Copertina
Autore Douglas Preston
Titolo Tyrannosaur Canyon
EdizioneSonzogno, Milano, 2007 , pag. 414, cop.ril.sov., dim. 14x22,4x3,7 cm , Isbn 978-88-454-1417-6
OriginaleTyrannosaur Canyon [2005]
TraduttoreCristiana Astori
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe narrativa statunitense , thriller , gialli
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Prologo



Dicembre 1972
Valle Taurus-Littrow
Mare della Serenità
Luna


L'undici dicembre 1972 l'ultima missione Apollo con equipaggio sbarcò sul suolo lunare. La navicella atterrò nell'area di Taurus-Littrow, una straordinaria valle circondata da montagne ai margini del Mare della Serenità. La zona sembrava ricca di meraviglie geologiche, costellata di colline, monti, crateri, frane e distese di detriti. Di particolare interesse erano i numerosi crateri che punteggiavano la valle: nei punti di impatto, i meteoriti avevano sollevato spruzzi di ciottoli e pietrisco vetrificato disseminandoli nelle aree circostanti. La spedizione contava di fare ritorno sulla Terra con preziosi campioni di rocce lunari.

Il comandante del modulo era Eugene Cernan, Harrison "Jack" Schmitt il suo pilota. Erano entrambi perfetti per la missione Apollo 17: Cernan, reduce dalle precedenti spedizioni Gemini IX e Apollo 10, era un veterano; Schmitt era un brillante geologo specializzatosi ad Harvard che aveva preso parte alla pianificazione delle prime missioni Apollo. Per tre giorni i due astronauti esplorarono la valle Taurus-Littrow a bordo del Rover lunare. Fin dalla prima ricognizione era apparso chiaro a tutti che, geologicamente parlando, avevano fatto un colpaccio; e il secondo giorno, presso un cratere piccolo e profondo detto Shorty, compirono una delle scoperte più eccitanti, che portò indirettamente alla rivelazione del cratere Van Serg. Quando Schmitt scese dal veicolo per esplorare il bordo dello Shorty, notò con stupore che da sotto la polvere lunare smossa dai suoi stivali affiorava uno strato di terreno arancione vivo. Meravigliato, Cernan alzò il visore riflettente per assicurarsi che non si trattasse di un'illusione ottica. Nel frammento, Schmitt scavò rapido una buca e vide che in profondità il suolo diventava di un colore rosso acceso.

Nella sala di controllo a Houston gli esperti discussero eccitati le origini e il significato di quel suolo insolitamente colorato, e chiesero ai due uomini di prelevare un campione di entrambi i materiali per portarlo sulla Terra. Schmitt eseguì, poi i due astronauti giunsero sulla cima dello Shorty, dove constatarono che l'impatto del meteorite che aveva originato il cratere aveva portato alla luce lo stesso tipo di terreno arancione, ben visibile ai lati della cavità.

Houston richiese ulteriori campioni da una seconda zona. Per questo motivo nell'itinerario di ricognizione fu inserito un piccolo cratere senza nome, situato accanto a Shorty. L'avrebbero esplorato il terzo giorno, sperando che presentasse il medesimo tipo di terreno. Schmitt lo battezzò cratere Van Serg, dal nome di un docente conosciuto ad Harvard che scriveva pezzi umoristici dietro lo pseudonimo di "Professor Van Serg".

Il terzo giorno si rivelò lungo ed estenuante. La polvere penetrava nelle apparecchiature, intralciando il lavoro. Quella mattina, Cernan e Schmitt avevano condotto il Rover alla base delle montagne che circondavano la valle Taurus-Littrow per esaminare un enorme masso fessurato chiamato Tracy's Rock, che doveva essere rotolato dall'alto molti eoni prima, scavando una traccia nel suolo. Da lì i due astronauti si spostarono in un'area chiamata Sculptured Hills, non particolarmente interessante, dopo di che si inerpicarono con grande difficoltà su una delle colline circostanti per esaminare un macigno dall'aspetto strano e scoprire di aver preso una "cantonata scientifica". Non era altro che un vecchio frammento di crosta lunare, scagliato sull'altura da un'antica esplosione.

