Autore Zachar Prilepin
Titolo Il monastero
EdizioneVoland, Roma, 2017, Sírin 57 , pag. 816, cop.fle., dim. 14,3x20,4x4,3 cm , Isbn 978-88-6243-190-3
OriginaleObitel' [2014]
CuratoreNicoletta Marcialis
LettoreCristina Lupo, 2017
Classe narrativa russa , storia criminale , paesi: Russia












 

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Indice


Da parte dell'autore                              7


LIBRO PRIMO                                      15

LIBRO SECONDO                                   437


Postfazione                                     747

Appendice Diario di Galina Kučerenko            756

[Alcune notazioni]                              782

Epilogo                                         797

Un pacan alle Solovki di Nicoletta Marcialis    801

Glossario degli acronimi                        813


 

 

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Pagina 17

- Il fait froid aujourd'hui.

- Froid et humide.

- Que sale temps, une véritable fièvre.

- Une véritable peste...

- Si ricorda come dicevano i monaci qui: 'Con la fatica ci salviamo!' - disse Vasilij Petrovič, spostando per un attimo gli occhi allegri e lampeggianti da Fėdor Ivanovič Ejchmanis ad Artėm.

Artėm per qualche ragione annuì, pur non capendo di cosa stessero parlando.

- C'est dans l'effort que se trouve notre salut? - chiese Ejchmanis.

- C'est bien cela! - rispose con piacere Vasilij Petrovič e scosse la testa così forte che rovesciò alcune bacche fuori dal cestino che teneva in mano.

- Allora abbiamo ragione anche noi - disse Ejchmanis sorridendo e guardando prima Vasilij Petrovič, poi Artėm e poi la sua compagna, che però non rispondeva al suo sguardo. - Sulla salvezza non saprei, ma di fatica i monaci se ne intendevano.

Artėm e Vasilij Petrovič, nei loro vestiti umidi e sporchi, con le ginocchia nere, battevano i piedi intirizziti sull'erba bagnata, mentre con le mani odorose di terra allontanavano dal viso zanzare e ragnatele. Ejchmanis e la sua donna erano a cavallo: lui su un ombroso stallone baio, lei su un anziano cavallo pezzato che pareva sordo.

Ricominciò a piovigginare, un'acquerugiola sporca ma pungente, strana per luglio. Si levò un vento inaspettatamente freddo persino per quei luoghi.

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Pagina 36

Nel monastero delle Solovki era rimasta una sola chiesa in funzione, quella di Sant'Onofrio, al camposanto. Da quando Ejchmanis aveva assunto la direzione dei campi era stata permessa nuovamente la celebrazione delle funzioni religiose e ogni recluso in possesso dell'attestato, un lasciapassare che serviva a entrare e a uscire dai confini del monastero, poteva parteciparvi.

- I coristi di Sant'Onofrio, certo! Nelle chiese della Russia sovietica non trovi nulla di simile - disse Vasilij Petrovič con un largo sorriso. - Moisej Solomonovič aveva chiesto anche di essere mandato lì, Artėm. Ma c'è già una lunga fila di cantanti d'opera. Certi baritoni e certi bassi...

Com'era ovvio, Artėm non venne assegnato al coro, ma alla demolizione del vecchio cimitero, dall'altra parte dell'isola.

Nella squadra con lui c'erano Avdej Sivcev, il ceceno Chasaev e il cosacco Lažečnikov, che si presentava sempre con nome e patronimico, "Timofej Stepanyč"; il che, in effetti, si confaceva perfettamente alla sua barba riccioluta e alle sue sopracciglia cespugliose: "Una barba e sopracciglia simili devono per forza avere un patronimico" aveva detto Vasilij Petrovič ad Artėm nel suo modo caldo, privo di sarcasmo.

- Abbattere le croci? - chiese Sivcev al sorvegliante, quando furono sul posto. - E perché?

Parlare con i sorveglianti era vietato, ma il divieto veniva continuamente ignorato.

- Qui ci verrà una stalla - disse cupo il sorvegliante. Dall'espressione non si capiva se scherzasse o dicesse la verità.

- Del monastero hanno già fatto una stalla, adesso tocca ai cimiteri - disse il contadino a bassa voce.

Il sorvegliante tacque, si sedette su una panchina accanto alla tomba più esterna e tirò fuori una papirosa dal portasigarette.

"Probabilmente l'ha preso a un qualche poveraccio di qui" passò per la mente a Artėm.

La guardia non aveva fucile: i sorveglianti giravano spesso disarmati, e per molti lavori la scorta non era proprio prevista. I soldati di scorta erano ingaggiati fra ex čekisti condannati per reati comuni ed erano perlopiù, va detto, autentiche canaglie.

Si diceva che, in circostanze favorevoli e, naturalmente, se in possesso di un'arma, il sorvegliante avrebbe potuto uccidere un detenuto per niente - per una parola offensiva, o perché gli cadeva l'occhio su una cosa, come quel portasigarette - e poi inventarsi una scusa del tipo "per poco non scappava, compagno comandante".

Ma Artėm di casi simili non ne aveva mai visti, credeva poco ai racconti, non aveva niente di prezioso con sé, e non aveva alcuna intenzione di scappare. Scappare dove? la vita ti sta sempre davanti, non riuscirai mai a raggiungerla.

Comparve il caposquadra, che si era attardato a raccogliere bacche. In mano aveva un'accetta, e ne reggeva un'altra sotto il braccio.

Già da lontano prese a urlare, sputacchiando le bacche mangiucchiate a metà:

- Che fate lì impalati? Abbiamo solo un giorno per finire il lavoro! Stasera qui non devono esserci più né il cimitero, né le croci... e nemmeno le lapidi! Ammucchiate tutto da una parte! Finché non finisce il lavoro, niente ritirata! Potete scavare fino a domattina! Dormirete nelle tombe, ma non ve ne andrete!

