Copertina
Autore Zachar Prilepin
Titolo Il peccato
EdizioneVoland, Roma, 2012, Sírin 45 , pag. 240, cop.fle., dim. 14x20,5x1,8 cm , Isbn 978-88-6243-128-6
OriginaleGrech
CuratoreNicoletta Marcialis
LettoreLuca Vita, 2013
Classe narrativa russa
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Indice


Che giorno sarà                     7

Il peccato                         40

Karlsson                           71

Demonio e gli altri                88

Ruote                             107

Sei sigarette, eccetera           129

Il quadrato bianco                168

Non succederà niente              175

In altre parole                   188

Il sergente                       209


 

 

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Pagina 7

CHE GIORNO SARŔ


Eravamo senza cuore. La felicità è leggera - più sei felice, più sei leggero. Il cuore, invece, pesa. Ne facevo a meno. E anche lei. Eravamo due esseri senza cuore.

Tutto intorno a noi era diventato meraviglioso. A volte sembrava danzarci accanto, questo "tutto"; a volte restava sospeso, si offriva, immobile, al nostro godimento. Noi ne godevamo. Invulnerabili, niente ci strappava qualcosa di diverso da una bella risata.

Capitava che uscisse. Io la aspettavo. Impaziente, incapace di starmene a casa, accorciavo la distanza, e il tempo dell'attesa, scendendo in cortile.

In cortile scorrazzavano i cuccioli, quattro. Avevamo dato a ognuno un nome: Recluta, un robusto randagio sempre allegro; Geisha, una cagnetta fulva, furba, con gli occhi obliqui da orientale; Leprotto, un piccoletto bianchiccio che voleva sempre competere con Recluta e ne usciva regolarmente sconfitto; e l'ultima, Greenlan, che chissà come c'era venuto in mente quel nome, ma ci pareva le stesse a pennello, a quella principessa con gli occhi umidi, che si faceva la pipì addosso, piena di paura e di adorazione, appena la chiamavamo.

Sedevo sul prato, circondato dai cuccioli. Recluta si rotolava a pancia all'aria, quando lo chiamavo sollevava la testa come per dire "Eccomi! Si sta bene, eh?" Geisha e Leprotto apparivano e sparivano, frugando con il naso nell'erba. Greenlan non si allontanava dal mio fianco, se allungavo la mano per accarezzarla si sdraiava sulla schiena e guaiolava. Tutto il suo aspetto diceva che sì, aveva in me una fiducia sconfinata, e mi abbandonava il suo roseo pancino, e però aveva anche tanta paura, ma tanta che forse non sarebbe riuscita a sopportarla. Temevo davvero che il suo cuore non avrebbe retto. "Su, su, tranquilla, bella mia!" cercavo di calmarla, mentre osservavo con curiosità la pancia e i suoi attributi. "Ma guarda! sei una femminuccia anche tu!"


Come fossero finiti i cuccioli nel nostro cortile, non lo sapeva nessuno. Un mattino, follemente felice anche nel sonno, le mani ricolme dei seni del mio amore addormentato con la schiena contro di me, avevo sentito un forsennato abbaio cucciolesco - sembrava che i cagnolini dessero corpo a qualcosa di inespresso dentro di me, dessero voce al mio stato d'animo. Destato dal chiasso all'inizio mi arrabbiai, mi avevano svegliato, e soprattutto potevano svegliare la mia Marusja; ma subito avevo capito che non abbaiavano tanto per abbaiare, stavano implorando cibo dai passanti. Ne sentivo anche le voci, in genere brusche: "Ho detto che non ho niente! Via! Levatevi dai piedi!"

Mi infilai i jeans, abbandonati su una sedia in cucina - ci veniva voglia ovunque e rotolavamo per tutta la casa, fino allo stremo delle forze, e solo la mattina, con un sorriso svagato, ricostruivamo i nostri percorsi dai mobili spostati e rovesciati e dal generale, creativo disordine - insomma mi infilai i jeans e corsi fuori con le ciabatte, che nella mia testa associavo alla mia felicità, al mio amore e alla mia meravigliosa vita.

I cuccioli, scacciati dall'ennesimo passante, frugavano frenetici nell'erba, estraendone rifiuti di vario genere, si contendevano risecchiti frammenti di osso, annusavano un barattolo vuoto, tutte cose che chiaramente non soddisfacevano la loro fame. Fischiai, e si precipitarono verso di me - magari la felicità mi corresse addosso con la stessa veemente prontezza! Mi circondarono, strusciandosi festosi, e intanto mi annusavano le mani: dacci da mangiare, zio!, diceva tutta la loro gioiosa vivacità.

- Subito ragazzi! - dissi io, e in due balzi fui a casa.

