Copertina
Autore Alberto Prunetti
Titolo Il fioraio di Perón
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2009, Eretica speciale , pag. 160, cop.fle., dim. 15x21x1 cm , Isbn 978-88-6222-109-2
PrefazioneMassimo Carlotto
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe narrativa italiana , paesi: Argentina
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Pagina 9

Di questa America povera. Aveva detto proprio così: di questa America povera. Perché lui separava sempre i concetti come fossero talee distinte, o come marze di specie differenti... qui una di un olivo da spremitura e là una di olive verdi da tavola, e guai se andavano a finire nell'innesto sbagliato: America ricca e America povera, una sopra e l'altra sotto... Anche a quei tempi, sì, anche quando quell'America laggiù, intorno e sotto il tropico del Capricorno, tanto povera non era mica. Allora almeno, un centinaio d'anni fa, quando si mise in moto tutto questo trambusto. Quando fatta l'Italia e gli italiani, i padri della patria, una e tricolorata, si resero conto che i sudditi avevano fame, e figliavano, e si riproducevano, e non si accontentavano di belle parole, ma pane volevano, pane, proprio così.

E allora cominciarono a guardarsi intorno: se questi avevano fame, bisognava mandarli lontano. Di colonie ce n'erano ma non bastavano. Di bagni penali qualcosa c'era, ma i malfattori anarchici li avevano già riempiti tutti. Rimaneva una soluzione: esportare il problema che non si poteva risolvere. Ovverosia spostar la magagna a qualcun altro. Montarli tutti su un barcone, direzione il sol dell'avvenire, che notoriamente sorge a oriente ma poi ci passa sopra e se ne va verso occidente. Allora rotta a ponente, e via, verso la terra promessa: in questo o nell'altro emisfero. C'era chi partiva per l'America ricca e andava a Chicago o a Detroit, e c'erano quelli che andavano nell'America povera. Che, si intenda bene e a tal fine giovi la ripetizione, tanto povera non era, perché non avevano ancora finito d'affamarla. Quest'America aveva miniere a cielo aperto di carne e di caffè, ricchezze che in Italia se le sognavano, i padri della patria con la loro testa cinta dell'elmo di Scipio. Sicché quando toccò a lui, al fioraio, prese la decisione di andarsene a Buenos Aires. Forse perché aveva qualche contatto, o forse perché tra gli emigrati si diceva che la lingua era più facile, così vicina all'italiano da non dover penare tanto come con l'inglese.

Per questo, dopo tanti anni, quando si ritrovò tra le mani una foto di Alfredo, il vecchio fioraio disse che il nipote italiano assomigliava proprio a quell'America povera: Alfredito sta fatto una meraviglia pare che avesse più di tre anni, sicuro che state contentissimi con il piccolo berbante. La zia tiene tutte le fotografii i cuando viene in casa gli altri nipoti di parte di Lei ci li inzegna a tutti dandoci spiegazioni che il ragazzino della foto è il figlio della figlia di la sorella di Cosimo, così che è conosciuto da tutti i cuasi tutti diceno che non pare italiano, diceno che tiene faccia di argentino, di questa America povera.

Di questa America povera, appunto. Il fioraio con l'ortografia aveva sempre fatto a pugni e l'innesto dell'italiano sullo spagnolo creò la strana creatura linguistica a cui rimase fedele per tutta la vita. Lo chiamano il cocolice, che è il modo di parlare degli italiani d'Argentina. La foto gli era arrivata nel 1976, perché il nipote italiano, che mai il fioraio conobbe, era nato nel 1973 e al momento dello scatto aveva solo tre anni. La dittatura militare argentina, l'ultima e la più feroce, celebrava il suo primo mese di esistenza e si riprometteva di far diventare quell'America sempre più povera. Cosimo, il fioraio, invece di anni ne aveva settanta.

Era venuto al mondo nel 1906 in una famiglia di fiorai siciliani. Il bisnonno di Alfredo, che poi era il padre del fioraio, aveva un negozio di fiori e un vivaio a Paceco, vicino a Trapani. In casa tutti sapevano intrecciare ghirlande. I bambini andavano nei campi a cercare talee di piante selvatiche. Il vecchio le metteva a dimora e le innestava in una porzione di feudo che aveva comprato. Cosimo era un decoratore eccezionale. Se la cavava anche nel vivaio, ma conservava il suo talento per le composizioni. Si stancò presto di trascinare a dorso d'asina carretti carichi di fiori sulla strada polverosa che portava dal negozio al feudo. Assieme al vecchio aveva scavato un pozzo, aveva costruito un forno per il pane, aveva dato linfa a un giardino pieno di aranci e limoni.

