Copertina
Autore Gavin Pretor-Pinney
Titolo Wave Watching
SottotitoloUna guida illustrata per l'osservatore di onde
EdizioneGuanda, Parma, 2011, Biblioteca della Fenice , pag. 334, ill., cop.fle., dim. 14,2x22x2,6 cm , Isbn 978-88-6088-470-1
OriginaleThe Wave Watcher's Companion [2010]
TraduttoreStefania De Franco
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe natura , mare , fisica , storia della scienza , mente-corpo
PrimaPagina


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Indice


L'osservazione delle onde per principianti                    5

La prima onda che ci attraversa tutti                        37

La seconda onda che riempie di musica il nostro mondo        65

La terza onda da cui dipende l'era dell'informazione         97

La quarta onda che segue il flusso                          129

La quinta onda, quando le onde diventano cattive            155

La sesta onda che scorre tra di noi                         185

La settima onda che sale e che scende                       209

L'ottava onda che colora il nostro mondo                    245

La nona onda che viene a infrangersi a riva                 273


Note                                                        305
Fonti iconografiche                                         315
Indice analitico                                            317


 

 

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Pagina 7

Un gelido pomeriggio di febbraio gironzolavo con Flora, la mia figlioletta di tre anni, sugli scogli della Cornovaglia. Di norma sarebbe stata l'occasione ideale per contemplare le nuvole, ma quel giorno il cielo era di un limpido insolito per la stagione, anzi, non c'era una sola nube in vista. Seduti al limitare della baia davanti al monotono orizzonte dell'Atlantico, ci ritrovammo istintivamente a osservare il moto dell'acqua. O quanto meno io. Flora era tutta presa ad arrampicarsi sui massi scivolosi.

Quelle onde, però, non avevano niente di sensazionale. Non erano i frangenti impetuosi che sollevano nubi di spruzzi nell'abbattersi con violenza sulla lingua di terra, né erano le onde regolari dell'immaginazione, un susseguirsi costante di creste che, una dopo l'altra, si riversano sulla spiaggia con rigore controllato.

Il moto dell'acqua non aveva alcun ordine. Come pendolari in una stazione affollata all'ora di punta, le crestine si spostavano qua e là scontrandosi caoticamente tra loro. A differenza dei pendolari, però, si attraversavano e si oltrepassavano, unendosi e separandosi, comparendo e scomparendo.

Era un moto ipnotico. Non riuscivo a seguire i progressi di ogni cresta per più di un secondo. Appena mi concentravo su una, la piccola insolente si univa a un'altra che proveniva da una direzione diversa. Poi il mio sguardo veniva inevitabilmente distratto da una terza ondina che s'intrufolava mentre le prime due svanivano.

Parlando con Flora, ben presto ecco arrivare una raffica di domande: «Perché ci sono le onde?» «Da dove vengono?» «Perché spruzzano?» E sebbene fossero domande infantili, ero io, non lei, a porle.


Nonostante fosse stato il cielo azzurro e limpido a suscitare il mio interesse per le onde, ora mi rendo conto che la contemplazione delle nuvole conduce in modo naturale all'osservazione delle onde. È impossibile fissare a lungo le nuvole senza comprendere quanto il loro aspetto sia influenzato dalle onde. Non mi riferisco alle onde che si rincorrono sulla superficie dell'acqua, ma a quelle che si formano lassù, nelle sconfinate correnti d'aria del cielo, perché anche l'atmosfera è un oceano, di aria invece che di acqua.

Gli oceani al di sopra e al di sotto dell'orizzonte sono intimamente collegati. Come si legge nel libro della Genesi, quando Dio diede origine alla vita per prima cosa mise in moto i mari:

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Il giorno dopo «separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento». In altre parole, Dio divise gli oceani in basso dalle nuvole in alto tramite una distesa d'aria.

L'affinità tra cielo e mare, addirittura la discendenza comune, implica che, a sua insaputa, un contemplatore di nuvole sia anche un osservatore di onde, poiché spesso le nuvole nascono su onde d'aria.

Queste assumono la forma di venti ascendenti e discendenti che, pur essendo invisibili, sono rivelati dall'aspetto delle nuvole. Il tipo undulatus, per esempio, può essere sia una nube a strato continuo dalla superficie ondulata sia un insieme di fasce parallele di nuvole separate da intervalli. Tali nubi hanno origine nella zona del «wind shear» che si verifica tra correnti d'aria di direzione o velocità diverse. L' undulatus è un ottimo esempio, benché comune, di come le nuvole svelino le onde dell'atmosfera.

L'esempio più spettacolare di onde del cielo è senz'altro la rara e fugace «nube d'onda Kelvin-Helmholtz». Questa formazione dal nome elegante somiglia a una lunga sequenza di quelle che i surfisti chiamano «tubi» o «onde tubanti», ma che in modo più preciso si definiscono vortici. È un esempio estremo della specie undulatus, in cui i venti hanno la velocità giusta per indurre le onde di nubi ad arrotolarsi su se stesse.

L'effimera formazione appare per non più di un minuto o due prima di dissiparsi. Se i processi che la formano hanno poco in comune con quelli che spingono un'onda marina a riversarsi sulla spiaggia, questa nuvola gode senza dubbio di un posto centrale nel diagramma di Venn dell'interesse degli appassionati di nuvole e onde.


Se una nube d'onda, come anche ogni altra nuvola, è un insieme di particelle d'acqua sospese, cos'è esattamente un'onda marina? Si potrebbe pensare che la risposta sia ovvia: una massa d'acqua in movimento. In tal caso, però, non state guardando con l'attenzione dovuta. Per capire che non è così basta osservare l'effetto delle onde su qualcosa che galleggia, ad esempio un ciuffo di alghe.

Prima che io e Flora abbandonassimo la riva ne guardai uno salire e scendere, immergersi e zigzagare nello stare al passo con l'acqua mossa. Più che un frettoloso pendolare, l'alga sembrava un pugile peso piuma. Mentre le creste si muovevano di qua e di là, lei restava più o meno nella stessa posizione. Non veniva trascinata via insieme a loro.

Dopo esserci arrampicati sulla scogliera, vedemmo una nave che si spostava con il passare delle onde. Da lassù le onde avevano un aspetto del tutto diverso. Il caotico intreccio di creste appariva né più né meno come la trama di un tessuto, che sotto il sole rifletteva una scia lucente di scintille. Sotto quelle ondine tremolanti si notava uno schema ben più ampio e ordinato di ondulazioni che venivano verso di noi da un punto molto lontano dell'Atlantico. Ogni onda regolare era a quindici, venti metri dalla precedente, che seguiva con calma e compostezza. Questa carovana non poteva essere più diversa dalle crestine che si davano un gran da fare in superficie. Eppure, proprio come loro erano passate sotto l'alga invece di portarsela via, quei giganti gentili scivolarono sotto un peschereccio che tornava a riva con il suo carico. Non lo trascinarono verso terra come avrebbero fatto se fossero state correnti d'acqua. Dopo il passaggio dell'onda, l'acqua su cui galleggiava la barca tornò più o meno al punto di partenza.

Se queste onde, come quelle della baia, non erano acqua in movimento, cos'erano esattamente? Che cosa si muoveva dal largo fino alla riva?


La risposta è l'energia.

L'acqua è solo il mezzo tramite cui l'energia si sposta da un punto all'altro. È il «medium» attraverso cui viaggia l'energia dell'onda. La superficie marina viene posseduta dall'energia nello stesso modo in cui si presume che un medium sia animato dagli spiriti dell'aldilà.

Be', non proprio nello stesso modo.

Anzi, per niente.

Però non mi dispiace accostare l'immagine dell'acqua a una sensitiva che lavora nell'ombra, con orecchini tintinnanti e porpora dappertutto. Dopo aver posato le mani nodose sul tavolo, la donna si alza animata dal fantasma di vostra nonna, mentre agli angoli della bocca le si raccolgono goccioline di saliva, rotea gli occhi e, con voce gutturale, dice che nell'aldilà la tv non è altrettanto interessante. Poi lo spirito della nonna se ne va, e la vecchia sensitiva ricade sulla poltrona e vi chiede qualche moneta.

È servito a spiegare che un'onda marina è energia che passa attraverso l'acqua? Forse no. In effetti, mentre l'energia l'attraversa, l'acqua non si alza di scatto per poi ricadere (come ha fatto la sensitiva posseduta). Se io e Flora avessimo potuto osservare un ciuffo di alghe al largo, dove arrivano onde ampie e più regolari, forse saremmo riusciti a notarne il movimento al passaggio di cresta e ventre. Con l'avvicinarsi dell'onda, l'alga sarebbe stata risucchiata appena. Poi si sarebbe sollevata all'arrivo della cresta e, al punto più alto, sarebbe avanzata un pochino con l'onda. Infine sarebbe ripiombata giù con l'arrivo del ventre, tornando più o meno al punto di partenza. Con il passaggio dell'onda, l'acqua in superficie si muove in cerchio.

Data la difficoltà di rappresentare l'acqua che torna al punto di partenza mentre l'energia avanza, forse è più istruttivo definire un'onda in modo tangibile, tramite le sue dimensioni. Per distinguere un'increspatura da uno tsunami si fa ricorso a due grandezze: altezza e «lunghezza d'onda».

L'altezza dell'onda è il dislivello tra cresta e ventre. Spesso gli scienziati preferiscono usare la misura nota come «ampiezza». Essendo in genere la metà dell'altezza dell'onda, poiché è il livello della cresta in confronto a quello dell'acqua ferma, tale misura semplifica le equazioni scientifiche per rappresentare le onde mediante un modello teorico. A me, però, sembra comunque più intuitivo attenersi alla grandezza dell'altezza d'onda misurata con il dislivello tra cresta e ventre.

La lunghezza d'onda è la distanza di una cresta, o picco, dalla successiva. Anche se pensando a un'onda marina spesso la immaginiamo come un'unica cresta (termine con cui indichiamo ciascun picco), le onde non viaggiano mai da sole, ma sempre in compagnia. Il termine «onda», quindi, è usato per riferirsi sia a una sola cresta sia a una successione, o «treni», di creste e ventri. Le ondulazioni della superficie, come quelle della baia in Cornovaglia, possono essere talmente disordinate e confuse da impedire di distinguerne chiaramente la lunghezza d'onda. Per stabilire se le onde hanno una lunghezza estesa, cioè molto spazio tra le creste, o ridotta, cioè creste ravvicinate, è necessario che appaiano ordinate come quelle ampie che abbiamo visto dalla cima della scogliera.