Aprii il frigo, mi inginocchiai in preghiera al suo cospetto. Con la mano cincischiavo e lisciavo le mutandine bianche di Marusja, che erano lì accanto, sul pavimento dell'anticamera - la cosa naturalmente non mi stupiva affatto. Le mutandine erano morbide. Il frigo, vuoto. Marusja e io non eravamo mangioni, non ci cucinavamo mai niente come si deve, avevamo altro da fare. Non ci interessava la complessa architettura di un minestrone, ci arrostivamo delle bistecche e le mangiavamo là per là, oppure ci preparavamo un uovo sbattuto e ce lo dividevamo tra grandi baci appiccicosi. In frigo non c'era proprio nulla, solo un uovo, solitario come uno spettatore addormentato nel cinema deserto, poltrone vuote alla sua destra e alla sua sinistra. Aprii il freezer, e vidi con gioia che conteneva un cartone di latte. Lo strappai al giaciglio dove riposava da tempo, corsi in cucina e con rinnovata gioia ci scovai della farina. L'olio di girasole era al suo posto, sul davanzale della finestra. "Vi faccio i bliny!" Venti minuti più tardi avevo prodotto una ventina di mostricciattoli, ognuno diverso dall'altro, mezzo crudi e mezzo bruciacchiati, ma del tutto commestibili. Io stesso ne assaggiai uno e non ci trovai nulla da ridire. Scesi i gradini a due a due, sentendo nella mano il calore dei bliny nel sacchetto di plastica, e uscii in strada. Mentre facevo le scale temevo che i cuccioli se ne fossero andati, ma mi tranquillizzai subito, sentendo le loro voci.

- Ragazzi, siete meravigliosi! - gridai. - Forza, assaggiamo questi bliny!

Tirai fuori dal sacchetto qualcosa che sembrava una polpetta informe - né il resto era meglio. I quattro spalancarono a tempo le giovani fauci ardenti. Recluta - quello che poi si chiamerà Recluta - fu il più veloce, scansò i fratelli con una testata e afferrò il boccone rovente, si scottò, lo lasciò cadere. Senza mai mollare, lo trascinò sull'erba in due o tre riprese per un mezzo metro, ne sbocconcellò frettoloso i bordi e infine con una brusca rotazione della testa lo ingoiò e tornò a balzi verso di me.

Sventolando i bliny in aria, per farli un po' raffreddare, io cercavo di distribuirne parti uguali ai cuccioli, ma Recluta riusciva comunque a mangiare il suo e a rubarne ai familiari. Lo faceva bene, senza umiliare nessuno, anzi, con l'aria scherzosa. Chi ne beccava di meno era quella che poi si chiamerà Greenlan, e io, che dopo qualche minuto avevo imparato a riconoscere i cuccioli - inizialmente mi parevano indistinguibili - cominciai a tenere lontano da lei i fratellini invadenti e sopraccigliuti e la sorella furba e rossiccia come una volpe, perché nessuno strappasse a quell'animaletto tenero, maltrattato persino in famiglia, il suo bocconcino.

Così ebbe inizio la nostra amicizia.


Ogni volta mi racconto la stessa balla, e cioè che un attimo prima che l'amore mio svolti l'angolo io sento il suo avvicinarsi, qualcosa cambia nell'aria ferma e colorata di azzurro, un'auto frena in lontananza. Comunque, sorrido già come un cretino quando Marusja è ancora a trenta metri, e continuo a sorridere e a ripetere ai cuccioli: "Marsh! tutti incontro al mio amore! O faccio male a riempirvi di bliny, mangiapane a tradimento?"

I cuccioli balzano in piedi e corrono dimenando i fianchi cicciottelli e inciampando per la gioia verso il mio amore, con il rischio di graffiarle le meravigliose caviglie: Marysen'ka cerca di scavalcarli, tenendoli lontani con la sua borsetta nera. Tutto in me trema e si contorce come le code dei cuccioli. Continuando a schermarsi con la borsetta Marysen'ka giunge sino a me, mi si siede accanto con impagabile eleganza, porge al mio bacio la guancia fresca, profumata, liscia come un ciottolo; al momento del bacio si scansa di un decimillimetro, o meglio sobbalza - giusto, non mi sono rasato. In tutto il giorno non trovo mai un momento per farmi la barba, sono troppo occupato ad aspettare il suo ritorno. Non posso distrarmi. Marusja prende uno dei cuccioli con due mani e lo osserva ridendo. La pancina rosa, tre peletti, su cui scintilla a volte un misera gocciolina chiara.

- La bocca sa di erba, - dice Marusja, e aggiunge in un sussurro - di prato.

