche, appariva fin troppo scoperta. No, un compagno non poteva averlo fatto. Eppure a rivoltarsi contro un apparato istituzionale e i suoi media asserviti che sceglievano gli anarchici come capro espiatorio, all'inizio fu solo una piccola minoranza della classe dirigente italiana. La pièce teatrale, che poi avrebbe fatto il giro del mondo, fu rappresentata da Dario Fo e Franca Rame alla Comune di via Colletta meno di un anno dopo. Nacque un'attività di controinformazione che si sarà pure macchiata di imprecisioni ed eccessi, come la campagna personale di cui fu vittima il commissario Calabresi, ma coinvolse le energie migliori del giornalismo democratico, da Marco Nozza a Camilla Cederna, da Piero Scaramucci a Giorgio Bocca, contribuendo ad aprire spiragli decisivi nel muro di gomma della magistratura milanese. Se l'informazione italiana non deve solo vergognarsi per il modo in cui rappresentò una strage ordita dall'estrema destra con complicità interne agli apparati statali, lo dobbiamo all'impegno di quella minoranza.

Chi ancora insiste a descrivere il clima d'odio di allora come frutto di una cultura rivoluzionaria di sinistra, addirittura in pretesa continuità con la Resistenza armata al nazifascismo, commette un falso ideologico. I fatti parlano chiaro: nel 1969, nel pieno di un movimento democratico impetuoso – aspro e conflittuale, certo, ma ricco di istanze culturali di modernizzazione della società italiana – qualcuno scatenò per stroncarlo una vera e propria strategia omicida ricorrendo al terrorismo delle stragi. A partire dal 1969 l'attentato vile e senza firma, nelle piazze e sui treni, farà dell'Italia il paese tristemente famoso per le stragi rimaste quasi sempre impunite. Sollecitando non solo i militanti del movimento, ma settori importanti della cultura a individuare negli apparati repressivi dello Stato non la garanzia neutrale degli equilibri democratici, bensì un opaco ricettacolo di trame e coperture.

Molti di noi si sono incarogniti, ho scritto. Correttamente gli storici indicano nel 12 dicembre 1969 la data della «perdita dell'innocenza». L'udienza minoritaria, ma tragica nei suoi esiti, di cui beneficiarono i fautori della lotta armata, è storia nota degli anni successivi: l'idea cioè che nel paese delle stragi impunite bisognasse farsi giustizia da sé, e alla violenza bisognasse rispondere con la violenza. Anche il brigatismo omicida, il terrorismo di sinistra, trae alimento dalla memoria distorta di piazza Fontana.

La formula della «perdita dell'innocenza» – corretta nell'indicare l'assoluta sorpresa rappresentata dall'irruzione dello stragismo sulla scena pubblica italiana – non deve però indurci a considerare idilliaci gli anni precedenti il 1969. Bisognerebbe rileggere le migliaia di rapporti di polizia e carabinieri, spesso grotteschi, archiviati presso il ministero dell'Interno dal 1945 in poi. Il sospetto e l'ostilità con cui gli apparati di sicurezza dello Stato, in continuità con il periodo fascista, dispiegavano un'ottusa sorveglianza su buona parte dell'intellighenzia italiana, è solo l'ultima testimonianza di un ricorso al sopruso e di un'infedeltà alla norma democratica proseguiti lungo tutto il dopoguerra.

Non fu certo per un abbaglio ideologico – come si è di recente voluto far credere, confidando sulla smemoratezza e sulla disinformazione – se centinaia fra i più prestigiosi intellettuali italiani testimoniarono nel 1971, di fronte all'andamento del processo per la morte di Pinelli, lo «sdegno [...] di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini». Da Giorgio Amendola a Lucio Colletti, da Carlo a Primo Levi, da Norberto Bobbio a Natalino Sapegno, non erano certo obnubilati quando sottoscrivevano «una ricusazione di coscienza [...] rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni».

Ne parliamo ancora con disagio. Riconosciamo, ed è giusto, colpe che però impallidiscono di fronte all'accertata connivenza fra gli (impuniti) colpevoli delle stragi e settori dello Stato che li proteggevano, o addirittura li guidavano. E difatti la ferita della democrazia italiana sanguina ancora.




Fin qui, diciamo così, la mia «versione dei fatti». Potrei solo aggiungere una considerazione marginale sul diverso impiego che l'Italia ha fatto, rispetto ad altri paesi europei (Francia, Germania, Polonia, Olanda) e agli Usa, delle intelligenze sovversive più vive dei movimenti di lotta dilagati in quell'epoca. Se altrove alcuni di quei leader sono diventati statisti o comunque hanno fornito un contributo importante alle scelte nazionali, in Italia di quella generazione il potere ha cooptato soltanto componenti mediocri (me compreso). I veri talenti sono finiti in carcere, ripiegati nell'estremismo, suicidi, isolati culturalmente. Ho l'impressione che la data fatidica del 12 dicembre 1969 abbia una forte relazione con questo dato di fatto.

