Copertina
Autore Rosella Prezzo
Titolo Veli d'Occidente
SottotitoloTemi, metafore, simboli
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2008, Testi e pretesti , pag. 144, cop.fle., dim. 10,4x17x1 cm , Isbn 978-88-6159-126-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe filosofia , religione , storia sociale
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  1 Introduzione
    Veli, questi fantasmi

  9 1.   Rivelazioni: in principio era il velo

 12 1.1. Il velo di Dio
 20 1.2. Velum scissum
 27 1.3. La guerra dei veli
 30 1.4. Il Profeta e la prova del velo

 37 2.   Nelle pieghe del pensiero, una trama velata

 38 2.1. Nuda Veritas
 43 2.2. Il complesso di Atteone
 47 2.3. Il filosofo e la dea velata
 60 2.4. Tra i veli della metafora
 64 2.5. Un significante fluttuante
 70 2.6. Né Iside né Medusa

 81 3.   Sulla testa delle donne

 82 3.1. Lo svelamento della sposa
 85 3.2. Usi e abusi
 94 3.3. Un velo tra Occidente e Oriente
104 3.4. Vedere ed essere visti
115 3.5. Trasparenza e opacità

129 Bibliografia
137 Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

Introduzione

Veli, questi fantasmi


Perché un titolo come Veli d'Occidente, se i veli, "si sa", appartengono all'Oriente, arabo e islamico, di cui sarebbero anzi la cifra? Quei veli, portati da donne di "fuori", che vengono oggi a "invadere" il nostro campo visivo, insinuandosi nelle strade e nei luoghi delle nostre città ipermoderne o postmoderne, non provengono forse da lì, da un mondo opposto al nostro, rimasto arcaico, fuori dal tempo della modernità, e divenuto oscuramente minaccioso?

In fondo, è questo il contesto che si associa ormai alla parola "velo" in un'immediata reazione difensiva, frutto di un sentire confuso e diffuso. Come se, proiettato dai margini al centro da cui siamo abituati a guardare il mondo, questo velo immigrato risultasse intollerabile alla vista o rappresentasse, di per sé, un oltraggio.

Nella civiltà dei diritti universali e delle libertà individuali, ma anche dell'immagine e della visibilità, della liberazione e dell'esposizione dei corpi, messi in forma per essere distribuiti come fossero biglietti da visita, il velo femminile, ormai musulmano per antonomasia, ci risulta talmente alieno e fuori luogo da disturbarci, infastidirci, inquietarci. Vi scorgiamo il segno pervicace di un mondo "destinato" a sparire e che, al tempo stesso, si ripresenta come un'imprevista interruzione del "progredire" storico nella sua ineluttabile linearità. Qualcosa, insomma, che viene a ostruirci la vista, che intralcia le nostre pre-visioni, gettandovi un'ombra di inconoscibilità. Da qui l'immediata reazione che spinge a non volerlo vedere, a toglierlo di mezzo. Fino ad assimilarlo, in nome della laicità e della libertà, a un "corpo di reato", come nel caso della "loi foulardière" varata in Francia. Una legge che ha ben poco a che fare con la ragione del diritto o con le necessità della sicurezza e che sembra, piuttosto, una "legge della paura", come è stata definita da alcuni.

Si decide così che il velo è il segno "ostentato" di appartenenza a una religione, inammissibile se portato da una ragazza nella scuola pubblica. E si decide anche che colei che lo porta, in qualsiasi forma e a prescindere da qualsiasi scelta individuale, è la manifestazione di una discriminazione e di un'oppressione che offende la dignità di tutte le donne. Col risultato paradossale che giovani musulmane, coi loro veli, sono espulse dalle scuole, mentre i loro compagni, appartenenti alla stessa cultura, rimangono a esercitare il loro diritto all'istruzione; e, colmo dell'ironia, le si rimanda alle famiglie che, secondo questo stesso schema, si suppone siano il luogo del patriarcato e del sessismo.