Ma i rapporti tra padre e figlio peggiorarono. Tutti parlavano di quella città immensa dall'altro lato dell'oceano, dove ci si perdeva per tornare un giorno carichi di ricchezze. Decise di mollare tutto e non ancora ventenne si imbarcò per Buenos Aires. La nonna di Alfredo, la sorella del fioraio, lo salutò quando lei aveva sei anni.

Cosimo in Argentina trovò l'America. Diventò molto ricco con un negozio di fiori, il più importante di Buenos Aires, secondo lui. Alla fine degli anni Quaranta intrecciava fiori per un cliente speciale: il presidente Perón. Proprio così: don Cosimo era il fioraio di Perón.

Ma Cosimo aveva lavorato per la Casa Rosada anche prima del peronismo. Lo raccontava lui stesso in una delle lettere spedite alla sorella: Per molti anni sono stato dentro la casa di governo facendo li ornamentazioni di fiori i ho ricevuto felicitazioni i abbracci di Monsegnor Pacelli, di Presidenti di diversi nazioni in speciale il du Brasile, credo perché ci ho fatto la ornamentazione coi colori nazionale di Argentina y Brasile. Anche quando a venuto Pacelli in Argentina per il congreso eucaristico la ornamentazione la ho fatto formando la bandiera papale i sai cosa es fare tutto quello con fiore naturale – qui solo io li ho fatto...

Il Congresso Eucaristico fu celebrato nel 1934, quando il cardinal Pacelli – futuro Pio XII – fece la sua apparizione a Buenos Aires tra i fiori di Cosimo Guarrata. Erano gli anni della cosiddetta "Década infame": l'Argentina conobbe la dittatura militare del generale Uriburu, salito al potere nel 1930 con un colpo di stato e morto di lì a poco, non prima di aver ceduto il bastone del comando a un altro infausto ufficiale. Gli italiani continuavano a costruire case di lamiera alla Boca, l'anarchico Di Giovanni sfidava il plotone d'esecuzione in una squallida caserma, Carlos Gardel, la voce più bella del tango, si spegneva drammaticamente in un incidente aereo a Medellín, in Colombia.

Con beata ostinazione il fioraio continuava a intrecciare fiori per i potenti. Di lui, di quegli anni, i parenti italiani non sapevano granché. Poi un giorno, era il 1954, decise di tornare in Europa per un breve viaggio. Rimase un mese in Toscana, dove sua sorella si era trasferita. Arrivò con una moglie sconosciuta e una miriade di doni per tutti: borse di cuoio, scarpe, una zucca scavata con i bordi d'argento. I suoi regali stupivano e creavano meraviglia. Il suo italiano, invece, faceva ridere. In Maremma non lo capivano, perché mescolava l'accento di Buenos Aires col dialetto siciliano. Al mercato chiese un "pogio arrustuto" anziché un pollo allo spiedo: lo guardarono quasi fosse un pazzo.

Un giorno allineò le valigie sulla soglia dell'orto e si mise ad abbracciare tutti. Invitò i parenti ad andare a trovarlo in Argentina, un Paese enorme, da non crederci, con montagne e ghiacciai e pianure sterminate. E la migliore carne del mondo. 1 nonni di Alfredo, che allora non era ancora nato, non riuscivano a immaginarselo, un Paese così. Gli chiesero di rimanere, di provare a vivere in Italia. Lui scosse la testa. Accettò due borse piene di susine per il viaggio fino al sud, in Sicilia. Fino a Trapani. Voleva ripercorrere il sentiero che portava dal negozio di fiori al feudo del padre. Un sentiero ricoperto di cardi, ormai cancellato dal tempo. Riuscì solo a cogliere una cassetta di frutti dagli alberi dei suoi avi. Era tutto lì, il bagaglio che si portò sul molo del porto di Napoli.

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(16 settembre 2006)


Nei voli aerei i controlli di polizia lo preoccupavano più dell'atterraggio. Ogni volta che si infilava in una dogana aveva la sensazione di stare dalla parte del torto. Un senso di inadempienza rispetto alla legge, l'idea di non essere a posto con carte e bolli; la possibilità, più o meno remota, di essere iscritto nei bollettini di frontiera, ricercato per chissà quale reato. Niente da fare, la Legge per lui aveva la elle maiuscola, una spada di Damocle che gli pendeva sul collo. Certo, poteva rovesciare i termini. Razionalmente lo faceva: erano loro ad avere torto, i controllori, quelli che timbrano i passaporti, che mettono paletti alla voglia di vivere, di viaggiare, di attraversare confini e dogane. Niente da dichiarare agli eredi di una polizia che in qualsiasi Paese aveva i suoi banchi di tortura. A gente come questa, dare spiegazioni? Semmai doveva essere il contrario, dovevano essere loro a spiegarne di cose... Ma tant'è, tutti questi discorsi ragionevoli finivano appena l'aereo si fermava: adesso toccava a lui dimostrare di non essere nei guai con la Legge.