- Dobbiamo tirar fuori pure gli scheletri? - chiese Sivcev.

- Te lo tiro fuori io lo scheletro! - urlò ancora più forte il caposquadra.

- Subito al lavoro, fottuto mulo! - il sorvegliante si avventò all'improvviso contro Sivcev, balzando in piedi dalla panchina.

Quello fece un salto all'indietro, come davanti a un tizzone ardente, si aggrappò a una vecchia croce pericolante e cadde a terra assieme a lei.

Così il lavoro ebbe inizio.

"Un cimitero è un cimitero" cercava di tranquillizzarsi Artėm. "Un albero, quando lo tagli, è vivo; qui invece sono tutti morti."

All'inizio Artėm compitava i nomi dei monaci sepolti, ma dopo un'ora la sua memoria era piena. Gli rimase in testa solo una data: il suo compleanno, ma cent'anni prima, stesso giorno e sempre a maggio. La data della morte era 1843, dicembre.

"Poco..." rifletté Artėm, con un sorrisetto amaro rivolto al morto, o a sé stesso; si chiese anche: "Cosa succederà nel 1943?"

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Pagina 51

I viottoli all'interno del monastero erano ricoperti di sabbia, ovunque c'erano aiuole di rose, alla cui cura erano destinati alcuni detenuti. Qualche volta Artėm si era immaginato, in forme diverse, una conversazione di questo genere:

"Sei stato alle Solovki, ai lavori forzati? E cosa facevi?" "Coltivavo varietà rare di rose!" "Oh, maledetto giogo bolscevico!" In una delle aiuole centrali era disegnato un elefante di pietre bianche.

Il nome dell'animale (slon) poteva essere interpretato come acronimo (SLON), e significava: Campi a destinazione speciale delle Solovki.

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Pagina 53

Mentre andavano per bacche Vasilij Petrovič in un minuto di pausa aveva raccontato brevemente ad Artėm la storia di come era finito alle Solovki.

Nel 1924, attraverso vecchie conoscenze, a Vasilij Petrovič era capitato di ritrovarsi ad alcune serate dell'ambasciata francese: la fame del comunismo di guerra, in un passato recente, aveva insegnato a tutti a rimpinzarsi appena possibile, e i francesi davano da mangiare.

"Apparecchiano bene, ma il cibo è poco" si lagnava però Vasilij Petrovič.

Ci era andato una volta, due, alla terza sulla via del ritorno lo avevano invitato a salire in macchina e lo avevano portato all'OGPU. Fu accusato di essere una spia francese, sebbene l'indagine fosse assolutamente ridicola e non avesse provato nulla.

- Una vergogna! - si scaldava Vasilij Petrovič, ma dall'esito pesante: articolo 58, sezione 6: spionaggio.

- Lei invece? - aveva chiesto quella volta Vasilij Petrovič, strofinandosi le mani come se Artėm si preparasse a offrirgli una chicca.

- Dalla donna d'un altro ho bevuto latte cagliato, la frusta e la Siberia mi sono guadagnato - si era schermito Artėm.

- Artėm, io me ne infischio, ma deve sapere che qui non funziona così - aveva detto Vasilij Petrovič con una severità un po' affettata, alla maniera di un bravo insegnante. - Se, per dire, quelli della malavita ti chiedono come sei finito alle Solovki, devi rispondere. E durante l'inchiesta, non ha forse raccontato in base a quale articolo è finito in cella? In cella è difficile tacere, possono prenderti per un infiltrato.

- Che sciocchezza, - aveva detto Artėm - il più bravo a raccontare balle è proprio la chioccia.

- Ma non sarà mica un comune delinquente? - Vasilij Petrovič non demordeva. - Con quell'aspetto da controrivoluzionario fatto e finito! Non mi sembra capace di rubare!

Artėm aveva scosso la testa ridacchiando, ma non aveva risposto nulla. Camminava senza guardarsi indietro, viveva senza guardarsi indietro, impulsivo, sconsiderato. La sorte non mi ha risparmiato, e ora vivo senza conoscere il perdono. L'importante è non pensare mai a mio padre, altrimenti la vergogna mi divora e il cuore mi si spezza.

- ...E poi la vedo, frequenta soprattutto controrivoluzionari - continuava Vasilij Petrovič, gettando occhiate ad Artėm.

- Frequento persone normali - aveva risposto, visto che ci si aspettava da lui una risposta.

- E che rapporti ha una persona normale con i bolscevichi? - se ne era uscito Vasilij Petrovič con una domanda inattesa.

- Ho un fratello minore, è pioniere e tiene moltissimo al suo fazzoletto rosso. A me invece dei bolscevichi non importa nulla. Ci sono e basta. Restino pure - aveva risposto Artėm, ponderando bene le parole, come non era solito fare.

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Pagina 60

- Le nostre Solovki, che strano posto! - stava dicendo. - Č la prigione più strana del mondo! Non solo: noi pensiamo che il mondo sia enorme e meraviglioso, pieno di segreti e di incanti, di orrori e di tesori, ma abbiamo ragione di credere che oggigiorno le Solovki siano il posto più incredibile che si conosca. Qui è tutto inspiegabile! Lo sa, Artėm, che una volta, d'inverno, durante un disboscamento, trenta persone che non avevano raggiunto l'obiettivo fissato per quel giorno sono state lasciate nel bosco, e sono tutte morte congelate? Lo sa che, per aver ucciso e divorato un gabbiano di questi delle Solovki, hanno dato in pasto 'alle zanzare', con il consenso di Ejchmanis, tre besprizorniki legati nudi agli alberi? Ovviamente poi li hanno slegati e sono sopravvissuti, ma gli rimarranno per tutta la vita i segni neri delle punture. Sì, il nostro direttore ama molto la flora e la fauna. Sa che qui è stata allestita una stazione biologica che studia le profondità del Mar Bianco? Che su decisione di Ejchmanis i detenuti allevano con successo l'ondatra di Terranova, le volpi artiche, i conigli cincillà, le volpi brune, le volpi rosse e le volpi argentate, canadesi? Che qui abbiamo la nostra stazione meteorologica? Qui, Artėm! E ci lavorano detenuti!

