Autore Giulio Preti
Coautoreal.
Titolo Filosofia
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1966, FF 14 , pag. 496, cop.fle., dim. 11x18x2,5 cm
OriginalePhilosophie
EdizioneFischer Bόcherei KG, Frankfurt am Main, 1958
CuratoreGiulio Preti
TraduttoreGian Antonio De Toni, Carlo Ascheri
Classe filosofia












 

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Pagina IV

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Pagina 7

INTRODUZIONE
LO STATO ATTUALE DELLA FILOSOFIA



Tutti conosciamo l'imbarazzo in cui ci si viene a trovare quando il solito profano ci chiede "Che cosa è la filosofia." Una domanda del genere mette in imbarazzo sempre: anche se si chiedesse che cos'è la matematica, che cos'è il diritto — o, peggio, che cosa è l'arte o la poesia. Ma per la filosofia la risposta è addirittura impossibile. Già A r i s t o t e l e recava molte accezioni del termine: e da allora si potrebbero dire decuplicate. Quello di filosofia è un concetto di tipo, diciamo, "familiare": cioè, non è un concetto, ma una "famiglia di concetti," i cui membri, sorti in epoche differenti e successive della storia, sono contigui l'uno all'altro, ma lontanissimi agli estremi. La nozione di filosofia non è data da alcuna possibile definizione intelligente e valida universalmente fino ad oggi, bensí dall'intero complesso della sua storia. Ma oggi che cosa è la filosofia? Anche a questo non si può rispondere: troppa tradizione ancora confluisce dal passato e pesa sul presente. Ma è certo che, comunque, si sente che il termine sta profondamente mutando di senso nei confronti di tutte le accezioni del passato, si sente che — come la matematica, il romanzo, la pittura e forse anche la fisica e la musica — la filosofia sta diventando un'altra cosa. Θ difficile dire che cosa, ma si può tentare di descrivere perché un'altra cosa.

Nella grande tradizione consegnataci dalla storia della filosofia si possono notare alcune costanti. La f i l o s o f i a appare, nel complesso, come un atteggiamento razionale nei confronti delle credenze e dei costumi dei più, tradizionali ed emozionali. Ma già i Greci — in particolare A r i s t o t e l e — distinguevano due usi della ragione: teoretico e pratico, ossia due tipi di atteggiamento razionale, l'uno rivolto alla speculazione, alla conoscenza disinteressata della verità, l'altro rivolto alla saggezza, ad un equilibrio pratico, vitale, ad una razionalità nelle faccende della prassi e della vita, al conseguimento del bene. Il filosofo era dunque due cose: un teoreta, in un certo senso uno scienziato, un sapiente; un profeta, un maestro di costumi e di vita, un saggio. Nella storia, i due tipi di pensiero, i due atteggiamenti filosofici, si trovano spesso uniti, a volte invece disuniti, qualche volta persino opposti: ma entrambi attraversano tutta quanta la veneranda tradizione della filosofia.

Mediatrice di entrambi la m e t a f i s i c a , la scienza piú universale e astratta dell'essere, della sostanza e delle grandi categorie del pensiero e del reale, "scienza delle cose divine ed umane." Questa era il nocciolo, il cuore, l'essenza stessa della filosofia: ancora qualche decennio fa, un filosofo nostrano (peraltro alquanto attardato rispetto al movimento del pensiero europeo) amava dire "la filosofia o è metafisica o non è." Scienza dei principi primi e assoluti del reale, la metafisica forniva i fondamenti per ogni conoscenza razionale del mondo, nonché, in quanto determinava l'essenza del Bene, e il posto e la destinazione dell'uomo nel cosmo, forniva insieme le basi per una scienza del bene e della virtú, ossia le basi razionali della saggezza. Una logica come teoria generale del conoscere e della correttezza formale del discorso; una metafisica come conoscenza generale dell'universo (ivi incluso il destino dell'uomo); un'etica formalmente dedotta dalla metafisica — questa era, per le scuole post-aristoteliche (in particolar modo per gli Stoici ed Epicurei) la filosofia. E questo modello esercitò per un millennio una profonda attrazione, fino a che, nel secolo XVIII, la metafisica entrò in crisi.