Schmitt e Cernan scesero lungo il pendio ripido e polveroso saltando come canguri. Il primo, in particolare, balzava da una parte all'altra simulando uno slalom sugli sci. "Non riesco a tenere le punte allineate. Shhhoomp Shhhoomp. Non è facile ruotare il bacino." Cernan invece si produsse in una spettacolare caduta a bassa gravità, sprofondando illeso nel terreno polveroso.

Quando raggiunsero il cratere Van Serg erano entrambi esausti. Durante l'avvicinamento avevano dovuto attraversare con il Rover lunare un campo pieno di rocce grandi quanto palloni da football. Quei massi risvegliarono l'interesse di Schmitt.

"Non riesco ancora a spiegarmi cosa sia successo, qui", disse. Era tutto coperto da uno spesso strato di polvere. Non c'erano più tracce del terreno arancione che stavano cercando.

I due astronauti parcheggiarono il veicolo e attraversarono il campo di detriti in direzione del bordo del cratere. Schmitt arrivò per primo. A beneficio di Houston, lo descrisse così: "Si presenta grosso e massiccio. Ma è coperto da uno spesso mantello di polvere che nasconde in parte le rocce. A quanto pare, la polvere ricopre il fondo e anche le pareti. Il cratere in sé è formato da un nucleo centrale di rocce del diametro di una cinquantina di metri... no, troppo... facciamo una trentina".

Cernan lo raggiunse. "Accidenti!" esclamò, quando si affacciò sull'impressionante voragine.

L'altro proseguì: "In quella zona le rocce sono molto frammentate, come quelle che compongono le pareti". Quando si guardò intorno alla ricerca del suolo arancione, Schmitt scorse soltanto grigie pietre lunari, per la maggior parte ridotte in coni a seguito dell'impatto che aveva dato origine alla cavità. Il Van Serg pareva un cratere come tanti, non più vecchio di sessanta, settanta milioni di anni. Il Controllo missione era deluso. Nondimeno, Schmitt e Cernan cominciarono a raccogliere campioni e a infilarli in buste numerate.

"Si tratta di rocce estremamente frammentate", osservò Schmitt, maneggiandone una. "E tendono a sfaldarsi. Prendiamo questa, sembra la più adatta ai fini della documentazione. E che ne dici di quella che hai lì dentro?"

Cernan prese un campione e Schmitt ne mise un altro sulla sua paletta. "Hai una busta?"

"La 568."

"Mi pare che questa appartenga a un blocco che ha documentato Gene."

Schmitt tirò fuori un'altra busta vuota. "Preleviamo un altro campione dall'interno."

"Okay, non è difficile con le pinze", concordò Cernan.

Schmitt diede un'occhiata intorno e si soffermò su un esemplare interessante: era una strana roccia lunga una trentina di centimetri, a forma di tavoletta. "Dovremmo prenderla così com'è", disse a Cernan, nonostante fosse un po' troppo grande per essere contenuta in una busta. La sollevarono con le pinze.

"La tengo di qua", fece Cernan, mentre tentavano di infi- larla nel contenitore. "La reggo io, tu apri la busta." Poi si fermò e la guardò da vicino. "Li vedi? Quei frammenti bianchi che ha dentro?" Indicò alcune schegge incorporate nella roccia.

"Già", annuì Schmitt, avvicinando lo sguardo. "Be', potrebbero essere frammenti del meteorite. Non saprei. Perché non sembrano... parte del sottosuolo. Okay. Butta dentro."

Quando la roccia fu al sicuro nella busta, Schmitt chiese: "Che numero è?"

"480", rispose Cernan, leggendo la cifra stampata di lato.