Se queste due grandezze offrono la misura generale delle dimensioni delle onde in ogni dato istante, non dicono niente del loro movimento. Eppure, come vi direbbe qualunque surfista, le onde sono solo movimento. E qui che subentra la «frequenza», cioè il numero di creste che ogni secondo passano per un punto fisso (un palo che esce dall'acqua). Nel caso delle piccole increspature, come quelle che capita di vedere quando si lancia un sasso in uno stagno, nel giro di un secondo ne passeranno parecchie. Tuttavia non si presta molta attenzione alle onde di tali dimensioni: queste ondine irrilevanti non inducono un surfista a correre a prendere la tavola né danneggiano una piattaforma petrolifera, come invece fanno le onde enormi. Nel caso di quelle a cui si presta attenzione, perché molto più grandi, possono passare anche sedici secondi tra l'arrivo di una cresta e la successiva, ma poiché è scomodo dire che hanno la frequenza di un sedicesimo, o di 0,0625 creste al secondo, il passaggio delle onde marine è di solito definito tramite il «periodo», cioè il numero di secondi tra il passaggio di una cresta e di quella successiva per un punto fisso.

Oltre a dimensione e movimento, l'altra caratteristica fondamentale usata per definire un'onda marina è la sua forma. Alcune si alzano e si abbassano creando ondulazioni ampie e simmetriche, con un profilo che si avvicina alla linea matematica pura nota come onda sinusoidale, visibile nella prima delle due forme d'onda rappresentate graficamente qui sopra.

La maggior parte, però, non è così. Quanto più è ripida, tanto meno l'onda si avvicina a una sinusoide, ma ha invece una forma «trocoidale», si presenta cioè un po' meno simmetrica di quella sinusoidale, con creste appuntite separate da ventri morbidi. Ripido non significa necessariamente largo. Le creste caotiche che io e Flora vedemmo nella baia erano a punta, non arrotondate. La ripidezza che definisce la forma dipende dal rapporto tra altezza e lunghezza d'onda, non dalla grandezza. Persino le onde piccole, se abbastanza raggruppate, sono ripide e di forma trocoidale.


Nuvole e onde marine non hanno in comune solo l'occasionale somiglianza. L'infrangersi delle onde svolge un ruolo delicato nella formazione delle nuvole. Quando le creste si riversano sulla spiaggia, la turbolenza genera infinite bollicine che scoppiano, liberando nell'aria una sottile bruma di goccioline d'acqua. Mentre l'acqua evapora, le microparticelle di sale che fluttuano nell'aria e che possono raggiungere l'atmosfera sono tra i più efficaci «nuclei di condensazione» da cui dipende gran parte della formazione delle nuvole. Fungono infatti da semi su cui il vapore acqueo invisibile presente nell'aria può cominciare a condensarsi e a formare le goccioline che noi vediamo come nubi basse. Non dico che l'infrangersi delle onde generi direttamente le nuvole sovrastanti, ma garantisce che i nuclei di condensazione, importanti elementi della formazione delle nubi, aleggino sempre nella bassa atmosfera.

Il processo funziona anche in senso contrario perché le nuvole, quelle temporalesche almeno, svolgono un ruolo di rilievo nella formazione delle onde. Potrà sembrare sorprendente, quando si osservano le onde che lambiscono dolcemente la spiaggia di un luogo di villeggiatura esotico. Dall'ombra di una palma ondeggiante sembrano placide e tranquille, come il respiro pacato del mare in cui ogni sinuosa espirazione segue incessantemente la precedente. Il loro arrivo leggiadro, però, nasconde la crescita travagliata delle onde. Queste serene visitatrici sono spesso nate nel bel mezzo del caotico subbuglio ventoso di un temporale al largo, che ormai si è dissipato da tempo.

Come fanno le onde a formarsi in un temporale? E come fanno inoltre a passare dalla confusione increspata alla processione ordinata di creste che si riversano sulla spiaggia dinanzi a noi? Per avere le risposte occorre studiarne il viaggio nel mare, seguire ogni fase del loro progresso, dalla nascita al largo fino alla morte spumosa sulla riva.

La loro biografia si può dividere in cinque fasi, in ciascuna delle quali le onde hanno un tratto caratteristico.

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Entrate nella fanciullezza, le onde sono nella seconda fase dello sviluppo e passano da ondine a onde come bimbe esuberanti che diventano adolescenti monelle. Man mano che il vento si rafforza e si fa più sostenuto, non ci appaiono più in file ordinate di onde capillari. Le creste e i ventri si fanno agitati e caotici. Vanno e vengono precipitosamente, scontrandosi tra loro, ricadendo le une sugli altri come una stanza piena di bambini sotto la dubbia guida di una baby sitter iperattiva. La superficie marina confusa e irregolare è nota con íl semplice nome di «mare di vento». L'espressione si riferisce alla superficie agitata e increspata sferzata dal vento, che continua a trasferire la sua energia all'acqua. Nel caso di un temporale, il mare di vento rappresenta la fase della crescita rapida e sostenuta delle onde.

La velocità della crescita, anzi, aumenta via via che il vento trova onde sempre più grandi contro cui spingere. Con una simile confusione di altezze e lunghezze d'onda che coesistono nello stesso tratto marino è difficile dare una misura rappresentativa delle dimensioni totali. Definirle in termini di altezza è fuorviante, poiché nel caos del mare di vento le onde più alte appaiono solo di rado. Gli oceanografi, invece, descrivono spesso una gamma, o spettro, di dimensioni di onde in termini di «altezze d'onda significative», ovvero la media del terzo più alto di tutte. Pur sembrando una misurazione più complicata dell'altezza delle onde più alte, in presenza di una gamma si rivela utile e rappresentativa.

Presto l'altezza d'onda significativa arriva a un metro scarso. Ora ci sono onde, non più ondine. I violenti venti di tempesta non hanno affatto esercitato un'influenza pacata e costante su di loro. Le ondine iperattive sono diventate onde aggressive e ribelli, ripide e con picchi trocoidali aguzzi. Sotto la violenta tutela del vento si fanno sempre più irose e indispettite, finché sulle creste cominciano a formarsi pennacchi di schiuma. Sta per aver inizio la terza fase del loro sviluppo, la più squilibrata.


Affacciatesi all'età adulta, le onde sembrano delle teppistelle. La terza fase è segnata dalla comparsa di labbra schiumose d'acqua bianca sugli esemplari più grandi. Note come whitecaps, sono le onde che cominciano a riversarsi l'una sull'altra sotto la forza irrefrenabile e tumultuosa della burrasca.

Se soffiano abbastanza a lungo, e su una zona abbastanza vasta, i venti di tempesta cominciano a strappare dalle creste pennacchi di spruzzi, detti anche «spuma delle onde». Ogni onda appare marmorizzata con striature di schiuma bianca, «come una muraglia di vetro verde crestata di neve», per dirla con Joseph Conrad, anche se a me ricordano la saliva che schizza incontrollata dalla bocca di un folle. Le onde continuano a crescere, e infine la loro altezza sfiora i cinque metri.

Ora le whitecaps sono diventate un evento comune. Talvolta i marinai le chiamano «cavalli bianchi», di tanto in tanto anche «figlie del capitano», forse perché è meglio non impelagarsi con loro. Tutta questa schiuma indica che le onde s'infrangono nell'acqua profonda. Le creste sono investite dalla forza del vento. Crescendo, le montagne d'acqua schiumante sono pericolosissime per le navi. Non solo sono molto ripide, ma è anche probabile che si abbattano sul ponte riversandovi tonnellate d'acqua.

Per tentare di sventare il pericolo, sin dall'antichità classica i marinai hanno un asso nella manica. Versano in mare olio di pesce o calano in acqua sacchi pieni di stracci imbevuti d'olio per calmare le onde durante una tempesta. Pare che, secondo gli antichi greci, tale effetto bizzarro si potesse spiegare con il fatto che la sottile patina d'olio diffusa sulla superficie riduce la frizione tra vento e acqua: «È come dice Aristotele» si chiedeva lo storico greco Plutarco, «cioè che il vento, scivolando sull'uniformità così creata, non lascia alcun segno e non solleva moti ondosi?»

Forse è questo il fenomeno dietro al miracolo che calmò le onde, descritto nell'VIII secolo dal monaco e studioso inglese Beda il Venerabile. Nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum, Beda racconta che un prete in procinto di partire per un viaggio ricevette da un certo vescovo Aidan l'olio sacro da versare in acqua se una tempesta avesse messo in pericolo la sua nave. In quel caso l'olio doveva aver avuto un effetto miracoloso: fece immediatamente cessare il vento e placare la tempesta, dando vita a un giorno mite e soleggiato.

Nel 1757, avendo notato qualcosa di strano nelle onde della scia delle navi vicine durante un viaggio in transatlantico, anche il dotto americano Benjamin Franklin rimase affascinato dal fenomeno. Le onde dietro due navi erano particolarmente calme rispetto a quelle delle altre. Il comandante gli spiegò che i cuochi dovevano aver versato in mare dagli scarichi l'acqua unta, placando senza volerlo le onde.

Ovviamente la cosa rimase impressa nella mente di Franklin, perché sedici anni dopo, nella lettera all'amico William Brownrigg, descrisse l'esperimento che aveva eseguito durante un soggiorno a Londra per studiare di prima mano l'effetto dell'olio sulla formazione delle onde:

Trovandomi ormai da tempo a Clapham, nel cui parco pubblico c'è un lago che un giorno osservai essere molto increspato dal vento, tirai fuori un'ampolla e versai un po' d'olio nell'acqua. Lo vidi allargarsi con sorprendente velocità sulla superficie, ma l'effetto calmante sulle onde non si produsse perché lo avevo applicato sul versante di sottovento, dove le onde erano più grandi, e il vento lo respinse a riva. Così andai sul versante di sopravvento, dove quelle cominciavano a formarsi, e li l'olio, benché non più di un cucchiaino, produsse una calma immediata su una superficie di vari metri quadrati, che si diffuse in modo sorprendente e pian piano si propagò fino a raggiungere la sponda di sottovento, rendendo quel quarto di lago, forse mezzo acro, liscio come uno specchio.

Franklin, però, non riuscì a capire perché l'olio avesse quell'effetto. La spiegazione è un po' più sottile della tesi greca, secondo cui rende l'acqua scivolosa compromettendo la morsa del vento.

L'effetto dell'olio sulla tensione superficiale dell'acqua è proprio il fattore cruciale. L'olio si diffonde come una patina sottilissima, o pelle, che ha una tensione inferiore rispetto a quella della superficie. Questo calo della tensione superficiale rende l'acqua meno capace di incresparsi sotto l'influsso del vento e di formare le onde capillari, quelle alte poco più di un centimetro.

