Autore Franco Prattico
Titolo Nel Corno d'Africa
SottotitoloEritrea ed Etiopia tra cronaca e storia
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2001 [1966], Primo piano , pag. 144, dim. 135x210x10 mm , Isbn 978-88-359-5062-2
PrefazionePietro Veronese
LettoreGiovanna Bacci, 2002
Classe paesi: Etiopia , paesi: Eritrea , storia contemporanea , storia: Africa












 

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Indice

     Introduzione


     Nel Corno d'Africa

 17  I.   La conquista

 37       Cronologia. L'avventura italiana nel Corno d'Africa

 49  II.  Etiopia

 79  III. Nella guerriglia (1967)

 99  IV.  Ritorno (1978)

123  V.   Dal tribalismo alla ideologia


131  Postfazione di Pietro Veronese

 

 

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Pagina 7

Introduzione


Come un immane rinoceronte, l'Africa affonda il suo muso nel Mar Rosso, protendendosi verso la penisola arabica, il golfo di Aden, l'Oceano Indiano: per la sua forma, è stato chiamato Corno d'Africa. Lo popolano etiopici, eritrei, somali: discendenti in gran parte delle tribú nomadi semitiche che in epoche protostoriche varcarono il Mar Rosso e si insediarono su queste coste, portando con sé non solo la loro lingua (il ghe'ez), ma la loro cultura e tradizioni, e risalirono l'immenso altopiano etiopico, ricacciando verso nord le originarie popolazioni camitiche che tuttora popolano il nord del paese. Una regione diversa sia etnicamente che storicamente, culturalmente e linguisticamente dal resto del continente. Le sue coste sono state da sempre collegate, almeno culturalmente, alla dirimpettaia Arabia, e caddero sotto dominio prima turco, poi egiziano, infine italiano e vennero rapidamente islamizzate, nel sesto o settimo secolo dopo Cristo: l'altopiano, cristianizzato nel terzo secolo, per l'influsso del vicino regno di Nubia e dell'Egitto copto, fu la culla del piú antico regno africano, la cui struttura territoriale è la base dell'attuale Repubblica etiopica. Una regione insomma che per la sua storia e collocazione geografica ha avuto e ha una notevole importanza strategica e politica.

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Pagina 17

I. La conquista


Dall'Asmara ad Addis Abeba corre la lunga strada che le truppe italiane seguirono dall'ottobre 1935 al maggio 1936 per «conquistare l'impero». Cosa è rimasto negli uomini e nei luoghi, della breve tragedia che doveva concludersi cinque anni dopo con la resa italiana agli anglo-etiopici?

Un Land Rover, vecchio bestione metallico lento e forte come un elefante, tenace come un rinoceronte; dei fucili poggiati dietro i sedili, le cartine geografiche distese sul cofano, libri, ricordi, citazioni, consigli. E quattro uomini: un giornalista di Vie nuove, io; un fotografo, Guido; poi Butzko, cacciatore di coccodrilli di origine jugoslava, che ci fa da autista e interprete, e il suo assistente in prima Mammo, giovane commerciante galla fallito per troppa fiducia negli amici. Davanti a noi un viaggio da compiere nel passato e nel presente, insieme. Trent'anni di storia: allora (ottobre 1935-maggio 1936) sui banchi di scuola imparavamo a disegnare i confini dell'Etiopia, di cui i giornali inneggiavano. Adesso quel paese di favola incomprensibile della nostra infanzia è davanti a noi: domani si parte sulle orme di De Bono e Badoglio, del calvario dell'esercito etiopico. Ma è anche, ce ne accorgeremo, come inseguire un miraggio, unica concretezza i nomi delle battaglie, le sagome delle montagne: il passato si insinua forse solo attraverso il filtro dei libri e dei memoriali, anche se esso incide nel presente in modo impercettibile per noi, che questa realtà la possiamo scoprire solo per atto intellettuale. Dobbiamo strisciare per lo stretto varco tra archeologia e presente rintracciando nell'oggi le tracce di ieri: una impresa scoraggiante in un paese cosi vasto e antico da sommergere ogni prospettiva temporale, storica, geografica, in un indifferenziato «essere qui».