Anche quando si tratta solo di un quadrato di stoffa che incornicia un volto, ai nostri occhi il velo delle donne musulmane si carica della potenza di un fantasma (i fantasmi non sono forse fatti di veli?), che attenta alla nostra stessa integrità e minaccia i principi fondamentali della nostra civiltà.

Eppure questi veli, che ci risultano così alieni, sono parte in causa della nostra storia e interrogano la nostra cultura non meno di quella arabo-musulmana. A lungo, infatti, hanno alimentato l'immaginario erotico (e colonialista) occidentale ispirando numerose e fondamentali opere letterarie, artistiche, musicali. Attraverso di essi, e in particolare attraverso l'esotismo dell'harem, l'Occidente europeo ha costruito e fissato il miraggio dell'Altro, l'immagine proiettiva di un "Oriente misterioso", esotico per eccellenza: luogo di una fuga sognata, di forze oscure e di pericolosa sensualità, dove i veli onnipresenti delle donne sono assurti a simbolo di un intero mondo.

Sembrerebbe, dunque, che una profonda metamorfosi sia avvenuta sotto i nostri stessi occhi. In realtà, quelle immagini velate, proprio perché uscite dal quadro in cui le avevamo collocate, ci ritornano come "sfigurate", non previste e fuori luogo. L'alterità, si sa, finché è lontana, finché abita l'"Altrove", può anche animare i sogni e il desiderio, ma quando diventa così prossima da ritrovarla in noi stessi, risulta intollerabilmente ingombrante.

Tuttavia proprio questi "altri" veli che ritornano, che ci ritornano, rivelano, senza volerlo, qualcosa. Ci segnalano, inaspettatamente, il punto cieco da cui guardiamo, ce ne indicano l'esistenza che non vedevamo. Occorre allora tornare in sé, non con un gesto di ripiegamento o di chiusura, ma per rivisitare i propri luoghi noti, rivedere ciò che pensavamo di sapere già, riconsiderare le pretese universali di una civiltà la quale crede già di conoscere appieno la propria storia che si propone di rivelare agli altri.

È da tale sguardo rovesciato che muovono le riflessioni di queste pagine. Esse sono dettate innanzitutto da un tempo di sospensione che lascia risalire alla mente le corrispondenze, le analogie e la densità di immagini che il velo richiama nella nostra cultura. Da qui il ripensamento dei veli d'Occidente, l'interrogazione sulla presenza, gli usi e i significati del velo, insieme alle pratiche discorsive e metaforiche animate dal gesto di velare, svelare e rivelare. Nel seguire un velo, che rimanda ad altri veli, si viene così a tracciare un percorso, o meglio, a intrecciare una trama che ci porta a incrociare la questione dell'origine e della verità, del femminile e del fantasma di castrazione, della sessualità e della violenza, in una zona di confine tra l'immaginario, il visivo, lo psichico e il concettuale.


Una complessa costellazione di senso, di significati, metafore, simboli e immagini ruota attorno al velo come a un nucleo che, attraverso la sua incorporea materialità, anima da sempre quella che Vico chiamerebbe una «corposa fantasia».

Duplicità e ambivalenza sono costitutivi del velo. Esso rinvia infatti, alternativamente e contemporaneamente, al vedere-attraverso, al baluginìo dell'intravedere e all'oscurità dell'enigma, in cui si nasconde e si custodisce il mistero; alla nudità disvelata della verità (nuda Veritas) e alle apparenze ingannevoli o ai segreti dietro cui si cela la natura (i famosi veli di Maya o di Iside). Evoca il desiderio di possesso e la presa di distanza; la purezza e l'erotismo; i canoni tanto del pudore quanto della seduzione femminile (di cui la danza dei sette veli di Salomé, per la quale il Battista perse la testa, è assurta ad emblema nella nostra cultura, che ne ha per altro rimossa l'origine rituale sacra).

Associato sia alla sacralità sia alla profanazione, il velo richiama la violenza sull'altro («sciogliere i sacri veli di Troia» è il sogno di Achille, che assimila l'abbattimento delle mura della città allo stupro del velo che ricopre la dignità delle sue donne), ma anche la venerazione nei suoi confronti («Sovra candido vel cinta d'ulivo / donna m'apparve», scrive Dante).