Verrebbe da pensare che, tra i mostri ondeggianti di una tempesta oceanica, le piccole increspature superficiali siano il minore dei problemi. Occorre però ricordare che, in forma embrionale, quelle onde fanno aumentare la frizione tra aria e acqua e danno ai venti ululanti un appiglio sulle masse d'acqua ondulate, aiutandoli a trasferire la loro energia all'acqua con efficacia ancora maggiore. Soffocando le increspature superficiali, l'olio può incidere sulla presa del vento a sufficienza da impedire a una cresta enorme di essere scagliata sopra, anziché sotto, il ponte di una nave.

La prossima volta che bighellonate in canotto e il mare si fa un po' agitato, prima di versare in acqua olio per motore ricordate che quella mini marea nera avrà un effetto trascurabile. I moderni oli a base di petrolio non funzionano bene. Solo quelli biologici, ricavati dalla carne dei pesci grassi, si diffondono a sufficienza, e abbastanza in fretta, da domare le figlie del capitano.

Mentre ci siamo distratti con il parco di Clapham, la tempesta ha continuato a ululare e, sotto la sua violenta tutela, i moti ondosi sono arrivati a un'altezza significativa, diventando bruti tra i dodici e i quindici metri, larghi quanto un edificio di quattro piani con lunghezze d'onda di quasi duecentocinquanta metri. Si tratta di un «mare completamente sviluppato», vale a dire che le onde hanno raggiunto il massimo dell'altezza possibile con venti di questa velocità.

L'altezza delle onde sferzate da una tempesta non dipende solo dalla forza del vento. Gli oceanografi hanno scoperto che ci sono altri due fattori importanti: l'area dell'acqua su cui soffia il vento in direzione costante, nota come «fetch», e la durata dell'azione del vento. Sono questi elementi a determinare se, alla fine, la tempesta genererà un mare completamente sviluppato.

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Le nostre onde entrano nella quarta fase della loro vita solo quando la tempesta passa e i venti si placano. L'aspetto sorprendente è che il sopirsi delle correnti d'aria non ricompone in un equilibrio placido e ondulato l'impetuosa confusione dei picchi e dei ventri. Le onde generate nel mare di vento continuano a viaggiare sull'acqua, senza più bisogno di essere sospinte. Da «onde forzate», cioè mosse dai venti, sono diventate «onde libere». Quanto può cambiare il loro umore, quando maturano ed entrano nella mezza età prendendo finalmente le distanze dal passato.

Non più mare di vento, ora la superficie è nota con l'armonioso nome di «mare lungo». Benché la tempesta sia passata, l'energia trasferita all'acqua non può svanire. Le onde continuano a muoversi senza bisogno di propulsione aerea. Si limitano a fluire e, nel maturare, cominciano a emergere le sfumature del loro carattere.

Una volta in movimento, le onde di superficie cedono assai poco della loro energia al mare circostante. Ciò significa che possono ancora viaggiare per lunghe distanze. La trascurabile perdita di energia, processo noto come «attenuazione», è perlopiù dovuta alla dissipazione (whitecapping) e, nel caso degli esemplari più ripidi, alla resistenza dell'aria quando il vento soffia in direzione contraria. Poiché solo le onde capillari allo stato embrionale perdono gran parte dell'energia a causa della viscosità dell'acqua, i grandi moti ondosi come quelli generati dalla nostra tempesta possono percorrere distanze incredibili.

Lo ha dimostrato per la prima volta Walter Munk, dello Scripps Institution of Oceanography vicino a San Diego. Ora ultranovantenne, e ancora professore emerito allo Scripps, Munk è forse l'oceanografo vivente più noto e rispettato. Durante la Seconda guerra mondiale fu il primo a elaborare un sistema in grado di prevedere le altezze d'onda. Gli sbarchi cruciali degli Alleati in Nordafrica, il cui successo dipendeva dalla calma del mare, vennero pianificati in base alle sue previsioni.

Nel 1957 Munk trovò la prova che le onde in arrivo all'isola di Guadalupa, al largo della costa occidentale del Messico, erano state generate dalle tempeste dell'oceano Indiano, a più di quattordicimila chilometri di distanza. Dieci anni dopo, grazie a uno studio condotto con i colleghi dello Scripps, Munk seguì l'avanzata dei moti ondosi nell'oceano Pacifico, da sud a nord. Dopo aver sistemato dei rilevatori altamente sensibili in sei stazioni lontane tra loro migliaia di chilometri, gli studiosi riuscirono a individuare il percorso delle onde. Seguirono quelle nate nelle tempeste al largo dell'Antartide registrandone il passaggio accanto a Nuova Zelanda, Samoa e Hawaii, e poi nella distesa aperta del Pacifico del Nord. Più o meno due settimane dopo, quelle stesse onde ricomparvero a oltre undicimila chilometri di distanza, sul rilevatore di Yakutat in Alaska.

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Tutto questo parlare di picchi e ventri potrebbe sembrare alquanto vuoto. Che ne è dell'acqua sotto la superficie quando un'onda l'attraversa?

Ricordate che, con il passaggio dell'onda, l'acqua in superficie si muove in cerchio e ritorna più o meno al punto di partenza quando l'onda prosegue? Sotto la superficie l'acqua si muove nello stesso modo, solo che i cerchi diventano più piccoli quanto più sono profondi. A una profondità pari alla metà della lunghezza d'onda le orbite circolari si riducono fino a scomparire. Quando l'onda passa in superficie, il movimento dell'acqua è trascurabile sotto la «base d'onda». Ecco perché, immergendosi a oltre centocinquanta metri di profondità, i sommergibili sono in grado di evitare gli effetti delle tempeste più violente.

In realtà le onde esistono anche sotto la superficie, dove spesso sono molto più grandi. Ribattezzate «onde interne», sono i lenti giganti del mare. Possono nascere negli abissi bui ogni volta che si viene a creare un improvviso confine tra strati di acque diverse. Se questi hanno densità differenti, magari perché uno è molto più caldo dell'altro, o molto più salato, il confine si comporta da equivalente sottomarino della superficie. Le onde possono seguirlo nascoste alla vista dall'alto.

Le onde interne sono messe in moto dall'azione delle maree, non del vento, e sono spesso più grandi delle equivalenti di superficie, molto più grandi. Non è insolito che abbiano lunghezze d'onda di venti chilometri e altezze che sfiorano i duecento metri.

I sommergibili possono scendere a profondità sufficienti a evitare le onde di tempesta in superficie, ma non possono sfuggire a quelle che si annidano negli abissi. Negli anni Sessanta un'onda interna colpì un sommergibile russo che tentava di infiltrarsi nello Stretto di Gibilterra facendolo sbattere contro una piattaforma petrolifera. Tra l'equipaggio qualcuno sarà stato di certo rosso, ma per la paura.


Le onde sono l'espressione degli stati d'animo del mare. Placido, tranquillo e benevolo è quello che accarezza la riva e dondola i vostri dinghy in una culla di dolci movimenti. Una violenta tempesta in mare, però, è l'espressione più spaventosa della Natura. Il carattere espressivo delle onde ha da sempre reso il mare una proficua zona di pesca per chi è a caccia di buone metafore.

Le avventure marine di Odisseo, come le racconta Omero, sono inondate dalle sue lotte con le varie tempeste che Poseidone, il dio del mare, gli scatenava contro. L'Odissea contribuì ad affermare il tema immortale dell'uomo come marinaio che attraversa i mari scossi dalla tempesta nel «viaggio della vita» in cerca delle acque tranquille della meta, ma per i tragediografi classici e i poeti in generale le onde di tempesta hanno il sopravvento. Il confronto tra uomo e mare era invariabilmente una battaglia impari contro i capricci degli dei, in cui misurare eroismo e coraggio nella prova finale. «Molte meraviglie vi sono al mondo, nessuna meraviglia è pari all'uomo» scrisse il tragediografo greco Sofocle 250 anni dopo Omero, «quando il vento del Sud soffia in tempesta, varca il mare bianco di schiuma e penetra fra i gorghi ribollenti».

L'interminabile saliscendi delle onde sembra riecheggiare gli archi e i cicli della vita. Sarà per questo che osservare le onde riesce a farci considerare la vita dalla giusta prospettiva? Come ci si potrebbe aspettare, il sessantaseienne Walt Whitman , che meditava scrutando le onde a Navesink, nel New Jersey, non era particolarmente interessato al tipo di frangenti:

Da quella lunga scansione delle onde richiamato, mi trovo riassunto,
In ogni cresta qualche luce ondeggiante, qualche ombra — un qualche ricordo,
Gioie e viaggi, studi, panorami silenti — effimere scene,
La lunga guerra trascorsa, battaglie, visioni di ospedali, i feriti, i morti,
Io che rivivo ogni fase trascorsa — l'oziosa giovinezza — la vecchiaia alle soglie,
I miei sessant'anni di vita riassunti, e più, e oltre,
Saggiato su qualsivoglia grande ideale, privo di scopo, l'intera mia vita un nulla,
Eppure forse una goccia nel generale schema d'Iddio — un'onda, frammento d'un'onda,
Com'una delle tue, innumerevole oceano.



Naturalmente, poi, c'è il fascino dell'onda in quanto pura forma. A detta di molti artisti, la linea morbida e sinuosa di un'onda è una tra le forme più belle esistenti e rispecchia la figura femminile distesa. Il pittore inglese William Hogarth inserì una serpentina in un autoritratto dipinto nel 1745. La linea curva, a forma di onda, appare incisa sulla tavolozza nell'angolo in basso a sinistra con sotto la frase: «La linea della bellezza e della grazia». Quando il dipinto divenne famoso, Hogarth fu sommerso da richieste di spiegazione di quello che sembrava un indizio criptico. Per rispondere l'artista scrisse un trattato di estetica dal titolo L'analisi della bellezza. «E che la linea spirale» spiegò, «co' suoi ondeggiamenti e piegature in diverse guise nel tempo istesso guida l'occhio in una maniera piacevole lungo la continuazione della sua varietà». L'osservazione delle linee ondeggianti, che «si formano dal piacevol moto di una nave sull'onde», procurava all'occhio lo stesso piacere che trovava «nelle muraglie spirali, e ne' fiumi serpeggianti».

Se all'epoca fossero esistiti gli ottovolanti, forse Hogarth li avrebbe citati. Non li amiamo proprio per le curve ondulate del percorso? La nostra vita è piena di alti e bassi, anche se nella realtà questi sono molto meno compressi. Siamo assediati da sfide «in salita» che ci portano in luoghi nuovi, fino a nuove altezze — sulla cresta dell'onda — prima dell'inevitabile, nauseante, spaventosa discesa.

