Copertina
Autore Enrico Pugliese
Titolo La terza età
SottotitoloAnziani e società in Italia
Edizioneil Mulino, Bologna, 2011, Universale Paperbacks 610 , pag. 212, cop.fle., dim. 12,3x20,5x1,2 cm , Isbn 978-88-15-23296-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe paesi: Italia: 2010 , salute , sociologia
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Indice


Introduzione                                                         9

I.  Il quadro demografico                                           19

1.  L'effetto paradossale di due «vittorie dell'umanità»            19
2.  Invecchiamento dal basso e invecchiamento dall'alto:
    come aumenta l'incidenza della popolazione anziana              22
3.  La portata del fenomeno: l'Italia e il primato mondiale
    dell'invecchiamento                                             29
4.  L'evoluzione della struttura della popolazione italiana:
    dalla «piramide» all'«albero di Natale»                         36
5.  Le differenze territoriali                                      41
6.  Un fattore di (parziale) controtendenza: l'immigrazione         44

II. Realtà e rappresentazioni sociali della vecchiaia               49

1.  Mutamenti e costanti nella concezione della vecchiaia           49
2.  Le rappresentazioni della vecchiaia e le ideologie dominanti    51
3.  Contesto storico e classi sociali                               56
4.  Anziani e grandi anziani: l'emergere della quarta età           61

III. Gli anziani nel mercato del lavoro                             69

1.  Più anziani lavoratori, più lavoratori anziani a rischio        69
2.  Età e lavoro nelle società avanzate                             71
3.  La discriminazione nei confronti dei lavoratori più anziani     75
4.  La situazione italiana: pochi attivi, pochi disoccupati,
    pochi occupati                                                  80
5.  La riduzione della partecipazione al lavoro, la cultura del
    prepensionamento e le preoccupazioni dell'Ue                    93

IV. Gli anziani e le famiglie                                      101

1.  «Allungamento» e «restringimento» della famiglia italiana      101
2.  Anziani soli al Nord e al Sud                                  105
3.  Trasformazioni socioculturali e cambiamenti nella famiglia     108
4.  Nonni e nipoti: un rapporto critico                            111

V.  Anziani e sistema di welfare                                   117

1.  Il problema storico della povertà degli anziani                117
2.  Il modello italiano di welfare e le implicazioni
    per gli anziani                                                120
3.  Gli anziani tra povertà e protezione sociale                   123
4.  I servizi sociali per gli anziani                              127
5.  Admis à la retraite: lo sviluppo dei sistemi pensionistici
    nel '900                                                       132
6.  Il dibattito sull'età di pensionamento e l'ossessione
    demografica                                                    136

VI. La vita quotidiana                                             145

1.  Le molteplici condizioni dell'invecchiamento                   145
2.  «La vecchiaia può attendere»: il prolungamento dell'età adulta 148
3.  Le nuove tecnologie e la vita quotidiana                       152
4.  Solitudine, isolamento e autoisolamento                        155
5.  La vita di relazione e la vita associativa                     158

VII. Immigrazione, badanti e anziani                               163

1.  Le migrazioni internazionali e la popolazione anziana          163
2.  «Donne globali»: immigrazione femminile, collaborazione
    domestica e familiare                                          167
3.  Care drain: sistemi di welfare e domanda di cura               171
4.  Famiglia indebolita, familismo persistente                     174
5.  Le badanti e il loro lavoro: servizi, compagnia e affetto      176
6.  Anziani, badanti e famiglie: un intreccio di relazioni         179
7.  Anziani immigrati e emigrati anziani                           183

VIII. Dall'agisme all'invecchiamento attivo                        187

1.  La svalorizzazione della vecchiaia e l'agisme                  187
2.  L'invecchiamento attivo fra retorica e pratiche concrete       190

Riferimenti bibliografici                                          197
Indice dei nomi                                                    209


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



La condizione degli anziani in Italia non ha avuto ancora l'attenzione che merita se si considera la portata dell'invecchiamento della popolazione che non solo è più forte che in ogni altro paese d'Europa, ma è secondo solo al Giappone. Il fenomeno riguarda tutte le regioni del paese con connotazioni in parte comuni e in parte specifiche in quanto riflesso delle particolarità del contesto locale. Inoltre in Italia si registra un intreccio particolarmente complesso tra questioni di natura demografica e questioni relative al mercato del lavoro. All'elevato tasso di invecchiamento della popolazione corrisponde infatti una presenza nelle classi di età da lavoro più anziane (55-65 anni) della popolazione attiva modesta e comunque molto più bassa che negli altri paesi europei: il tasso di attività di questi anziani in Italia nel 2009 era del 26,1% mentre il valore medio per i paesi europei a noi più prossimi socialmente e con una recente storia comune (l'Europa dei 15) era del 42,7%.

La prima questione affrontata riguarda le cause e le caratteristiche dei processi di invecchiamento ed è emerso che ai livelli attuali concorrono cause di natura diversa: non solo l'allungamento delle aspettative di vita, che porta a un aumento in numero assoluto degli anziani, ma anche una riduzione dei tassi di fecondità e di natalità che determinano, per la riduzione delle classi di età infantili e giovanili, un aumento del peso relativo di quelle anziane. Ma entrambe queste cause richiedono a loro volta spiegazione. I fenomeni demografici – il libro è basato su questa convinzione – hanno alla loro origine altri processi di tipo sociale, economico e culturale. Così per l'aumento del numero degli anziani i progressi della medicina, in un contesto di miglioramento delle condizioni socioeconomiche e igienico-sanitarie, hanno portato alla riduzione delle cause di morte precoce contribuendo all'invecchiamento (e in Italia prevalentemente all'invecchiamento in buona salute) della popolazione. Per quanto riguarda il secondo fattore, la riduzione delle nascite, le cause sono molteplici dato che la possibilità di programmarle e controllarle si intreccia da un lato con i generali processi di emancipazione e dall'altro con la mancanza di certezze per il futuro delle giovani coppie e la carenza di servizi per l'infanzia. Di questo si tratta nel capitolo primo a partire dalla modificazione della struttura demografica del paese mettendo a confronto i cambiamenti avvenuti con quelli di altre nazioni significative da questo punto di vista: confronto dal quale emerge per l'Italia un ritmo di cambiamento particolarmente intenso, e più intenso che in Europa, inferiore solo a quello del Giappone. L'analisi dà poi spazio alle differenze territoriali e alle novità che le caratterizzano con il passaggio del primato negativo del crollo delle nascite dalle regioni del Centro-Nord a quelle del Mezzogiorno per finire con i primi segnali di controtendenza dovuti sostanzialmente alla immigrazione.