Artėm alzò le spalle, non era molto stupito, in realtà non gliene importava nulla: zanzare, volpi, stazioni meteorologiche... la smetana con la cipolla, quella sì!

- Bene, e lo sa, - disse Vasilij Petrovič - che nell'ex albergo Petrogradskij, dietro l'Amministrazione, al piano terra vivono alcuni monaci che lavorano qui ma sono liberi e salariati, mentre al primo ci stanno i čekisti? E vanno d'accordo! Si fanno visita!

- Allo stesso modo quando i bianchi arrivavano via mare in terre inesplorate all'inizio si comportavano come ospiti degli aborigeni e poi, se quelli non manifestavano il desiderio di farsi il segno della croce e di fare a mezzi dell'oro, ne bruciavano i villaggi e li davano in pasto ai cani... che gli indiani non avevano neanche mai visto; immaginatevi il terrore di quei selvaggi! - disse Burcev, senza alcuna cattiveria, mentre con evidente piacere tagliava il lardo a fettine quasi trasparenti; sulle ultime parole sollevò la testa e sorrise a qualcuno che era entrato in silenzio nella cella e stava in piedi alle spalle di Artėm.

Era Mezernickj. Fece un rapido cenno di saluto ad Artėm che significava: stia seduto, stia seduto e, ridacchiando, si inserì nel discorso:

- La sola differenza è che quelli non volevano cominciare a farsi il segno della croce, mentre i nostri monaci non vogliono smettere.

- Signor Mezernickij, le sembra un argomento su cui scherzare?! - alzò le mani stupito Vasilij Petrovič.

- Compagno Mezernickij, - lo corresse quello - musicista dell'orchestra di fiati Mezernickij, lieto di fare la sua conoscenza! - e, senza cambiare tono, proseguì - Bene, eccovi un altro esempio: Vasilij Petrovič ha certamente toccato il tema dei paradossi delle Solovki; non vi sembra buffo che nella nazione del bolscevismo vittorioso, nel primo campo di concentramento organizzato dallo stato, la metà dei ruoli amministrativi sia affidata ai principali nemici dei comunisti, gli ufficiali delle guardie bianche? Mentre i vescovi e gli arcivescovi, sospettati a ogni passo di attività antisovietica, custodiscono i beni dei bolscevichi e del campo! Persino io, tenente Mezernickij, suono la tromba per loro, per il semplice motivo che loro non ne sono capaci, ma sono pronti, esclusivamente per questa mia abilità, a esentarmi dai lavori comuni. Sa cosa le dico? La lotta contro il potere sovietico non ha senso. Da soli non riescono a fare nulla! Poco a poco, passo dopo passo, noi li sostituiremo ovunque, dai palcoscenici teatrali al Cremlino.

Burcev lanciò un'occhiata preoccupata verso la porta, ma Mezernickij fece un gesto noncurante:

- Sciocchezze! Non più tardi di ieri ne parlavo con Ejchmanis in persona.

- Che tu ne abbia parlato o no, è affar tuo, ma quello che dici è del tutto superficiale - rispose Burcev senza irritazione e, anzi, con un sorriso. - Sei qui da tre anni, mio caro, e hai perso il senso della realtà. Avrai ragione riguardo agli strumenti a fiato, ma in campo economico poco a poco stanno imparando a cavarsela...

- Non so, non direi - lo interruppe Mezernickij, che preferiva di gran lunga parlare lui. - Fateci caso, miei cari: fra gli ufficiali l'unico a essere impiegato in lavori comuni è Burcev, e solo per colpa della sua, mi scusi mon cher, assurda testardaggine, mentre gli altri... - qui Mezernickj cominciò a contare sulle dita - un ispettore del settore dei rifornimenti, lo starosta del campo, un ingegnere-telefonista, un agronomo, due dirigenti della produzione e due responsabili dei laboratori artigiani... Non ho finito, non ho finito... Alla ferrovia ci sono i nostri! Alla centrale elettrica, i nostri! Alla tipografia, i nostri! Alla radio, i nostri! Della topografia si occupano i nostri! E persino degli animali da pelliccia!

- Non si capisce come abbiamo fatto a perdere la guerra contro i bolscevichi, con simili talenti - notò Burcev, a bassa voce, senza guardare in faccia nessuno.

- E tenete presente, - continuò Mezernickij, di nuovo senza far caso a nessuno - che dal '20 io sono assolutamente apolitico. Il comando dell'Armata Bianca con la sua stupidità e la sua viltà mi ha riconciliato una volta per tutte con i bolscevichi. Ma perché negare la realtà. Le Solovki sono il riflesso della Russia, solo che qui tutto è come sotto una lente d'ingrandimento: senza trucco, senza inganno, nudo e crudo.

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Pagina 446

All'odore bisognava farci l'abitudine.

Il tanfo di volpe incombeva su tutta l'isola, a volte correnti d'aria salata lo sospingevano verso il mare - ma subito parevano riportarlo indietro: grazie, non ci serve, viveteci voi con quella puzza bestiale.

Afanas'ev era evidentemente un ragazzo poco schizzinoso, ancorché poeta: la cosa gli fu indifferente sin da subito.

E anche Artėm si era abituato, a suo tempo.

La piccola isola era circondata da pannelli di recinzione, per impedire alle volpi di scappare verso il mare.