Non è questo l'aspetto che ha reso il detto «giostra emotiva» un incrollabile cliché? Ammetto, però, che quando ci buttiamo a capofitto in un ventre emotivo, nella vita reale, di solito non alziamo in aria le mani né urliamo come degli esaltati.

Si potrebbe dire che il corpo umano è come un'onda, non siete d'accordo? Quando si arriva alla vecchiaia il corpo non può contenere nessuna delle molecole che aveva alla nascita. Crescendo e incorporando ciò che si consuma, ogni ingrediente del corpo del neonato potrà essere sostituito: tutti gli atomi di ossigeno, carbonio, idrogeno e azoto, e gli altri elementi che costituivano il corpo alla nascita, saranno stati rimpiazzati. È come se prendessimo a prestito l'aria, l'acqua e il cibo che consumiamo proprio come un'onda marina prende a prestito l'acqua che attraversa.

In questo senso individui e onde sembrano piuttosto simili. Se si potesse fermare un'onda marina che s'infrange sulla riva, si sarebbe tentati di dire che il cumulo d'acqua magicamente sospeso è l'onda. Le onde, però, non si possono fermare nel tempo e, nella realtà, l'acqua al loro interno in un dato momento uscirà un istante dopo il loro passaggio. Benché il lasso di tempo sia assai diverso, un'onda passa attraverso il mezzo dell'acqua più o meno come noi passiamo attraverso il «mezzo» di tutti i frammenti fisici del nostro corpo.

L'osservazione delle ondulazioni marine, però, può anche avere un effetto sconcertante. Può mettere in moto pensieri decisamente hippy. Senza rendersene conto, si può essere sospinti in una fantasticheria spirituale zen su come tutto è, insomma, sapete, intrecciato, sotto sotto, cioè, amico.

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E così siamo arrivati alla quinta e ultima fase della vita delle onde. È probabile che abbiano viaggiato nella peculiare disposizione raggruppata, tipica della maturità, per varie centinaia di chilometri. Solo quando si avvicinano all'approdo subiscono l'ennesima trasformazione. Può essere la più drammatica di tutte, non da ultimo perché ne segna la morte. È la fase più nota agli amanti della terraferma, quando le onde sprigionano l'energia in uno scroscio movimentato e spumeggiante sulla riva.

Il loro canto del cigno ha inizio quando entrano nelle acque più basse. Appena la base dell'onda tocca il fondale marino – alla profondità di metà della sua lunghezza, dove l'acqua si muove solo con l'onda – le onde «sentono» il terreno sotto di loro. L'avanzata della base è rallentata dalla frizione con il fondale. Nel rallentare, le onde si raggruppano e si fanno più ripide, abbandonando la forma di morbide ondulazioni per tornare ai picchi aguzzi e trocoidali della loro giovinezza, quando erano tormentate dai violenti venti di tempesta dell'adolescenza travagliata.

La trasformazione da onde d'acqua profonda in onde d'acqua bassa è completa quando la profondità si riduce a tal punto (intorno a un ventesimo della lunghezza d'onda) che l'acqua non è più capace di muoversi in cerchio. Il moto sotto la superficie si limita a ovali sempre più appiattiti, perché l'onda ha sempre meno acqua da attraversare. Le orbite vengono ulteriormente compresse finché l'acqua al di sotto della superficie si muove quasi esclusivamente avanti e indietro.

Ora una sola regola ne detta il comportamento: quanto più bassa è l'acqua, tanto più lentamente viaggiano le onde. Questa semplice legge governa le esibizioni gloriose e drammatiche delle onde che si frantumano in una cascata di schiuma.

Funziona così. Per via del gradiente del fondo marino, le creste davanti al treno di onde rallentano prima di quelle dietro. E, proprio come un maratoneta che inciampa fa cadere e finire uno sull'altro quelli che lo seguono, così le ondulazioni nell'acqua sprofondano. Mentre le onde vengono schiacciate, l'acqua non può che salire.

Se le onde hanno energia a sufficienza, e il gradiente è giusto, possono alzarsi tanto da diventare instabili: sott'acqua la base dell'onda rallenta mentre la vetta procede e l'onda inciampa facendo cadere in avanti la cresta, che crolla su se stessa.

Gli oceanografi tendono a suddividere i frangenti in tre tipi: «spilling» (che s'infrangono gradualmente), «plunging» (che si «tuffano» sulla battigia) e «surging» (che risalgono la battigia). Il modo in cui un'onda s'infrange dipende dal gradiente del fondale marino. Se la pendenza della spiaggia è scarsa, le onde si sgretolano all'altezza delle creste. Queste frange d'acqua bianca si allungano dal labbro alla faccia dell'onda e la fanno sembrare come se indossasse una di quelle gorgiere dei Tudor.

Le onde ritratte in Sennen Cove, Cornwall dipinto da John Everett nel 1919 sono frangenti spilling. Per studiare e dipingere le onde Everett girò il mondo in lungo e in largo, spesso a bordo di mercantili lavorando come membro dell'equipaggio. Non ha avuto il riconoscimento che merita, perciò mi sento in dovere di chiamarlo il «Raffaello dei frangenti spilling».

I frangenti plunging, che si formano quando la pendenza della spiaggia o della scogliera è maggiore, sono i più belli dei tre tipi. Il labbro dell'onda è sospinto in avanti in modo tale da arricciarsi a formare un tubo prima d'infrangersi. Quando sono particolarmente grandiosi, questi frangenti sono le «onde tubanti» che i surfisti cavalcano con la volta d'acqua sopra di loro mentre scompaiono alla vista.

I frangenti surging, che si formano sui gradienti più ripidi del fondale marino, sono assai diversi. Non sembrano nemmeno frangenti. L'acqua si limita a schizzare contro la riva ripida e a tornare indietro, come succede in una vasca quando ci si siede con un tonfo. Senza gorgiera di acqua bianca né volta a cascata, questi sono i più sobri dei frangenti.

Alcuni manuali parlano di frangenti «collapsing», una via di mezzo tra i plunging e i surging, ma diventeremmo troppo pedanti. Tra gli stili dei frangenti c'è un continuum senza confini netti. Che li dividiamo in tre, quattro o anche dieci categorie, queste saranno solo arbitrarie. Una cresta può infrangersi in più di un modo, riversandosi qui prima di tornare uniforme e tuffandosi lì prima di un'ultima impennata. Dipende tutto dal cambiamento della profondità a riva dovuto alla topografia subacquea, al saliscendi del fondale marino noto come «batimetria». L'esigenza di dividere le onde in tipi diversi riflette il nostro desiderio di analizzare e catalogare il mondo, di rendere digeribile il perpetuo (lo stesso può dirsi dei miei ostinati tentativi di dividere la vita delle onde in cinque fasi distinte e del tutto separate).

A prescindere dal particolare stile della loro scomparsa, le onde alla fine muoiono sulla riva intransigente e la loro energia si dissipa. Svaniscono in uno scompiglio di acqua bianca: perse, per citare la nota poesia di Matthew Arnold La spiaggia di Dover, nello «strepito scabro dei sassi che le onde sull'alta spiaggia trascinano e scagliano nel loro moto [...] instillando eterne note di tristezza».

E così la biografia delle nostre onde è completa.


Forse, però, è ancora troppo presto per il lutto.

L'energia non muore mai, può solo passare da una forma all'altra. Quando le onde s'infrangono a riva, la loro energia non si limita a svanire, ma continua a viaggiare in forme diverse. Lo «strepito scabro dei sassi», per esempio, fa parte della trasformazione dell'energia delle onde in suono.

E il suono è un tipo d'onda.

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Così decisi di cominciare l'osservazione delle onde un po' più vicino a casa. Ben presto capii che mi sarebbe bastato guardarmi allo specchio, perché chiunque creda che le onde esistono solo «là fuori» si sbaglia. Le onde, infatti, viaggiano di continuo nel nostro corpo. Come la maggior parte degli animali, anche noi umani dipendiamo molto da loro.

Le onde sono al cuore dell'esistenza umana in senso piuttosto letterale. Sono il mezzo tramite cui il sangue scorre nel corpo. Per pompare 8000 litri in ventiquattr'ore – facendo compiere un ciclo completo al sangue ricco di ossigeno tramite arterie, vene e organi – il cuore deve battere centomila volte. Ciascuno di quei battiti assume la forma di un'onda.

Le contrazioni muscolari del cuore sembrano talmente diverse dalle ondulazioni che viaggiano sulla superficie dell'acqua, da dubitare addirittura che si possa definirle entrambe onde. Cosa può avere in comune il battito cardiaco con le increspature che si espandono sulla superficie dell'acqua della vasca, mentre il sapone vi scivola di mano e ci cade dentro?

Sono entrambe forme di oscillazioni, o vibrazioni, in movimento. Quando una regione oscilla tra stati diversi mette in moto la regione accanto diffondendo il movimento. La saponetta che cade nella vasca perturba la superficie dell'acqua facendola oscillare tra livelli alti e bassi e la perturbazione si allarga in cerchi in espansione. Le oscillazioni del cuore sono quelle delle cellule muscolari che si contraggono e si espandono. Come accade alla superficie dell'acqua che cambia, le contrazioni si diffondono da una regione del tessuto cardiaco a un'altra, anche se in maniera assai diversa.

Piccole correnti elettriche azionano il movimento delle onde che danno vita al battito cardiaco. Stimolata da una pulsazione elettrica, ogni cellula interna al tessuto muscolare si contrae. Affinché il cuore possa pompare il sangue in modo efficiente, però, le contrazioni devono passare rapidamente attraverso le sue pareti con una certa coordinazione. La corrente è a sua volta avviata da un gruppetto di «cellule pacemaker» in cima al cuore, che producono una piccola «scossa» elettrica. L'attività elettrica si diffonde nel muscolo tramite la contrazione di ogni cellula, che trasferisce la corrente a quelle vicine.

Dopo l'eccitazione ogni cellula è temporaneamente incapace di funzionare, come se si fosse esaurita e si riposasse. Noto come «periodo refrattario», questo ritardo nell'eccitabilità di una cellula, che dura tra un decimo e un quinto di secondo, garantisce con una certa raffinatezza che l'onda si propaghi nel tessuto muscolare un'unica volta, finché le cellule pacemaker si eccitano di nuovo spontaneamente riavviando l'onda del battito cardiaco.