Be', niente di grave, solo una lieve accelerazione cardiaca, accentuata dallo schianto del timbro sul passaporto, che lo riportò alla realtà. Adempiute le formalità e recuperati i bagagli, si affacciò all'uscita dell'aeroporto di Ezeiza.

Un tassista gli strappò di mano la valigia. Non ebbe neanche il tempo di chiedere spiegazioni: la sua valigia era già nel portabagagli di una vecchia Peugeot. Non restava che dargli l'indirizzo dell'albergo.

Dall'aeroporto di Ezeiza al centro di Buenos Aires ci vogliono almeno quaranta minuti di autostrada. L'uomo non sembrava avere troppa voglia di parlare. Lui guardava il cielo azzurro e terso, il prologo di una primavera che si annunciava calda. Questo primo pezzo d'America non gli sembrò tanto lontano dall'Europa. Fino a quando sorpassarono un vecchio camion Dodge dal motore rettificato, dipinto con un Cristo gaucho crocifisso e santi circondati da rosai, con bolas e redini di cavallo come attributi salvifici.


Alfredo guardava gli edifici sfilare dal finestrino e cercava di leggere le scritte a caratteri cubitali su ogni cavalcavia che incrociavano. Asfalto, cemento e ferro si alternavano ritmicamente, separati talvolta da macchie d'erba. Costeggiarono una sfilata di ricche countries, le case di campagna fortificate, poi attraversarono una barriera di grattacieli. L'asfalto si srotolava davanti a loro, lambendo i bordi di una villa miseria, l'equivalente di una favela: mattoni e lamiera, galline e strade polverose pronte a riempirsi di fango alla prima pioggia separati da quell'abisso di fame da una recinzione inviolabile di lamiera e filo spinato. Infine ripresero a scorrere i grattacieli: ormai erano vicini al centro.

Dal finestrino l'attenzione dell'italiano si concentrava adesso sulle facce dei passanti. Più si avvicinava al centro, più i loro volti assomigliavano a quelli europei: la carnagione si faceva sempre meno bruna, spesso olivastra, mediterranea. Molti avevano un incarnato pallido e la capigliatura bionda. "Dove sono i figli degli schiavi africani che inventarono la parola tango?", si chiese. La loro eredità era stata rubata dai galiziani e dagli italiani, lo sapeva benissimo. Pensò ai tanti immigrati e al fioraio, che era uno di loro. Scendevano dai bastimenti e stavano ammassati sui moli, come bestiame raccolto da capibranco furiosi e unito dalla miseria. L'emigrazione per tanti era una forma d'esilio, ma per chi governava rappresentava la garanzia di un confino a tempo indeterminato. L'importante era sbarazzarsi di quelle masse eccedenti, di quei braccianti così pervicaci nell'idea di sopravvivere anche senza lavoro.

I pensieri sbalzarono dal loro binario per colpa d'una frenata improvvisa. Il traffico si fece caotico e intorno alla Peugeot si moltiplicarono i taxi gialli e neri. Erano molti di più delle auto ordinarie.

'Ma quanti taxi ci sono?', chiese a sé stesso, sbalordito.

Aveva parlato invece ad alta voce, perché gli arrivò una risposta.

"Qui sono tutti tassisti. Prima erano professori, fotografi, attori. Lavoravano nei musei, nei giornali, negli uffici. Poi c'è stato Menem, e ora guidano i taxi. E non sono neanche i loro, a volte. I tassisti pagano un tanto a giornata a un mascalzone per guidarli. Non è vita, questa".

Si limitò ad assentire. Nel punto di fuga di quella prospettiva di taxi giallo-neri si profilava l'obelisco, il simbolo del centro di Buenos Aires. La Peugeot lo raggiunse e lo aggirò, completando una rotonda per entrare poi in avenida 9 de Julio, la strada più larga del mondo. Non riuscì neanche a contare le corsie dei due sensi di marcia.

"Questa traversa è calle Paraguay. Che numero ha detto per il suo hotel?"

"1246".

"Allora ci siamo".

Ringraziò il tassista. Lui gli stringe la mano, poi alzò un dito e disse: "Faccia attenzione. C'è un'aria strana a Buenos Aires, in questi giorni".

"Cosa vuole dire?".

"Sembra che i vecchi incubi del passato siano tornati a farsi vivi. Sa che giorno è oggi?".

"Certo, è scritto sul mio biglietto di viaggio. Sono mesi che non faccio che pensare al 16 settembre 2006. Il giorno del mio arrivo in Argentina".

"Arriva in un giorno infausto" replicò. "Oggi è l'anniversario della Notte delle matite spezzate".