Lasciamo i cuccioli a giocare e andiamo al supermercato a comprare qualche ghiottoneria da due soldi, irritando le cassiere con le montagne di spiccioli che Marusja estrae dalla borsetta, e io da miei jeans. Spesso si irritano al punto da non contare nemmeno, raccolgono lo spicciolame con un gesto schifato e lo riversano nello scomparto angolare della cassa, con le altre monetine, non quelle di rame ma quelle bianche di melchiorre, da una copeca e da cinque copeche, totalmente prive di valore nel nostro paese sempre più povero. Noi ridiamo, del fastidio degli altri non ce ne importa nulla, e il loro disprezzo non ci umilia affatto.

- Facci caso, oggi non pare martedì, - osserva Marusja quando usciamo in strada - pare piuttosto venerdì. Di martedì ci sono meno bambini per strada, le ragazze si vestono in maniera più sobria, gli studenti non vagano distratti, le macchine non vanno tanto di fretta. Sì, il tempo è decisamente slittato. Il martedì è divenuto un venerdì. Chissà che giorno sarà domani?

Io rido della sua lingua forbita, parlare così è uno dei nostri giochi. Poi riprendiamo a esprimerci come gli altri, con costrutti improbabili, interiezioni, allusioni e risate. Qui il nostro vero linguaggio non è riproducibile, perché ogni frase ha la sua preistoria, ogni battuta è così deliziosamente stupida che a ripeterla una seconda volta morirebbe, è un fiorellino nato per subito appassire. Parliamo la lingua degli innamorati, delle persone felici. Nei libri non si scrive in quel modo. Si può solo catturare qualche frase. Per esempio:

- Sono stata da Valies - dice Marusja. - Mi ha chiesto in moglie.

- Moglie di chi?

Che domanda fessa. Di chi poteva essere?


Konstantin L'vovič Valies, attore, era ormai un vecchio corpulento con un cuore pesante. Suppongo che non battesse nemmeno più, ma che si sfaldasse un po' alla volta.

Anche gli occhi, grandi occhi scuri da ebreo, avevano perso la loro naturale vivacità sotto le palpebre pesanti come bruchi. Con me, che ero un ragazzo, si dava ancora un tono, faceva dell'ironia mordace - o così credeva - e aggrottava la fronte con degnazione condiscendente. Con lei invece non poteva nascondere di essere fragile e indifeso, la sua debolezza faceva l'effetto di una pancia nuda, bianca, intravista attraverso una camicia male abbottonata.

Una volta io, che mi guadagnavo da vivere in tutti i modi consentiti dalla legge, tra cui quello di scribacchiare le sciocchezze che solitamente servono ai giornali per riempire le pagine interne, chiesi a Valies se potevo intervistarlo.

Mi invitò da lui.

Ero un po' in anticipo, e mi fermai a fumare sulla panchina davanti a casa sua. Finita la sigaretta mi avviai al portone. Un'occhiata all'orologio: mancavano ancora cinque minuti all'ora stabilita. Tornai verso l'altalena che avevo appena superato, la accarezzai con le dita, su cui rimase la sensazione di freddo e di ruggine dei braccioli di ferro. Mi sedetti sull'altalena e mi diedi una leggera spinta con i piedi. L'altalena scricchiolò. Era un suono familiare, mi ricordava qualcosa. Diedi una seconda spinta e mi misi in ascolto: "V-va... li... es..." Ancora una volta: "Va-li-es" si sentiva chiarissimo. "Va-li-es" cantava l'altalena. Sorrisi, e saltai giù, un po' goffamente. L'altalena alle mie spalle lanciò un breve grido rauco e metallico che non riuscii a decifrare. Le rispose a tono la porta d'ingresso, bofonchiando qualcosa al mio passaggio.

Ho dimenticato di dire che Valies era una vecchia gloria del Teatro della Commedia della nostra città: altrimenti che motivo avrei avuto di intervistarlo? Nessuno mi chiese chi fossi, la porta si spalancò, nelle migliori tradizioni sovietiche, e Konstantin L'vovič mi sorrise:

- Č lei il giornalista? Si accomodi...

Non molto alto, tarchiato, il collo rugoso tradiva l'età, ma la voce aveva conservato il timbro ricco e bene impostato.

Valies fumava, scuoteva la cenere con colpetti rapidi, gesticolava, alzava le sopracciglia e le teneva sollevate per un tempo superiore a quello di chiunque non fosse un artista. Ma tutto ciò gli si addiceva, e le sopracciglia alzate, e gli sguardi, e le pause. Nel conversare inscenava gli uni e le altre secondo un ordine preciso, scacchistico. Persino la sua tosse era quella di un artista.

"Mi scusi" non mancava di dire dopo aver tossito, e alla 'i' del suo "scusi" si allacciava immediata la prosecuzione della frase interrotta.