La c r i s i _ d e l l a _ m e t a f i s i c a, iniziatasi già con Locke, accentuatasi con Hume, definitiva con Kant, è ormai cosa pressoché universalmente ammessa (anche se poi, nella prassi della ricerca filosofica, riesce difficile liberarsene). Oggi i discorsi metafisici, portanti sull'Assoluto, l'Essere, il Bene, Dio, l'In-Sé o l'Idea, piú ancora che impossibili appaiono privi di senso. Gli ultimi metafisici rinunciano ogni decennio di piú alle pretese di fare un discorso razionale, scientifico, pubblico, e svaporano sempre piú nel mistico, nell'intuizione e nell'auto-biografia piú o meno "esistenziale." E, in generale, piú che fare della metafisica ex professo (dove sono finiti i "grandi sistemi" del passato?), fanno nebulosi discorsi per dimostrare (forse piú a se stessi che agli altri) che "da una metafisica non si può prescindere" e che ogni discorso "ha una metafisica implicita": "implicita" — altro che scientia scientiarum, disciplina disciplinarum!

Gli altri oramai adoperano il termine "metafisica" in senso dispregiativo, per liquidare (a volte anche troppo frettolosamente) ogni discorso che giudichino non-scientifico, retorico o vano, per dedicarsi invece a ricerche su basi storiche o fattuali o culturali piú certe — su basi di "esperienza."

Ma quella che è entrata piú profondamente in crisi è la filosofia come saggezza. Nessun filosofo, oggi, si presenta al pubblico come profeta o come maestro di saggezza: a meno che non si consideri saggezza la deliberata rinuncia, anzi il deciso rifiuto, ad essere saggi. Qui veramente, e ancor piú profondamente che nei riguardi della metafisica, si scava un abisso tra la filosofia odierna e quella tradizionale. Lo scetticismo antico traeva dalla negazione stessa della possibilità di una metafisica una norma razionale di vita; lo scetticismo odierno riguarda soprattutto la negazione della possibilità stessa di una norma razionale di vita (e forse proprio per questo, prima ancora che per ragioni logico-gnoseologiche, diffida della metafisica). Non che la morale non venga piú coltivata: il discorso morale, le istituzioni etiche, la problematica della vita morale, vengono ancora profondamente studiati, da molteplici punti di vista: ma non allo scopo di stabilire delle norme pratiche di vita, una scientia regia indirizzata alla virtú e alla felicità. Già K a n t aveva detto che la l e g g e _ m o r a l e è scolpita nel cuore di ogni uomo e non occorre la filosofia per stabilirla (o scoprirla), assegnando quindi al pensiero filosofico il compito riflesso e teoretico di analizzarne le condizioni e indagarne i fondamenti. Ma oggi, in generale, non si crede piú neppure che qualcosa come una legge morale sia scolpita in qualcosa come il cuore degli uomini (una metafora che non si capisce bene che cosa significhi), tanto meno poi che il compito della filosofia (o di qualsivoglia altra forma di pensiero razionale, cioè universalmente valido) sia quello di stabilirne o scoprirne una. Piú che a trovare delle presunte certezze per la vita, la filosofia odierna sembra che tenda a rilevarne le reali incertezze, la effettiva pluralità — pluralità di mondi, pluralità di destini, pluralità di valori e di beni.