Gli uomini non li controllava nessuno - non c'era neanche un sorvegliante.

Nell'allevamento ogni volpe aveva un suo alloggio riscaldato da lampade a infrarossi e un fazzoletto di terra, e infatti Krapin, rivelatosi uomo pratico e di buon senso, le definiva scherzosamente "piccole proprietarie terriere".

Lasciavano circolare libera solo Fura - la volpe preferita di Krapin - in premio per la sua docilità, quasi da cane di casa; Artėm, naturalmente, la chiamava Furia. Lei e Artėm non erano amici, nonostante lui abbondasse con la razione di pesce. In cambio, quando vedeva Krapin, la volpe gli si gettava quasi al collo.

I lobi delle orecchie di Krapin, così attaccati alla testa, non sembravano più ad Artėm segno di un intelletto limitato, come un tempo. Anzi, adesso stavano a dimostrare un carattere affidabile. E anche quella sua larga nuca, così rossa che sembrava ripescata nel boršč.

Krapin e Artėm mostravano ad Afanas'ev l'allevamento, preparandolo al nuovo lavoro.

Č vero, Krapin serbava una certa antipatia per Afanas'ev, ricordandone l'amicizia con i comuni e gli incessanti giochi di carte. Ma qui, sull'isola delle Volpi, comuni non ce n'erano, e Krapin era pronto a riconsiderare quell'imbroglione coi capelli rossi.

- Settantatré volpi anziane, settantasei giovani, venti volpi azzurre e cinque zibellini... - raccontava Krapin secco, senza sprecare parole. - E una dozzina di gatte.

- I gatti servono a fare le muffole? - chiese Afanas'ev.

Krapin non rispose, quasi non avesse sentito.

- Quando le volpi perdono il latte le gatte allattano al posto loro - spiegò Artėm a bassa voce.

- E i gattini vanno a integrare il pasto delle volpi - chiarì Krapin che ovviamente sentiva tutto, e tirò le somme. - Gestione delle risorse!

L'allevamento era intersecato da vialetti.

L'ingresso di tutti gli alloggi volpini era a forma di tubo, così da ricordare alla volpe una tana, altrimenti gli animali non sarebbero stati tranquilli e avrebbero avuto paura di dormire.

Le volpi, come gli uomini, cercano di formare coppie stabili, ma sull'isola non c'erano maschi a sufficienza, perciò si era dovuta forzare la natura: gli argentei mariti venivano mandati a forza negli alloggi delle altre volpi argentate.

La monta delle volpi, anche se Artėm si vergognava a confessarlo, gli faceva talmente effetto da togliergli il fiato.

- Dovremmo organizzarci così con la baracca femminile - sognava ad alta voce il compagno di Artėm. - Perché far riprodurre le volpi, e non il poeta Afanas'ev?

Krapin fece di nuovo finta di non sentire il cicaleccio malizioso del nuovo lavoratore.

Era di quelle persone che non amano i capricci verbali e i giochetti di parole - pur essendo capaci di rispondere, talvolta anche a tono. In cambio, Krapin sapeva ben cogliere il comico della vita.

- ...Con cosa le nutriamo? - stava rispondendo ad Afanas'ev, apertamente invidioso della vita delle volpi. - Gli diamo pesce, e scarti di verdura che ci portano dalla cucina principale del monastero. Ma all'inizio è stato un problema serio: cosa dargli da mangiare. Non so come - si era deciso di usare le cornacchie. Di cornacchie ce ne sono molte, bisognava solo organizzarne la cattura. Ma la cornacchia è un uccello molto intelligente, altro che! Per provare abbiamo messo un'esca su una cartina di caramella spalmata di colla. Non si è dovuto aspettare molto, una cornacchia ci è volata sopra, ha beccato, la carta si è incollata. Bene, penso, ora l'acchiappo. E qui arriva un'altra cornacchia, si avventa sulla cartina, e la toglie dal becco della sua amichetta. E sono volate via, le furfanti.

Krapin si rollò una sigaretta, le dita robuste, gialle di nicotina e lucide di grasso, lavoravano agili.

C'era qualcosa di familiare in quei discorsi, lì piuttosto frequenti, e non era la prima volta che Artėm si sorprendeva a pensarlo. A volte si svegliava di notte: dov'è Ksiva? dov'è Šaferbekov? - guardava giù dal suo pancaccio - davanti agli occhi solo il pavimento.

Nell'alloggio di ogni volpe era collocato l'orgoglio di Krapin, una sua trovata - il volpofono. Per non dover controllare un centinaio e mezzo di recinti, Krapin aveva chiesto e ottenuto dal cremlino un'attrezzatura speciale - uno strumento per ascoltare ciascuna volpe.

- Sei seduto in ufficio, - spiegava ad Afanas'ev - vuoi sapere come sta Glaša. Fai il numero del suo alloggio e ascolti dal volpofono. Se i suoi volpacchiotti si agitano e abbaiano, vuol dire che è tutto a posto. Se li senti guaiolare, vuol dire che Glaša non ha abbastanza latte.

- E se c'è silenzio vuol dire che sono tutti crepati - concluse Afanas'ev nello stesso tono di Krapin; nel periodo in cui aveva lavorato a teatro si era un po' lasciato andare; ma anche prima non si distingueva certo per disciplina.

- ...Sono tutti crepati, - continuò Krapin sempre nello stesso tono - e l'addetto responsabile dell'allevamento, cioè tu, va alla Scure. In altre parole: all'inseguimento della volpe crepata. E la volpe non lo lascerà scappare lontano da sé.

"Però!" pensò Artėm, e strizzò l'occhio ad Afanas'ev: sentito? Pensavi di essere l'unico capace di scherzare, fulvo poeta?