Intanto Houston manifestava nervosismo per il tempo che i due uomini stavano "perdendo" al Van Serg, dal momento che era stata stabilita l'assenza di suolo arancione. Dalla Terra chiesero a Cernan di abbandonare il cratere e di scattare alcune foto del Massiccio Nord con l'obiettivo da 500 mm, mentre Schmitt effettuava una "ricognizione radiale" della coltre di detriti attorno al cratere. Gli astronauti erano in esplorazione da quasi cinque ore. Schmitt lavorava lentamente, e durante la spedizione la sua paletta si ruppe per problemi dovuti, ancora una volta, alla polvere. Da Houston gli dissero di interrompere la ricognizione radiale e di prepararsi a chiudere il sito. Tornati al veicolo, dopo un ultimo rilievo gravimetrico e il prelievo di un altro campione di terreno, provvidero alla chiusura e si avviarono verso il modulo lunare.

Il giorno successivo, Cernan e Schmitt decollarono dalla valle Taurus-Littrow, passando alla storia come gli ultimi esseri umani ad aver messo piede sulla Luna. Almeno finora. L'Apollo 17 effettuò l'ammaraggio sulla Terra il 19 dicembre del 1972.

Il Campione Lunare numero 480 fu inviato al Lunar Receiving Laboratory del Johnson Space Center di Houston, Texas, unendosi agli altri trecentottanta chili di rocce lunari raccolte dalle spedizioni precedenti. Otto mesi più tardi, concluso il programma Apollo, quel laboratorio venne smantellato e il materiale trasferito in una struttura ipertecnologica di recente costruzione presso il Johnson Space Center, il Sample Storage and Processing Laboratory, ovvero SSPL.

A un certo punto, durante quegli otto mesi, prima del trasferimento delle rocce lunari al nuovo SSPL, la roccia conosciuta come Campione Lunare 480 scomparve. Contemporaneamente, tutte le annotazioni relative al suo reperimento svanirono dal catalogo elettronico e dai dossier cartacei.

Oggi, se visitate l'SSPL e consultate il Lunar Sample Registry Database alla voce Campione Lunare 480, il computer vi fornirà il seguente messaggio di errore:

RICHIESTA: CL480
?> NUMERO ERRATO/NUMERO INESISTENTE
PREGASI CONTROLLARE NUMERO CAMPIONE E RIPROVARE

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

1



Marston Weathers, detto Stem, "stelo", per il fisico allampanato, raggiunse la cima della Mesa de los Viejos, legò il suo burro a un ginepro secco e si sedette su un masso polveroso. Riprendendo fiato, si deterse il sudore dal collo con una bandana. La forte brezza proveniente dalla cima della mesa gli stuzzicò la barba, concedendogli un rinfrescante sollievo dall'aria calda e viziata del canyon.

L'uomo si soffiò il naso e rimise in tasca la bandana. Osservò i familiari punti di riferimento e ne ripeté i nomi, in silenzio: Daggett Canyon, Sundown Rocks, Navajo Rim, Orphan Mesa, Mesa del Yeso, Dead Eye Canyon, Blue Earth, La Cuchilla, le Echo Badlands, il White Place, il Red Place e il Tyrannosaur Canyon. L'artista che era in lui vedeva un fantastico regno dai riflessi dorati, rosati e violetti, ma il suo sguardo da geologo scorgeva una sequenza di altipiani a faglia del Cretaceo superiore, fessurati, striati e levigati dalle ere, come se il tempo avesse lasciato dietro di sé un deserto di rocce dalle tonalità abbaglianti.

Weathers estrasse dal taschino del gilet lurido una busta di Bull Durham e si preparò una sigaretta con le mani rugose e sporche, le unghie giallastre e spezzate. Strofinando un fiammifero sui pantaloni, la accese e tirò una lunga boccata. Nelle due settimane precedenti si era trattenuto con il tabacco, ma adesso poteva esagerare.

Era tutta la vita che attendeva quell'eccitante settimana.

La sua esistenza sarebbe cambiata in un istante. Avrebbe sistemato le cose con sua figlia Robbie, l'avrebbe portata fin lì e le avrebbe mostrato la sua scoperta. Lei gli avrebbe perdonato le fissazioni, lo stile di vita caotico. le prolungate assenze. La scoperta l'avrebbe riscattato. Con Robbie non aveva mai potuto prodigarsi come facevano gli altri padri con le figlie, per esempio dandole i soldi per il college, una macchina, un aiuto per l'affitto. Ora l'avrebbe liberata dalla schiavitù di servire ai tavoli del Red Lobster e avrebbe finanziato l'atelier e la galleria d'arte che lei sognava.