"E dunque... Zachar, vero? E dunque, Zachar..." diceva, pronunciando con cautela il mio insolito nome, tastandolo con la lingua, come fosse una bacca, o una nocciolina.

- Valies ha frequentato l'Accademia d'Arte Drammatica insieme a Evgenij Evstigneev, erano amici! - quella sera stessa riferii a Marysen'ka cosa mi aveva raccontato Konstantin L'vovič. Evstigneev in una stanzetta scura, con il poster di Charlie Chaplin accanto al letto sfondato, Evstigneev giovane e già calvo, che vive con la mamma - la mamma affaccendata in silenzio dietro la parete di compensato - e Valies, ricciuto, con i suoi occhi intelligenti da ebreo, ospite a casa sua... Me lo figuravo così vividamente che potevo raccontarlo al mio amore come lo avessi visto con i miei occhi. Volevo stupirla, mi piaceva meravigliarla. E a lei piaceva meravigliarsi.

- Valies e Evstigneev erano le star del loro corso, una coppia fantastica, due clown, uno riccio e uno calvo, uno ebreo e uno russo, quasi come Il'f e Petrov. Cose che capitano... - dissi a Marusja, sbirciando i suoi occhi ridenti.

- E poi? - chiese Marusja.

Terminata l'Accademia, il Teatro della Commedia non volle Ženja Evstigneev, dissero che non ne avevano bisogno. Valies invece lo presero subito. Lavorò anche nel cinema, contemporaneamente a Evstigneev, che si era nel frattempo trasferito a Mosca. Nel giro di pochi anni Valies interpretò tre volte il poeta Aleksandr Puškin e tre volte il rivoluzionario Jakov Sverdlov. I suoi film erano in cartellone in tutto il paese... Poi aveva fatto il povero ebreo indifeso in un film di guerra, in coppia con l'allora famoso Šura Dem'janenko. Poi Giuda, in un film dove Cristo lo faceva Vladimir Vysockij. Questo in verità fu bloccato prima della fine delle riprese. Comunque, la vita professionale di Valies aveva avuto un esordio molto promettente.

- ...E poi smise di recitare - raccontai a Marusja.

Aspettava che lo chiamassero, che lo invitassero, e nessuno si fece più vivo. Non diventò mai una stella, anche se nella nostra città lo tenevano in alta considerazione. Dei suoi spettacoli non si ricordò più nessuno, i film, mediocri, furono dimenticati anche loro, e Valies diventò vecchio.

La sua conversazione era aspra, se la prendeva con tutti. Meno male. Sarebbe stato troppo triste vedere un vecchio con il cuore in disfacimento... Appena il fumo si diradava accendeva una nuova sigaretta - sempre con un cerino, accendini sul tavolo non ce n'erano.

Il suo tempo era trascorso, si avvicinava al termine - c'era stato un momento, un giorno in cui non era riuscito a saltare sul treno giusto, ad afferrarlo con le mani ancora giovani, per guadagnare il suo posto al sole, uno spazio caldo, luminoso come una birra chiara, dove a tutti è offerta la gloria in vita ed è promesso l'amore dei posteri - magari non eterno, ma tale da durare almeno quanto il banchetto funebre alla tua memoria.

Valies schiacciava l'ennesima sigaretta nel portacenere, agitava le mani, lasciando intravedere i polpastrelli gialli di nicotina - fumava molto. Aspirava profondamente, tratteneva a lungo il fumo prima di espirarlo piano, si lasciava avvolgere dalla nube senza socchiudere gli occhi, con la testa gettata all'indietro. Tutto era ormai silenzio, solo il bianco dei suoi occhi è solcato di venuzze rosee, le labbra carnose si muovono irrequiete, tremolano le palpebre pesanti...

- Ti fa pena, Marysen'ka?

Il giorno dopo trascrissi a macchina l'intervista, la rilessi e la portai a Valies. Gliela consegnai e scappai via. Valies mi accompagnò alla porta con affettuosa cortesia. E mi chiamò al telefono appena misi piede a casa. Forse aveva chiamato anche prima, perché lo squillo mi sorprese ancora sulla porta. La voce attoriale tremava. Era indignato.

- In questa forma l'intervista non può essere pubblicata! - gridò nella cornetta.

Io rimasi di stucco.

- Va bene, non si pubblica - dissi, sforzandomi di rimanere calmo.

- Arrivederci! - tagliò corto, e riagganciò. "Cosa avrò mai fatto?" pensai.


Ogni mattina ci svegliava l'abbaiare dei cuccioli - continuavano a chiedere da mangiare ai passanti che correvano al lavoro. I passanti li mandavano al diavolo, i cuccioli gli sporcavano i vestiti con le zampe.