Krapin addirittura leggeva libri - per Artėm era stata una vera sorpresa. Nel monastero Krapin non avrebbe mai osato farlo, ma sull'isola gli occhi indiscreti erano pochi - perché non leggere? Per quanto anche lì Krapin cercava di farlo in solitudine, era stato un puro caso che Artėm vedesse Jack London nelle mani dell'ex poliziotto, quando la settimana prima si era precipitato nella sua casetta per riferire che Glaša aveva partorito otto volpacchiotti in un colpo solo - un evento straordinario.

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Pagina 782

[ALCUNE NOTAZIONI]


Galina Andreevna Kučerenko fu amnistiata un anno dopo la condanna, quasi certamente per iniziativa di Ejchmanis.

Appena la navigazione riprese, a primavera, raggiunse Kem'. Da lì le sue tracce si perdono.

Su Ejchmanis ci dilunghiamo di più: impilando come cubi per costruzioni i fatti della sua biografia si può costruire una torre molto alta, certo un po' barcollante. L'importante sarà spostarsi al momento della sua caduta, per non finirne schiacciati.

E dunque: Fėdor Ejchmanis nasce il 25 aprile 1897 in una famiglia contadina, nel villaggio di Vec-Judup della provincia di Gros-Ezernsk del distretto di Goldingen del governatorato di Curlandia (a leggere ad alta voce questi nomi sembra l'inizio di una fiaba).

Nel 1904 la famiglia (padre, madre, tre figli - Teodor, come si chiamava all'inizio, aveva un fratello e una sorella) è rovinata, e perde i suoi appezzamenti di terreno.

Teodor termina sia la scuola del villaggio, della durata di due anni, sia il ginnasio, da privatista.

A partire dal 1909 lavora in una tipografia (nella città di Vindava) come fattorino. Poi diventa magazziniere, poi correttore di bozze, infine contabile di quella stessa tipografia: dai quattordici ai diciassette anni progredisce instancabile, è un ragazzo sveglio e capace.

Conclude contemporaneamente gli studi presso il Politecnico e l'Accademia militare di Riga.

E adesso, Teodor? Adesso a Mosca! Nella capitale, Ejchmanis è dipendente della "Muir & Mirrielies". Uno scatto lo ritrae sotto le insegne goticheggianti dell'omonimo grande magazzino: fronte alta, occhi attenti, labbra sottili - un giovane dall'aspetto aristocratico, nonostante le origini contadine; una bella foto. Lo scatto successivo è tragico, come da copione: sulla sua testa, simile a uno scarabocchio infantile, incombe una nube scura - presto echeggerà il tuono.

Nel 1916 è richiamato al fronte: Fėdor Ejchmanis, soldato del reggimento di fanteria di Akhaltsikhe.

Di lì a poco viene trasferito nella squadra di esploratori presso lo Stato Maggiore della 41a divisione. Motivazione: il coraggio dimostrato in più occasioni, i due titoli di studio (secondo alcune fonti aveva concluso da privatista anche il Politecnico di Riga), la perfetta padronanza della lingua tedesca.

Per quasi un anno combatte: ovvero, ammazza un certo numero di persone, partecipa a una serie di operazioni militari. Sempre in azione, di farsi fotografare con le medaglie non ha tempo.

Nella primavera del 1917 è ferito gravemente. Passa alcuni mesi ricoverato in diversi ospedali di Pietroburgo.

Nel novembre del 1917 (o sei mesi più tardi, secondo altre fonti) entra a far parte dell'RSDRP, il Partito operaio socialdemocratico russo. Nella primavera del 1918 è smobilitato. Lavora per qualche tempo come meccanico in una delle fabbriche di Pietroburgo. (Cosa ti serve? Lui sa fare tutto: contabile, correttore di bozze, esploratore, meccanico.) Da lì - attenzione - si trasferisce all'unità di polizia militare e controspionaggio (otdel voennogo kontrolja) dello Stato Maggiore operativo del Consiglio Militare Rivoluzionario (RVS) della repubblica.

Già nell'estate del 1918, su raccomandazione del vicepresidente della Čeka e membro del Collegio della Čeka panrussa (VČK), Jakob Peters, è nominato segretario della direzione dei servizi di controspionaggio della VČK (Osobyj otdel VČK) e posto a capo degli uffici di cancelleria della stessa.

Nel giugno del 1919 un'altra progressione di carriera: il giovane ventiduenne è chiamato a dirigere il gruppo operativo aggregato al treno del Presidente del Consiglio Militare Rivoluzionario della Repubblica, glorioso condottiero dell'Armata Rossa, secondo solo a Lenin: Lev Trockij.

Il treno di Trockij si sposta con velocità febbrile per tutto il territorio della repubblica, piomba improvviso al fronte - orientale, occidentale, meridionale - promulga fulminee ordinanze, arresta, giudica, fucila disertori e sciacalli, fa propaganda e agitazione politica, arruola contadini nell'Armata Rossa, dispone unità antiritirata, attacca, sbarca gruppi d'assalto, interroga, prende in ostaggio specialisti militari obbligandoli a lavorare per il potere bolscevico, finisce spesso sotto il fuoco nemico, deraglia. Trockij chiama il suo treno "comando volante".

Ejchmanis è al centro di tutto ciò, ed è costantemente sotto gli occhi di Trockij.

Nel settembre del 1920, quando le operazioni dell'Armata Rossa si spostano in Asia Centrale, Ejchmanis è posto a dirigere l'unità attiva dei servizi di controspionaggio sul fronte turkmeno, quindi gli è affidata la direzione della Čeka di Kazalinsk.

Nel novembre del 1920 è presidente della Čeka della regione di Semireč'e. Elabora con successo un piano per la liquidazione dei reparti cosacchi del colonnello Bojko.

L'inizio del 1921 vede il ventiquattrenne Ejchmanis presidente della Čeka della Repubblica del Turkestan (ovvero di un territorio pari a quello di un paese europeo di grandi dimensioni).