Weathers socchiuse gli occhi e guardò il sole. Due ore al tramonto. Se non si dava una mossa, non avrebbe raggiunto il Chama River prima del buio. Salt, il suo burro, non beveva dal mattino, e lui non voleva un animale morto per le mani. Guardò l'asino che dormicchiava all'ombra, le orecchie all'indietro e la bocca che si muoveva a scatti, forse per colpa di qualche cattivo sogno. Weathers provava una sorta di affetto per quella bestia vecchia e dispettosa.

Spense la sigaretta e si infilò in tasca il mozzicone. Bevve un sorso d'acqua dalla borraccia, ne versò un goccio sulla bandana e si rinfrescò il collo e la fronte. Poi si mise la borraccia a tracolla, slegò il burro e lo condusse verso est, attraverso le aride rocce d'arenaria della mesa. A quattrocento metri di distanza, la vertiginosa gola del Joaquin Canyon squarciava la Mesa de los Viejos, l'Altopiano degli Antichi. Digradando in una complessa rete di canyon detta il Labirinto, la mesa si snodava in direzione del Chama River.

Weathers guardò in basso: la base del canyon era avvolta da un'ombra azzurrognola, quasi fosse sommersa. Individuò l'apertura del Labirinto. Si trovava otto chilometri più in là, tra l'Orphan Mesa e la Dog Mesa, nel punto in cui il canyon curvava e proseguiva verso ovest. Il sole picchiava sulle guglie aguzze e sui pinnacoli di roccia che ne segnavano l'ingresso.

L'uomo perlustrò il bordo, finché non scorse il sentiero ripido e quasi invisibile che conduceva verso il fondo. La discesa era rischiosa: la stradina franava in diversi punti e costringeva il viaggiatore a percorrere trecento metri di cengia. La sola via che partiva dal Chama River e attraversava la mesa in direzione est era riservata unicamente ai più impavidi.

A Weathers la cosa non dispiaceva affatto.

Si mise in cammino, badando a sé e al burro. Si sentì sollevato quando raggiunse la Joaquin Wash. Il letto asciutto di quella cascata l'avrebbe condotto all'ingresso del Labirinto e di lì al Chama River. Lungo l'ansa, dove il corso d'acqua si piegava a gomito, c'era una zona in cui si poteva campeggiare e una striscia di spiaggia per fare una nuotata. Comunque adesso aveva altro a cui pensare... Entro il pomeriggio del giorno dopo sarebbe stato ad Abiquiú. Per prima cosa, dato che la batteria del cellulare era morta da giorni, avrebbe chiamato Harry Dearborn per informarlo. Al solo pensiero di dargli la notizia, Weathers ebbe un fremito.

Finalmente il sentiero arrivò in fondo. Il cercatore guardò su. La parete del canyon era scura, ma il sole del crepuscolo fiammeggiava sull'orlo del dirupo. Si irrigidì. Trecento metri più in alto, la sagoma di un uomo lo stava osservando.

Weathers imprecò, nonostante la stanchezza. Quello era lo stesso tizio che due settimane prima l'aveva seguito da Santa Fe fino alle desolate lande del Chama. C'era gente che sapeva dell'abilità di Weathers, ma che era troppo pigra o troppo ignorante per effettuare da sé una prospezione, e sperava di approfittare di lui, prendendo i suoi meriti. Il cercatore si ricordava quell'individuo: era un tipo ossuto in sella a una Harley, una specie di biker, che gli era stato dietro a Española, Abiquiú, Ghost Ranch, tenendosi a nemmeno duecento metri di distanza, senza fare niente per nascondersi. Lo aveva rivisto all'inizio della sua escursione in quei luoghi selvaggi; quello aveva continuato a seguirlo a piedi, mentre risaliva la Joaquin Wash. Nel Labirinto Weathers aveva perso le sue tracce, e quando aveva raggiunto la Mesa de los Viejos il biker non ne era ancora uscito.