Cosi la f i l o s o f i a rimane soltanto conoscenza — e conoscenza non metafisica. Conserva però qualcosa del vecchio ideale razionalistico, forse di eredità metafisica: l'ideale di un discorso universale-umano, spostato sempre (rispetto a tutte le altre conoscenze) verso gli aspetti piú generali, piú universali, piú "astratti" (come suol dirsi) e quindi piú speculativi del campo in cui opera. L'amore per il particolare, per quanto da molti punti di vista apprezzabilissimo, non caratterizza il filosofo e la filosofia, come non li caratterizza l'amore per l'empirico, anche in una filosofia empiristica. Proprio per questo suo orizzonte il piú possibile vasto e povero di particolari la filosofia conserva uno scopo peculiare a tutta la sua storia ed ereditato dall'intera sua tradizione: quello della f o n d a z i o n e. Ora, come sempre, la filosofia, piú che ricerca di un sapere (determinato, concreto, conclusivo), è ricerca sui fondamenti del sapere (comunque poi questi vengano intesi); ed ogni scienza o conoscenza specifica, d'altra parte, tocca l'orizzonte della filosofia, diventa, per lo meno, "pensiero filosofico," non appena si pone il problema dei propri fondamenti. Ma la differenza dal vecchio orientamento metafisico sta in ciò: che tali fondamenti non si possono piú trovare in una (pretesa) diretta e peculiare conoscenza dell'"essere" (o dell'"essenza," o dell'"idea," o comunque si chiami): conoscenza che costituiva lo scopo proprio, "essere" che costituiva l'oggetto proprio, della filosofia stessa. Oggi i fondamenti del sapere, nella misura che questa espressione appare ancora avere un senso, non si possono trovare in un "altro" sapere che stia fuori e prima del sapere stesso, in un "altro" oggetto che stia fuori e prima degli oggetti delle varie forme determinate di conoscenza: le quali, in sostanza, oggi si considerano autofondate. Un filosofo americano ha detto molto giustamente che "la conoscenza è un fatto, non un problema"; e, del resto, già per Kant dei giudizi sintetici a priori che fondano le scienze bisognava chiedere "come" sono possibili, e non già "se" sono possibili — cioè bisognava cercarne l'autofondazione, nella loro stessa struttura e nel loro stesso processo, e non già in una mitologica etero-fondazione. (La stessa metafisica appariva, questa volta, impossibile, non già per l'ineffabilità o inaccessibilità del suo oggetto, ma per la stessa sua struttura o per il suo stesso processo — anch'essa, in un certo modo paradossale, fondava la propria impossibilità; anche la conoscenza metafisica era un fatto — negativo — e non un problema.)

Dunque, la filosofia non ha piú un oggetto proprio e non fonda mediante quel suo oggetto le varie forme della cultura, le quali si fondano da sé. La filosofia è quindi (in un senso molto equivoco) questa stessa "formalità" della cultura in quanto autoriflessa. In parole piú piane, la filosofia ha ora per oggetto la cultura stessa, nelle sue varie forme, conoscitive e no (però quelle non-conoscitive sono oggetto della filosofia in quanto nell'autoriflessione formale divengono autoconoscitive). Non ricerca verità materiali, ma il senso di vero, in quanto valore che il sapere si pone (in maniera molteplice e ambigua) come scopo e criterio; non ricerca "che cos'è bello," ma il senso di bello in quanto scopo e criterio delle attività (valutative e/o creative) estetiche; non ricerca "che cosa è bene," ma il senso di buono in quanto categoria del giudizio e della norma della moralità storica. Eccetera.


Nell'introduzione ad una trattazione enciclopedica il discorso deve restare necessariamente vago. Le sue variabili, le sue molte variabili, dovranno venir riempite (e non certo tutte) dalle singole trattazioni. Quali siano i "capitoli," ossia i problemi e campi di ricerca, in cui si articola la filosofia contemporanea, quali i metodi, i punti di vista, gli indirizzi — quali gli "-ismi" con i loro peculiari atteggiamenti, tutto questo il lettore lo troverà nell'intera opera; esporlo qui, in questa introduzione, adeguatamente sarebbe impossibile (e forse non sarà possibile neppure nell'intera operetta: ma quale esposizione riassuntiva può sostituire i testi?); esporlo inadeguatamente sarebbe vano e dogmatico. Quello che si può tentare è di esporre brevemente, rimandando per una piú esauriente esposizione ai singoli articoli, quali siano i principali atteggiamenti della filosofia di oggi, in quanto contemporanei, nei riguardi dei compiti della filosofia, dei metodi per attuarli, dei piani di svolgimento del suo discorso.