Č l'organizzatore dell'assassinio di uno dei più pericolosi nemici del potere sovietico, l'atamano Aleksandr Dutov. Nella notte fra il 6 e il 7 febbraio 1921, nella cittadina di Suidun, in Cina, Dutov viene ucciso nel suo ufficio da un colpo sparato a bruciapelo. Una guardia molto numerosa e ben addestrata non era bastata a salvarlo.

Nello stesso anno, nella notte fra l'8 e il 9 luglio, Fėdor Ejchmanis perde la prima moglie, travolta da un fiume di fango durante la devastante inondazione di Alma-Ata.

Soffoca la rivolta dei contadini (dehkan), insorti insieme ai soldati della terza brigata di frontiera a Naryn.

Liquida le unità partigiane di Israel Beck e ne organizza successivamente l'assassinio all'interno del suo quartier generale.

(Qui si vede già bene il tratto di Ejchmanis. Non poteva certo immaginare - lui, organizzatore dei primi omicidi politici su commissione non solo nel paese, ma anche fuori dai suoi confini - che con quello stesso tratto, anzi proprio con il suo tratto, molto tempo sarebbe stato scritto anche l'omicidio all'interno della propria casa del compagno Trockij, che un tempo di Ejchmanis era stato il diretto superiore.)

Successivi omicidi che vedono la partecipazione diretta o indiretta di Ejchmanis: il leader del movimento antibolscevico dei basmachi Dzhanuzakov e uno dei suoi comandanti più eminenti, Enver-Pascià.

(Č la guerra: anche loro lo avrebbero ucciso, e in effetti tentativi furono fatti. Ejchmanis con il tempo si era conquistato l'odio dei basmachi, dei bey e di tutti gli abitanti dell'Asia Centrale; a quel demonio pieno di inventiva imputavano persino i morti alla cui uccisione non aveva partecipato.)

A questo punto Ejchmanis, per ordine speciale del Comitato centrale del Partito comunista pansovietico (dei bolscevichi) si sposta a Buchara, dove porta felicemente a termine una missione segreta, la cacciata dell'ultimo emiro di Buchara da Pyandzh.

Il 2 giugno 1922 Ejchmanis è trasferito a Mosca: gli viene assegnata la direzione del secondo dipartimento (Medio Oriente e Asia Centrale) del Comando operativo segreto della Direzione Politica di Stato (GPU) presso il Commissariato del popolo agli Affari interni (NKVD) della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR). Fermiamoci nuovamente e riflettiamo con calma: un venticinquenne riceve il controllo operativo del Medio Oriente e dell'Asia Centrale - una vastità di scala degna del Macedone.

All'inizio del 1923 a Ejchmanis viene proposto un incarico direttivo ai vertici dello SLON (Campi a destinazione speciale del nord), il primo campo di concentramento fondato dalla Repubblica Sovietica, sul territorio di un ex monastero.

(Così, con questi imprevedibili zigzag, procede tutta la sua biografia, terribile quanto sbalorditiva.)

Gli obiettivi di questa nuova attività vengono delineandosi poco alla volta: si tratta di mettere a punto un meccanismo di sfruttamento efficace del lavoro dei detenuti.

Dettaglio importante: il funzionamento dello SLON non sarà regolato dalle leggi della nazione. Ovvero: fate ciò che ritenete necessario, compagni. Avete grande esperienza di lavoro autonomo: nell'Asia sovietica, per esempio.

Questo nuovo trasferimento non rappresenta un esilio (sud-Mosca-nord), al contrario: a Ejchmanis si affida l'organizzazione dell'ennesimo super-importante esperimento statale.

Oltre a questo, alle Solovki erano stati convogliati tutti i più pericolosi nemici del potere sovietico - i dirigenti bolscevichi non potevano fare miglior scelta che affidarli personalmente a Ejchmanis.

Č sul piroscafo "Gleb Bokij" che raggiunge la nuova sede - il nome del piroscafo appartiene, ovviamente, a un uomo in carne e ossa, un Čekista, tutore dello SLON, compagno più anziano di Ejchmanis già dal Turkestan e suo nuovo protettore dopo Jakob Peters.

E ora alcuni dettagli curiosi.

Il 13 marzo 1925 viene aperta alle Solovki una sezione della Società etnografica per lo studio del territorio di Archangel'sk (SOAOK): il decreto proviene dalla Direzione del campo di lavoro delle Solovki a destinazione speciale (USLON). Presidente degli etnografi, per quanto possa sembrare strano, è Fėdor Ejchmanis.

Il 12 maggio 1925 un ulteriore decreto dell'USLON trasforma la parte nord-orientale dell'isola Bol'soj Soloveckij in una grande riserva naturale. Sul territorio della riserva è vietata la caccia, la raccolta di uova e piume, il taglio degli alberi. Quindi, per iniziativa di Ejchmanis, è avviato un vivaio di larici e altre conifere, successivamente poste a dimora su tutta l'isola.

(Docile, l'immaginazione ritrae un giovane - tiene in mano una piantina da trapianto, oppure, ecco, sul palmo della sua mano c'è un uccellino, un batuffolo color limone.)

Gli etnografi solovkiani (è il loro secondo lavoro: di professione sono detenuti) e l'ex organizzatore di attentati che li capeggia si dedicano con successo ad acclimatare l'ondata e a razionalizzare lo sfruttamento del legname.

Ejchmanis e i suoi specialisti studiano le isole dell'arcipelago, gli eremi dell'isola Anzer, i labirinti neolitici sull'isola Bol'soj Zajackij, la cappella del Monte Tabor sulla Bol'šaja Muksalma, trovano e descrivono i rifugi sotterranei degli anacoreti.