La notte cala dolcemente su Asmara, con languidezza tutta africana. Sulla Avenue Hailè Selassiè I si accendono le luci al neon di centinaia di negozi, il venditore di sigarette americane ci abbandona finalmente al nostro destino. Una ragazza col candido «sciamma» delle donne amhara ci sfiora con lo sguardo altero. Passa una gigantesca Cadillac con targa militare americana, un indiano chiude il suo negozio di tessuti. «Questa è Asmara» dice con orgoglio il nostro accompagnatore serale. È un italiano d'Eritrea, arrivato con i «conquistatori» trent'anni fa. È veneto, piccolo e robusto, trent'anni d'Africa non hanno cancellato la mollezza dell'accento, ma, come per gli altri, sul substrato regionale, particolarissimo, s'è calata una patina di gesti, frasi, cadenze, idee comuni a tutti coloro che rivestono la qualifica di «italiani d'Africa». Cosí come per gli altri, anche per lui Asmara rimane la stella piú fulgida dell'Impero etiopico, la città modello da ammirare o rimpiangere: uno specchio d'Italia. Le vetrine eleganti, le strade a squadra, una piccola Torino di provincia, resa appena un po' piú stracca dal caleidoscopio di volti e colori per le vie ben disegnate nel contorno di edifici che, appena discosti dal centro moderno, hanno subito la gialla facciata umbertina. Ma dell'altra Asmara, la sonnolenta cittadina coloniale da dove partì l'assalto fascista all'Etiopia, sembra non restare traccia neppure nei pensieri della gente. Doveva essere un posto piccolo, un po' squallido, affollato di mosche, schiacciato dal peso di quarant'anni di colonia senza avvenire: una sentinella sulla soglia dell'immenso altopiano etiopico che era una voglia mai soddisfatta, covata fino a diventare una malattia segreta e perciò insidiosa.

Oltre il mare, l'Italia rintronava di voci incomprensibili: fascismo, Roma imperiale, retorica e violenza. Un altro mondo, altre voci, per questa quieta provincia coloniale, ove ogni minimo avvenimento era un brandello di vita da afferrare e custodire gelosamente per l'archivio delle chiacchiere familiari e d'ufficio.

Poi la grande avventura. Un'ondata di gente nuova si abbatte sulla provincia improvvisamente intessuta di mille rapidi avvenimenti. Sui giornali che arrivano da Roma e da Milano compare sempre piú spesso quel nome che, per carità di patria e per pudore, da queste parti si cercava di pronunziare il meno possibile: Adua. Mussolini strepita dello splendore di Roma da riportare tra queste genti barbare e feroci. Un linguaggio strano e inquietante per chi aveva piantato in questa terra le sue apatiche radici. Cosí, da un mese all'altro, arrivò la patria anche da loro. Deve essere stato un grosso fracasso. Nel porticciolo di Massaua, ampliato per l'occasione, sbarcano quattrocentomila soldati, il piú imponente esercito coloniale della storia, si costruisce la strada camionabile che deve portarlo fino al Mareb, al confine con l'Etiopia. In questa Torino di colonia, un piemontese organizza la guerra: il quadrumviro De Bono. Fa scrivere «costi quel che costi» sul ponte della nuova camionabile. E costerà caro, in quattrini per il bilancio italiano (dodici miliardi di allora), in sangue per gli etiopici (duecentosettantamila morti secondo le loro stime) e anche, sia pure in proporzioni per fortuna estremamente ridotte, anche per noi e per i «fedeli sudditi» eritrei, somali e libici. Ma l'impero sarà fatto, senza rimedio.

Ed ora, quando l'alba ha schiarito di colori violetti il cielo sulla «perla d'Eritrea» addormentata, e il conoscente veneto dorme il sonno del commerciante ben inserito, il nostro viaggio comincia nel fracasso del motore Diesel.

Poi un gruppo di ragazze vestite a colori vivaci, che sta per entrare in fabbrica, ci dà l'addio di Asmara, con voci allegre e canzonatorie. La città sparisce, di colpo: torna la campagna africana, mandrie d'asini e di zebú che marciano ostinatamente al centro della strada, il silenzio del gran sole acceso sugli ombrelli di paglia dei tukul, un mondo assorto, immobile, antico.

Ci avevano parlato, e avevamo letto, della strada tagliata dagli italiani nelle rocce scoscese dell'altopiano. Fino al confine dell'Eritrea è asfaltata, per il resto è letteralmente un taglio bianco sassoso polveroso che si lancia con arditezza incredibile a conquistare metro a metro le altitudini, i picchi, le gole scoscese. Da Asmara a Senafè, fino al vecchio forte Cadorna, si arrampica per tornanti vertiginosi, ed è uno strano contrasto l'asfalto ritoccato e rappezzato, i radi paracarri bianchi, nel panorama convulso che da Asmara si spinge verso il sud. Butzko mette in crisi la nostra visione della storia chiedendo con prosaica ingenuità che diavolo erano venuti a fare gli italiani in Eritrea, in quel paesaggio lunare di rocce rossastre e sterpi, con radi terrazzamenti che danno l'idea della sterilità e cactus alti come cipressi. Certo, l'Eritrea non è tutta cosí arida e stenta come in quel punto. Ma è pur vero ch'è costata piú di quanto ha reso.