In primo luogo, ricordiamo lo s t o r i c i s m o. Un termine che oggi è divenuto, anch'esso, molto ambiguo — sí che, "storicisticamente," non si potrebbe definire che attraverso una storia. Nella sua fase piú arcaica e piú metafisica (anzi, addirittura teologica) la storia è concepita come manifestazione mondana dell'Assoluto, che solo attraverso il suo "farsi carne" realizza pienamente sé e la propria assolutezza. Onde la verità — cioè il manifestarsi o automanifestarsi dell'Assoluto — è, o meglio si fa, solo nella storia; di conseguenza anche la filosofia, in quanto comprensione (o meglio, autocomprensione) dell'Assoluto, è, o meglio si fa, nella storia e come storia razionale della verità. Questo è, ovviamente, un mito; esprime però un atteggiamento scientifico o positivo verso la storia largamente diffuso nel pensiero contemporaneo: il succedersi dei pensieri non è la appiattita e acronica simultaneità di "opinioni" in concorrenza, tra cui scegliere piú o meno criticamente e ragionevolmente la piú giusta (o ecletticamente un cocktail di quelle che sembrino piú giuste); e neppure una "filastrocca di errori" in attesa della verità (che poi è data dal "sistema" cui aderisce lo storico — in tal caso, uno pseudo-storico): bensí una serie di verità, ciascuna vera nel proprio momento, ma superata e falsificata (in quanto pretesa di verità sub specie aeternitatis) nei momenti successivi.

La struttura della verità è la dialettica, e il tempo è la forma di esteriorità, l'immagine fenomenica dell'interiore e razionale ritmo dialettico della realtà, dell'Assoluto. Onde "tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale" ( H e g e l ). Lo storicismo però ha assunto molte forme, si è presentato (e si presenta tuttora) in molte vesti, e spesso con forti assunzioni metafisiche. Lo s t o r i c i s m o _ i d e a l i s t i c o, il cui campione fu, e rimane, Hegel, ma che ebbe moltissimi epigoni, rimane chiuso nella sfera del pensiero senza carne: il divenire storico è divenire dialettico, i "momenti" della storia sono soltanto momenti di un sistema dialettico senza tempo — e il tempo è solo la forma empirica, in ultima analisi illusoria, di una successione atemporale. Di contro, lo s t o r i c i s m o _ m a t e r i a l i s t i c o, il cui campione fu, e rimane, K. M a r x , intende la temporalità della storia e della verità come temporalità umana, dell'uomo in carne, ossa e sangue, legato alla terra dai bisogni e dal lavoro che compie per soddisfarli. La verità è valore legato all'esperienza umana concreta, esperienza del lavoro e dei rapporti interumani (sociali) sorti nel lavoro e/o dal lavoro; rapporti che mutano nel tempo, onde nel tempo muta la verità dell'umano "pensiero." Tanto piú che la verità non è rispecchiarnento passivo di un aldilà obiettivo, ma è concreta praxis, orientamento attivo verso il — e nel — mondo dei bisogni e del lavoro: è nell'azione, non nella speculazione, che si prova la verità del pensiero.

Affine allo storicismo, soprattutto nelle sue forme piú moderne, è il p r a g m a t i s m o, del quale J. D e w e y è stato ìl massimo esponente. Anche qui la verità è funzione del concreto della vita umana, per cui il mutarsi della verità è legato al mutarsi dell'esperienza concreta degli uomini. E l'esperienza, diversamente che nell'empirismo classico, non solo non è piú concepita come la registrazione passiva, tramite gli organi di senso, o come la semplice riproduzione associativa di "impressioni" esterne, bensí è concepita come la prassi stessa nel vivente, attivo ricordo: è orientamento, selezione, standardizzazione. Né è semplicemente legata ad un organismo vivente isolato e preso in sé — bensí è legata alla tradizione vivente, ai "ricordi," di gruppi associati — è esperienza storica e sociale. Infatti nel pragmatismo l'accento batte principalmente sul momento sociale della cultura: i fenomeni culturali, quali il linguaggio, la morale, i valori in genere, vengono indagati come eventi che si svolgono in un milieu sociale e sono legati alla (o meglio, costituiscono la) storia di esso.