Il velo è stato concepito come supplemento di grazia o rivestimento leggero della nudità femminile. Aby Warburg, nei suoi studi di iconologia, parlando dei veli ondeggianti che avvolgevano le ninfe, li definisce «accessori in movimento». Il velo è infatti un tessuto animato da pathos che prende ad avere una vita propria e una sua autonomia visiva: ricetto, metaforico e metonimico, della sostanza immaginaria del desiderio e dell'irresistibile desiderio di vedere.

Una cosa che, allora, dà più da pensare è che, proprio con uno slittamento metonimico, questa "parte" dell'abbigliamento e di un costume femminile ha finito per indicare il "tutto". Come se il femminile, in quanto tale, fosse un affare di veli e il velo dovesse restare un affare del femminile. Eppure attorno a tale associazione ruota una buona parte della teoria psicoanalitica, che richiede di essere reinterrogata proprio su questo punto.

L'intreccio tra velo, verità e svelamento è uno dei nessi più persistenti nella tradizione occidentale.

In filosofia un legame essenziale tra desiderare, sapere e poter-vedere s'insinua, fin dal suo nascere, nelle pieghe del pensiero, dove la secolare relazione intrattenuta dal filosofo con la verità si è collocata nel campo metaforico del denudare, dello spogliare, dello svelare. Più che nuda la verità è messa a nudo dall'atto del pensare. Proprio nell'immagine della verità, come conferma largamente anche l'immaginario iconico, il velo mostra tutto il suo peso, caricandosi di un potere strutturante e trasformandosi in principio ordinatore, nel quale si vengono a sommare una metafora filosofica, estetica ed erotica. Una geometria profonda ha tenuto insieme il circolo desiderare-sapere-vedere con la triangolazione femminile-velo-verità (che Nietzsche, per primo, ha reso esplicita e che Derrida ha rimesso al centro della sua operazione decostruttiva della razionalità occidentale), dove il logos s'intreccia all'eros in un continuo gioco tra veli calati o imposti e veli sollevati o strappati, alternando passione dello svelamento e pathos del nascondimento.


Il velo appartiene anche all'origine. Esso riveste infatti, con accezioni diverse ma che si rimandano a vicenda, un ruolo centrale nelle "ri-velazioni" delle religioni monoteistiche e dei loro miti fondatori, tanto che potrebbero essere definite tutte e tre "culture del velo". Nel racconto biblico è Dio stesso a velarsi per istituire il patto d'alleanza con l'uomo; a imporre un velo nell'incontro con Mosè, che, a sua volta, si vela quando discende dal monte Sinai con le Tavole della Legge. Attraverso un velo, quello del Tempio di Israele, che si squarcia alla morte di Cristo, si costruisce invece il senso fondamentale della nuova rivelazione cristiana. Mentre lo svelamento di una donna è ciò attraverso cui Maometto può individuare il divino, sciogliere i suoi dubbi e riconoscersi come il Profeta.

In fondo, in principio era il velo.

Tuttavia proprio la presenza di questo comune velo originario decostruisce il concetto stesso di origine. Svela l'intrico alla radice e l'inevitabile richiamo ad altro che sono alla base dell'identità della nostra cultura euro-occidentale, contrastando così l'illusione e la trappola di un'originarietà che si rinserra in una logica di assegnazione storica e di filiazione certa. E il gesto stesso di Freud quando, nel suo ultimo lavoro, L'uomo Mosè e la religione monoteistica, inizia col mostrare che il fondatore dell'ebraismo è un egiziano, ossia uno straniero, non implica proprio questo? Effettuando una simile sottrazione all'origine, egli non ha forse voluto trasmettere la possibilità di un altro racconto, che oppone all'autofondazione del proprio, alla sua chiusura, l'ospitalità originaria dello straniero come condizione della civiltà?