Sapeva di cosa stava parlando. Aveva visto il film di Olivera negli anni del liceo, quando era un adolescente: era rimasto sconvolto dalla storia di quegli studenti poco più grandi di lui sequestrati, torturati e assassinati.

"Non lo sapevo. È una storia che conosco, comunque".

"Be, sappia che non è finita. In questi giorni si sono riaperti i processi ai militari del periodo della dittatura. Tutti i giorni compare in tribunale Miguel Etchecolatz, commissario della polizia bonaerense ai tempi della Notte delle matite spezzate. Ma i testimoni a carico di Etchecolatz hanno dei problemi".

"Che problemi?".

"Un testimone, proprio stamani, è stato minacciato. Hanno dato la notizia alla radio due ore fa. Stamattina all'alba ha suonato il cellulare di una testimone. Una voce anonima le ha detto che se Etchecolatz verrà rinviato a giudizio, salterà in aria il covo montonero".

"...salterà in aria il 'covo montonero'? Non capisco".

"Questi parlano ancora col gergo dei torturatori degli anni Settanta. I montoneros erano i guerriglieri peronisti più vicini alla sinistra e durante la dittatura le forze occulte della polizia chiamavano covo montonero qualsiasi obiettivo. Cinque studenti riuniti per un compleanno potevano diventare un covo montonero".

"Adesso capisco".

"Ho la sensazione che stia per succedere qualcosa di brutto. Tira un'aria che non mi piace".

"Staremo a vedere" rispose.

"Già, staremo a vedere. Que tengas suerte, amigo":

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Pagina 70

(1943)


Da tre giorni Cosimo non andava a lavorare. Non se la sentiva: il suo principale, per così dire, era stato deposto da un golpe militare. 'Ancora una volta', pensò. 'Meglio così, ci sarà un nuovo insediamento e ci sarà ancora bisogno di fiori. Cambiano i presidenti, rimangono i fiorai'.

Quel giorno c'era un fervore paranoico attorno alla Rosada. Un gruppo di militari della guarnigione di Campo de Mayo aveva occupato praticamente ogni metro quadro della piazza principale di Buenos Aires. Sembrava che la guerra, che insanguinava l'Europa, fosse arrivata anche in Argentina. Eppure siamo rimasti neutrali, né coi nazisti né con gli yanquis, si disse Cosimo.

Chiunque si avvicinasse alla Casa de Gobierno veniva fermato e interrogato. Lui fu bloccato tre volte. Quando arrivò all'entrata di servizio lo fermarono ancora una volta.

Li anticipò: estrasse i documenti prima ancora che gli chiedessero il DNI, la carta d'identità argentina. Dentro l'atmosfera era più o meno la solita. Le facce erano sempre quelle, a parte qualche militare armato fino ai denti che passava di corsa, attento a intercettare gli ordini che voci marziali lanciavano da una parte all'altra dell'edificio. 'Questi militari sembrano dei gran coglioni', pensò Cosimo. Ovviamente non lasciò che il suo pensiero arrivasse ad articolarsi in forma di suono: sapeva quanto i milicos mancassero d'umorismo. Mentre cominciava a infilar fiori in un supporto di tessuto spugnoso sintetico, con aria evidentemente seriosa, fece irruzione nel laboratorio l'attendente che si occupava dell'organizzazione delle cerimonie.

"Cosimo, abbiamo bisogno di lei. Oggi pomeriggio alle 18 ci sarà l'insediamento del nuovo presidente. È finito questo decennio infame, finalmente".

Era il 4 giugno del 1943. Un gruppo di militari aveva spodestato il governo di Castello.


Mentre allestiva la decorazione per l'insediamento del nuovo presidente, sentì qualcuno avvicinarsi alle spalle. Con la coda dell'occhio percepì la sagoma di una divisa. Niente di strano: aveva l'abitudine di lavorare su pavimenti calpestati da tacchi militari. Continuò a registrare pigramente il rumore dei tacchi di quegli stivali. Ci mise un po', prima di rendersi conto che l'uomo si rivolgeva proprio a lui:

"Non sono troppo appariscenti, quei fiori blu?".

"Sono... sono fatti per essere appariscenti" rispose il fioraio, stupito.

"Non discuto. Ma forse l'appariscenza non è la metafora migliore per un governo come il nostro".

Non capiva. Ma fu il suo interlocutore a lasciar perdere:

"Comunque, non si preoccupi. Non sono in grado di mettere in discussione la sua competenza in materia di fiori. Quel che fa, lo fa bene".