Un dato impressionante: 138 centri scientifici dell'URSS corrispondono con gli etnografi di Ejchmanis.

Nell'estate del 1926 Ejchmanis riceve la visita di ospiti giunti dalla capitale: il professor Smidt (Accademia delle scienze dell'URSS), il professor Rudnev (Ufficio etnografico centrale per lo studio del territorio), il professor Benken (Università di Leningrado). I professori sono stupefatti, a dir poco, dei risultati del lavoro svolto, e insistono perché il SOAOK Si trasformi in autonoma Società etnografica per lo studio del territorio delle Solovki (SOK).

Il SOK nasce nel novembre del 1926.

In dicembre vede la luce la prima pubblicazione scientifica del SOK, una raccolta di materiali. Negli anni successivi ne usciranno altre venticinque. L'importanza di molte monografie è a tutt'oggi indiscutibile.

Andiamo avanti: un'ulteriore passione del fuciliere lettone è il museo, cui vengono destinate la chiesa dell'Annunciazione e una galleria riscaldata nel tratto di muraglia vicino alla torre Bianca.

Dopo l'incendio divampato nel monastero (di cui i bolscevichi non sono affatto responsabili, a onta delle leggende che circolano: perché avrebbero dovuto bruciare il proprio campo?) nel museo confluiscono 1.500 pezzi provenienti dall'archivio del monastero, 1.126 libri antichi e manoscritti, 2500 icone, stoviglie di legno e di stagno appartenute ai fondatori del monastero, la croce di pietra bianca del beato Savvatij, l'icona miracolosa della Madre di Dio di Korsun' (poi detta Sosnovskaja) ricoperta da una riza d'argento dorato lavorata a mano, un'acheropita del Salvatore opera del beato Eleazar Anzerskij, un prezioso drappo di broccato, una collezione di armi antiche restaurate, berdiche, lance, frecce, cannoni, archibugi. In tutto dodicimila pezzi da esposizione.

E ancora: programmi di sala dei teatri del campo, giornali e riviste pubblicate nel campo, fotografie che ritraggono la fattiva vita dei detenuti, le loro opere letterarie e altri oggetti fatti a mano da loro. Anche questa è storia.

Contemporaneamente per ordine di Ejchmanis è adibita a museo una parte della cattedrale della Trasfigurazione. Nel presbiterio una esposizione di icone, nella cappella dell'Arcangelo una collezione di incisioni originali dei secoli XVIII-XIX con le relative lastre di rame, il baldacchino di legno scolpito del 1676, una collezione di lumi e candelieri del XVII secolo.

Le reliquie di Zosima, Savvatij e German che čekisti curiosi avevano riportato alla luce riprendono il proprio posto nei reliquari d'argento.

(Forse Ejchmanis sperava che portando loro rispetto ne avrebbe avuto protezione? Si sbagliava.)

Č degno di menzione il fatto che nel maggio del 1926 per intercessione di Ejchmanis è dimezzata la pena detentiva di Naftalij Frenkel'.

Divenuto in seguito tenente generale dell'NKVD, Frenkel' è a tutt'oggi ricordato come insuperato razionalizzatore del lavoro forzato.

Nell'agosto del 1929 Ejchmanis è richiamato a Mosca, a dirigere il terzo dipartimento della Sezione speciale della Direzione Politica Unificata di Stato dell'URSS (OGPU): controspionaggio internazionale. Č un lavoro adatto a lui: si era già adoperato in quella direzione durante la grande guerra imperialistica.

Un anno dopo: nuova nomina, la più alta e la più terribile che si possa immaginare - il 25 aprile a Ejchmanis viene affidata la direzione di tutti i campi dell'epoca: i campi delle Solovki, di Visera, del Nord, del Kazachstan, dell'Estremo Oriente, della Siberia e dell'Asia Centrale.

Č a capo della Direzione dei campi dell'OGPU, imperatore di quello che sarà poi chiamato Arcipelago GULAG. (Ha corso tanto, il simpatico fattorino di tipografia dalle gambe sottili, ha corso, ha corso, ed è arrivato. Sulla vetta, si guarda attorno. Non ho sbagliato strada?)

Non ha però modo di applicarsi a fondo: dopo poco più di un mese lascia la carica, che viene assunta da Lazar' Kogan. I documenti che aveva appena ricevuto passano di mano.

(Va detto che Ejchmanis non dirige il GULAG vero e proprio, perché l'acronimo GULAG - un suono metallico che fa pensare all'ascia che cade sul collo - compare solo nel novembre di quell'anno.)

Il 16 giugno 1930 il partito invia il suo fuciliere lettone in terre lontane.

Ejchmanis ha il compito di organizzare e guidare la leggendaria spedizione a Vajgač.

(Rileggiamo i titoli delle antiche cronache e delle saghe precedenti: spionaggio nella Prima guerra imperialistica; Čeka di Pietrogrado; treno di Trockij; regioni calde dell'Asia, Turkmenistan, Buchara; Solovki e dintorni; Mosca, spionaggio internazionale, quattro rombi sulle mostrine, risponde direttamente al Cremlino; i campi di tutta la Rus', il più grande impero schiavistico del mondo, a sua personale disposizione; e ora: Vajgač, l'Artico, permafrost, 50 sotto zero.).

[...]

Nell'incartamento Ejchmanis figurano le seguenti accuse.

Assoldato da Jakob Peters lavora al servizio dello spionaggio inglese nel 1921, cioè quando Ejchmanis era a capo della Čeka del Turkestan (palesemente assurdo).

[...]

Nel 1936, durante un viaggio a Londra, trasmette a Trockij documenti segreti riguardanti il potenziale difensivo dell'URSS, dettagli sull'attività dell'NKVD all'estero e i codici degli organi di spionaggio. (Sciocchezze, ma i lettori delle prime pagine devono fremere d'ira e di paura.)