L'ottimo lavoro svolto ogni giorno dal «nume tutelare» — come il medico del XVII secolo William Harvey definì il cuore — è pari allo sforzo necessario a sollevare un chilo per un'altezza doppia rispetto a quella dell'Everest (e senza bisogno di un gruppo di sherpa). In tale impresa il tempismo è cruciale. Per riempirsi di sangue e immetterlo correttamente nel sistema, le quattro camere cardiache devono contrarsi ed espandersi in maniera sincronizzata e coordinata. Le due di destra pompano il sangue ai polmoni per ossigenarlo, le due di sinistra pompano il sangue ossigenato al resto del corpo. Il tempismo dipende in sostanza dalla corretta forma d'onda degli impulsi elettrici che si diffondono nel tessuto muscolare: un'onda che dall'estremità chiusa della camera procede con regolarità nel tessuto muscolare verso la valvola attraverso cui va pompato il sangue.

I cuori, però, non sempre funzionano perfettamente: se l'andamento dell'onda sviluppa anomalie, la capacità di pompare viene compromessa. Un'onda a forma di bersaglio, come quella prodotta dal plop della saponetta nella vasca, è da evitare. Lo stesso vale per l'onda a spirale che, in forma liquida, non è altro che l'«alta marea» in miniatura visibile sul bordo della tazza di tè mentre lo si mescola per sciogliere lo zucchero. Se si sviluppano nel muscolo cardiaco, le onde a forma di bersaglio o spirale turbano l'accurato tempismo da cui dipende l'intero sistema, dando vita a una condizione comunemente nota come «aritmia». Pur non essendo una causa d'infarto diffusa come l'occlusione delle arterie che forniscono ossigeno e sostanze nutritive alle cellule del cuore, l'aritmia ha effetti che vanno dalla sporadica e sgradevole pulsazione rapida, innocua, a serie e ripetute battute a vuoto, responsabili di gravi infarti e morte improvvisa. Vi sono inoltre casi in cui le cellule pacemaker non avviano correttamente gli impulsi elettrici, problema risolvibile con un pacemaker artificiale che produce un ritmo regolare di piccole scosse per avviare le onde al momento giusto.

Le onde a forma di bersaglio o di spirale che si creano nel tessuto cardiaco anomalo sono dovute all'incapacità degli impulsi elettrici, e delle relative contrazioni, di propagarsi in modo uniforme ed efficiente nel tessuto muscolare. Possono insorgere per diversi problemi. Talvolta una regione di cellule muscolari normali sviluppa l'equivalente cellulare di una crisi d'identità e si comporta come se quelle fossero cellule pacemaker che avviano onde intempestive. In altri casi la diffusione degli impulsi elettrici può essere ostacolata o rallentata da danni ai tessuti o da coaguli di sangue, proprio come un frangiflutti turba il flusso regolare delle onde marine.

In entrambe le circostanze, il risultato è un difetto noto come «aritmia da rientro». La forma più grave causa una pericolosa emergenza in cui nel tessuto cardiaco sfrecciano più onde non coordinate come una sorta di retroazione muscolare, con il disastroso effetto di far tremare, e non contrarre, il cuore (nelle soap mediche, a questo punto i medici urlano: «È in fibrillazione ventricolare. Abbiamo un'emergenza. Dove diavolo è finito il defibrillatore?») Nel giro di pochi secondi va somministrata al cuore una scossa di corrente continua per eliminare gli impulsi elettrici caotici. Un po' come accade quando si riavvia il computer, si spera che così il cuore ricominci a pompare correttamente.

I battiti cardiaci, però, sono solo una delle tante onde muscolari che attraversano di continuo il corpo. Non saranno tra quelle che fanno impazzire i nerboruti surfisti, eppure dovrebbero perché sono le onde da cui dipende la vita umana. Forse è per questo che le contrazioni muscolari sono involontarie e che quindi la maggior parte di noi non sa neppure di produrle.

L'«onda peristaltica», ad esempio, trasporta nell'esofago, e poi nello stomaco, il cibo ingoiato. Da lì, quella stessa onda di contrazione muscolare lo trasporta nell'intestino tenue affinché sia digerito.

Le onde sono i mezzi di trasporto interni del corpo. Alcune sono più impercettibili di altre. La vibrazione dei pelini, o ciglia, che rivestono la trachea, crea le onde muscolari più civili alimentando un ingegnoso processo noto come «scala mobile mucociliare». Sembra un po' più elegante di quanto sia: l'interno della trachea è rivestito di muco, che cattura ogni particella di polvere e inquinamento respirata. Lo strato appiccicoso svolge l'importante mansione di attirare le particelle sospese prima che danneggino i polmoni. Come si fa, poi, a espellere dalla trachea il muco e il suo carico senza scatarrare rumorosamente come degli zoticoni?

Tramite le onde ciliari, ovviamente. I pelini oscillano senza sosta, appena fuori fase con i vicini, producendo onde simili a quelle che si diffondono sulle zampe dei millepiedi quando corrono. Il microscopico movimento coordinato trasporta il muco e il suo carico su per la trachea fino alla laringe. Le onde ciliari hanno svolto il loro compito. Che il risultato sia educatamente ingoiato o brutalmente tossito non ha nulla a che fare con loro. Dipende solo dagli insegnamenti dei genitori.

Le onde muscolari interne sono fin troppo importanti per essere affidate al controllo consapevole. Riuscite a immaginare cosa accadrebbe se dovessimo ricordare di coordinare le onde peristaltiche e il trasporto mucociliare, evitando al tempo stesso di inviare onde a spirale al cuore? Sarebbe un po' come cimentarsi nel videogioco più stressante del mondo. Con tutta quella roba in testa non riusciremmo a partecipare nemmeno a una cena. Passeremmo tutta la serata in silenzio, con lo sguardo teso e concentrato, e di certo non verremmo invitati mai più.

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Se le onde del cervello vi sembrano troppo cerebrali, che ne dite di tornare a qualcosa di più tangibile? Per esempio all'ultima delle nostre tre onde meccaniche, quelle torsionali.

Abbiamo visto che le onde trasversali procedono lateralmente e quelle longitudinali fanno avanti e indietro. Le onde torsionali, invece, avanzano mediante un movimento di torsione che, essendo alquanto impercettibile, è raro notare. Tali onde sono in grado di viaggiare lungo qualsiasi cosa resista alla torsione tornando al punto di partenza. Mettiamo che abbiate cementato l'estremità di un palo di metallo in un muro, in modo che sporga ad angolo retto, e che all'altra estremità ci saldiate un volante per dargli una bella torsione prima di lasciarlo andare. Le onde torsionali viaggerebbero per tutta la lunghezza del palo, tra l'estremità fissa e il volante, torcendosi da una parte all'altra. Cosa significa che non riuscite a immaginare di fare una cosa simile?

Gli operai del settore delle trivellazioni sono forse gli unici che passano il tempo a pensare a queste onde. Le diverse sollecitazioni causate dalla perforazione della roccia inviano onde torsionali lungo le aste e i cavi dell'attrezzatura. Tenetelo a mente quando progetterete una piattaforma petrolifera. A parte quello, non preoccupatevi troppo delle onde torsionali, sono molto meno comuni delle altre.

Il che presenta un problemino.

Per completare la dimostrazione della trilogia di onde usando i movimenti degli animali mi occorre l'esempio di una creatura che usa le onde torsionali come mezzo di locomozione. Il guaio è che, per quanto mi sforzi, non riesco a trovarne nemmeno una.

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«La natura conosce soltanto una cosa: il presente» scrisse Saul Bellow nel romanzo La resa dei conti. «Presente, presente, eterno presente, come una grande, enorme, gigantesca onda, bella e luminosa, che racchiude in sé la vita e la morte, che si stende nei mari e sale al cielo.»

Le onde interne sembrano un sistema di trasporti talmente fondamentale per il nostro corpo che non posso fare a meno di chiedermi cosa accada loro alla nostra morte. Si «infrangono» come le onde marine?

Le onde muscolari involontarie che trasportano cibo, sangue e altro nei nostri apparati, e le onde elettrochimiche che spostano le informazioni tramite i nervi e il cervello, differiscono dalle onde marine per un aspetto essenziale: nessuna di loro è autosufficiente. Una volta messe in moto dal vento, quelle marine possono viaggiare per lunghe distanze grazie alla forza di gravità e alla tensione della superficie dell'acqua, senza più bisogno di essere sospinte. Le onde del nostro corpo, invece, si muovono grazie all'apporto costante di energia. Ogni battito del cuore consuma energia. Ogni neurone eccitato brucia calorie. Se il soffio vitale si esaurisce, le onde che viaggiano nei nostri tessuti muscolari e nervosi smettono di muoversi. Quando noi moriamo, loro si limitano a fermarsi. Le reazioni che ne hanno alimentato il movimento hanno smesso di funzionare.

Trovo però difficile ignorare la sensazione che il nostro corpo riceve energia in un modo che ricorda quello in cui l'acqua viene animata dall'onda. Quando questa s'infrange sulla riva la sua energia si dissipa nell'ambiente circostante, perché non scompare mai, si limita a cambiare. E così, quando i motori chimici della vita si fermano, l'energia che ci sostenta si dissolve nell'ambiente circostante.

Chissà dove vanno a infrangersi le onde che ci attraversano giorno e notte. Nessuno è in grado di tracciare le rive straniere su cui, alla fine, si riversano dopo la morte. Come scrisse Thomas Hood, il poeta inglese del XIX secolo ora fuori moda:

La guardammo respirare nella notte,
il respiro dolce e flebile,
mentre nel petto l'onda della vita
saliva e scendeva [...]

Quando il mattino giunse fosco e triste
e gelido per le prime piogge,
le palpebre quiete si chiusero, il suo
fu un mattino diverso dal nostro.

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La nostra incapacità di vedere che il suono è un'onda non lo rende meno ondoso. Quelle sonore, anzi, hanno il comportamento tipico delle onde, perciò illustrano con eleganza i tre mezzi tramite cui cambiano direzione, ovvero «riflessione», «rifrazione» e «diffrazione».

Potranno sembrarvi termini escogitati da insegnanti di fisica antiquati – e in effetti forse lo sono – ma non fatevi scoraggiare. Queste caratteristiche onnipresenti sono il cuore della nostra percezione del mondo. Una volta comprese, sarete sulla via della rivelazione dell'osservazione delle onde.

Nella mia famiglia riflessione, rifrazione e diffrazione vengono ormai trattate con deferenza e sono note semplicemente come «Le vie dell'onda».


Partiamo dalla riflessione. La Prima via dell'onda è semplice:

Le onde rimbalzano sulle cose.