Ma l'allungamento della vita media non è l'unica novità di questa epoca nel nostro paese. Dal punto di vista sociale, così come negli altri paesi sviluppati, ce ne è un'altra: la diffusione su vasta scala delle pensioni. Iniziata già da prima per alcune categorie, essa si è generalizzata nel corso del '900 riscattando (parzialmente) gli anziani dalla dipendenza delle famiglie. Si è perciò dedicato un capitolo (il secondo) al mutare delle condizioni di vita degli anziani nel corso della storia e a una tematica collegata che riguarda le rappresentazioni sociali della vecchiaia e lo status degli anziani nelle diverse società. La prima questione qui affrontata riguarda il concetto stesso di vecchiaia, il significato attribuito a questo termine. Che vuol dire essere vecchi e a che età si comincia a essere vecchi? Per quel che riguarda quest'ultimo punto va notato che nelle analisi demografiche e statistiche attuali l'età di ingresso nella vecchiaia viene fissata solitamente a 60 (o 65) anni e questo stesso limite di età compare nella letteratura nonché nella regolamentazione giuridica e istituzionale almeno da qualche secolo. E questo stesso era il limite di età anche in epoca romana (due millenni addietro). Ma se ora il limite è riferito alla capacità lavorativa e alla sua riduzione, soprattutto per il lavoro manuale, allora si riferiva alla capacità di portare le armi. Questo non significa che l'età di ingresso nella vecchiaia e la realtà della vecchiaia siano determinate solo da aspetti naturali, fisiologici; è infatti riconosciuto universalmente dagli studiosi che esiste una costruzione sociale dell'età. Ma, come nota lo storico Paul Johnson [1998], questi aspetti non vanno sovradimensionati; l'esperienza della vecchiaia, ora come nel passato, non è né semplicemente il risultato di una costruzione sociale né semplicemente una risposta naturale all'invecchiamento fisiologico.

Atteggiamenti, comportamenti e stili di vita degli anziani sono cambiati nella nostra società rispetto a cinquant'anni addietro con un passaggio repentino quale mai si era registrato prima. È l'emergere della terza età, come sottolinea il grande demografo storico Peter Laslett [1992] sottolineando la ricchezza di opportunità che si presentano oggi a chi, ancora in buona salute e senza un significativo peggioramento delle condizioni di reddito, può sottrarsi alla stanchezza e alla pesantezza del lavoro e utilizzare liberamente il tempo a disposizione. Ma c'è da ricordare che Laslett introduce il concetto di terza età, come età della vita circoscritta tra la «seconda età», quella adulta, e la «quarta età» quella della dipendenza. La terza età e il pensionamento non sono quindi più visti come il limbo e la morte sociale come nelle prime ricerche di Anne Marie Guillemard [1980], non più come il ritirarsi, il disengagement, delle analisi sociologiche sugli anziani degli anni '50 e '60, bensì come il perfezionarsi di un più articolato quadro di situazioni possibili per gli anziani e i grandi anziani (che tra l'altro sono i due termini usati generalmente nel libro per indicare chi sta sopra o sotto i 75 anni).

Appare comunque evidente che la scansione tripartita delle età affermatasi con lo sviluppo del modello economico fordista e comunque con il consolidamento delle moderne società industriali – prima età della formazione, seconda età del lavoro e della produzione e terza età del pensionamento e del consumo – non funziona più come prima perché sono venute meno le condizioni strutturali che avevano dato luogo a quel modello. Ciò nel duplice senso che il lavoro si è destrutturato e che molto «riposo» – a volte forzato – si rileva ora anche nella età del lavoro, mentre in quella che era una volta la terza età ci sono ancora la possibilità e le condizioni psicofisiche per svolgere attività lavorative (di mercato o fuori mercato) oltre che partecipare ad attività formative. In effetti, soprattutto se sí tiene presente la realtà del nostro paese, si può dire che sul tema della destrutturazione delle età della vita si è un po' esagerato. Indubbiamente periodi di (più o meno forzato) riposo si registrano nella età adulta, così come nella prospettiva (o ideologia) del lifelong learning capita che gli adulti partecipino a (più o meno utili) attività formative. C'è inoltre un cambiamento dello stile di vita, causa ed effetto insieme di una sorta di estensione delle pratiche di vita quotidiana della età adulta negli anni della terza età, anche perché la riduzione dei benefici di welfare (in particolare di quelli previdenziali) rende problematiche le condizioni nelle quali dovrebbe svolgersi il riposo stesso. Ma per il resto le tre età dal punto di vista istituzionale, sociale e culturale scandiscono ancora l'esistenza della popolazione italiana. Su queste tematiche ci si soffermerà nel capitolo secondo e si ritornerà poi in maggior dettaglio nel capitolo sesto, analizzando anche le novità rappresentate dall'emergere della quarta età.

Torniamo ora alla situazione nel mercato del lavoro dei lavoratori più anziani – ancora legalmente e convenzionalmente capaci di lavorare – e ai loro bassi tassi di occupazione, cui è dedicato il capitolo terzo. Per quanto il fenomeno si presenti in maniera particolarmente grave ed evidente in Italia, esso è da tempo all'ordine del giorno in tutta Europa, come mostra il fatto che due vertici del Consiglio d'Europa (Stoccolma e Barcellona) abbiano dedicato particolare attenzione a questa tematica, impegnando i governi a perseguire un innalzamento della soglia di età di uscita dal lavoro e a realizzare un aumento significativo del tasso di occupazione degli anziani. A una decina di anni di distanza da quelle iniziative si può dire che i risultati delle (scarse) azioni dei governi sono stati in sostanza irrilevanti. In Italia abbiamo oggi pochi anziani presenti nel mercato del lavoro e, tra questi, pochi disoccupati per il semplice fatto che è altissima la percentuale di ritirati dal lavoro, con o senza pensione, a partire dai 55 anni. Una questione trattata in questo capitolo è appunto la fuoriuscita precoce dal lavoro. La letteratura internazionale sull'argomento sottolinea come la riduzione effettiva dell'età di uscita dall'occupazione (e di fatto dal mercato del lavoro), per via dell'abbassamento dell'età di pensionamento, abbia rappresentato in passato lo sbocco prevalente in tutti i paesi rispetto alle difficoltà del mercato del lavoro, con accordi tra imprenditori e rappresentanti dei lavoratori, che hanno finito per scaricare sul sistema pensionistico i problemi del momento. E questo è stato in larga parte vero anche per il nostro paese dove si registrano seri problemi per gli «anziani più giovani» con rischi di spreco di capitale umano e peggioramento delle loro condizioni economiche.