Erano passate due settimane e rieccolo lì... Il bastardello non demordeva.

Stem studiò prima le curve descritte dalla Joaquin Wash, poi le guglie di roccia all'ingresso del Labirinto. Avrebbe fatto sì che lo scocciatore si perdesse di nuovo lì dentro. E stavolta quel figlio di puttana non ne sarebbe più uscito. Riprese a scendere lungo il canyon, disarrampicando. Di tanto in tanto si guardava alle spalle. L'uomo, anziché stargli dietro, adesso era scomparso. Forse il suo inseguitore credeva di conoscere una via più rapida per arrivare giù.

Weathers sorrise: non esistevano altre strade.

Dopo un'ora di discesa nel letto della cascata, il nervosismo e la collera del cercatore si placarono. Quel biker era un dilettante. Non era la prima volta che un idiota lo seguiva nel deserto per poi perdersi miseramente. Erano in molti a voler emulare Stem, ma senza risultato. Lui quelle cose le faceva da una vita e aveva una specie di inspiegabile sesto senso. Non lo aveva imparato nei libri, né all'università e neppure in quei dottorati dove passavi il tempo a esaminare cartine e a fare rilevamenti topografici con il radar C-Band ad alta tecnologia. Stem era riuscito dove gli altri avevano fallito. Unica attrezzatura: un asino e un'unità radar fatta in casa, montata su un vecchio IBM 286. Non c'era da stupirsi se lo detestavano.

Riprese a montargli la rabbia. Lo stronzo non avrebbe rovinato la settimana più bella della sua vita. Il burro indugiava. Weathers si fermò e riempì d'acqua il suo copricapo per far bere l'animale, poi lo incitò a proseguire. Il Labirinto era proprio li davanti, e lui doveva entrarci. Al suo interno, vicino alla formazione di Two Rocks, c'era una particolare sorgente, un terrazzino di roccia ricoperto di felci e capelvenere, la cui acqua sgorgava in un vecchio bacino scolpito nella pietra dai nativi preistorici. Weathers decise di accamparsi lì, anziché a Chama Bend, dove sarebbe stato un bersaglio scoperto. Meglio scomodi, ma al sicuro.

Girò intorno alla grande colonna rocciosa che delimitava l'entrata. Trecento metri di canyon in arenaria eolica si innalzavano sopra di lui, la maestosa Formazione dell'Entrada, i massicci resti di un deserto del Giurassico. L'interno era fresco e silenzioso come in una cattedrale gotica. Respirò a fondo l'aria intrisa di tamerice. In alto, con l'avanzare del crepuscolo, le formazioni a pinnacolo erano passate dal colore dell'ambra a quello dell'oro.

Weathers proseguì attraverso il dedalo del Labirinto, avvicinandosi al punto in cui l'Hanging Canyon si fondeva con il primo degli innumerevoli rami del Mexican Canyon. Non sarebbe bastata una cartina per uscirne. E, a quelle profondità, GPS e telefoni satellitari diventavano inutilizzabili.

Il primo colpo, proveniente da dietro si abbatté sulla spalla. Assomigliava più a un pugno che a un proiettile. Il cercatore cadde in ginocchio, le mani a terra, esterrefatto. Solo quando percepì la detonazione rimbombare nel canyon, capì che gli avevano sparato. Non provava ancora dolore, solo un torpore formicolante; poi sentì l'osso frantumato sporgere dalla camicia strappata e il sangue pulsare all'impazzata mentre schizzava sulle rocce.

Cristo.

Quando il secondo proiettile sollevò la sabbia a un passo da lui, l'uomo si risollevò, a fatica. Lo sparo proveniva dall'orlo del dirupo sovrastante, sulla destra. A Weathers conveniva tornare all'imboccatura del Labirinto, a quasi duecento metri di distanza, e ripararsi dietro la colonna rocciosa. Era il suo unico rifugio. Si mise a correre più che poteva.