Questioni di prestigio, caro Butzko. Tutte le piú grandi potenze europee avevano terre al sole d'Africa. Non aver colonie sarebbe stato classificarsi all'ultimo posto. E poi l'Eritrea era la porta d'Etiopia e l'Etiopia faceva gola. Se non ci fosse stato quel terribile Menelik già alla fine dell'Ottocento avremmo avuto la fetta grossa, tutto il Corno d'Africa, un altopiano fertile e ricco da popolare di nostri coloni. Respinta all'equatore la lotta di classe, tacitate le masse affamate del Mezzogiorno ma principalmente soddisfatte le ambizioni dei militari piemontesi e dei politici siciliani.

Si trattava di conti senza l'oste, però. Perché gli etiopici non avevano nessuna intenzione di fare, a loro spese, dell'Italia una grande potenza coloniale. Noi la nostra indipendenza ce l'eravamo conquistata da pochi decenni, loro se la difendevano da tremila anni. Ecco la chiave delle pagine nere della nostra storia africana, Dogali, Amba Alagi, Makallè, Adua. Un errore di prospettiva, un equivoco. Dove si pensava di avere facilmente ragione d'una parvenza di Stato barbarico e arretrato, c'incontrammo in una passione di libertà che diventava spirito guerriero, in un capo che era riuscito in pochi anni a dare la prima fisionomia unitaria al suo paese ancora diviso feudalmente, in un popolo, gli amhara, che era cosciente della propria dignità, e non aveva nulla in comune con le popolazioni negre della fine dell'Ottocento che la tratta degli schiavi aveva schiantato nei loro embrioni di organizzazione sociale e politica. Perciò gli italiani dovettero contentarsi dell'Eritrea, e montare la guardia sulla soglia dell'altopiano etiopico.

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Asseles Reddà non ricorda i suoi anni ma devono essere tanti. Ha la testa bianca e gli occhi un po' cisposi, si aggira con lento passo claudicante per il giardino incantato di Gondar, tra le gabbie dove sono rinchiusi i leoni e la pantera e i castelli semidiroccati che popolano il parco come antichi guerrieri pieni di eleganza. È il guardiano del parco, una carica onorifica perché c'è un altro a fare da guida. Ma lui si ostina a seguirci per le rampe di scale, sui terrazzi, sotto le logge di fattura moresca (ma le ha costruite un portoghese). Si capisce che insegue qualcosa, standoci dietro, e mentre la pantera nella gabbia si mette sul dorso, come un grosso gatto, per farsi grattare la pancia dai visitatori, aspettiamo che l'idea che ha in mente si faccia faticosamente strada attraverso i vecchi ricordi, fino alla luce degli occhi stanchi. Parla un italiano rugginoso, come se lo ripescasse dal fondo della sua lontana giovinezza. È un vecchio ascaro. Computa faticosamente nella lingua che si allontana sempre piú nella sua memoria, completiamo per lui la somma delle campagne, delle guerre, dei capitani e maggiori che lo conoscevano: venti anni. Chissà da dove viene, non lo ricorda piú, come non ricorda i suoi anni; dalla memoria gli balzano solo i nomi di ufficiali italiani, le guerre (ha mani da vecchio guerriero, magre e forti ancora, e la schiena ritta), e poi la fine, quando Gondar si arrese rimase lí, e gli hanno dato quel posto, guardiano del parco. Annuisce senza capire quando gli parliamo di repubblica, di sconfitta del fascismo, di democrazia. E sentiamo l'inutilità del discorso in una lingua sempre piú lontana per lui, per quest'uomo che aveva imparato il solo mestiere della guerra ed è sradicato, estraneo a tutto, al suo paese, persino alla sua gente eritrea. Dice solo che ormai deve morire, ma prima vorrebbe tornare, una volta, in Italia. Ma come si fa, c'è il mare. È molto piú patetico dei ventimila italiani di quaggiú: perché ha soltanto nostalgia della sua giovinezza, bella o brutta che sia stata.

È un'altra faccia del colonialismo, caro alle retoriche militari. I «fedeli» (come appare oggi avvilente questo termine!) ascari, dubat, zaptiè. Nel conflitto etiopico ne morirono quattromilacinquecento, contro millecentoquarantasei caduti italiani. E quante altre migliaia su tutti i fronti africani dove hanno combattuto gli italiani: delle riserve di «guerrieri». Mussolini sognava una immensa «annata nera» di un milione di uomini. A loro si parlava di una nuova patria; strappati al particolarismo regionale o tribale, vestiti di una divisa e armati di un moschetto, con una bandiera e gli ufficiali bianchi, dovevano indossare una ideologia incomprensibile il cui unico significato era combattere e obbedire. Vero che molti capirono. Il 20 gennaio 1936 mille ascari, al completo, disertarono dal fronte somalo comandato da Graziani e passarono tra le file etiopiche.