Le stesse preoccupazioni, e caratteri parzialmente affini pur nella radicale diversità, presenta la filosofia e s i s t e n z i a l i s t a, movimento vastissimo (le cui varie correnti spesso sono tra loro stesse in violento contrasto), tra i piú significativi, e perciò anche tra i piú discussi, del nostro secolo. La differenza piú importante è il carattere non-storicistico di questa filosofia: essa indaga, soprattutto nel campo morale, certi aspetti e certe conseguenze della situazione umana in quanto tale, cioè in quanto inerente al fatto fondamentale dì essere uomini che vivono nel mondo. La storia, se mai, è un aspetto particolare di questa radicale, fondamentale situazione — ma non già ciò che la definisce, o ne definisce la problematica. Sia l'esistenzialismo religioso che quello ateo si rifanno entrambi alla singolare figura e al grande messaggio di S. K i e r k e g a a r d, il quale elaborò il suo pensiero, appunto, in una serrata polemica contro la filosofia hegeliana. Non solo: ma anche l'elemento sociale della vita e problematica umana vi è assai meno accentuato: se è verissimo che il mondo sociale è tipico dell'essere nel mondo dell'uomo, è anche vero che in esso il singolo vi perde, piuttosto che acquistare, la propria autenticità. Ma in comune con le correnti filosofiche cui si è precedentemente accennato l'esistenzialismo ha la tipica tonalità umanistica, o meglio antropologistica: non solo l'interesse centrale è per i problemi della vita e della cultura umana in quanto umana, ma in genere predomina in esso quell'orientamento per cui l'uomo è ritenuto esso stesso il creatore, e non semplicemente il depositario o raccomandatario, della verità e dei valori, che sorgono nella — e dalla — situazione umana e in essa si giustificano o si perdono.

Per la sua impostazione teoretica, soprattutto per il suo linguaggio e per i molti metodi di analisi che esso impiega, l'esistenzialismo (sia quello tedesco che fa capo a M. Heidegger, sia quello francese che fa capo a J. P. Sartre) deve molto ad un'altra corrente filosofica, che ebbe il suo massimo esponente in E. H u s s e r l : la f e n o m e n o l o g i a. E per lo stesso lungo sviluppo del pensiero del suo fondatore, e per i modi in cui questo pensiero si è rifratto nei molti e diversi seguaci, la fenomenologia ha assunto oramai una grande varietà di aspetti e di interessi, sí che difficilmente oggi si lascerebbe definire in maniera unitaria. Da un lato la fenomenologia deriva dall'idealismo, di cui eredita il piano trascendentalistico (e, anzi, soggettivistico-trascendentale) di indagine e l'interesse prevalentemente gnoseologico. Donde un'astrattezza e, in un certo senso, un formalismo nelle ricerche, che la differenziano nettamente dalle altre correnti filosofiche del nostro secolo e se mai la imparentano alle forme di logicismo matematico dominanti nel mondo anglosassone (anche la fenomenologia, del resto, riconosce tra i propri antenati il pensiero filosofico di D. H u m e , al quale tuttavia rimprovera il non aver raggiunto il piano propriamente fenomenologico-trascendentale, rimanendo impigliato in una specie di psicologismo empiristico). D'altra parte, però, la fenomenologia, accentuando nel cogito la struttura intenzionale per la quale l'atto noetico si dirige sempre ad un correlato intenzionale oggettivo, ripudia quella mitologia spiritualistica dell'idealismo secondo la quale la filosofia si sarebbe dovuta risolvere in una retorica celebrazione di una pretesa e astratta libera attività creatrice dello Spirito. Nella fenomenologia invece l'indagine rimane ancorata alla ricerca del modo in cui nell'atto si costituiscono i contenuti che lo riempiono e gli conferiscono un senso — e sebbene questa non fosse, almeno alle origini, l'idea di Husserl, l'esistenzialismo poté trasformare la fenomenologia in un'analisi dell'autotrascendenza dell'ego nel mondo. Anche la fenomenologia, almeno alle origini, era una forma di pensiero filosofico decisamente non storicistico: il suo piano di indagine era anzi tipicamente atemporale, rivolto a certe strutture essenziali del rapporto intenzionale e dei modi in cui esso si attua nel giudizio e nella costituzione dell'oggetto — analisi delle modalità doxiche da una parte, delle antologie regionali dall'altra. Però il riconoscimento, sempre piú esplicito, nelle opere del tardo Husserl della funzione della temporalità come struttura essenziale dell'attuarsi della coscienza dell'ego e delle condizioni in cui tale coscienza si attua come temporalità ha portato alcuni suoi seguaci ad un riaccostamento con certe forme di storicismo, in particolare con quello di origine marxiana.