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Testimonianze e documenti


Morte accidentale di un anarchico
di Dario Fo
[1970]



[da Scena seconda]

[Il «matto» è un personaggio che si trova casualmente negli uffici della Questura di Milano e finge di essere un ispettore del ministero.]

Matto. (Sfoglia alcune carte) Ecco qua, secondo i verbali, la sera del... la data non ci interessa... un anarchico, di professione manovratore delle Ferrovie, si trovava in questa stanza per essere interrogato circa la sua partecipazione o meno all'operazione dinamitarda alle banche, che aveva causato la morte di ben sedici cittadini innocenti e ottantadue feriti! E qui sono parole sue testuali, signor Questore: «Sussistevano sul suo conto pesanti indizi!» Ha detto così?

Questore. Sì, ma in un primo tempo, signor giudice... poi...

Matto. Siamo appunto al primo tempo... andiamo per ordine: verso mezzanotte l'anarchico, «preso da raptus», è sempre lei dottore che parla, preso da raptus si è buttato dalla finestra sfracellandosi al suolo. Ora, che cos'è il «raptus»? Dice il Bandieu che il «raptus» è una forma esasperata di angoscia suicida che afferra individui anche psichicamente sani, se in loro è provocata un'ansia violenta, un'angoscia disperata. Giusto? [...] Allora vediamo... chi, che cosa ha procurato quest'ansia, quest'angoscia? Non ci resta che ricostruire l'azione: tocca a lei entrare in scena, signor Questore. [...]

Questore. D'accordo. Le cose sono andate più o meno così: l'anarchico indiziato si trovava lì, proprio dov'è seduto lei. Il mio collabora... cioè io, sono entrato con una certa irruenza... [...] E l'ho aggredito! [...] Caro il mio manovratore, nonché sovversivo... devi piantarla di prendermi in giro...

Matto. No, no, per favore... attenersi al copione. (Mostra i verbali) Qui non c'è censura... non ha detto così! [...] Abbiamo le prove che le bombe alla stazione sei stato tu a metterle. [...] Quelle che avete messo nei vagoni alla stazione centrale, otto mesi fa.

Matto. Ma voi le avevate davvero queste prove?

Questore. No, ma come le stava appunto spiegando il Commissario prima, si trattava di uno di quei soliti inganni a cui si ricorre spesso noi della polizia... [...] Però avevamo dei sospetti... Dal momento che l'indiziato era l'unico ferroviere anarchico di Milano... era facile arguire che fosse lui...

Matto. Certo, certo è lapalissiano, direi ovvio. Così, se è indubbio che le bombe in ferrovia le abbia messe un ferroviere, possiamo anche arguire di conseguenza che al Palazzo di Giustizia di Roma, quelle famose bombe, le abbia messe un giudice... che al monumento al Milite Ignoto le abbia messe il comandante del corpo di guardia e che alla Banca dell'Agricoltura, la bomba sia stata messa da un banchiere o da un agrario, a scelta. (Si imbestialisce all'istante) Andiamo, signori... io sono qui per fare un'inchiesta seria, non per giocare ai sillogismi cretini! Proseguiamo! Qui dice (legge su di un foglio): «L'anarchico non sembrava toccato dall'accusa, sorrideva incredulo». Chi ha fatto questa dichiarazione?

Commissario. Io, signor giudice.

Matto. Bravo, allora «sorrideva»... ma qui si commenta anche: sono parole vostre... testuali... riprese anche dal giudice che ha archiviato l'inchiesta... «indubbiamente ha concorso nella crisi suicida la paura di perdere il posto, d'essere licenziato». Ma come, prima sorrideva incredulo, e poi tutto a un tratto ha paura? Ma chi gliel'ha messa 'sta paura? [...] Quindi, ricapitolando, voi abbatterete moralmente l'anarchico, lo amareggiate, e lui si butta...

Commissario. Se mi permette, signor giudice, per onestà, non è avvenuto subito... manca ancora il mio intervento.

Matto. Già, già ha ragione... prima è successo ancora che lei commissario è uscito, poi è rientrato, e dopo una pausa artistica ha detto... forza commissario, reciti la sua battuta... e immagini sempre che l'anarchico sia io...

Commissario. Sì, senz'altro: «Mi hanno telefonato adesso da Roma... c'è una bella notizia per te... il tuo amico, padron compagno ballerino ha confessato... ha ammesso di essere stato lui a mettere la bomba alla banca di Milano».

Matto. E lui, il ferroviere come l'ha presa?

Commissario. Beh, male, è diventato pallido... ha chiesto una sigaretta... se l'è accesa...

Matto. E poi si è buttato.

Questore. No, non subito...

Matto. Nella prima versione lei ha detto: «subito» è vero?

Questore. Sì, è vero.

Matto. Per di più sempre lei, parlando con la stampa e alla televisione, ha dichiarato che l'anarchico prima del tragico gesto si sentiva ormai perduto... era «incastrato» ha detto così?

Questore. Sì, ho detto proprio così: «incastrato».

Matto. E poi cos'ha dichiarato ancora?

Questore. Che il suo alibi, quello secondo cui avrebbero trascorso il famoso pomeriggio dell'attentato a giocare a carte in un'osteria del naviglio, era crollato, non reggeva più.