Naturalmente la rilevanza della tematica dell'invecchiamento non si limita alla semplice questione del mercato del lavoro (o del gravare di un crescente numero di anziani sul sistema previdenziale). Dal punto di vista della qualità della vita l'aspetto lavorativo è certamente fondamentale ma le sfere di vita da prendere in considerazione sono molteplici e riguardano anche i rapporti familiari, la collocazione nelle reti di solidarietà, i servizi, le attività culturali, l'intensità e la qualità della vita di relazione. Queste sono le tematiche affrontate nella seconda parte del libro, a partire dal capitolo quarto che è dedicato ai cambiamenti nella famiglia e alla collocazione degli anziani al suo interno. Il processo di allungamento e restringimento della famiglia messo in evidenza da sociologi a cominciare da Chiara Saraceno [2008; Saraceno e Naldini 2007] e demografi ha riguardato in sostanza padri e figli: i nonni sono esclusi anche da questo processo. L'analisi ha mostrato come nel corso degli ultimi decenni in Italia sia aumentato significativamente il numero complessivo delle famiglie a fronte di una scarsa modificazione dell'entità della popolazione totale, mentre un aumento ancora più impressionante si è registrato tra le famiglie di soli anziani e soprattutto di anziani soli. Ciò ha portato anche a una modifica dei processi di socializzazione dei bambini con l'allontanamento della figura dei nonni, ormai raramente coabitanti, e con un aumento della solitudine degli anziani. Il fatto poi, ormai sempre più oggetto di attenzione da parte della grande stampa, che i nonni, e soprattutto le nonne, nella loro terza età debbano essere attivi nella cura dei bambini, custodendoli e portandoli da un luogo all'altro (casa propria, case dei genitori, scuola o asilo, palestre e quant'altro), non cambia il quadro. Tutto questo infatti non controbilancia la perdita del ruolo dei nonni rispetto ai quali autrici francesi (in primo luogo Claudine Attias-Donfut e Martine Segalen [1998]) auspicano un rinnovamento che superi le funzioni attuali di baby-sitter e recuperi gli elementi di compagnia, di autorevolezza, di protezione e di divertimento di quando i bambini appartenevano alla maisonnerie (alla casa, secondo una traduzione un po' impropria). Non si tratta di una visione nostalgica, ma della ricerca di nuove soluzioni per attivare la vita sociale degli anziani (e non solo) e ridurre la spesa per servizi di welfare pubblici e privati con un miglioramento delle condizioni dell'accudimento dei bambini.

I radicali cambiamenti che hanno avuto luogo nella famiglia – con la diminuzione drastica di quelle plurigenerazionali e la crescente indisponibilità di persone dedicate al lavoro di cura all'interno delle famiglie stesse – sono di estremo rilievo e si intrecciano con le tematiche del welfare. Nel libro è affrontato il modo in cui in Italia si riesce a venire incontro alle esigenze degli anziani per i servizi di cura tradizionalmente gravanti sulla famiglia. Di questo si parla nei capitoli finali, in particolare nel quinto e nel settimo, che trattano della condizione degli anziani nel sistema di welfare e dei complessi equilibri che si determinano nel welfare mix italiano. Si parte da una questione storica che è quella della presenza degli anziani nell'area della povertà e delle forme di assistenza già in epoca premoderna, con le politiche per i poveri in quello che è stato definito «il welfare prima del welfare». Come è noto, il periodo più difficile per gli anziani è stato quello della rivoluzione industriale e del primo capitalismo moderno, quando per effetto della penetrazione del mercato e della mercificazione spinta della forza lavoro, i tradizionali rapporti familiari e comunitari furono travolti e gli anziani furono abbandonati a se stessi e alla pubblica e privata carità. Nelle società a forte livello di industrializzazione ancora a metà del secolo scorso – fino al miglioramento e alla generalizzazione del sistema di welfare e dei pensionamenti – essi rappresentavano la parte più importante dell'area della povertà. E, detto per inciso, la persistenza di caratteri agrari e rurali della società italiana fino a quell'epoca aveva tenuto gli anziani come categoria specifica fuori dal pauperismo: insomma gli anziani erano negli ambienti poveri semplicemente poveri come gli altri.

Il grande miglioramento si è avuto con lo sviluppo del welfare state che nel nostro paese si realizza negli anni successivi al secondo conflitto mondiale e prosegue ben oltre i Trente glorieuses, il trentennio di sviluppo postbellico che termina a metà degli anni '70 con la crisi del modello di sviluppo fordista. Il sistema italiano di welfare, come è noto, rientra pienamente all'interno di quello che è stato definito «modello di welfare mediterraneo», caratterizzato tra le altre cose da una prevalenza della spesa pensionistica rispetto a quella destinata ai servizi. L'analisi ha mostrato come la situazione degli anziani all'interno di questo modello sia peculiare perché da un lato essi godono – o comunque hanno goduto fino a ora – di trattamenti pensionistici (e in genere trasferimenti monetari) relativamente «generosi», dall'altro invece soffrono per la carenza di servizi: sia di quelli avanzati di assistenza domiciliare, sia di quelli più tradizionali rappresentati dalle residenze per anziani, case di riposo pubbliche o private. Rispetto agli altri paesi europei questa è una grave carenza dell'Italia: le residenze per anziani sono meno numerose non solo rispetto agli altri paesi europei in generale ma anche rispetto a paesi dell'area mediterranea come ad esempio la Spagna. In questo ambito si è accennato ai termini e ai limiti del dibattito italiano sull'età di pensionamento caratterizzato da un sovradimesionamento degli aspetti demografici e, per converso, una sottovalutazione delle difficoltà dei lavoratori anziani a trovare nuove possibilità di occupazione in caso di licenziamento.