Sì, lo so, non è la rivelazione del secolo, ma si dà il caso che le onde non rimbalzino come le palle. Lo fanno con molta più ricercatezza di qualsiasi cosa riesca a fare una palla su un campo da squash.

Per inciso, vale la pena ricordare che furono proprio gli echi prodotti dal modo in cui il suono rimbalza sui muri a far ritenere per la prima volta ai pensatori che il suono, appunto, potesse avere una qualche affinità con le onde dell'acqua. Verso la fine del I secolo a.C., quando scrisse della necessità di tener conto delle riflessioni del suono nei progetti dei teatri, l'architetto romano Marco Vitruvio Pollione (spesso noto solo come Vitruvio ) suggerì che «la voce come il respiro fluisce nell'aria», a sua volta

in atto quando diviene sensibile all'udito. Essa si muove con infinite circonferenze di cerchi, come quando gettata una pietra nell'acqua stagnante si formano innumerevoli cerchi ondosi.

Poiché le increspature si riflettono sulle pareti delle vasche e ritornano da dove sono venute, sembra piuttosto sensato chiedersi se il suono rimbalzi sui muri dei teatri perché è un'onda. Ovviamente la descrizione del suono di Vitruvio come «respiro» che fluisce nell'aria era sbagliata proprio come i fiati di Mozart. Se qualcuno grida dall'altra parte di una stanza si avvertirà l'esplosione di rabbia, ma non si percepirà alcun alito di vento. Le onde sonore viaggiano attraverso l'aria senza spostarla. Malgrado ciò, l'analogia di Vitruvio tra onde sonore e onde d'acqua si rivelò brillante. Essendo a noi invisibile, l'ondosità del suono va dedotta dalle sue azioni e non dal suo aspetto.


Athanasius Kircher , gesuita e dotto tedesco del XVII secolo, era interessato agli echi. In grado di parlare decine di lingue, cinese e copto compresi, produsse un enorme corpus di opere tra cui libri di geologia, ottica, astronomia e acustica. A rigor di logica dovrebbe essere il santo patrono dei leader sindacali, perché inventò anche il megafono.

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Non solo i pesci tradiscono la loro presenza tramite le onde che producono. Tutti noi siamo perturbazioni ambulanti che diffondono involontariamente, e di continuo, onde di una forma o di un'altra facendo saltare la nostra copertura dinanzi a chiunque sia in grado di sintonizzarsi.

Perciò, che si tratti del fruscio di un topo che fruga nell'erba o delle piume di un gufo che scende in picchiata, ogni movimento di ogni creatura produce onde acustiche di qualche tipo. L'aspetto visibile di tutti gli animali è, ovviamente, una perturbazione delle onde luminose. Alcuni hanno sviluppato una sensibilità alle onde elettromagnetiche di frequenze più basse di quelle visibili agli esseri umani. Se attraverso la pelle riusciamo a sentire la calda radiazione infrarossa emessa da un animale sotto forma di calore corporeo, non possiamo però vederla, mentre il crotalo verde delle foreste pluviali del Centro America ha, tra gli occhi e le narici, delle cavità sensibili alle onde infrarosse che l'aiutano a colpire la preda con estrema precisione.

L'involontario comunicato sarà increscioso quando una creatura diventa la cena altrui, ma che fine farebbero gli animali se non producessero onde, anzi, se non potessero produrle? Se ne starebbero tutti soli in fondo a un cul-de-sac evolutivo, immagino. Per la sopravvivenza delle specie, vista la collaborazione necessaria alla riproduzione, una qualsivoglia forma di comunicazione è cruciale.

Le onde sonore sono un ottimo modo per adescare l'altro sesso: dalla serenata stridula del fringuello in cerca di una compagna all'inizio della primavera fino al basso brontolio infrasonoro dell'elefante africano femmina, in calore ogni cinque anni, per buona parte non udibile a noi, ma che attira gli elefanti maschi da chilometri di distanza.

I colori iridescenti delle piume del pavone maschio che diffondono onde luminose non sono proprio un ottimo camuffamento, eppure colpiscono le loro signore. Le lucciole mandano segnali di onde luminose dall'addome per la stessa ragione, mentre la seppia produce colori ipnotici e mutevoli con i venti milioni di celle pigmentali che ha sulla pelle per dire «vieni qui» al compagno, «alla larga» ai nemici e (quando li usa per confondersi con lo sfondo) il meno possibile ai predatori.

Che dire degli esseri umani? Come gli altri animali, anche noi attiriamo i partner con la capacità di produrre onde.

Ovviamente ci sono le parole che ci diciamo, ma per l'interazione sessuale sono più importanti il tono e il timbro della voce. Senza neanche saperlo, un uomo può modulare la voce affinché sia più profonda e risonante, per imitare le qualità sonore naturali di un contesto forte e protettivo. Una donna può modulare la sua in senso contrario, adottando una voce tremula per sembrare bisognosa di protezione o un tono più roco per apparire sexy (quest'ultima modifica del timbro di voce può indicare il tipo di donna che beve, fuma, non si tira indietro ed è pronta a tutto).

Per il sesso manipoliamo anche le onde luminose. Il rosso del rossetto e del fard non imita forse l'affioramento del sangue sulla pelle associato all'eccitazione sessuale? E perché l'iconica Ferrari è rossa? Potrà anche sembrare un modo volgare per mostrarsi interessati all'altro sesso, ma è evidente che per molte donne una Ferrari Testarossa sia un afrodisiaco (immagino che il nome italiano possa riferirsi ai capelli di una focosa tentatrice, come suggeriscono i produttori, ma io non riesco a fare a meno di pensare che suggerisca anche qualcos'altro).

Naturalmente non si riduce tutto al sesso. Ogni parola che diciamo, ogni melodia che ascoltiamo, ogni film che guardiamo, ogni libro, giornale ed espressione facciale che leggiamo ci arriva tramite onde sonore o luminose. Sono loro le intermediarie, onde onnipresenti viste e sentite di continuo, ma di rado notate. Fondamentale per la comunicazione umana moderna, però, è un gruppo di onde la cui luce visibile è solo un piccolo sottoinsieme. L'era dell'informazione è mediata interamente da loro. Sono le onde elettromagnetiche.

Vorrei potervi dire che hanno anche un nome più gradevole. Alcuni le chiamano «onde EM», ma non è molto meglio. Vista la loro straordinarietà, avrebbero un gran bisogno di rilancio.


Le onde elettromagnetiche vanno dalle onde radio, che hanno la massima lunghezza d'onda, fino ai raggi gamma, che hanno la minima lunghezza d'onda, passando per microonde, onde infrarosse, onde luminose visibili, onde ultraviolette e raggi X. Le onde al centro dello spettro — infrarosse, luminose visibili e ultraviolette — hanno origine dal sole, mentre quelle di tutte le lunghezze diverse, dalle massime alle minime, sono emesse da stelle, galassie, buchi neri e gas caldi disseminati nel nostro universo.

Le prove di eventuali limiti della grandezza di queste onde non sono ancora state scoperte. I raggi gamma, le più corte onde elettromagnetiche osservate, sono un miliardesimo di una molecola, una misura che ho qualche difficoltà a immaginare. Secondo le stime, le onde radio più lunghe vanno dalla distanza tra la Terra e il sole fino a mille volte tanto. Se i numeri vi dicono qualcosa si tratta di una gamma di lunghezze d'onda note comprese tra 10^-18m a 10^11m (tali lunghezze, come tutte le altre del presente capitolo, si riferiscono alle onde elettromagnetiche che viaggiano attraverso il vuoto. Nel passaggio attraverso qualsiasi altro mezzo rallentano e si raggruppano in lunghezze d'onda più corte).

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Nella commedia romantica del 1989 Harry ti presento Sally c'è una scena in cui Harry Burns, il personaggio interpretato da Billy Crystal, parla con l'amico Jess del tracollo del suo matrimonio. I due sono allo stadio, ma non guardano la partita. La scena comincia con la folla che si risiede dopo aver fatto la ola.

Harry sta spiegando che la moglie gli ha detto di volere una separazione di prova. Ha la tipica espressione assente di uno la cui vita sta cadendo a pezzi.

«Così le ho detto: 'Non mi ami più?' E sai cosa mi ha risposto?» Jess scuote la testa. «'Non so se ti ho mai amato.'»

«Uh, che botta» dice Jess mentre dalla folla si leva un applauso e parte un'altra ola. Loro si alzano con le braccia tese e partecipano, quasi istintivamente, per poi proseguire la conversazione.

Harry racconta che la moglie gli ha appena detto di volersi trasferire nell'appartamento di un amico, quando suonano alla porta e si ritrova davanti i traslocatori. «Così ho detto: 'Helen, quando li hai chiamati?' E lei: 'Una settimana fa'. E io: 'Lo sapevi da una settimana e non me l'hai detto?' E lei: 'Non volevo rovinarti il compleanno'.» In quel momento dalla folla si leva un altro boato e tutti si rialzano. Meccanicamente, con l'espressione assente, i due si uniscono alla ola prima di continuare.

A quanto pare, la moglie di Harry gli ha mentito e in realtà ha una relazione con un perito legale. «I matrimoni non finiscono solo per un'infedeltà» sentenzia Jess. «È solo il sintomo che qualcos'altro non va.»

«Ah sì?» dice Harry mentre un crescendo di applausi monta per un'ultima ola. «Be', quel sintomo si scopa mia moglie.»

Quando ho visto il film per la prima volta, ricordo di aver trovato buffa la scena per la passività con cui i due personaggi venivano coinvolti nella ola. Sembrava riecheggiare l'incapacità di Harry di fermare la marea del fallimento del suo rapporto. Ovviamente non si viene coinvolti così in una ola: perché l'onda viaggi attorno allo stadio si deve partecipare attivamente. Eppure la ola sembra avere una vita propria. Nel viaggiare con l'energia collettiva della folla è più della somma delle sue parti. Se siamo troppo turbati per partecipare sembra plausibile che possa sollevarci come marionette.

Nota in Gran Bretagna come «onda messicana» e in America Latina come «la Ola», l'onda da stadio catturò l'attenzione dei mezzi d'informazione durante i Mondiali in Messico del 1986.

Sfruttando quei festeggiamenti spontanei della folla, la Cola-Cola, che con la pubblicità ci sa fare, fu pronta ad associarsi alla ola in spot televisivi che finivano con la battuta: «Coca-Cola, la Ola del Mundial». Poiché la multinazionale era uno degli sponsor, gli spot e le onde furono visti da 13,5 miliardi di telespettatori.