Cosimo si alzò per prendere altro terriccio. La sua strategia coi potenti era di dire sempre di sì e fare poi di testa propria. Non osò obiettare. Sollevò il primo dei due sacchi sbuffando per lo sforzo. Si voltò, quando sentì lo stesso gemito ripetersi ed echeggiare nel salone vuoto della Rosada. L'uomo, evidentemente un pezzo grosso della nuova squadra di governo, stava aiutandolo a spostare un altro sacco. Lo posò ai suoi piedi, lasciando il fioraio allibito: non aveva mai visto un politico fare uno sforzo fisico.

Sistemato a terra il sacco di terriccio, lo sconosciuto si spostò in un'altra stanza, mentre il fioraio tornava a lavorare attorno ai fiori. Aggiunse però alla composizione qualche gardenia, per smorzare col bianco il blu troppo saturo.

L'insediamento del nuovo governo cominciava in piazza, passava per la cattedrale e finiva nella Casa Rosada. Al fuoco a salve seguiva l'incenso e l'acqua santa. Poi era la volta dei fiori. I suoi fiori. Certo, a cerimoniare erano gli alti gallonati della politica e dell'esercito, ma anche lui ci aveva messo la sua parte: il blu e il bianco dominavano su ogni altro colore, e il blu, perdendo forza, prendeva il tono azzurro, più smorzato, della bandiera argentina. Tutto questo con qualche centinaia di giacinti e gigli.

Quanto a lui, osservava la cerimonia da un angolo riservato al personale di servizio della Rosada, in un misto di compiacimento e noia, un conglomerato di sensazioni che da tempo accompagnava la sua distratta partecipazione alle cerimonie ufficiali. Scrutando le facce dei nuovi ministri, notò lo sconosciuto che nel pomeriggio era venuto a dir la sua sui fiori. Gli venne voglia di sapere il suo nome. Accanto a Cosimo c'era Felipe, uno di quelli che faceva il valletto portando aperitivi da un salone all'altro della Rosada. Per il suo lavoro, Felipe era un pettegolo fenomenale che propagava ogni sorta di voce. Di fatto conosceva tutto e tutti.

"Felipe, chi è il tipo, quello robusto, coi capelli tirati all'indietro e il sorriso stampato in faccia?":

"Quello laggiù? È il colonnello Juan Domingo Perón, appena eletto ministro del Lavoro. Un provinciale, non farà carriera. Vedrai che durerà poco e lo faranno fuori presto".


Felipe si sbagliava. Se ne ricordò Cosimo il 17 ottobre 1945, quando Plaza de Mayo venne occupata da una moltitudine di persone raccolte da un unico grido: "Perón! Perón!".

Per alcune settimane non si diceva altro. Perón! Era il nome che univa tutto il Paese, il nome che risuonava nelle bocche di migliaia di immigrati, di quelli venuti dall'Europa come di quelli venuti dall'interno, dalle province di Corrientes e Jujuy, da Tucumán e da Santiago del Estero.

Tutti si affacciavano alla metropoli babele di lingue e facce, tutti avevano conosciuto il disprezzo degli oligarchi, degli agrari che chiedevano di bloccare le frontiere per conservare i loro privilegi. E invece erano arrivati dalle barche e dalle Ande, portando con sé la speranza di una vita migliore e le idee di redenzione dalla miseria. La lotta contro la povertà sembrava destinata a incrociare il nome di quel militare che veniva lui stesso da lontane province, anche lui con una madre india.


Anche Cosimo a tavola ne parlava con Maria. Entrambi entusiasti.

Maria, poi, era alle stelle.

"Oggi finalmente mi sento argentina, Cosimo". Pure lei era andata in piazza, come tante donne spinte dall'entusiasmo di quella donna minuta che si chiamava Eva, la moglie tanto discussa di Perón. Eva, che i nemici del popolo chiamavano "la cavalla", aveva mobilitato con un'energia insospettabile in un corpo tanto minuto, la reazione contro i militari fedeli all'oligarchia, quelli che avevano arrestato e condotto in un'isola Perón senza rendersi conto che stavano creando un eroe.

"Questo è il nostro Paese, anche noi siamo argentini" diceva Maria. E il suo entusiasmo era entrato nelle vene anche a Cosimo.


Ne parlava la sera con Mariano al caffè, e ogni volta era una rissa.

"Las pelotas! Dejas de joder! Mi hai rotto con questo Perón, Cosimo! È un fascista".

"Ma sta parlando di dare un tetto a ogni argentino, di mandare a scuola anche i figli dei contadini, di aprire gli ospedali ai poveri! Capisci la differenza con gli altri caudillos di passaggio?".

Andavano avanti così, per ore, alternando vino e argomenti rissosi.