Un giorno, quando ormai la mattina volgeva al termine, non li sentii. Ancora addormentato mi invase un senso di angoscia: mancava qualcosa, nel confuso concerto di suoni e colori che precede il risveglio. C'era un vuoto, una specie di imbuto in cui si riversava la mia sonnolenta pace.

- Marysen'ka! Non sento i cuccioli! - dissi piano, con autentico terrore, come se il mio polso non avesse più pulsazioni. Marysen'ka si spaventò anche lei.

- Corri subito a vedere! - mi rispose bisbigliando.

Pochi secondi dopo saltavo giù per i gradini riflettendo febbrilmente: "Li ha investiti una macchina? Ma come? Tutti e quattro? Non può essere..." Corsi fuori al sole, c'era odore di terra e di erba appassita, si sentivano le macchine in lontananza, subito cominciai a fischiare, a chiamare, ripetendo i nomi dei cuccioli, tutti insieme e uno alla volta. Esplorai il cortile, invaso di erbacce, guardai sotto ogni cespuglio - non trovai nessuno.

Feci di corsa il giro della nostra strana casa, strana perché da una parte ha tre piani e dall'altra ne ha quattro. Costruita su un pendio, gli architetti hanno deciso che si poteva fare così, purché il tetto fosse diritto. Casa nostra avrebbe potuto far diventare pazzo un alcolista che volesse verificare se il delirium tremens è vicino contando e ricontando i piani della palazzina staliniana dai muri sbrecciati, ma ancora solida.

Questo pensiero mi riattraversò la mente mentre facevo con calma un secondo giro della casa, picchiando senza motivo sui tubi di scolo dell'acqua piovana e occhieggiando dentro le finestre. Dei cuccioli non c'era traccia.

Tornai a casa mortalmente amareggiato. Marusja capì subito, ma chiese lo stesso:

- Niente?

- Niente.

- Stamattina ho sentito qualcuno che li chiamava - disse lei. - Sono sicura. Un uomo, con la voce roca.

Guardai Marusja con l'aria di chi esige un ricordo preciso, cosa ha detto, quest'uomo, come lo ha detto - adesso vado a cercarlo per tutta la città, lo riconosco dalla voce e gli chiedo dove sono i miei cuccioli.

- Mi sa che li hanno presi i barboni - disse Marusja col tono di un condannato a morte.

- Quali barboni?

- Qui vicino, una famiglia intera vive in una casa di quelle chruscioviane. Alcuni uomini e una donna. La vedo spesso tornare a casa con buste piene di rifiuti. Devono averli presi loro.

- Ma... sarebbero capaci di mangiarli?

- Quelli mangiano tutto.

Per un attimo mi figurai la scena, come blandiscono con l'inganno i miei quattro ragazzi, come li infilano in un sacco. Loro guaiscono, sbatacchiati là dentro. E come sono felici quando li liberano dal sacco, nell'appartamento: gli piace, ci sono un mucchio di odori, roba da mangiare, carne marcia, cosa ancora? Puzza di vino e denti guasti.

Magari i barboni ci avevano anche giocato un po' - sono pur sempre esseri umani - qualche buffetto sulla testa, qualche carezza sul pancino. Ma poi era arrivata l'ora di mangiare... "Non li avranno mica ammazzati tutti insieme?" pensavo, trattenendo a stento le lacrime. "Due, forse, o forse tre..." Mi figuravo queste scene terrificanti ed ero scosso da tremiti.

- Dove abitano? - chiesi a Marysen'ka.

- Non lo so.

- Chi può saperlo?

- Magari i vicini?

Mi infilai le scarpe in silenzio, mentre pensavo a che arma portare con me. A casa non ne avevo, e il coltello di cucina non lo volevo prendere. "Se taglio la gola al barbone, o ai barboni, il coltello mi tocca buttarlo" fu il mio tetro ragionamento. Bussai ai vicini, ma erano quasi tutti al lavoro, e quei pochi rimasti a casa, per lo più anziani, non capivano cosa volessi da loro - quali cuccioli... quali barboni... Non mi aprivano, e spiegare la faccenda attraverso lo spioncino di porte di legno che avrei potuto buttare giù con un calcio - tre, al massimo - mi dava la nausea. A uno urlai "vecchio scemo", e mi precipitai fuori, verso la casa dove vivevano i barboni.

Avvicinandomi alla casa chruscioviana, sempre di corsa, mi sforzai di individuare dalle finestre l'appartamento che cercavo. Impossibile: troppe finestre misere e sporche, solo due si distinguevano per l'aria curata. Piombai nell'androne, suonai all'appartamento numero 1.

- Dove abitano i barboni? - chiesi.

- Siamo barboni anche noi - rispose l'uomo in mutande che mi aveva aperto, osservandomi torvo. - E allora?