Il rapporto degli anziani con le loro famiglie ritorna ancora nel capitolo settimo che affronta i nessi tra cambiamenti demografici e sistema di welfare. Una delle connotazioni principali del modello di welfare mediterraneo – oltre quelle già accennate – è rappresentata dal carico di responsabilità che grava sulle famiglie in particolare per il lavoro di cura, compresa quella degli anziani. Con il passare degli anni i cambiamenti nella famiglia illustrati nel capitolo quarto hanno reso non più praticabili gli equilibri precedenti basati sul lavoro non mercificato delle donne presenti in casa, senza però scalfire con ciò i valori e la ideologia familista. Il ruolo della famiglia rimane centrale: solo che si sposta dalla fornitura del lavoro di cura alla organizzazione e gestione di esso. Emerge così una soluzione — tutta italiana, o, più precisamente, propria delle società dell'Europa del Sud — che è quella dell'affidamento degli anziani in casa a una figura nuova, quella dell'assistente domestica, «la badante». Si tratta di un equilibrio che ormai riguarda una percentuale significativa delle famiglie italiane. Le cifre fornite in genere hanno ovvi limiti di attendibilità ma si può ragionevolmente supporre che si tratti di almeno un milione di casi. In questo capitolo sono stati analizzati anche í contenuti del lavoro di queste inedite figure professionali, in massima parte straniere, e i loro complessi rapporti con le famiglie. Rispetto al welfare mix si può dire che tutti e tre gli agenti del welfare entrano in campo: la famiglia che gestisce il processo ricorrendo al mercato internazionale della forza lavoro anche grazie all'aiuto dello stato, che — sulla base dei meccanismi di funzionamento tipici del sistema di welfare mediterraneo – opera trasferimenti monetari sotto forma di pensioni varie o assegno di accompagnamento. Al brain drain dai paesi del Sud del mondo si aggiunge così quello che, con un gioco di parole, studiose del mercato del lavoro hanno definito care drain.

Per concludere, si è voluto dedicare una attenzione particolare alle prospettive e specialmente alla tematica dell'invecchiamento attivo, una tematica che ha stimolato un filone di ricerca caratterizzato da una visione molto, e forse non del tutto fondatamente, ottimista. Ad esso si contrappone una visione, anzi una ideologia, di segno opposto che è quella dell' agisme, secondo un termine coniato negli anni '30. L' agisme si caratterizza per una svalorizzazione della vecchiaia e per una sorta di ossessione demografica, la «demografia catastrofista» denunciata da molti demografi e studiosi del welfare. Questa preoccupazione per l'eccessivo numero di vecchi si è espressa con maggior forza in diversi periodi e in diversi paesi: così in Francia nei momenti di più acceso nazionalismo per la preoccupazione di una densità bassa e decrescente della popolazione, in America, e non solo, nell'epoca del capitalismo fordista per il numero eccessivo di persone poco produttive rispetto alle esigenze della organizzazione del lavoro, e attualmente (anche nel nostro paese) per l'eccessivo numero delle persone che in condizione di inattività gravano sul sistema di welfare. Queste preoccupazioni finiscono per avere sempre una implicazione punitiva nei confronti degli anziani e mostrano l'incapacità di vedere una alternativa riguardante un impegno e un ruolo non passivo degli anziani nella società.

Su questa prospettiva di impegno si basa invece l'idea dell'invecchiamento attivo. Si tratta di un concetto che ha molteplici dimensioni e che implica in primo luogo la capacità di restare fisicamente autonomi, di vivere senza dover essere accuditi o aiutati per le necessità della vita quotidiana, ma anche la possibilità di restare impegnati nel lavoro (di mercato o volontario) il più a lungo possibile e di essere eventualmente soggetti attivi e non oggetti di cura.

Molta letteratura sull'argomento sottolinea questa prospettiva ed è interessante notare come anche libri importanti si dilunghino nei capitoli conclusivi sulla necessità di una futura vita attiva per gli anziani presentando tuttavia scarse proposte concrete e scarsi riferimenti a esperienze da usare come modello. E quando dalla parte analitica si passa a quella propositiva il rigore e la documentazione scientifica tendono a cedere il passo alle speranze e agli auspici. Perciò in questo volume si è preferito fare solo un semplice accenno a questo ambito della discussione, approfondendo invece l'analisi delle questioni concrete così come si presentano oggi in particolare nel nostro paese.

Un'ultima considerazione riguarda il titolo del libro, La terza età. In effetti in esso si tratta anche della situazione dei «grandi anziani» (e quindi della «quarta età») nonché delle persone più giovani e ancora in età lavorativa (gli older workers nella letteratura anglosassone) con difficoltà di lavoro. Ma il nucleo centrale delle questioni affrontate nel libro e oggetto oggi di dibattito – sul lavoro, le pensioni e lo stile di vita – si riferisce a quella fase della vita definita appunto «terza età».

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CAPITOLO SESTO
LA VITA QUOTIDIANA



1. Le molteplici condizioni dell'invecchiamento

Nei capitoli precedenti sono emersi alcuni punti fermi che permettono di entrare nel merito del tema di questo capitolo sulla vita quotidiana degli anziani e comprenderne gli aspetti attuali e i cambiamenti rispetto al passato. Abbiamo visto come sia utile tener conto dei cambiamenti demografici e dell'allungamento della vita anche per distinguere tra anziani e grandi anziani e abbiamo accennato al diffondersi tra i primi di atteggiamenti e comportamenti che mostrano una estensione della vita adulta più che modelli di comportamenti propri della terza età. Abbiamo osservato per i grandi anziani una limitazione delle capacità di vita e di autonomia dovute all'ovvio indebolimento fisico e, per qualche aspetto, anche psichico, sottolineando comunque che l'età anagrafica alla quale questi segni di indebolimento cominciano a presentarsi si sposta sempre più in avanti: insomma abbiamo notato come la società italiana sia sempre «più vecchia», ma con vecchi prevalentemente in buona salute. L'indebolimento arriva per i grandi anziani in età sempre più avanzata. E questo è un fatto indubbiamente positivo.