Avrebbe dovuto essere stanco. Aveva infilato fiori bianchi e azzurri – e molte erano primule, un lavoro di pazienza, da orologiai – in ogni vaso di ogni finestra della Casa Rosada. Non ne poteva letteralmente più, ma a tenerlo in piedi era l'entusiasmo. A migliaia si erano riversati in piazza, e la voce di Perón aveva sovrastato quella moltitudine. Perón aveva promesso una nuova èra. Le cose non sarebbero più state le stesse: ci sarebbe stata la luce in ogni abitazione, i poveri avrebbero mandato i figli a scuola, e d'estate li avrebbero fatti partire per le vacanze nelle colonie peroniste. Cosimo l'aveva capito bene. E su questo anche Mariano non poteva contestare nulla... Non era un programma socialista? I figli delle barche e delle migrazioni dai deserti andini avrebbero avuto dal loro padre Perón tutto quello che non avevano mai conosciuto. E loro scandivano il suo nome riconoscenti, in maniche di camicia, anzi: completamente scamiciati – descamisados, così li chiamava anche Evita – perché faceva tanto caldo. Il sole benediceva quella giornata peronista. Lui stesso era uscito dalla Rosada per unirsi alla folla e contemplare il caudillo dalla piazza. Avrebbe anche voluto incontrare Maria...


Già, Maria. Non c'era stato modo di convincerla a stare a casa. La moglie di Perón, Evita, era il suo mito. Si immedesimava in lei fino al fanatismo e non avrebbe accettato di rimanersene a casa. Non ce n'era affatto ragione, visto che ci stava pochissimo, ormai. Da poco aveva iniziato a lavorare in una fabbrica di confezioni tessili. Cosimo gli aveva detto tante volte che i soldi bastavano, che tanto non avevano figli... lei si era messa a piangere, e lui aveva dovuto scusarsi. Questo del figlio era un problema grave... Maria era rimasta incinta dopo tanti tentativi, e poi aveva avuto un aborto spontaneo al quarto mese... Si era depressa e l'unica soluzione era accettare che lavorasse anche lei, per non stare sempre in casa a pensare al figlio morto. Da quando lavorava era cambiata, era più sfacciata, più indipendente. Si interessava anche di politica, in senso peronista, anzi: evitista. Lui a volte la trovava simile a certe femministe di cui aveva sentito parlare, però doveva ammettere che per Evita il focolare domestico rimaneva la ragione della vita di una donna, e questo a lui andava bene. Insomma, andava bene così, lui peronista e lei evitista, e tutti più argentini che immigrati. Erano loro il vero volto di questo Paese fatto di tante facce diverse, uniti nel progetto di una patria grande e peronista.

Mariano invece era antiperonista. "Di parte libertaria," precisava subito, "non sono un oligarca: sono un muratore, che diavolo!". E attaccava l'elenco di recriminazioni contro Perón. "Il popolo i diritti se li deve conquistare da sé. Se le cose gli arrivano dall'alto, rimarrà vittima del regalo paternalista. E se il buon Perón smettesse di fare regali al popolo? Se l'economia argentina smetterà di tirare? Cosa succederà?", chiedeva a Cosimo.

"L'economia argentina è una delle più forti al mondo, siamo una potenza, Mariano".

"Sì, oggi, ora che in Europa muoiono di fame e sono distrutti dalla guerra. Ma un domani che smetteranno di comprare il nostro grano e la nostra carne? Se non avranno più bisogno di noi? Cosa farà Perón? Aspetterà un'altra guerra per regalare ai suoi figli il pane e le vacanze?".


E andavano avanti, come sempre, tra un bicchiere e l'altro, nel brusio di un caffè pieno di gente che faceva discorsi simili ai loro...

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Pagina 76

(1948)


Evita? No, lui non la sopportava più. Minchia, quante bizze! Se lui doveva vedersela con Maria, che era un'Evita in miniatura, chissà che inferni doveva attraversare il Generale ogni volta che se ne tornava a casa sua! Non voleva neanche pensarci. Che scene aveva visto, lei che si incazzava per un niente, che urlava Merda! Merda!, lui che sbatteva una porta, poi lei si metteva a piangere, e lui la faceva entrare... e poi questa donna che se ne stava tutta la notte fuori casa per risolvere i problemi dei poveri... ah, ci mancava solo che la imitasse anche Maria... Lo consolava una cosa sola: che Eva Duarte aveva il suo fioraio personale, di fiducia.... e por suerte non era lui! L'aveva presa in uggia da quella volta che aveva dovuto spaccarsi le palle a cambiare i fiori del balcone della Rosada solo perché non si intonavano all'abito della signora... carajo, non poteva cambiarsi lei? E che cazzo! Ci mancava solo di prendere ordini da una donna, un'attrice per giunta! Fosse stato lui Perón, l'avrebbe rimessa a posto, in cucina... 'Già,' pensò, rilassandosi, 'peccato che non mi riesce neanche di mettere in cucina Maria....' Maria che lavorava ogni giorno nella fabbrica tessile, dove ormai era caporeparto. Maria che pretendeva di far venire in casa una volta alla settimana un'indigena per i lavori domestici... oh, che ne avrebbe pensato il suo vecchio in Italia... quante volte gliel'aveva detto che il posto di una donna era la casa...