Io guardavo al di sopra della sua spalla, nella sciocca speranza che Recluta mi corresse incontro. O che magari strisciasse fino ai miei piedi la povera Greenlan, trascinandosi dietro le budella. L'appartamento dietro di lui era buio, in anticamera una bicicletta. Per terra stuoini sporchi e mezzo accartocciati. Ad aprirmi la porta dell'appartamento numero 2 venne una donna dai tratti caucasici, seguita da un certo numero di ragazzini dalla pelle scura. A loro non spiegai nulla, anche se la donna aveva voglia di parlare, e a lungo. Di cosa non so. Salii di corsa al primo piano.

- Qui c'è un appartamento dove vivono dei barboni, - spiegai a una vecchina decorosa che scendeva le scale - mi hanno derubato, li sto cercando.

La vecchina mi informò che i barboni vivevano nell'altra scala, al primo piano.

- E cosa hanno rubato? - mi chiese quando ero già in fondo alle scale.

"La fidanzata" mi venne da scherzare, ma cambiai idea.

- Ma niente, una cosa...

In strada mi guardai intorno, forse era meglio avere con me un bastone, una spranga. Non trovai niente, se no l'avrei preso. Di spezzare un ramo all'acero americano che cresceva in cortile non avevo voglia, e poi col cavolo lo spezzi, sottile ed elastico, puoi torcerlo per una settimana e non ottieni nulla. Albero schifoso, mostruoso, pensai con rabbia vendicativa, collegando nella mia testa i barboni e l'acero americano, e pure l'America, come se i barboni fossero tutti arrivati da laggiù. Primo piano, ma dove? Quale? Quella porta, di sicuro. La più malridotta. Come se da anni ci pisciassero sopra. In basso una traversa divelta mette a nudo il legno giallastro.

Come un idiota, suonai il campanello. Ecco, adesso trillerà, basta schiacciare più forte. Mi pulii sui pantaloni il dito, contaminato dal contatto con quel campanello muto da cent'anni, senza neanche più fili. Tesi l'orecchio ai rumori dietro la porta, sperando naturalmente di sentire i cuccioli.

"Cos'è, li avete già mangiati, schifosi? Ma adesso ve la faccio vedere io..."

Per un istante riflettei sul modo migliore di colpire la porta, con la mano o con il piede. Avevo già sollevato la gamba, ma non so perché ci picchiai sopra con il palmo della mano, prima piano, poi più forte. La porta si schiuse con un sordo cigolio, lo spazio sufficiente a entrare. Spingendo con entrambe le mani la aprii, fregava sul pavimento dove si era formato un solco. Feci qualche passo nella semioscurità e nella puzza asfissiante, alimentando la mia rabbia, che rischiava di essere stroncata da quell'odore.

- Ehi! - chiamai, volevo che la mia voce suonasse forte e brutale, ma il richiamo mi uscì quasi soffocato.

"Come devo chiamarli, accidenti? Ehi, gente? Ehi, senza-tetto? Non sono neanche barboni, visto che hanno una casa."

Mi misi a osservare il pavimento, convinto che se avessi fatto un altro passo sarei sprofondato in una melma grassa. Un passo. Il pavimento era asciutto. A sinistra la cucina. A destra una camera. Adesso vomito. Sputai una bava lunga, quella che precede la nausea. La bava oscillò, cadde, si appiccicò al muro, alla carta da parati stracciata.

"Perché in questi appartamenti la carta da parati è sempre stracciata? Che fanno, la strappano via apposta?"

- Cosa sputi? - chiese una voce roca. - Questa è una casa, cazzo.

Non capii subito se la voce fosse di un uomo o di una donna. E neanche da dove venisse, se dalla cucina o dalla camera. Dalla camera non potevamo vedermi, quindi dalla cucina. Anche la cucina era al buio. Guardando bene capii che le finestre erano tappate con fogli di compensato. Feci un altro passo in quella direzione, e vidi qualcuno seduto al tavolo. Di quale sesso continuavo a non capirlo. Una massa di capelli arruffati... Piedi scalzi... I calzoni, o qualcosa che gli assomiglia, tagliati sopra al ginocchio. Mi sembrò che sulla gamba nuda ci fosse una ferita. E che nella ferita strisciasse qualcosa, anzi molte cose. Ma forse era un'impressione, colpa del buio.

Il tavolo era ricoperto di bottiglie e barattoli di vetro.