In parallelo ai veli originari e al gioco vertiginoso innescato dall'intreccio verità-velo-femminile, i quali entrano a comporre la ricca trama della nostra tradizione, il velo ha fatto un lungo viaggio, tra usi e abusi, sulla testa delle donne. Il discorso deve tornare allora da capo, da un altro capo, per chiedersi: che significato ha assunto il velo nelle pratiche? Da dove viene l'obbligo delle donne di vivere velate, ma anche quell'ineluttabile desiderio di svelare le donne musulmane che è entrato a far parte dell'ideologia del mondo occidentale colonizzatore-liberatore? Qui tornano a farsi visibili le contraddizioni e le questioni rimaste sempre aperte tra sé e l'altro, tra "noi" e "loro", tra uomini e donne, e che si presentano oggi, in un diverso intreccio, a un nuovo appuntamento storico, all'interno di un contesto mutato: un mondo globalizzato che ormai si dà, in modo manifesto, come quell' unico paese spaesato che tutti abitiamo, e che è la nostra comune modernità. Ma è solo in queste radici trasportate che la storia, come sempre, di nuovo inizia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 94

3.3. Un velo tra Occidente e Oriente

Tale cortocircuito, che oscura la vista e il discernimento, risulta tanto più facile e immediato per il fatto che nel velo, diventato ormai un luogo della mente, si è da lungo fissata l'immagine proiettiva dell'Occidente sull'Oriente islamico.

Alla base c'è prima di tutto un'unificazione dei molti termini (hijab, haïk, neqab, chador, abaaya...) che, nelle culture della vasta e composita area mediorientale, rimandano alla varietà che va da un semplice fazzoletto che incornicia il volto alle palandrane nere che coprono l'intero corpo. Tale reductio ad unum risale al 1721 quando Montesquieu, nelle sue bellissime Lettere persiane, applica la parola "voile" all'islam («vivere sotto il velo»), nell'intento di tradurre così le varie parole arabe e persiane indicanti il «pezzo di stoffa con cui le donne musulmane si nascondono il viso». A questo uso del termine gli accademici delle lingue europee faranno da allora riferimento negli esempi che illustrano genericamente il senso del velo delle donne in Oriente, senza mai precisare la religione e il paese in cui è applicata questa regola.

Un unico velo si è interposto tra Occidente e Oriente nello sguardo che l'uno ha rivolto all'altro, al suo Altro, caricandosi di desideri e paure. È un "Oriente misterioso" quello che, tra Settecento e Ottocento e fino a parte del Novecento, viene infatti costruito, molto spesso inventato, come luogo della differenza e dell'esotismo per eccellenza, dove i veli onnipresenti delle donne diventano la cifra, il simbolo di un intero mondo. Attraverso gli occhi dei viaggiatori, degli studiosi orientalisti d'ogni sorta, dei romanzieri, dei pittori si propaga in Europa una narrazione dell'alterità in cui domina per lo più una dimensione solipsistica.

Tutto ciò non è ovviamente una pura esercitazione dell'immaginazione, ma si colloca nel contesto della relazione di dominio e di egemonia che la colonizzazione comporta. La visione occidentale dell'Oriente andrà sempre più esasperandone l'arretratezza, l'arcaicità e la pericolosità in quanto islamico: le sue donne velate assurgeranno a emblema dell'antitesi dell'Occidente, dei suoi valori e della sua civiltà, la cui missione liberatrice e di progresso passa anzitutto per lo svelamento delle donne.