A volte tornava con la mente a Paceco, rivedeva le strade strette, inondate d'un sole che scendeva perpendicolare a spaccare la terra già ferita, a creparla a coltellate fino a quando il sale non faceva una crosta bianca che potevi seguire nel contorno con un dito... ricordava quando andava col padre alle saline, a prendere i cristalli bianchi con cui sua madre e le sorelle lavoravano le alici... ripensava alla spiaggia affacciata sul Mediterraneo, alle file di tonni esposti sulla spiaggia, al negozio dello zio ciabattino, che stava proprio accanto a quello di fiori del suo vecchio... rivedeva tutti i suoi, il padre sul carretto che tornava dal feudo carico di infiorescenze, la sorella che intrecciava le ghirlande, e la più piccola, Vita, che avevano mandato a scuola perché imparasse a fare i conti e soprattutto a scrivere i nomi dei donatori sulle ghirlande dei morti... anche lei sapeva rendersi utile, nonostante qualche pasticcio... come quella volta che la mandarono con un'altra bambina nella casa dove piangevano un defunto e lei, vedendo tutti in lacrime, da ragazzetta strulla cominciò a ridere, e più tentava di soffocare il riso più l'amica sua rideva, e i tentativi di una di smettere incitavano l'altra, con risultato grottesco... Pensava anche a quando andavano tutti assieme al mare, con certi costumoni che arrivavano fino alle ascelle, che forse erano meno vestiti quando se ne stavano a sradicare erbacce nel campo... pensava alla raccolta dei capperi lungo i muri a secco, ai fichi d'india che la mamma sbucciava con le pagine d'un giornale... che a questo servivano i giornali, ad aprire i fichi d'india e a incartare il pesce... pensava ai vasi antichi che suo nonno trovava quando affondava l'erpice dentro al ventre della terra sabbiosa, e allora si faceva festa, perché correvano a portarli al marchese che li ricompensava con una damigiana da 25 litri di marsala e qualche lira, con cui compravano la carne per tutta la famiglia... pensava al pane fatto in casa, con la farina scura, e alle viole del pensiero che ogni anno si allargavano intorno alla soglia della loro piccola casa, assieme all'acetosella punteggiata di piccoli fiori, violetti anch'essi, che se li staccavi e ti mettevi in bocca il gambo, sentivi che sapeva d'aceto, e per questo sua madre li metteva a tavola mescolati coll'insalata d'erbe di campo, per condimento, come fanno i signori col vino acetato... e allora, solo allora, solo una volta ogni tanto, lo prendeva la voglia di tornare in Sicilia e si sentiva fregato dalla vita.

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Pagina 78

(1952)


"Viva il cancro!". L'avevano scritto su una panchina della stazione di Constitución. S'era fermato di colpo, incredulo, cercando di digerire il senso di quella scritta anonima, ancora fresca di vernice.

Eppure per strada c'era ancora una moltitudine di fiori: sul pavimento della piazza erano stati sparsi migliaia di petali di margherite e glicini. Quasi per incanto, non erano ancora appassiti e talvolta si erano fusi con la cera delle candele, dando vita a forme grottesche. Eppure la scritta blasfema era lì, a irridere la memoria di Eva e le lacrime di chi, solo poche ore prima, era sceso in piazza per renderle l'estremo tributo.

Era morta quella notte, il 26 luglio 1952, a soli trentatré anni. Le piazze traboccavano di gente. Lui aveva lavorato senza sosta, senza neanche sentire la stanchezza, divorato da sensazioni contrastanti. Tra le mani gli erano passate le rose gialle, i garofani bianchi, le orchidee dell'Amazzonia, le viole delle Ande e i piselli odorosi del lago patagonico Nahuel Huapí. Aveva coronato di fiori la Casa Rosada e il palazzo della Confederación Generai del Trabajo, il sindacato peronista a cui Evita aveva dedicato tante energie. Ma se il suo lavoro era stato oneroso, quello del popolo era stato immenso: attorno all'edificio giacevano diciottomila corone di fiori.

Da mesi Eva stava male. Il suo corpo era delicato e lei lo estenuava con mille fatiche, lavorando giorno e notte, rincorrendo l'ideale della causa peronista. Passava in rassegna centinaia di richieste di aiuto ogni giorno, e a tutte rispondeva di persona. Divorata da un tumore, le sue cellule presero a morire una dopo l'altra. La macchia nera stava risalendo le fibre di quel corpo fragile a partire dall'utero, dissolvendo i legami d'energia che tenevano per miracoloso equilibrio quella donna piccola e formidabile in piedi. Poi un giorno uno svenimento. Un rapido consulto medico svelò la triste notizia: da mesi dentro di lei si muoveva un nemico implacabile, che il contrasto della fotografia radioattiva rendeva esplicitamente visibile in tutto il suo orrore.