Affine, pur nella grande diversità (diversità che lo pone, anzi, al lato opposto dello schieramento filosofico contemporaneo), alla fenomenologia husserliana (soprattutto nella sua fase originaria) è quel complesso movimento che è noto con il nome di n e o p o s i t i v i s m o , del quale la varietà piú importante è l' e m p i r i s m o _ l o g i c o : il maggior rappresentante ne è attualmente R. C a r n a p. Anche qui, astoricismo, stretto teoreticismo, ideale del sapere filosofico come scienza rigorosa — e soprattutto l'assegnazione alla filosofia di un compito esclusivamente analitico — differenziano questo orientamento filosofico dai precedenti (e dalla stessa fase finale della fenomenologia). Compito della filosofia è l'analisi del discorso scientifico, e dal punto di vista logico, e dal punto di vista empiristico-critico. Il sapere porta sempre su cose (fatti, eventi) empiricamente verificabili — è scienza empirica, organizzata in un discorso logicamente (formalmente) rigoroso. Quindi, la filosofia non è propriamente sapere — non ha un oggetto proprio. L. W i t t g e n s t e i n , che, pur non essendo affatto un neopositivista, con il suo "Tractatus logico-philosophicus" ha profondamente influito sulle prime formulazioni di questo movimento, diceva che la filosofia è come una scala, saliti in cima alla quale bisogna buttarla via. Non proprio cosí i positivisti, i quali hanno sempre ripudiato il fondo mistico-irrazionalistico di Wittgenstein: tuttavia alla filosofia rimane il compito di analizzare i linguaggi e i discorsi scientifici alla luce di certi standards di discorsi logicamente (formalmente) perfetti in un linguaggio ideale. Piú tardi l'empirismo logico assegnerà alla filosofia il compito di studiare le condizioni per la scienza unificata: anche qui, analiticamente, studiare le strutture di un linguaggio ideale, le cui proposizioni portino, in ultima analisi, su cose (empiriche) e fatti, accadimenti nel tempo (fisico) e nello spazio (fisico-geometrico), e ridurre tutti gli enunciati aventi senso (quindi tutte le proposizioni scientifiche) a proposizioni di un tale linguaggio. Ne consegue una enorme finezza di analisi dei concetti scientifici, delle strutture e delle funzioni di modelli e teorie. Mentre il campo della gnoseologia (dell'analisi della conoscenza in senso proprio) è conteso, forse non del tutto con successo, alla fenomenologia, nel campo dell'epistemologia l'empirismo logico regna tuttora pressoché incontrastato (però non certo senza contrasti al proprio interno).