In particolare è attraverso l'esotismo dell'harem, alimento per le fantasie erotiche dell'uomo occidentale, che si è formato il miraggio dell'Altro. Un filo rosso unisce le traduzioni delle Mille e una notte e le Donne di Algeri di Delacroix; il sensuale Bagno turco e la Grande Odalisca di Ingres, dove il termine di origine turca che indicava una serva addetta a una donna viene erroneamente a significare la concubina di un harem, acquistando così le sfumature di una voluttà nascosta di cui la parola era priva; la serie infinita delle odalische di Matisse, incorniciate in ricercate magie arabesche e immerse nell'atmosfera sognante di un mondo sospeso; le improbabili Parigine in costume algerino di Renoir, dove il "costume" è il "nudo" di donne avvolte da esili veli, idoli carichi di gioielli e con sottili catene alle caviglie; le Salomé di Oscar Wilde o di Moreau, piene di simboli e di alchimie impenetrabili e inquietanti; l' Hérodiade di Mallarmé e la Salammbô di Flaubert, fino ai segreti delle città islamiche spiegate attraverso i veli delle loro donne nel Viaggio in Oriente di Gérard de Nerval. Sono solo alcune tra le figure più famose di un intero album e di un ricco archivio della memoria coloniale occidentale, dove è quasi costante l'associazione ai corpi femminili velati. L'Oriente che vi si mostra è il luogo misterioso di una fuga sognata e di forze oscure, in cui tutto è intriso di pericolosa e decadente sensualità e di fascino esotico. L'Oriente mediterraneo – questo «paese dei sogni e delle illusioni» come riconoscerà lo stesso Nerval alla fine dei suoi viaggi – è donna.

Ma questo velo non è che l'invito allo svelamento in quanto nasconde anzitutto la bellezza. Nella misura in cui il mondo arabo si caratterizza per essere una società dove la donna resta occulta, questi artisti la spogliano moltiplicando le scene dei bagni, degli harem, dei nudi di sultane e danzatrici. Proprio quell'interiorità che è un internamento diventa il punto di partenza della seduzione che per loro il luogo offre. Queste odalische, rinchiuse nei quadri o nelle pagine, sono svelate al piacere estetico e all'erotismo dello spettatore. Il velo dissimula un segreto, fa esistere un mondo del mistero e dell'occulto e, al tempo stesso, induce a toglierlo per mettere a nudo il segreto della donna orientale, vincerne la resistenza rendendola disponibile all'avventura.

Un ineluttabile desiderio di "svelare" le donne musulmane è entrato così a far parte del complesso ideologico dell'Occidente in quanto conquistatore-liberatore. La logica colonialista identifica il velo nell'oppressione e il disvelamento nella liberazione. L'immagine dell'Altro si è così fissata, da ambo le parti, nel doppio registro del velamento/svelamento. A questo proposito una rappresentazione, ma questa volta dal vivo, resta cruciale.

Algeri, 13 maggio 1958. Alcune donne arabe vengono esibite in pubblico, sopra un palco eretto nella piazza principale, mentre si tolgono il loro velo tradizionale. Per le autorità coloniali questa messa in scena, organizzata dalle mogli dei colonnelli francesi, è di grande importanza. La lotta contro il velo costituisce un punto di forza nella strategia di neutralizzazione delle resistenze e di assimilazione del popolo algerino all'interno dei valori della modernità francese.

Come scrive Franz Fanon in un testo dal titolo L'Algeria si svela, da parte dell'amministrazione coloniale viene definita una precisa dottrina politica così formulata: «se vogliamo colpire la società algerina nel suo contesto, nella sua capacità di resistenza, dobbiamo, prima di tutto, conquistare le donne; dobbiamo andarle a cercare dietro il velo con cui si nascondono e nelle case in cui l'uomo le rinchiude». La donna è l'insostituibile sostegno alla penetrazione occidentale nella società autoctona. Conquistare le donne, convertirle ai valori stranieri, strapparle alla loro condizione significa «impadronirsi di un potere reale sull'uomo e possedere i mezzi pratici, efficaci, per minare la struttura della cultura algerina». I colonizzatori si assumono il compito di parlare per la donna nativa oppressa dal patriarcato locale, ma solo per legittimare se stessi come liberatori e civilizzatori. In tutto ciò, ovviamente, resta il fatto che né la tradizione patriarcale né la modernizzazione imperiale sono la voce delle donne subalterne.

L'esposizione "svelata" delle algerine serve come linguaggio del potere coloniale, il cui messaggio è che l'esercito contribuisce alla loro emancipazione e, liberandole dalla segregazione in cui le tengono padri, mariti e fratelli, dà loro la possibilità di accedere all'universalità dei valori moderni e laici. A queste enunciazioni si accompagna anche una legge che consente alle autorità coloniali di togliere il velo, perquisire e fotografare le donne.

| << |  <  |