Prima o poi, la maggior parte di noi contribuisce a un'onda da stadio, che si tratti di un grande evento sportivo o di un concerto dei Coldplay allo stadio di Wembley (dove, per inciso, hanno organizzato la folla per farne una al buio con in mano i cellulari illuminati). Ne ricordo una a una partita di calcio a Londra. Mi è piaciuta la sensazione di rinunciare alla mia individualità per soccombere alla volontà collettiva della folla. Sospetto che faccia parte del loro fascino. Ovviamente noi tutti consideriamo orribile la prospettiva di perdere la nostra unicità in senso permanente (indice, forse, del fatto che ci inganniamo su chi siamo realmente). Potrebbe essere proprio questa paura il motivo per cui ci fa piacere abbandonarci, come quando un bambino ci supplica di far finta di essere un mostro che lo insegue in giardino perché la prospettiva di uno vero è troppo spaventosa da sopportare, no?

Per quanto sia divertente guardare un'onda, ed esilarante cavalcarla, tutt'altra cosa è esserlo. Si diventa il mezzo attraverso cui l'onda viaggia. Si è una piccola parte della sua energia collettiva.


L'ape gigante dell'Asia meridionale e del Sudest asiatico, Apis dorsata, non costruisce l'alveare in spazi chiusi come quella europea, ma sospende il favo all'aperto, attaccandolo a un ramo alto o a una roccia sporgente per poi riunirsi tutt'intorno con le altre come un'enorme palla ronzante.

Un nido simile è uno degli spettacoli più sensazionali del mondo degli insetti, in parte per le dimensioni epiche – un favo di un metro per un metro e mezzo avvolto da una corazza protettiva di oltre 50.000 corpi che si dimenano –, in parte per le onde da stadio che ne attraversano regolarmente la superficie. Sono onde prodotte all'esterno dell'ammasso dalle api, che eseguono quanto si può definire al meglio uno sculettamento apistico altamente coordinato. Tale comportamento è noto come «tremolio». Le api muovono a scatti il didietro nell'aria formando delle onde. Poiché la parte inferiore dell'addome è più scura del dorso giallo, si notano le fasce nere muoversi sulla superficie della colonia. Queste onde partono da un punto e si diffondono in una spirale che si espande.

Perché le api fanno quest'impertinente esibizione? La danza sembra essersi evoluta per spaventare le vespe predatrici, come i calabroni che attaccano il nido per tentare di arrivare alle squisite pupe e al miele. Poiché usando il pungiglione muoiono, le api hanno sviluppato una strategia difensiva meno suicida. L'onda prodotta dal movimento dei didietro parte nel punto della superficie dell'alveare che il calabrone minaccia di attaccare. L'effetto complessivo è quello di un qualcosa che sovrasta il calabrone, ben più grande delle singole api. La tattica, però, è inefficace contro predatori più grossi, perché quando sono gli uccelli ad attaccare l'alveare le api giganti ricorrono alla vecchia missione kamikaze e usano il pungiglione con una determinazione tale da essersi conquistate la nomea di specie di api più aggressiva del mondo.

Verrebbe da pensare che, alla fine, i calabroni capiscano che l'onda è solo un'illusione, ma questo significherebbe sopravvalutare la loro intelligenza. Agendo individualmente, le vespe non sono abbastanza furbe da intuire il trucco della folla. È un classico caso di intelligenza di gruppo che batte un predatore solitario, mediata da un'onda che viaggia attraverso una popolazione.

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È possibile che le maree siano state determinanti per la nascita della vita sul pianeta. La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che quando la Terra si formò – circa quattro miliardi e mezzo di anni fa – il nostro protopianeta fu attaccato da un altro pianeta chiamato Teia, grande quasi come Marte. L'urto, noto come l'«impatto gigante», disperse nello spazio una coltre di materia liquefatta formata in parte dal mantello terrestre e in parte dai resti di Teia. In un solo anno, il tutto si fuse nella sfera che è la luna.

Mezzo miliardo di anni dopo il nostro pianeta aveva sviluppato gli oceani e si era raffreddato a sufficienza da formare una crosta solida. Eppure era privo di vita.

In gioventù la Terra ruotava molto più in fretta di quanto faccia oggi, per cui le giornate erano decisamente più corte. Non c'è accordo sulla durata, ma per alcuni era di appena quattordici ore, pertanto le alte maree si verificavano ogni sette ore circa. All'epoca la luna era molto più vicina alla Terra ed esercitava sugli oceani un'attrazione gravitazionale maggiore. Prima che comparisse la vita, quindi, le maree erano di gran lunga più potenti di oggi. Gli oceani sommergevano i primi continenti a una velocità di quasi cinquecento km/h, sfregando il suolo e riversando in acqua i minerali essenziali ad alimentare ogni vita futura.

Alcuni scienziati, però, sostengono che le prime maree potrebbero aver svolto un ruolo attivo nella creazione della vita. «Molte reazioni alla base dell'origine della vita implicano l'eliminazione dell'acqua» spiegò Kevin Zahnle, scienziato planetario del NASA Ames Research Center in California. «Quindi occorre trovare dei modi per concentrare le soluzioni. Uno consiste nel versare acqua su una roccia calda per farla ritirare ed evaporare.» Ovviamente era un compito che le maree svolgevano con facilità.

Sulla stessa falsariga, il biologo molecolare Richard Lathe affermò che il regolare flusso e riflusso dell'acqua su enormi tratti di terra arida potrebbe essere stato il meccanismo trainante della moltiplicazione delle prime versioni di DNA e RNA, le molecole che trasportano il codice genetico. Le maree, quindi, avrebbero contribuito a moltiplicare queste molecole in un modo simile a quello usato dalla moderna medicina legale per riprodurre il DNA.

Quando alla scientifica si chiede di ricavare un profilo del DNA da un minuscolo campione raccolto sulla scena del crimine – magari inconsistente come un follicolo pilifero –, gli scienziati devono riprodurre il DNA per avere un campione tanto grande da poter essere testato. Tale operazione si ottiene tramite il «termociclatore», che riscalda e raffredda in continuazione le molecole, moltiplicando il DNA mediante l'incessante scomposizione e ricostituzione delle loro strutture a elica (se proprio volete saperlo, si chiama «reazione a catena della polimerasi»). Secondo Lathe, lo stesso meccanismo di riproduzione può verificarsi tramite cicli regolari di asciugamento e inumidimento con acqua salata. In sintesi, le prime maree potrebbero aver coordinato la riproduzione degli elementi di base della vita.

La prossima volta che la marea vi distrugge un castello di sabbia da primo premio, ricordatevi che tutti noi potremmo essere in debito con lei.


Nel corso dei millenni, le maree hanno spinto la luna ad allontanarsi gradualmente da noi. Senza di loro, la forza che la Terra esercita sul nostro satellite l'attirerebbe dritta verso il suo centro. La presenza delle maree, invece, provoca un lieve spostamento dell'attrazione gravitazionale terrestre. Grazie alla rotazione, la massa d'acqua dei rigonfiamenti dovuti alle maree non è mai perfettamente allineata con la luna, e questo ha l'effetto di spingerla molto gradualmente verso l'esterno in un'orbita sempre più grande. In virtù delle maree, la luna indietreggia di quasi quattro centimetri l'anno.

Dal canto suo, l'energia dissipata dall'attrito di imponenti quantità d'acqua che si agitano nei bacini oceanici ha avuto anche l'effetto di rallentare la rotazione del pianeta. In questo modo, le giornate di quattordici ore di quattro miliardi di anni fa si sono allungate alle ventiquattr'ore che conosciamo e amiamo.

Se avete la sensazione che la vita scorra troppo in fretta, e non riuscite mai a finire quello che speravate di fare, non abbiate timore: le maree stanno lavorando per voi, rallentando la rotazione terrestre e mettendo da parte all'infinito un po' di tempo in più prima del tramonto. Grazie a queste onde, tra cinquant'anni avrete conquistato 0,001 secondi in più ogni giorno.

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«Tutti sappiamo cos'è la luce, ma non è facile dire cos'è» osservò Samuel Johnson. Aveva proprio ragione: il fatto che la luce ci permetta di vedere, rende il tentativo di stabilirne la natura, con una certa chiarezza, una sfida formidabile.

Devo farvi una confessione. Fin qui ho descritto la luce come una forma d'onda, ma non è affatto così semplice. Nel 1665 il fisico — o, per usare il titolo dell'epoca, «filosofo naturale» — inglese Robert Hooke avanzò una teoria ondulatoria della luce, supportata venticinque anni dopo quando il contemporaneo olandese Christiaan Huygens pubblicò la prova matematica che gran parte del comportamento della luce si poteva spiegare in termini di onde.

L'unico problema della teoria era spiegare attraverso cosa passassero le onde luminose. Quelle marine viaggiano nell'acqua e quelle sonore nell'aria (o in qualunque altro materiale), ma cosa «ondeggia» mentre la luce l'attraversa? Poiché a tutte le altre onde occorre un mezzo, e la luce può attraversare un vuoto, i teorici dell'onda dovevano proporre una sorta di etere luminifero, o conduttore di luce, ma nessuno fu in grado di spiegare in cosa potesse consistere.

Nel suo libro seminale Opticks (Scritti di ottica), pubblicato per la prima volta nel 1704, Isaac Newton suggerì un concetto di luce alquanto diverso. Per lui non era formata da onde, bensì da particelle minuscole o «corpuscoli». L'idea ebbe parecchia risonanza, perché Opticks fu ritenuta l'opera definitiva sul comportamento della luce per l'intero XVIII secolo (vista l'importanza del libro poteva almeno scrivere bene il titolo togliendo quella «k»).

Mediante esperimenti ingegnosi e abili deduzioni, Newton dimostrò il perché e il come del comportamento della luce quando è diffranta dal vetro, rivelando che quella del sole può essere scomposta nello spettro dei colori dell'arcobaleno che la compongono tramite un prisma. La teoria dei corpuscoli era tutt'altro che centrale, anzi viene nominata solo in una «Questione» (la numero 29) alla fine dell'edizione aggiornata del 1717: «I raggi di luce non sono corpi molto piccoli emessi da sostanze luminose?»