Alla suddivisione degli anziani basata sull'età (scontando naturalmente tutte le differenze individuali e di contesto) se ne aggiunge un'altra di grande rilievo riguardante le classi sociali di appartenenza. Il miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita ha interessato tutti; e significativi passi in avanti in direzione di migliori condizioni di vita delle classi subalterne si sono fatti durante il periodo di estensione dei sistemi di welfare: periodo che ha coinciso anche con un ulteriore avanzamento della legislazione protettiva del lavoro. Sviluppo dei servizi sanitari nazionali, legislazione protettiva del lavoro e sviluppo dei sistemi previdenziali hanno drasticamente migliorato le condizioni delle classi basse (che sono state le protagoniste delle mobilitazioni per lo sviluppo del welfare state). E tuttavia significative differenze tuttora persistono nel modo in cui la condizione anziana è vissuta dalle diverse classi sociali e nei diversi contesti. Se possiamo dire che la questione della povertà degli anziani, come connotazione delle società soprattutto a seguito della rivoluzione industriale, può considerarsi superata, resta il fatto che esistono notevoli divari tra anziani ricchi e anziani poveri e che spesso questi divari sono superiori a quelli registrati in generale nella società e comunque nelle altre fasce d'età. E non si tratta solo del reddito di cui gli anziani dispongono: si tratta anche del modo e delle condizioni in cui si arriva all'età anziana. I più poveri — non solo nel nostro paese — vivono la vecchiaia anche in condizioni di salute peggiori e muoiono prima. Sicuramente il miglioramento delle condizioni di salute dovute anche all'estensione del Servizio sanitario nazionale ha migliorato la situazione dei più poveri ma le differenze ancora esistono. E questa è un'altra ingiustizia di classe che spiega anche alcuni aspetti dell'opposizione all'innalzamento dell'età di pensionamento portata avanti soprattutto da parte della componente operaia dei sindacati. Le mobilitazioni in diversi paesi europei – valgano per tutte quelle della Francia nel 2010 — hanno avuto una base e una partecipazione molto estesa coinvolgendo tutte le organizzazioni sindacali e tutte le categorie in base al principio della difesa di un diritto acquisito. Ma per quel che riguarda la classe operaia — e in generale i lavoratori manuali e assimilati – non si è trattato solo di questo: le principali motivazioni relative all'opposizione all'innalzamento dell'età di pensionamento si riferiscono al logoramento soprattutto fisico, al «non farcela più» a lavorare. Si sottolinea, da parte di chi si oppone all'innalzamento, il carattere usurante del lavoro e l'impossibilità di continuare a svolgerlo. A questo riguardo è interessante notare come sull'altro fronte, e con riferimento ad altri ceti sociali, in Italia esista una diffusa tendenza di segno opposto soprattutto nelle fasce alte dell'impiego pubblico, che non vedono di buon grado un eventuale abbassamento obbligatorio dell'età di pensionamento, come i professori universitari e alcune altre categorie professionali pubbliche, per le quali restare a lavorare più a lungo significa non solo raggiungere livelli di pensione più alti ma soprattutto continuare a ricevere i privilegi e le soddisfazioni che il ruolo comporta.

Siamo di fronte a reazioni diverse che riflettono non solo il carattere diverso del lavoro e delle corrispondenti condizioni di vita. Per gli strati alti il pensionamento significa tra l'altro perdita di condizioni di potere e di privilegio (compresi aspetti economici). Ma anche per questi si tratta di un cambiamento nella vita quotidiana con riduzione di impegni e di attività anche se in condizioni fisiche e intellettuali ancora tali da permettere loro di continuare a svolgere il proprio lavoro. Per altri strati sociali invece, e per la classe operaia in particolare, il pensionamento significa in primo luogo ed essenzialmente la fine della pesantezza di una vita quotidiana sempre più dura.

La letteratura sociologica in materia sottolinea per tutti il problema di una vita quotidiana vuota, di un riposo che secondo la definizione dell'antico libro della Guillemard è simile alla morte. E se anche da questo punto di vista le cose sono in generale migliorate, oggi la questione di mag- gior rilievo – a parte il reddito – riguarda il come rendere più attiva la vita dopo l'età di pensionamento. La dimensione lavorativa, che occupa un posto centrale in questo studio, non è l'unica da prendere in considerazione nell'analisi della condizione degli anziani nella società oggi. Un'interpretazione che fissa coordinate utili al riguardo è quella proposta da Paul Johnson [1998], che prende in considerazione tre aspetti principali, vale a dire la condizione materiale, la partecipazione sociale e lo status. Ciò con qualche ulteriore specificazione, che riprende proprio le variabili prima accennate, in particolare il riferimento alle classi sociali. Al potere economico connesso alla proprietà della terra nelle società agrarie per gli anziani delle classi sociali più ricche si è andato sostituendo progressivamente il potere connesso ai redditi da impresa e soprattutto ai proventi di attività finanziarie e, in alcuni casi (per manager e assimilati), anche quello dovuto agli alti redditi da lavoro. Naturalmente lo scenario varia anche in Occidente da paese a paese in base non solo al grado e al carattere della concentrazione del reddito ma anche in base agli stili di vita e ai modelli familiari. Torneremo più in avanti al caso di una città privata abitata da soli anziani ricchi negli Stati Uniti analizzata da Marco D'Eramo [2007] nel suo saggio dal titolo Bunkering in Paradise in un contesto di forte individualismo e scarso ruolo dei legami familiari, quale appunto quello americano. Qui si vuole solo sottolineare la differenza di opportunità e di stili tra le diverse classi sociali e i privilegi, fino al livello della esclusività, riguardanti proprio gli anziani.

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2. «La vecchiaia può attendere»: il prolungamento dell'età adulta

Un'altra specificazione si riferisce alle diverse fasi della vecchiaia, anzi, più in generale, alle diverse fasi della vita. Come abbiamo accennato nel capitolo secondo, l'innovazione principale del lavoro di Laslett in questo ambito consiste nell'avere distinto la terza dalla quarta età e di aver specificato, per altro, che non è l'età cronologica a definire l'ingresso in ciascuna di queste fasi della vita bensì l'esperienza individuale delle persone, a sua volta influenzata dal contesto sociale e nazionale nel quale esse si trovano a vivere. È pertanto giusto ritenere insieme a Laslett che la scansione tripartita non funziona più come prima e che l'età della formazione, del lavoro e del riposo non corrispondono più alla infanzia, all'età adulta e alla vecchiaia. Tuttavia nell'osservazione della evoluzione del rapporto tra età e corso della vita di recente si è forse andati un po' troppo avanti sostenendo una sorta di destrutturazione o de-istituzionalizzazione – nella terminologia di Guillemard – delle fasi della vita soprattutto per quel che riguarda il lavoro. Che all'infanzia e alla prima giovinezza corrisponda l'età scolare e della formazione è vero ora come in passato (semmai c'è da dire solo che l'età da questo punto di vista si è allungata in rapporto al progresso sociale). Cambiamenti di rilievo riguardano l'età adulta, nella quale all'attività lavorativa vengono per forza di cose ad alternarsi momenti di formazione a causa della obsolescenza delle competenze dei lavoratori e della loro necessità di adeguarsi alle diverse esigenze del processo produttivo all'interno del proprio «mestiere» o in vista di uno nuovo. È noto quanto questo sia più costoso e al contempo meno capace di incrementare il grado di impiegabilità dei lavoratori più maturi. Si dimentica spesso il lato oscuro del lifelong learning che non sempre contiene opportunità di continua riqualificazione. Infatti, soprattutto per i più anziani, esso diventa una forzosa necessità, per altro non necessariamente destinata a sfociare poi in una nuova attività lavorativa. E, per quel che riguarda i periodi di non-lavoro inteso come riposo, raramente questi sono effettivamente scelti dai lavoratori stessi, tranne che per una ristretta minoranza appartenente ai ceti più alti. Per quel che riguarda gli anziani, e soprattutto i più giovani tra loro, per i quali non sempre le capacità lavorative sono ridotte, in effetti c'è una estensione della partecipazione lavorativa, più o meno regolare, più o meno informale, dovuta non sempre e non esclusivamente al bisogno economico. Inoltre, occorre innanzitutto distinguere tra l'attività, per così dire, di bricolage – che non rappresenta alcuna novità giacché da sempre gli anziani sono stati impegnati in piccole attività compatibili con le loro ridotte capacità lavorative – e le attività di lavoro intese in senso tradizionale, complementari al reddito da pensione.