Al terzo tentativo il cecchino alzò altra sabbia davanti a Weathers, che non si fermò: sentiva di avere ancora una possibilità. Il suo assalitore gli aveva teso una trappola dall'alto, ma ci avrebbe messo parecchie ore a scendere, e se nel frattempo lui avesse raggiunto la colonna di pietra sarebbe riuscito a fuggire. Forse sarebbe sopravvissuto. Corse zigzagando, i polmoni che gemevano dal dolore. Quaranta metri, trenta, venti...

Udì lo sparo soltanto dopo avere sentito il proiettile penetrargli nella schiena. Vide le proprie viscere riversarsi sulla sabbia. Cadde con la faccia a terra. Tentò di alzarsi, rantolando, graffiando il terreno, furioso perché qualcuno gli stava rubando la sua scoperta. Ululava e si contorceva, stringendo il taccuino nella speranza di gettarlo, distruggerlo o farlo sparire in modo che non cadesse nelle mani del suo assassino. Ma non c'era un solo posto in cui nasconderlo. Infine, come in sogno, smise di pensare e rimase immobile...

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 179

"Per un paio di anni Weathers aveva tentato di rintracciare uno strato di arenaria detto Hell Creek Formation giù in New Mexico."

"Hell Creek?"

"Quasi tutti i T. rex esistenti sono venuti fuori da quest'immensa formazione sedimentaria affiorata in luoghi diversi delle Montagne Rocciose, ma che non è mai stata rinvenuta in New Mexico. Lo strato è stato scoperto per la prima volta un secolo fa da un paleontologo di nome Barnum Brown, a Hell Creek, nel Montana, quando ha rinvenuto il primo T. rex della storia. Solo che Weathers era in cerca di qualcosa di più delle rocce di Hell Creek. Era ossessionato dal limite K-T."

"Intendi il confine tra il Cretaceo e il Terziario?"

"Esatto. Vedi, la Hell Creek Formation è sormontata dallo strato K-T, che, spesso soltanto qualche centimetro, reca le tracce dell'evento che ha estinto i dinosauri... la pioggia di asteroidi. Non esistono molti luoghi al mondo in cui si registra una sequenza interrotta di rocce del limite K-T. Credo sia stato questo a portarlo nella zona della mesa grande di Abiquiú... in cerca di quello strato."

"Come mai cercava proprio quello?"

"Non lo so con certezza. Detto banalmente, il K-T è lo strato roccioso più interessante mai trovato. Include i detriti dell'impatto degli asteroidi e le ceneri delle foreste incendiate. Nello strato K-T del bacino di Raton, in Colorado, si nota una sequenza chiara e spettacolare. Praticamente quelle rocce raccontano una storia. L'asteroide cadde dove c'è l'odierna penisola dello Yucatan, con un angolo tale da inondare di frammenti di rocce fuse gran parte del Nord America. L'asteroide fu denominato Chicxulub, un'espressione maya che vuol dire 'la coda del diavolo'... Carino, eh?"

Ridacchiò e approfittò dell'occasione per mangiare un'altra focaccina.

"Chicxulub si abbatté sulla Terra alla velocità di Mach 40. Era così grosso che quando la base toccò la superficie la cima era alta quanto l'Everest. All'impatto con la crosta terrestre, si staccò un pezzo enorme che sprigionò un pennacchio di materia nel raggio di più di un centinaio di chilometri, il quale oltrepassò l'atmosfera ed entrò in orbita. Una parte quasi raggiunse la luna prima di ricadere alla velocità di quarantamila chilometri all'ora. La massa di materia in caduta surriscaldò l'atmosfera, generando lampi enormi che si abbatterono sui continenti, liberando cento miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, cento miliardi di tonnellate di metano e settanta miliardi di tonnellate di fuliggine. Il fumo e la polvere erano così fitti che la Terra diventò scura come una grotta, la fotosintesi si bloccò e la catena alimentare andò a rotoli. Scese una sorta di inverno nucleare e il pianeta restò ghiacciato per mesi: seguì immediatamente un galoppante effetto serra causato dall'improvviso rilascio di biossido dí carbonio e metano. L'atmosfera terrestre impiegò centotrentamila anni per raffreddarsi e tornare alla normalità."