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Il futuro: Bahar Dar

Un maggiore etiopico ubriaco prende per la giacca Guido, il fotografo, e lo scuote farfugliando in inglese: «Tu forte, vogliamo fare boxe?». Guido si sottrae silenziosamente alla stretta, il maggiore è già distratto, esce dall'albergo di Quiha rimuginando il suo whisky. Dentro sono rimasti gli «istruttori». Quattro o cinque americani, che hanno seguito la scena con occhio divertito, aspirando i lunghi sigari, riempiendo l'aria di volute di fumo. Qui vicino c'è il campo trincerato, dove gli «istruttori» danno lezioni di guerra e di controguerriglia a ufficiali e soldati. Forse nella piccola provocazione al fotografo c'era una piccola volontà di rivincita, la stanchezza di dover imitare, anche nel bere e nel firmare, questi stranieri arroganti.

Perché proprio gli americani avevano la tutela del rinato esercito etiopico? Era questo un esercito nato dalla guerra di liberazione, forse disordinato, ma certamente schietta espressione del paese anche nelle sue contraddizioni.

Purtroppo i motivi per cui si è puntato sulla creazione di un esercito efficiente e «spopolarizzato» sono negli avvenimenti politici di quegli anni. In primo luogo, nei rapporti tra Etiopia ed Eritrea. Prima dell'occupazione italiana, la costa sul Mar Rosso dell'Eritrea era in parte sotto dominio egiziano, dopo trecento anni di presa di possesso turca. Ma il resto del paese, fino ai margini dell'altopiano etiopico, era dominato dai ras, era la parte settentrionale del Tigri, e faceva almeno nominalmente parte dell'Impero, come una delle tante unità feudali che ne costituivano il grande corpo variopinto. L'occupazione italiana, durata sessant'anni, ha contribuito ad allontanare, nelle caratteristiche e nelle abitudini, gli eritrei dal resto dell'Etiopia, con cui hanno in comune il ceppo semita di origine. Quando dopo dodici anni di controllo inglese, l'Eritrea si costituí in una regione autonoma federata con l'impero etiopico, erano state gettate le basi della struttura di uno Stato moderno.

Giungemmo a Bahar Dar verso il crepuscolo. Eravamo pieni di attesa: poco prima avevamo attraversato il ponte sul Nilo Azzurro, e il primo diretto contatto col grande fiume ci aveva messo addosso una sorta di reverenza. Per chi aveva letto i resoconti delle avventure degli uomini che per tutto il corso dell'Ottocento avevano cercato le sorgenti del Nilo, morendo spesso nell'impresa, sembrava incredibile potere giungere sulle rive del sacro lago Tana, l'immenso serbatoio da cui prende vita questo ramo del Nilo, piú o meno comodamente seduti sui duri sedili del Land Rover. La pompa della benzina a ridosso del fiume verde di macchie d'alberi di un rigoglio lucido e compatto sembrava una ironia: dove sei andata a finire, avventura? E non solo il fascino delle sorgenti inaccessibili del Nilo, tanta leggenda per i nostri padri: ma il lago Tana, immortalato dalla pittura etiopica, il luogo dove il popolo conquistatore amhara ha piantato nel profondo le sue radici. E ancora il nome della città, che da Addis Abeba ad Asmara ci era stato ripetuto in mille salse: beati voi, che arrivate a Bahar Dar. Cosí, quando entrammo nel vialone principale, costeggiando alcune alte costruzioni moderne isolate (alberghi e scuole ancora disabitati) aspettavamo che la strada girasse ad angolo e ci svelasse di colpo la città del lago Tana. Ma la città non c'era ancora: solo il tracciato delle strade, larghissime e divise da una spaziosa aiuola piena di polvere, un caravanserraglio che somiglia stranamente a uno stabilimento balneare in muratura, una lunga strada di baracche di argilla e lamiera. Poi piú nulla, solo le linee dritte intersecantesi delle strade nella boscaglia che arretra, qualche costruzione isolata, la baracca di legno dei telefoni e l'odore del pesce portato a riva dei pescatori. Bahar Dar è una città riservata al futuro, nata per un atto di volontà e sulla base di un calcolo economico e turistico: ha vicino una centrale elettrica ed è prossima ad alcuni tra i luoghi piú belli di tutto il continente: il lago, le favolose cascate del Nilo Azzurro, un pulviscolo di acque che si frantumano urlando da rocce rosse e verdi, una salto della natura dalla pace inquietante del fiume a quel rotolio che sfonda le orecchie. La città verrà: vi sono precisi motivi per cui deve sorgere in quel posto. È aperta all'avventura, alla capacità di adattamento, alla fantasia di chi cerca un nuovo orizzonte. Ma tutta l'Etiopia è un nuovo orizzonte.

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