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CAPITOLO OTTAVO
DALL'«AGISME» ALL'INVECCHIAMENTO ATTIVO



1. La svalorizzazione della vecchiaia e l'«agisme»

Gli elementi che contribuiscono alla costruzione sociale della vecchiaia, cioè lo status attribuito agli anziani nonché i comportamenti e gli atteggiamenti nei loro confronti, variano nelle diverse epoche (anche in periodi di tempo brevi) e nei diversi contesti sociali. Più di una volta nella storia sono emerse preoccupazioni – quali quelle diffuse attualmente – per l'eccessivo numero di vecchi nella società. E più di una volta l'invecchiamento della popolazione è stato visto come problema di particolare gravità.

Non si tratta quindi di una novità e forse vale la pena di ricordare che quando la struttura della popolazione era molto più «regolare» di ora, ad esempio negli anni '30, queste convinzioni erano diffuse in vari paesi, così come era diffusa una svalorizzazione della vecchiaia proprio nei decenni in cui si andava generalizzando e diffondendo il modello produttivo fordista-taylorista. Si sviluppò e si radicò in alcuni paesi, soprattutto negli Stati Uniti, nel senso comune una serie di convinzioni che Butler già nel 1969 aveva definito ageism (agisme nella letteratura francese in materia). Un autore francese, Jean-Claude Henrard, fornisce la definizione che segue: «L' agisme è una forma molto diffusa di pregiudizi relativi alla vecchiaia e alle persone anziane, fonte di discriminazioni sociali basate su false credenze e stereotipi» [Henrard 2002, 100]. Henrard sostiene anche che all'origine del fenomeno c'è un modello culturale che porta a definire una età specifica di ingresso nella vecchiaia, che poi è sostanzialmente quella del pensionamento – età che peraltro si è andata abbassando non di poco nel corso del tempo – e non tiene in conto la diversità di condizioni che caratterizzano questa lunga fase della vita. Per effetto di questo approccio riduttivo e delle conseguenti pratiche – egli scrive – la popolazione anziana è «isolata in un mondo a parte e omogeneizzata; le viene rifiutato ogni ruolo sociale ed è fatta oggetto di politiche specifiche uguali per tutti» [ibidem, 99-100]. Analisi nella stessa direzione di Henrard sono condotte da studiosi italiani che sottolineano i rischi di emarginazione degli anziani che possono derivare da orientamenti del genere. Così Sandro Bernardini, il quale sottolinea i rischi di emarginazione degli anziani, scrive:

Quando si parla di «emarginazione» degli anziani si vuole semplicemente fare riferimento alla condizione di vita di un determinato gruppo sociale, dopo che, come sostiene Alberoni, la società ha messo in opera una rimozione nei confronti di questo gruppo — e ciò a causa di modelli culturali ed economici fondati sulla convinzione dell'inutilità degli anziani alla sopravvivenza del sistema [Bernardini 2003, 109].

La problematica è di attualità in molti contesti oggi, ed è ovviamente legata alla portata dell'invecchiamento ma è anche frutto di orientamenti culturali e ideologici. In un interessante convegno tenutosi in Canada alla fine degli anni '90 un gruppo di studiosi denunciava l'affermarsi di una sorta di «demografia apocalittica» che si è andata sviluppando per il fatto che «fornisce una spiegazione semplice e intuitivamente plausibile per i problemi del giorno d'oggi e se la prende con i cambiamenti demografici inesorabili contro i quali non c'è nulla da fare» [Gee e Gutman 2000]. E a questo proposito va ricordato quel che abbiamo sottolineato nel capitolo primo, cioè che i cambiamenti demografici sono tutt'altro che inesorabili, giacché hanno alla loro origine fattori di ordine sociale ed economico. In Italia ad esempio le previsioni demografiche della seconda metà del '900, che ipotizzavano una riduzione della popolazione, furono smentite dall'emergere di un fenomeno nuovo, l'emigrazione dall'estero. Ma non si tratta solo di questo: l'invecchiamento dal basso potrebbe anche essere ridotto da efficaci politiche di welfare a vantaggio delle famiglie e convivenze giovani e con servizi sociali gratuiti per l'infanzia, come dimostra la ripresa della natalità in paesi con un più efficace sistema di welfare.

Diversi autori, oltre a confutare le tesi relative all'inesorabilità dei cambiamenti demografici, mettono in discussione anche quelle relative ai loro presunti effetti sociali. Infatti le condizioni di vita, il benessere e il riconoscimento degli anziani variano in base a diversi fattori a partire da un adeguato sistema di welfare. È pertanto convincente la denuncia della demografia apocalittica i cui effetti si traducono in un degrado del sistema di welfare. Per Gee e Gutman – curatrici del volume che contiene gli atti del convegno citato – la «demografia apocalittica» può essere considerata una sorta di moral panic, una paura demoralizzante in atto nella popolazione – si potrebbe dire – seminata ad arte per cui le conseguenze dell'invecchiamento sono esagerate allo scopo di perseguire un programma politico volto a tagliare i fondi per l'assistenza e la protezione sociali, soprattutto quelle a carattere medico.