Tacevamo. L'essere ansimava senza badare a me. All'improvviso cominciò a tossire, il tavolo tremò, i vetri tintinnarono. L'essere tossiva con tutte le sue interiora, con i polmoni, con i bronchi, con i reni, con lo stomaco, con il naso, con tutti i pori. Tutto gorgogliava e ribolliva al suo interno, spargendo all'intorno saliva, muco, fiele. Smossa, l'aria viziata dell'appartamento mi avvolse, sempre più pesante, io capii che se avessi respirato, anche solo una volta, a pieni polmoni, decine di malattie incurabili si sarebbero impossessate di me, trasformandomi in breve tempo in un invalido con gli occhi pieni di pus e una inarrestabile diarrea sanguinolenta.

Ero in apnea, sull'attenti davanti a quel mendicante tossicoloso, manco fosse un generale che ti striglia. La tosse si stava calmando, alla fine quello sputò un lungo filo di bava per terra e si pulì la bocca con la manica. Mi decisi.

- Sono qui per i cuccioli! - dissi a voce molto alta, e quasi mi strozzavo, perché pur aprendo la bocca continuavo a non respirare. Le parole sembravano di legno. - Dico a te! dove sono i cuccioli? - chiesi con l'ultimo fiato che avevo in gola: suonò come se avessi urtato con la spalla una catasta di legno, e alcuni ciocchi fossero rotolati, cozzando l'uno contro l'altro con un rumore sordo.

L'essere alzò lo sguardo su di me e ricominciò a tossire. Entrai in cucina quasi di corsa, terrorizzato all'idea che adesso sarei svenuto e sarei rimasto steso lì per terra e quelli avrebbero pensato che ero uno di loro e mi avrebbero preso con sé. Viene Marysen'ka, e mi trova coricato tra i barboni. Diedi un calcio alle gambe nude che intralciavano il mio passaggio, e mi parve che dalla ferita sulla caviglia si levassero decine di moscerini.

- Merda! - imprecai prendendo fiato, non potevo continuare a non respirare. Quello che avevo preso a calci oscillò e rovinò a terra, trascinando con sé i vetri che erano sul tavolo; bottiglie e barattoli gli rotolarono addosso, la sedia su cui era seduto si rovesciò, alzando al cielo due gambette. Non formavano una diagonale, stavano entrambe sullo stesso lato. "Come stava in piedi? Non ci si può sedere su una sedia così!" pensai, e urlai:

- Dove sono i cuccioli, pidocchio?!

L'essere si dimenava per terra, qualcosa colava vicino ai miei piedi. Strappai il foglio di compensato dalla finestra, vidi che il vetro era rotto, per questo lo avevano tappato, quindi. Tra le doppie ante, sul davanzale, era rimasto un barattolo da mezzo litro, nella marinata galleggiava un unico cetriolo molliccio, ricoperto da una folta barba di muffa bianca, da fare invidia a Babbo Natale.

- Merda! Che merde! - imprecai di nuovo, abbracciando con lo sguardo impotente la cucina semivuota, in cui oltre alla sedia cornuta giacevano alla rinfusa alcune cassette sfondate. Fornelli non ce n'erano. Nell'angolo un rubinetto perdeva. Il lavandino era ricolmo di verdura mezza marcia su cui strisciava ogni sorta di insetto domestico, con le ali o con le antenne. Scavalcai il corpo a terra e corsi nell'altra stanza, subito inciampando nei vestiti sparsi sul pavimento, cappotti, pellicciotti, stracci vari. Sepolto là in mezzo forse c'era qualcuno, dormiva. La stanza era vuota, solo un vecchio televisore troneggiava in un angolo, con il tubo catodico miracolosamente intatto. Anche quella finestra era tappata con il compensato.

- Piantala, tu! - mi gridò la voce dalla cucina. - Anche io sono un pugile, stronzo!

- Dove sono i cuccioli, pugile stronzo? - gli feci il verso, ma non tornai in cucina. Vincendo la ripugnanza, aprii la porta del bagno. La tazza del cesso non c'era, solo un buco nel pavimento. La vasca da bagno, gialla come un limone, era piena di bottiglie vuote, intere e in cocci.

- Quali cuccioli? - cominciò a chiedere la voce dalla cucina, intercalando con decine di suoni inarticolati, imprecazioni, o lamenti.

La voce era quella di un uomo.

- Avete preso voi i cuccioli? - sbraitai, cercando in corridoio qualcosa con cui colpirlo. Mi sembrava che dovesse esserci una stampella, ero sicuro di averla vista.

- Ve li siete sbafati, eh? Parla! Vi siete sbafati i miei cuccioli, cannibali! - continuavo a gridare.

- Sei tu il cannibale! - sbraitò la voce in risposta.

Raccolsi da terra un attaccapanni che doveva essere lì da un pezzo e lo lanciai contro il tipo steso in cucina, mentre continuavo a cercare la stampella.

- Saša! - chiamò il barbone. Continuava a dimenarsi senza riuscire a mettersi in piedi.