Ancora nel 1936 è coinvolto nella preparazione di un attentato terroristico per l'assassinio del presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo (SNK) Molotov (se fosse stato sul serio coinvolto, Molotov sarebbe stato assassinato).

Comparso davanti al collegio militare del Tribunale Supremo dell'URSS Fėdor Ivanovič Ejchmanis conferma ogni accusa, è condannato alla massima pena e lo stesso giorno, 3 settembre 1938, fucilato nel poligono di Butovo.

Aveva quarantun anni.

In seguito comunicarono alla sorella che Ejchmanis era morto per arresto cardiaco il 17 febbraio 1943. Alla figlia di Ejchmanis scrissero, nel 1955, che il padre era stato fucilato il 15 ottobre 1939. Bizzarrie della posta sovietica. In un sotterraneo un segretario pazzo lavora senza sosta, spedisce lettere a parenti e amici. Le date le mette a casaccio, si diverte.

Non chiederti per chi suona la cassetta della posta.

[...]

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UN PACAN ALLE SOLOVKI

di Nicoletta Marcialis


Romanziere tra i più noti e discussi del suo paese, vincitore di numerosi e importanti riconoscimenti letterari - Nacional'nyj Bestseller nel 2008, Super Nacional'nyj Bestseller nel 2011 - amato e odiato, soprattutto per le sue posizioni politiche, Zachar Prilepin affronta in questo Monastero monumentale e pluripremiato - 2014: Kniga Goda (Libro dell'anno), 2014: Bol'šaja Kniga (Grande libro), 2016: premio "Ivo Andric", 2016: premio del Governo Federale russo per la cultura - un tema spinoso e, come sempre nei suoi romanzi, estremamente attuale per la Russia post-sovietica, preoccupata di fare i conti con la propria storia. Una fugace navigazione su internet è sufficiente a convincersi dei fiumi di inchiostro (virtuale) che la pubblicazione del romanzo ha fatto versare, lodi e stroncature, serrati confronti con Solženicyn, analisi narratologiche e interpretazioni politiche.

Diamo la parola all'autore: "Quando ho cominciato a scrivere Il monastero pensavo di scrivere un racconto, o al massimo un romanzo breve. Poi però ho iniziato a documentarmi, e ho scoperto una quantità straordinaria di storie incredibili, in cui čekisti e antičekisti, rivoluzionari e controrivoluzionari, russi, ortodossi, musulmani, caucasici, polacchi, chi volete voi, entrano nelle più complicate e varie forme di interrelazione. Tutto ciò mi ha dato alimento. Ed ecco i risultati [...] Questo non è un libro sul GULAG. Il GULAG nasce dopo le Solovki. Ciò che hanno descritto Solženicyn e Šalamov non sono le Solovki. Nel mio romanzo c'è la storia della prima fase del sistema penitenziario sovietico. C'era una qualche verità-non verità, c'era l'idea di forgiare l'uomo nuovo. Č fallita. Hanno perso. Hanno prodotto solo una poltiglia sanguinolenta. Ma per me era importante capire dove fosse l'inizio, come tutto ciò succeda - un passo dopo l'altro, piena di illusioni, la gente marcia verso l'inferno. Č questo che trovo interessante."


A differenza dalla maggioranza (o forse totalità) dei testi che compongono la letteratura concentrazionaria - memorialistica o narrativa, ma non solo - opera di testimoni che hanno vissuto in prima persona i campi di lavoro (Solženicyn e Šalamov, Evgenija Ginzburg e Evfrosinija Kersnovskaja, Jacques Rossi, per non citarne che alcuni), Il monastero di Prilepin è un'opera puramente finzionale, un romanzo storico, in cui a personaggi realmente vissuti - la biografia di Ejchmanis coincide in ogni sua virgola con la biografia di Ejchmans, tanto che ci si chiede il perché del cognome modificato - e fatti realmente accaduti si intrecciano personaggi e episodi inventati. L'incipit, il brano di conversazione mondana in francese con cui si apre il Libro primo, rappresenta del resto un evidente omaggio a Guerra e pace: un altro monumentale romanzo epopea, nato dall'esigenza di capire gli antefatti dell'insurrezione decabrista. Né l'autore, classe 1975, né i suoi genitori, un insegnante di storia e un'infermiera, hanno avuto esperienza diretta della 'macchina degli arresti'. Questa 'anomalia' è corretta con l'introduzione di un bisnonno, molto vecchio e piuttosto ruvido: da giovane, anzi giovanissimo, Zachar Petrovič (o Zachar Petrov, come lo chiamano in paese) ha trascorso tre anni di detenzione alle Solovki. Gliene restano - ma più che di lascito parlerei di consustanzialità - una salute di ferro, un lessico particolare e soprattutto la brutalità, ben svelata dalla crudele uccisione del cucciolo nelle prime pagine del romanzo. Di questa detenzione a casa non si parla, ma i grandi a volte ne fanno cenno a tavola, stimolando la curiosità del bambino Zachar: "Per me" ricorda "era come se fosse andato in Persia a fare razzie al tempo dello zar Aleksej il Mite, o avesse raggiunto Tmutarakan' col principe Svjatoslav dal cranio rasato."

Frase apparentemente innocente, da scolaretto, che nella partitura dell'opera funge da esposizione del tema centrale: la collocazione del periodo sovietico, e in particolare delle sue pagine più drammatiche, nelle Cronache russe, vista con gli occhi di chi, non essendone stato testimone, può aspirare a esserne storico. E narratore.

Il compito di annodare in un'unica catena i diversi momenti della storia patria è affidato nel romanzo a tre personaggi principali: Artėm, Fėdor Ejchmanis e il vladika Ioann. A ognuno di loro appartiene un punto di vista diverso, organico alla loro natura.

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