Contro questo orientamento catastrofista si esprime anche uno dei maggiori studiosi dell'invecchiamento, Alan Walker secondo il quale «Di solito, quelli che la pensano così, si servono dell'invecchiamento della popolazione come di una mediocre scusa per tagliare o per ristrutturare radicalmente le disposizioni del welfare state, e invariabilmente per trasferire la responsabilità dal campo collettivo (anche statale) a quello individuale» [Walker 2005, 1]. Per Walker la risposta all' ageism è quella di non «negare i problemi posti dall'invecchiamento della popolazione, ma piuttosto di sostenere che essi possono essere affrontati in un altro modo» [ibidem, 7].

La preoccupazione per l'eccessivo numero di vecchi si è espressa con maggior forza in particolari periodi e in diversi paesi: così in Francia più volte nei momenti di più acceso nazionalismo per la preoccupazione di una densità bassa e decrescente della popolazione, in America, e non solo, all'epoca del capitalismo industriale e soprattutto nell'epoca fordista, per il numero eccessivo di persone poco produttive rispetto alle esigenze della nuova organizzazione del lavoro, e attualmente (anche nel nostro paese) per l'eccessivo numero delle persone che in condizione di inattività gravano sul sistema di welfare. Comunque, questo tipo di preoccupazione finisce per avere sempre una implicazione punitiva nei confronti degli anziani – attualmente appunto la riduzione dei benefici del welfare – e mostra l'incapacità di vedere una alternativa riguardante un impegno e un ruolo non passivo degli anziani nella società.

D'altro canto fino ad alcuni decenni addietro è stata dominante in ambiente sociologico una lettura della vecchiaia e della fase del pensionamento come disengagement (disimpegno) dal punto di vista soggettivo o di rolelessness (mancanza o perdita di ruolo) dal punto di vista strutturale: insomma una fase di chiusura in se stessi e scarso riconoscimento da parte della società. Riferendosi a Burgess [1960] e alle teorie sul cambiamento sociale prevalenti nella sociologia struttural-funzionalista nel secolo scorso, Bernardini scrive:

In questa direzione di analisi [...] si è sviluppato il concetto di roleless role con il quale E. Burgess intende la situazione nella quale sono collocati gli anziani, o meglio il «pensionato e sua moglie»: situazione caratterizzata dal fatto di non avere «una funzione utile da compiere», di aver perduto un ruolo funzionale e di essere privi di un ruolo alternativo rappresentativo [Bernardini 2003, 133].


2. L'invecchiamento attivo fra retorica e pratiche concrete

Sul fronte opposto si muove un filone recente di letteratura con ricerche stimolate anche dall'Unione europea e riguardante l'invecchiamento attivo. Con questa espressione – secondo la definizione dell'Oecd – s'intende «la capacità delle persone divenute anziane di condurre una vita produttiva nella società e nell'economia. Ciò implica la possibilità di compiere scelte flessibili nel modo di trascorrere il tempo: nella formazione, nel lavoro, nel divertimento e nel fornire cura» [Oecd 2006, 84]. Esso deve dunque essere visto come un concetto che ha molteplici dimensioni. In primo luogo c'è la questione dell'autonomia messa in evidenza dagli studiosi di gerontologia. Invecchiamento con successo (successful ageing) indica appunto la capacità di restare fisicamente autonomi, di vivere senza dover essere accuditi o aiutati per le necessità e le operazioni della vita quotidiana. Questo è un primo livello non semplicemente fisiologico ma che possiamo definire medico-sociale. Esso infatti impatta con situazioni sociali e ambientali: l'autonomia è tanto più possibile ad esempio quanto minori sono le barriere architettoniche, quanto più tecnologie adeguate permettono movimenti e attività senza ausilio di altri, quanto maggiori sono le possibilità di comunicazione con chi può intervenire per sostegno o aiuto.

Nella prospettiva dell'invecchiamento attivo, nella misura in cui una serie di interventi o di condizioni di partenza vengono incontro alle esigenze della popolazione anziana, si realizza in maniera virtuosa il paradosso della negazione della vecchiaia. Gli anziani e i grandi anziani tendono sempre di più, ove possibile, a svolgere attività, ad accedere e gestire informazioni, a mantenere relazioni che non sono tipiche dei vecchi e che giustappunto ne rallentano l'invecchiamento. E questa è una delle dimensioni più importanti dell'invecchiamento attivo. Il concetto di invecchiamento attivo è relativamente nuovo in Europa, poiché è diventato largamente noto solo negli ultimi anni, in buona parte grazie agli sforzi dell'Oms. Negli Stati Uniti l'attenzione alla questione risale ai primi anni '60 quando si sosteneva che la chiave per un «invecchiamento di successo» era di mantenere in vecchiaia gli schemi e i valori propri dell'età matura. Come abbiamo visto nel capitolo sesto, non si tratta di scimmiottare i giovani, al contrario si tratta di vivere una vita più attiva grazie alle migliorate condizioni di salute e agli sviluppi culturali che impongono il superamento della segregazione domestica degli anziani.

Queste tematiche sono di particolare rilievo per il mercato del lavoro e la questione della povertà. Scrive infatti Walker che «non è l'età cronologica che è determinante nel causare povertà e dipendenza, ma la relazione tra la costruzione sociale dell'età e la divisione sociale del lavoro» [1980, 73]. Secondo questo autore, con modelli rigidi di pensionamento si impedisce agli anziani che vorrebbero continuare a svolgere un'attività produttiva di rimanere sul mercato del lavoro. E questa è una dimensione nuova che riguarda in maniera chiara ed esplicita solo un settore della popolazione, anche se in maniera generale riguarderebbe settori sempre più estesi. C'è poi la questione – indipendentemente dai pregiudizi e dagli schematismi legati all' agisme – delle condizioni per cui in età anziana (ma socialmente e legalmente ancora in età considerata da lavoro) si lascia il lavoro e si va in pensione. Il lavoro, nella misura in cui usura, fa invecchiare precocemente, ma pure l'assenza di lavoro può anch'essa «usurare» per altre strade e conseguentemente invecchiare. E il lavoro è importante nella misura in cui favorisce i legami sociali. Di questo abbiamo dato conto nel capitolo terzo sul lavoro, sottolineando come per alcuni la possibilità di continuare a lavorare oltre l'età di pensionamento (per le professioni alte) rappresenti in sostanza un privilegio e quindi favorisca per loro una prospettiva di invecchiamento attivo. E in effetti la possibilità di continuare a lavorare anche dopo l'età di pensionamento come scelta e non come costrizione è – come sottolinea Paci [2007] – una condizione favorevole per l'invecchiamento attivo.