"Crash!" si schiantò sul muro la bottiglia lanciata contro di me.

- Ladro! - singhiozzava, dimenandosi al suolo nella ricerca di qualcos'altro con cui colpirmi.

Si doveva essere tagliato, la mano era coperta di sangue.

Mi lanciò addosso un boccale di metallo, poi una bottiglia. Il boccale lo scansai, la bottiglia la parai con un buffo movimento del piede.

"Basta, basta così..." pensai, e mi precipitai fuori dall'appartamento. Sul pianerottolo mi osservai, per vedere se qualche viscida porcheria mi fosse rimasta attaccata addosso. Sembrava di no. L'aria mi assalì da tutte le parti - Dio mio, come è fresca, pulita l'aria delle scale! Dal tugurio dei barboni una scia torbida e puzzolente si allungava sino a me, la si poteva tagliare col coltello. Corsi al piano terra, con un sorriso insensato stampato in faccia.

Su, al primo piano, continuavano a sbraitare.

- Anche loro sono stati bambini, - mi disse Marusja a casa - te lo immagini, anche loro avevano il pancino rosa...

- Sì... - risposi senza pensare, incerto in verità se fosse così, oppure no. Mi sforzai di ricordare la faccia del tipo seduto, e poi steso a terra, in cucina, ma non ci riuscivo.

Tornato a casa mi ero infilato nella vasca, mi strofinai con la spugna sino a quando le spalle non diventarono rosse.

- E comunque non potevano mangiarseli tutti in una sola mattina, no? Ti pare? - chiedeva a voce alta Marysen'ka da dietro la porta.

- No, infatti! - risposi.

- Forse li hanno presi degli altri barboni? - ipotizzò Marusja.

- Ma avrebbero dovuto guaire, - dissi io, pensando a voce alta - uggiolare, non credi? Quando li hanno ficcati nel sacco, avremmo sentito...

Marysen'ka tacque, immersa in qualche suo pensiero.

- Perché ci metti tanto? Vieni subito qui! - mi chiamò, e dalla voce capii che in merito ai cuccioli non era arrivata a nessuna conclusione.

- Vieni tu qui - le risposi.

Mi alzai in piedi e allungai il braccio per aprire il passantino della porta, gocciolando schiuma sul pavimento. Marusja era in piedi dietro la porta e mi guardava con occhi allegri.

Per un'ora ci dimenticammo dei cuccioli. Pensai con sorpresa che, dopo sette mesi insieme, ogni volta - e dovevano essercene state diverse centinaia - era meglio di quella precedente, anche se ogni volta sembrava che meglio non sarebbe mai stato possibile.

"Come può essere?" pensavo, mentre lasciavo scorrere la mano sulla sua schiena, che si assottigliava in vita in modo quasi innaturale per poi allargarsi in qualcosa di candido, su cui si stagliava un triangolo ancora più bianco, a forma di gabbiano... Il gabbiano era coperto di macchie rosa, colpa mia, l'avevo tutta gualcita.

La mano che un istante prima stringeva forte, dolorosamente, il viso del mio amore - mi piaceva, standole dietro, guardarla in faccia, voltarle il viso verso di me, leggere l'espressione dei suoi occhi, delle sue labbra - la mia mano era fiacca...


Due settimane dopo stavamo tornando dal supermercato - non ne avevamo più parlato, ma in cuor nostro li davamo per morti - quando ricomparvero. Come se nulla fosse, i cuccioli ci corsero incontro, graffiando subito le meravigliose gambe dell'amore mio, e lasciando gioiose impronte di zampa sui miei jeans beige.

- Ragazzi! siete vivi! - esclamai, sollevandoli in aria uno per uno e guardandoli negli occhi imbambolati.

Per ultima volevo prendere Greenlan, ma lei come al solito si rovesciò sulla schiena, offrendo la pancia rosa e facendosela sotto, forse per la paura, oppure per la felicità, o magari in segno di rispetto nei nostri confronti.

- Dàgli subito qualcosa da mangiare! - ordinò Marysen'ka.

I raviolini crudi, surgelati, non glieli potevo dare, e così aprii uno yogurt, versandone il contenuto roseo direttamente sull'asfalto screpolato e gibboso. Lo leccarono tutto in un baleno, e presero a girarci intorno, pesticciando ogni volta nelle macchie scure che lo yogurt aveva lasciato per terra.

- Dagliene ancora! - disse Marusja, sorridendo con gli occhi.

Sfamammo i cuccioli con quattro vasetti di yogurt, e rientrammo a casa felici, chiedendoci che fine avessero fatto per tutto quel tempo. Senza trovare risposta, ovviamente.

I cuccioli tornarono a vivere nel nostro cortile.

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