Ma la forza dell'empirismo logico ne è anche il limite. Fuori dell'analisi dei discorsi scientifici in senso rigoroso (delle scienze matematiche, fisiche e naturali, piú qualche aspetto di alcune scienze umane piú affini alle naturali, come la linguistica, la sociologia, la psicologia), il metodo dell'empirismo logico si rivela poco fecondo. Di fronte al mondo dell'esperienza quotidiana, e alla descrizione di esso nel linguaggio comune, di fronte al discorso etico, estetico o morale, e al mondo dei valori in genere, l'empirismo logico si rivela o rozzo o impacciato, oppure resta in silenzio (come Wittgenstein sosteneva per l'etica, che era al di là della famosa scala). L'esplicito scientismo di base è la forza e la debolezza dei metodi di Carnap o di Neurath. Di fronte ad esso sta un'altra scuola, la s c u o l a _ d i _ O x f o r d , la quale pure in qualche modo si può considerare neopositivistica. Anch'essa è una forma di filosofia analitica; anch'essa assegna alla filosofia come unico compito l'analisi del linguaggio: ma del linguaggio comune, nella sua irriducibilità a linguaggio scientifico e profonda eterogeneità da questo. Il che non implica soltanto una diversa predilezione per un diverso oggetto: bensí altri metodi ed altri principi. Θ l'uso, non il significato, che si studia, ed è nel momento pragmatico che viene considerata la concretezza del discorso: indagine sull'uso, quindi, al posto della rigorosa costruzione sintattico-semantica di concetti e teorie. Non è da stupirsi se i metodi oxoniensi fanno le loro migliori prove proprio là dove falliscono i metodi dell'empirismo logico: nel campo dei discorsi valutativi in generale, e in particolare dei discorso etico. Tra metodi e concetti dell'empirismo logico e metodi e concetti della scuola di Oxford (e della fenomenologia, da cui questa in parte deriva) vige una specie di complementarità.


A prima vista la filosofia sembra dunque presentare oggi in maniera esasperata quella caratteristica che le è sempre stata peculiare: di una enorme, sconcertante varietà di punti di vista, di problemi, di soluzioni. Sembra piú che mai un campo di conflitti senza fine, una serie di opinioni tanto discordanti da far sospettare giustamente che siano prive di senso. Ma se togliamo dalla nozione di oggi quello che pure, in senso cronologico, appartiene, sí, all'oggi, ma è residuo o nostalgia o rigurgito del passato, e consideriamo solo quei movimenti (di cui sopra abbiamo discorso) che stanno all'avanguardia del pensiero contemporaneo e ne rappresentano le correnti vitali e progressive, il panorama cambia completamente, e la varietà non significa piú discordia. La f i l o s o f i a , in queste correnti, non è né intuizione geniale in cui si "esprime" una personalità, né teologia o metafisica; né è piú campo per lotte di religione. Esistenzialismo e neopositivismo (proprio per prendere due estremi dell'apparente opposizione) possono anche considerarsi due opposte concezioni del mondo, della vita, dei valori: ma non in quanto hanno di peculiare oggi, bensí in quanto ridotte ai loro antenati storici: giacché, ripetiamo, in quanto hanno di peculiare oggi sono due metodi di analisi, diretti a piani diversi dell'esperienza culturale, intenti a scopi diversi. Si potrà dire che sono due gusti diversi, e forse opposti, del filosofare — non due "sistemi" incompatibili (se non in quello che, eventualmente, conservano ancora di "sistematico"). Nei confronti della tradizione filosofica le filosofie di oggi hanno dunque tutte in comune un elemento negativo: l'antirazionalismo, ossia la negazione di un luogo eterno delle idee o essenze o noumena che una pretesa "ragione" dovrebbe cogliere. Ma hanno in comune anche un elemento positivo: con la rinuncia al "sistema," e anche al suo fratello-nemico, al "problema," si apre il fecondo campo dell'analisi dei fatti dell'esperienza, dell'esperienza umana nella sua complessità, sia essa la vita di tutti i giorni o quel "più-che-vita" che è la cultura nei suoi diversi strumenti, nei suoi diversi piani di costruzione e di astrazione.


Partendo da questo punto di vista abbiamo operato le nostre scelte di correnti e di "parti" della filosofia, seguendo in ciò il modello del tedesco Fischer-Lexicon di cui questo volume vuol essere un parziale rifacimento ad uso di un pubblico italiano piú decisamente "europeo" che non quello della Germania odierna. Ne abbiamo utilizzato, materialmente, molte voci, e molte ne abbiamo rifatte; alcune sono state tolte, altre aggiunte. Ma l'ispirazione fondamentale, di non fare un'enciclopedia della storia della filosofia o della tradizione filosofica, bensí un'esposizione enciclopedica della filosofia oggi, nei suoi aspetti viventi e operanti, l'abbiamo conservata.


Giulio Preti

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