Il sangue che le correva fuori dalla vagina era l'araldo di una cattiva notizia. Non le rimaneva molto.

Continuò a dedicarsi a un altruismo che in parte era propaganda, in parte fanatismo e santità. Voleva riscattare la miseria che aveva conosciuto nella sua giovinezza. Il tempo non le bastava. Continuò a fare tardi la notte, rispondendo a ogni supplica, trovando medici per malati indigenti e colonie di vacanza per bambini che ancora dormivano in case di paglia e fango. Quando la malattia le tolse forza alle gambe, cominciò a rimanere a casa: prima su un divano, poi a letto. L'ozio non riuscì mai a corromperla: scrisse le sue memorie, riordinò articoli e discorsi. Doveva trasmettere ai suoi figli descamisados le ragioni della propria vita. Continuò a lottare sino all'ultimo, sino a quando le forze glielo permisero.

A lei il fioraio dedicò una platea di fiori bianchi, severi, minuti. Attorno alla residenza presidenziale, al palazzo della CGT, alla Casa de Gobierno si era radunata una moltitudine di facce meticce. Un milione e mezzo di persone. Silenziose, in lacrime, in attesa di un miracolo che rimettesse in piedi una donna già santa. Tutti con un cero in mano. Le donne coi fazzoletti a proteggere i capelli dalla pioggia. E la pioggia martellante, avversa al peronismo. Quindici giorni di pioggia, tanti ce ne vollero per piangere Evita.

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Cambiò idea: non aveva voglia di rientrare subito all'albergo. Calle Lavalle non era lontana e un ultimo goccio notturno non gli avrebbe fatto male.

La strada sembrava un lunapark, piena di musicisti estemporanei, artisti di strada, venditori ambulanti. Un palco assicurato a chiunque avesse voglia di guadagnarsi qualche peso intrattenendo i pigri nottambuli. Superò i mangiafuoco che sputavano benzina, i ballerini di tango che si flettevano roteando le articolazioni, i baritoni in bolletta e i fotografi. Raggiunse la sua meta: un bar di immigrati con un nome colonialista. Las Carabelas.

Entrando, trovò meno clienti dell'altra volta. I vecchi tanos erano già tra le coperte a quell'ora. Eppure qualcuno rimaneva, leggendo e stropicciando il foglio rosa con le notizie del calcio, ormai appiccicoso di tanti fondi di bicchiere.

Si sedette in un punto vuoto del lungo banco d'ottone, puntellando i piedi sullo sgabello senza spalliera. Il barista sorrise, aspettando il nome della consumazione. Vuoto assoluto. Cominciò a leggere le marche. Cynar. Ferrochina Bisleri. Brancamenta. Strega. C'erano tutti i bruciabudella della sua infanzia.

Un vecchio lo guardò, sorridendo e stringendogli la mano: "Vuole un consiglio?", chiese con tono amichevole.

Lui fissò incantato i capelli grigi imprigionati nella gabbia di brillantina. Poi rispose incuriosito: "Certo!".

"Provi il Fernet cola!'.

"Che?".

"Il Fernet Branca con la coca cola e un po' di ghiaccio. Sentirà che freschezza!"

"Coca e Fernet? Sta scherzando?".

"No davvero. D'estate non c'è niente di meglio. Ma va bene per ogni stagione, anche adesso", disse il vecchio.

"E sia. Coca e Brancamenta", disse al barista.

"Italiano, vero?", domandò il vecchio.

"Sì".

"Come me. Sono arrivato negli anni Trenta, prima della guerra. Mi chiamo Giovanni. Anzi: ormai Juan".

"E ancora parla bene italiano", disse Alfredo.

"Eh... mi sono allenato qui al bar...".

"Ma non ha mai avuto voglia di tornarsene in Italia?", chiese con aria un po' disgustata, dopo aver deglutito il nuovo cocktail.

"Tornare in Italia? A fare che? In Italia sono tutti extranjeros... almeno qua... a Buenos Aires... siamo tutti italiani!":

Scoppiarono a ridere.

"Beh, non emigrarono solo gli italiani, anche se furono la parte più consistente...", commentò Alfredo.

"Sì, sì, d'accordo... è solo una vecchia e stupida battuta che diciamo a tutti gli italiani che entrano in questo bar...":

Risero di nuovo. Poi Alfredo saldò il conto e decise che era il momento di trovare la strada verso la sua camera.

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