Dearborn schioccò le labbra e si leccò un baffo di crema con la grossa lingua rosata. "Tutta questa storia è perfettamente registrata sulle rocce K-T nel bacino di Raton. Prima si vede uno strato di frammenti prodotti dall'impatto. È grigiastro e presenta tracce di iridio, un elemento riscontrato nei meteoriti. Al microscopio appare composto da piccole sferette, goccioline congelate di rocce fuse. Sopra c'è un altro strato, nero intenso, che un geologo ha definito 'le ceneri del Cretaceo'. I geologi sono più poetici degli scienziati, non trovi?”

"Continuo a non capire perché Weathers si interessasse al K-T se si limitava ad andare a caccia di fossili di dinosauri."

"È un mistero. Forse utilizzava lo strato K-T come mezzo per localizzare fossili di T. rex. I tirannosauri spadroneggiavano sulla Terra proprio nel tardo Cretaceo, poco prima dell'estinzione."

"Al giorno d'oggi quanto vale un tirannosauro?"

"Pare che le persone che hanno trovato T. rex non si contino sulle dita di una mano. Quelle bestie sono rarissime. Ho due dozzine di clienti in attesa di comprare il primo T. rex che venga fuori sul mercato nero, e sono certo che alcuni di loro sarebbero disposti a offrire dai cento milioni in su."

Tom fece un fischio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 287

Il Tyrannosaurus rex era dotato di grande intelligenza. Lei aveva un cervello molto sviluppato in proporzione al corpo, più di ogni altro rettile mai esistito, delle stesse dimensioni di quello di un essere umano; dunque, in termini assoluti, tra i cervelli più grandi che si fossero mai evoluti in un animale terrestre. Eppure la sua mente, la parte deputata al ragionamento, era virtualmente inesistente. Era limitata a una macchina biologica di input-output che elaborava il comportamento istintivo. La sua programmazione era ineccepibile. Non pensava a quello che faceva, lo faceva e basta.

Non possedeva una memoria a lungo termine. Quella serviva ai deboli. Non aveva predatori da riconoscere, pericoli da evitare o concetti da apprendere. Gli istinti si prendevano cura delle sue necessità, che erano semplici. Aveva bisogno di carne. E tanta. Non avere memoria significava essere liberi. Le dune di sabbia in cui era nata, sua madre e i suoi fratelli, i tramonti infuocati della sua infanzia, le piogge torrenziali che tingevano i fiumi di rosso e le piene improvvise che si abbattevano sulla pianura, la siccità che spaccava la terra... di tutto questo aveva perso ogni ricordo. Sperimentava la vita man mano che le si presentava, un unico flusso di sensazioni e reazioni che annullava il suo passato, come il fiume che si dissolve nell'oceano.

Aveva visto i suoi quindici fratelli morire o venire uccisi e non aveva provato nulla. Non sapeva nulla. Non si era accorta della loro scomparsa, se non dopo che le loro carcasse si erano trasformate in carne. E questo era tutto. Dopo essersi separata dalla madre, non l'aveva più riconosciuta.

Lei cacciava, uccideva, mangiava, dormiva e andava in giro. Non era consapevole di avere un "territorio": si spostava seguendo le felci sradicate e le zone di vegetazione calpestata da branchi di anatosauri, senza riconoscere o ricordare. Le loro abitudini erano le sue abitudini.

Emozioni come l'amore, l'odio, la compassione, la tristezza, il rimpianto o la felicità non avevano equivalenti nel suo cervello. Lei conosceva soltanto il dolore e il piacere. Era programmata in modo da appagare i suoi istinti e provare piacere: non farlo sarebbe stato impensabile.

Non rifletteva sul significato dell'esistenza. Non era consapevole di esistere. Lei era e basta.

| << |  <  |