Matto. Quindi che l'anarchico era da ritenersi fortemente indiziato anche per gli attentati alle banche di Milano, oltre che ai treni. E ha aggiunto, per finire, che il gesto suicida dell'anarchico era un «evidente atto di accusa» [...] Ma dopo appena qualche settimana, lei signor questore ha dichiarato, ecco il documento, che «naturalmente» ripeto «naturalmente» sul povero ferroviere non pesavano indizi concreti. Giusto? Quindi era del tutto innocente, e anche lei commissario ha persino commentato: «quell'anarchico era un bravo ragazzo».

Questore. Sì, ammetto... ci siamo sbagliati...

Matto. Per carità... tutti ci si può sbagliare. Ma voi, scusate, l'avete fatta un po' grossa, lasciatemelo dire: prima di tutto fermate arbitrariamente un libero cittadino, poi abusate della vostra autorità per trattenerlo oltre il termine legale, quindi 'sto povero manovratore me lo traumatizzate andandogli a dire che avete le prove che lui è il dinamitardo delle ferrovie, poi gli create più o meno volutamente la psicosi che perderà il posto di lavoro, poi che il suo alibi del gioco delle carte è crollato, e per finire, mazzata con rintocco: che il suo amico e compagno di Roma si è confessato colpevole della strage di Milano: il suo amico è un assassino schifoso?! Tanto che lui commenta sconsolato «è la fine dell'anarchia» e si butta! Dico, ma siamo matti? A 'sto punto perché meravigliarci se a uno sfottuto a 'sta maniera gli prende il raptus?! E no, eh no, mi spiace, ma voi a mio avviso siete colpevoli eccome! Siete totalmente responsabili della morte dell'anarchico! Da incriminare subito per istigazione al suicidio! [...]




[da Scena terza]

Matto. ...e veniamo al fatto vero e proprio: al salto. [...] Il nostro anarchico, preso da raptus, vedremo poi di ritrovare insieme una causa un po' più credibile a questo folle gesto... si alza di scatto, prende la rincorsa... Così, abbiamo: da una parte un uomo alto sì e no 1,60, solo, senza aiuto, privo di scale... dall'altra una mezza dozzina di poliziotti, che pur trovandosi a pochi metri, anzi uno addirittura presso la finestra, non fanno in tempo ad intervenire... [...]

Agente. E lei non ha idea di come fosse agile quel demonio... io ho fatto appena in tempo ad afferrarlo per un piede [...] ma mi è rimasta in mano la scarpa, e lui è andato di sotto lo stesso.

Matto. Non ha importanza. Importante è che sia rimasta la scarpa. La scarpa è la prova inconfutabile della vostra volontà di salvarlo! [...] Un momento... ma qui, qualcosa non quadra... (mostra un foglio ai poliziotti). Il suicida aveva tre scarpe?

Questore. Come tre scarpe?

Matto. E sì, una sarebbe rimasta tra le mani del poliziotto... L'ha testimoniato lui stesso qualche giorno dopo il fattaccio... (mostra il foglio) ecco qui.

Commissario. Sì, è vero... l'ha raccontato ad un cronista del Corriere della Sera.

Matto. Ma qui, in quest'altro allegato, si assicura che l'anarchico morente sul selciato del cortile aveva ancora ai piedi tutte e due le scarpe. [...]

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Θ finito il Sessantotto
di Paolo Pietrangeli



    Θ finito il sessantotto
    E finito con un botto
    Tutti a casa siam tornati

    Gli ideali ripiegati
    In tasca
    In tasca
    E poi tutte quelle piazze
    Che sembravano ragazze
    Tutte quante infiocchettate
    Le bandiere rosse alzate
    Dappertutto
    Ora è più brutto

    Son bastati pochi mesi
    Qualche po' di calabresi
    Una guida non sicura
    Poco allegra è la ventura
    Mentre

    Chi di solito restivo
    Se ne stava tutto schivo
    Ha suonato le sue trombe
    Per far rosse quelle bombe
    Con rumor

    Ed il re della foresta
    Celebrando la sua festa
    Ha voluto per coppieri
    Quei ben noti corvi neri
    Un'altra volta
    Un'altra volta

    Son ben labili ricordi
    Di questi suddetti corvi
    Cui non molto tempo addietro
    Demmo il nome di Loreto
    In un piazzale
    In un piazzale

    Ora questa filastrocca
    Che m'è uscita dalla bocca
    Io vorrei che fosse intesa
    Come vituperio offesa
    Da coloro

    Da coloro che al potere
    Sopra canottiere nere

    Vestono abiti azzurrini
    E son pieni di santini
    Con i quali compran tutto
    Le coscienze ed il prosciutto
    Credon che democrazia
    Sia la serva della zia
    Della zia di quel questore
    Che ti può fermar se vuole
    Solo perché porti addosso
    Un bel fazzoletto rosso
    Fan governi sulle bombe
    E dischiudono le tombe
    Se non bastan prece e motti
    Volan bassi i candelotti
    Che fan rima
    Che fan rima
    con Andreotti.

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