Infine, per quel che riguarda ancora il senso dell'invecchiamento attivo, va ribadito che l'attività può essere intesa sia come attività lavorativa sia, in generale, come attività umana: dall'impegno nelle relazioni sociali, alle attività culturali e allo studio, ecc. Ma anche l'attività lavorativa presenta a sua volta molte e complesse dimensioni: può trattarsi di attività di mercato ma anche di attività fuori mercato, cioè non retribuite finanziariamente. Nei bilanci tempo delle persone questa distinzione sta diventando sempre più difficile e complessa man mano che aumenta il peso di alcune attività specifiche (si pensi ad esempio al lavoro di cura) che possono essere considerate di mercato o fuori mercato. E nel circuito dei lavori di cura gli anziani giocano un ruolo determinante sia a volte come attori, contribuendo ad essi, sia soprattutto in maniera opposta essendone l'oggetto (anzi uno degli oggetti privilegiati).

Naturalmente questo si intreccia con la questione del pensionamento e dell'età pensionabile. Abbiamo affermato che l'uscita dal lavoro per andare in pensione si riferisce alla fine di un ciclo di attività lavorativa rispetto al quale si è maturato il diritto a un trattamento pensionistico. Questa uscita, forzosa o volontaria, lascia comunque ora la possibilità di svolgere attività anche di mercato, che prolungano la vita attiva, l'invecchiamento attivo. E c'è ancora un nesso sottolineato più volte da Massimo Paci, che riguarda le condizioni di uscita dal lavoro in direzione della pensione, vale a dire da una parte le norme riguardanti l'età di uscita e il loro carattere più o meno flessibile, dall'altra il contesto sociale generale e l'insieme di politiche a favore degli anziani. Scrive Paci:

i risultati ottenuti sono stati assai diversi a seconda che esse [le politiche] fossero ispirate a una filosofia strettamente «contabile» o finanziaria (cioè rivolte essenzialmente a risparmiare sulla spesa previdenziale) o fossero parte di una visione più ampia, volta a valorizzare, sul piano sociale ed economico, la risorsa costituita dagli anziani. Il pensionamento «flessibile», ad esempio, [...] o quello «graduale» che permette di combinare il pensionamento con il lavoro part-time, vengono introdotti, con varie modalità di incentivazione, in quasi tutti i paesi europei. Mentre in Italia e in Germania essi ottengono scarso successo, il contrario avviene in Finlandia, Olanda o Danimarca [2005, 5].

I casi virtuosi cui Paci si riferisce – come egli stesso sottolinea – sono quelli di paesi piuttosto lontani dall'Italia per storia, contesto sociale e istituzionale nonché dimensione e complessità interna. Da noi non solo sono carenti le politiche generali per gli anziani, ma anche quelle riguardanti una limitata fascia di essi, cioè gli anziani più giovani – e relative in sostanza all'innalzamento dell'età di pensionamento – hanno avuto carattere standardizzato, cioè sono state prive di attenzioni alle specificità personali e sociali degli individui e in sostanza poco flessibili e comunque obbligatorie. L'eccezione rispetto alla obbligatorietà è rappresentata dal «super bonus» (un premio per chi restava a lavorare) istituito nel 2004 che però ha avuto esiti effettivamente modesti.

Tutto questo comunque riguarda il lavoro e quindi in sostanza solo la terza età. Inoltre è da tenere in conto che oggi la vecchiaia è uno stato che dura più a lungo che in passato e che proprio per questo richiede interventi più articolati che tengano conto delle diverse possibilità di attivazione. La questione è di ordine più generale. Si può dire che il successo di un processo di invecchiamento — e la cosa vale non solo per la terza ma anche e soprattutto per la quarta età – è in rapporto alla capacità di evitare la dipendenza. In questo processo – che riguarda le capacità individuali del soggetto, il suo stato di salute, le sue stesse risorse finanziare, umane e culturali, le reti di relazioni e il suo capitale sociale – lo stato può intervenire a tutti i livelli rafforzando e potenziando queste risorse oppure indennizzandone in qualche modo la perdita o fornendo aiuto e assistenza in termini di servizi. In Italia in sostanza si sono avute solo politiche passive, cioè di (parziale) indennizzo. Il caso del lavoro di cura del quale abbiamo parlato nel capitolo precedente ne è chiara espressione.

Tra le molteplici dimensioni dell'invecchiamento attivo c'è infine quella di evitare l'isolamento. Ed è noto che l'isolamento sociale è un fattore che tende ad acuire la dipendenza, la medicalizzazione e, in ultima analisi, anche i costi dell'assistenza. La vita sociale degli anziani e dei grandi anziani fuori dal lavoro è un aspetto di grande rilievo e da questo punto di vista è importantissimo il contesto urbano e ambientale nel quale essi vivono. Si tratta ad esempio dell'accesso ai servizi nella città – che spesso è differenziato nei diversi quartieri – ma anche delle possibilità di mobilità delle quali essi possono godere sia in rapporto alla strutturazione degli spazi urbani che in rapporto al funzionamento di mezzi pubblici e alla loro compatibilità con le esigenze della popolazione anziana. Si tratta infine della possibilità pratica di frequentare gli amici e di avere accesso ai servizi o alle attività ricreative e quant'altro.

Il superamento della segregazione domestica degli anziani, resa possibile dal miglioramento delle condizioni di salute e in generale delle condizioni materiali, implica un'attenzione alle diverse sfere della loro vita quotidiana con un potenziamento della loro vita di relazione che compensi della perdita della vita familiare (e ne determini magari anche un qualche recupero). Ma, come accennato nell'introduzione, la letteratura sull'argomento presenta scarse proposte concrete e scarsi riferimenti a pratiche ed esperienze da usare come modello mentre prevalgono essenzialmente le speranze e gli auspici.

Tuttavia vale la pena ricordare che, riguardo alla quarta età, l'atteggiamento sul piano analitico e politico nei confronti dei grandi anziani è ancora caratterizzato soprattutto dal tipo di svalutazione legato all' agisme. In questo – nota Laslett – c'è anche una certa responsabilità da parte degli orientamenti prevalenti nella geriatria: «Un ottantenne che si trovi a partecipare a un convegno di geriatria o gerontologia (...) sentirà sottolineare con tanta insistenza le sue presunte incapacità che finirà col meravigliarsi del fatto stesso di poter essere presente» [Laslett 1998, 761].

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