Newton usò le Questioni per aggirare il tema dei fenomeni ottici: se la luce è formata da particelle minuscole, non sarà forse che i diversi colori in cui si scompone quando un raggio di sole attraversa un prisma di vetro corrispondono alle diverse dimensioni delle particelle? Le più piccole potrebbero apparire viola e le più grandi rosse. Pur non offrendo prove sperimentali, la sua autorevolezza era tale che nel complesso gli scienziati accettarono la teoria dei corpuscoli. E furono restii ad abbandonarla fino all'inizio del XIX secolo, quando cominciò a emergere la prima prova convincente a favore della teoria che la luce è un'onda. Un esperimento in particolare parve chiarire, una volta per tutte, ogni confusione a riguardo. Fu uno dei più importanti della storia della fisica moderna, sebbene fosse stato ideato da un fisico dilettante che non amava il tedio del lavoro di laboratorio, e dimostrò che la luce presenta la più ondosa di tutte le proprietà: l'interferenza.


Thomas Young, nato nel 1773, era un prodigioso uomo di cultura che imparò a leggere a due anni e, all'età di quattro, aveva già divorato la Bibbia da cima a fondo... due volte. Una trentina d'anni dopo fece un disegno che avrebbe fatto gelare il sangue a qualunque falena di passaggio.

Durante la lezione intitolata Natural Philosophy and the Mechanical Arts (Filosofia naturale e arti meccaniche), che tenne alla Royal Society nel 1807, Young mostrò questa rappresentazione dell'interazione delle onde «ottenute lanciando contemporaneamente due sassi di uguali dimensioni in uno stagno». Pare che avesse tratto ispirazione dai modelli sovrapposti di increspature prodotte da due cigni nel lago dell'Emmanuel College di Cambridge. Tuttavia non presentò il disegno solo per dimostrare una teoria sulle onde d'acqua: voleva illustrare anche il comportamento della luce.

Young disse che, oltre alle increspature dell'acqua, l'illustrazione rappresentava un raggio di luce solare che attraversa due fessure in un cartoncino (contrassegnate con A e B nel disegno) e ne esce sotto forma di onde. La luce doveva diffondersi da ogni fessura proprio come fanno le onde d'acqua nel passare attraverso un'apertura nel frangiflutti: è il comportamento delle onde noto come diffrazione. Se la luce è un'onda, sosteneva Young, i raggi sovrapposti che escono dalle due fessure dovrebbero interferire tra loro come fanno le onde d'acqua sovrapposte, producendo zone non d'acqua più mossa e più calma, ma di luce più intensa e più cupa. L'equivalente di una zona d'acqua molto mossa, o interferenza costruttiva, è una chiazza di luce brillante; l'equivalente di una zona d'acqua più calma, o interferenza distruttiva, è una chiazza scura. Young spiegò di averlo scoperto durante l'esperimento. Quando interruppe i raggi sovrapposti con un cartoncino, apparve un disegno più o meno simile a questo:

[...]

Il flusso di corpuscoli luminosi di Newton, disse Young, non può spiegare questi risultati, mentre le frange luminose e scure «si possono facilmente dedurre dall'interferenza di due ondulazioni concomitanti, che collaborano o si distruggono a vicenda». Sembra convincente. Come spiegare quell'effetto se la luce era fatta di particelle minuscole? Corpuscoli più corpuscoli danno solo un sacco di corpuscoli.

La teoria delle particelle di Newton, però, era talmente condivisa che passò oltre un decennio prima che la tesi di Young venisse presa in seria considerazione. Pur esistendo altre onde, come quelle dell'acqua, in grado di annullarsi a vicenda se sincronizzate per interferire in maniera distruttiva, l'idea che luce più luce equivalesse a buio era troppo poco intuitiva. Il giovane avvocato scozzese Henry Brougham, paladino del lavoro di Newton, attaccò con ferocia la tesi di Young dalle pagine dell'«Edinburgh Review», autorevole periodico da lui fondato, definendola priva di qualsiasi «traccia di cultura, acume o ingegno capace di compensare l'evidente carenza nelle facoltà del pensiero raziocinante».

Gli oppositori furono messi a tacere solo quando l'ingegnere francese Augustin Fresnel formulò la teoria matematica a sostegno della tesi di Young. Nel 1815, durante una presentazione all'Accademia delle Scienze di Parigi, Fresnel riuscì a spiegare perfettamente le frange d'interferenza di Young con formule matematiche derivate da una teoria ondulatoria della luce. Finalmente il vento dell'opinione cominciò a cambiare e, a metà del XIX secolo, il mondo scientifico appariva concorde: la luce era decisamente una forma d'onda.


Nel dicembre del 1900 il fisico tedesco Max Planck mise involontariamente i bastoni tra le ruote proponendo un innocente «e se» che sarebbe diventato un serio grattacapo per chiunque avesse sostenuto che la luce è un'onda. Da cinque anni Planck tentava di creare il modello teorico di come la luce emessa dal filamento di una lampadina elettrica dipendesse dalla temperatura del metallo. Era un elemento che le società elettriche erano ansiose di conoscere per rendere più efficienti le lampadine.

Per qualche strana ragione, formulare il rapporto tra le frequenze di luce e le temperature dei filamenti si rivelò un'ardua sfida. Tutti sanno che una barra di ferro nella fucina di un fabbro risplende di colori diversi quanto più calda diventa: prima rosso, poi arancione, giallo e bianco (dopo di che in genere si scioglie). Una gamma di frequenze viene emessa sempre, ma la frequenza dominante, la più luminosa, cambia a seconda della temperatura. Quando questa aumenta, infatti, aumenta anche la frequenza della luce più brillante e il metallo incandescente cambia colore. Ma come si ricollega esattamente la frequenza dominante alla temperatura? Nessun fisico dell'epoca fu in grado di capirne la formula matematica.

Forse vi starete chiedendo quale fosse l'importanza di tutto ciò. L'enigma sarà anche stato di grande interesse per i produttori di lampadine, ma di certo la società vittoriana non tratteneva il fiato in attesa di conoscere la risposta al rovente quesito. La soluzione matematica proposta da Max Planck, però, ispirò il ventunenne Albert Einstein a rivoluzionare — ancora una volta — le conoscenze del mondo sulla luce. Tramite il suo lavoro e quello di altri, anzi, l'innocente congettura matematica di Planck avrebbe dato nuova forma alla nostra immagine del mondo su scala atomica.

A questo punto sarà meglio accantonare l'idea che la luce visibile, insieme alle altre frequenze elettromagnetiche, sia un'onda in senso stretto.

Ipotizzando che il calore e la luce emessi da un metallo bollente assumano la forma di minuscoli pezzettini indivisibili di energia, che chiamò «quanti», Planck scoprì di poter prevedere con accuratezza le frequenze emesse a temperature diverse. Il sistema di quanti d'energia che escogitò non era altro che un trucchetto matematico per far coincidere i suoi calcoli con i dati sperimentali: in base alla sua congettura, quanto più alta è la frequenza della luce emessa, tanto maggiore è l'energia contenuta in ciascuno dei quanti concettuali. Come altri fisici del suo tempo, anche Planck credeva che la luce fosse una forma d'onda e che, prima o poi, le emissioni luminose e termiche dei metalli incandescenti sarebbero state descritte in termini di onde.

Qualche anno dopo, durante l' annus mirabilis che fu per lui il 1905, Einstein suggerì che il sistema dei quanti di Planck poteva essere più di un semplice artificio matematico. Quel fisico ancora sconosciuto, che si guadagnava da vivere facendo l'impiegato all'ufficio brevetti di Berna, pubblicò un articolo in cui ipotizzava che la radiazione elettromagnetica fosse in realtà composta da pacchetti quantici di energia. E se, ipotizzò Einstein, i pezzettini invisibili di energia fossero tratti fisici reali della luce, anzi, di tutte le onde elettromagnetiche? E se i metalli riscaldati a sufficienza da emettere luce producessero davvero pacchetti distinti d'energia? Se così fosse, potrebbe essere vero anche il contrario: i metalli assorbono forse la luce sotto forma di pezzettini d'energia separati? Potendolo dimostrare in via sperimentale, tutto il nostro sapere sulla luce si capovolgerebbe ancora una volta.

Questo del marzo 1905 era il primo di cinque articoli innovativi che Einstein scrisse quell'anno. La loro importanza collettiva non è di certo sopravvalutata, poiché avrebbero costituito le basi del futuro corso della fisica moderna. Tra gli articoli c'era la prima enunciazione della teoria della relatività del giovane scienziato, ma delle cinque solo l'ipotesi che la luce è formata da pezzettini indivisibili d'energia, o quanti, indusse Einstein a definirsi un vero «rivoluzionario».

[...]


Tutto questo non si poteva spiegare con la teoria ondulatoria della luce, ma aveva senso se la luce era formata da pacchetti d'energia e la quantità contenuta in ogni quanto dipendeva dalla frequenza. L'effetto fotoelettrico sembrava corroborare la tesi di Einstein secondo cui la luce è composta da quanti separati e non da onde sparse. Eppure, proprio come i loro pari si erano mostrati restii ad abbandonare l'idea di Newton dei corpuscoli di luce dinanzi alle convincenti tesi di Young che la luce è un'onda, così i fisici della prima metà del XX secolo furono quanto mai riluttanti a rinunciarvi per accogliere la teoria di Einstein in base a cui la luce andava ridefinita in termini di particelle. Fu infatti universalmente rifiutata dai contemporanei, che contestavano la sua «avventata» ipotesi, che «va contro fatti accertati con cura» e che «non è in grado di fare chiarezza sulla natura della radiazione».

Einstein, però, era intimamente sicuro. L'esistenza dei «quanti di luce è praticamente certa» scrisse nel 1916 a un amico subito dopo la dimostrazione sperimentale delle sue previsioni sull'effetto fotoelettrico. Eppure ricevette il Nobel per la fisica grazie al lavoro del 1905 sulla natura quantica della luce soltanto nel 1921. Cinque anni dopo, i quanti luminosi proposti da Planck (ma mai ritenuti validi), la cui esistenza era stata dimostrata da Einsteín, divennero noti come «fotoni».

Ancora una volta tutto cambiava: in fondo la luce era fatta di particelle.

[...]


È come se il percorso di ogni fotone fosse pervaso da un'onda, come se la luce si comportasse da onda in transito e da particella quando entra in contatto con la macchina fotografica. «Quando appare la particella» disse il fisico George Paget Thomson, «l'onda svanisce come un sogno al risveglio.» Ecco a voi íl mondo apparentemente contraddittorio della meccanica quantistica, tramite il quale la personalità schizofrenica delle onde elettromagnetiche si può definire in termini matematici. La teoria spiega bene il comportamento apparentemente contraddittorio della luce, ma ci ha forse avvicinati a comprendere cos'è davvero la luce, cosa sono queste onde? Non per Richard Feynman , uno dei maggiori fisici quantistici del mondo: «Ebbene, no, non le capirete. [...] perché non le capisco nemmeno io. Il fatto è che non le capisce nessuno».

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