Copertina
Autore Hilary Putnam
Titolo Etica senza ontologia
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2005, Testi e pretesti , pag. 220, cop.fle., dim. 103x170x15 mm , Isbn 978-88-424-9286-3
OriginaleEthics without Ontology [2004]
PrefazioneLuigi Perissinotto
TraduttoreEddy Carli
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe filosofia , relativismo-assolutismo
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Indice

VII Prefazione
    di Luigi Perissinotto

 3  Ringraziamenti

 7  Introduzione


    Parte prima
    Etica senza ontologia


 25 Lezione 1. Etica senza metafisica

 25 Che cosa intendo con il termine "Ontologia"
 35 Che cosa intendo per "etica"
 43 Problemi pratici
 48 Conclusioni

 51 Lezione 2. In difesa della relatività concettuale

 52 La relatività concettuale
 60 "La differenza di significato"
 69 Carnap e Lesniewski sono in contraddizione?
 71 Enunciati d'identità e relatività concettuale
 72 Pluralismo concettuale

 79 Lezione 3. Un oggettivismo privo di oggetti

 84 Un oggettivismo privo di oggetti: il caso della logica
 92 La verità concettuale
 97 I limiti della verità concettuale come spiegazione
 99 La verità matematica
103 I giudizi di valore metodologico

109 Lezione 4. Necrologio dell'"Ontologia"

112 I giudizi etici
115 La questione del disaccordo etico
119 La rinascita dell'ontologia di Quine
124 I problemi di un paesaggio deserto
127 Ontologia e linguaggio non-scientifico
130 Il necrologio dell'Ontologia


    Parte seconda
    Illuminismo e pragmatismo


135 Lezione 1. Tre generi di illuminismo


163 Lezione 2. Dubbi scettici sull'illuminismo

193 Bibliografia
205 Indice analitico
215 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 7

Introduzione


Potrebbe apparire strano che un libro intitolato Etica senza ontologia si occupi di questioni che riguardano non soltanto l'etica, ma anche la filosofia della logica e la filosofia della matematica. Ma questo non è per nulla accidentale. Ritengo, infatti, che la sventurata suddivisione della filosofia contemporanea in diversi "settori" (etica, epistemologia, filosofia della mente, filosofia della scienza, filosofia del linguaggio, filosofia della logica, filosofia della matematica e altri ancora) impedisca di cogliere la modalità reale con cui i medesimi argomenti e problemi si presentano nei vari campi d'indagine. Per esempio, gli argomenti a favore dell'"antirealismo" in etica sono virtualmente identici a quelli che si portano in favore dell'antirealismo in filosofia della matematica; ciononostante, i filosofi che nel secondo ambito respingono tali argomenti, spesso li accettano nel primo. Eppure potremo raggiungere quella visione integrata cui la filosofia ha sempre aspirato soltanto se, almeno in minima parte, rinunceremo all'idea che una posizione o un'argomentazione filosofica debba necessariamente riguardare uno e uno soltanto di questi "campi" specifici.

L'invito a tenere un ciclo di lezioni, le Hermes Lectures, all'Università di Perugia (lezioni che costituiscono la prima parte di questo volume) mi ha dato l'opportunità di formulare e presentare pubblicamente alcune questioni che da tempo volevo trattare: in particolare, come la rinnovata (e costante) rispettabilità dell'Ontologia (la maiuscola è qui intenzionale!), in seguito alla pubblicazione, nella metà del secolo scorso, di Che cosa c'è di W.v.O. Quine, abbia avuto esiti disastrosi in gran parte della filosofia analitica.

Nel corso della mia attività filosofica, che copre ormai mezzo secolo, mi sono occupato in svariati saggi di temi connessi a questa problematica. Per esempio, ho affermato che l'etica e la matematica possono avere, e di fatto possiedono, il requisito dell'oggettività anche se non trattano oggetti intangibili o sublimi come le "forme platoniche" o le "entità astratte", e che pensare che il termine "esistere" abbia un unico e determinato significato, scolpito nella roccia, per così dire, è un'idea del tutto errata. In linea con il pragmatismo classico americano, ho sostenuto che l'etica non deve identificarsi con un campo d'interesse singolare dell'uomo o con un singolo insieme di concetti. Ma prima d'ora non mi è mai capitato di mostrare le relazioni che sussistono in tale insieme di questioni: questo è l'obiettivo principale delle lezioni qui raccolte.

[...]

Nella prima parte del libro, John Dewey compare come uno dei principali "eroi" della mia lista; lo ammiro soprattutto per aver messo in luce che la funzione dell'etica non consiste, in prima istanza, nel pervenire alla formulazione di "principi universali". Il primo obiettivo di un filosofo morale, secondo la visione di Dewey, che è quella da me difesa, dovrebbe essere non l'elaborazione di un "sistema", ma un contributo alla soluzione di problemi di natura pratica – come Aristotele sapeva molto bene. Anche se nella soluzione di problemi di carattere pratico siamo spesso guidati da principi universali (o perlomeno da principi che sono ritenuti universali e privi di eccezioni), sono pochi i problemi reali che possono essere risolti se trattati come semplici istanze di una generalizzazione universale. Pochi problemi pratici significa che, quando li abbiamo risolti (Dewey sosteneva che la soluzione di un problema è sempre previsionale e fallibile), è quasi impossibile poter affermare che cosa abbiamo appreso all'incontro con una "situazione problematica" nella forma di una generalizzazione universale che possa essere applicata in modo non problematico ad altre situazioni. Persino Kant – spesso considerato il maggior rappresentante di questo genere di teoria etica che vorrebbe fondarsi su regole morali universali –, persino Kant era consapevole del fatto che ciò che chiamiamo "legge morale" non può essere applicato a situazioni concrete senza l'aiuto di ciò che egli chiama "ingegno naturale" e che tale "ingegno naturale" o "giudizio naturale" non è qualcosa di riducibile a un algoritmo.

Nella prima parte di questo libro Dewey compare nella mia lista di "eroi" per due ragioni: 1) per mostrare come, secondo la mia concezione, l'etica non si fonda su un singolo interesse o obiettivo ma su una varietà d'interessi diversi (immagino che Dewey avrebbe detto che, in un modo o nell'altro, l'etica si fonda in ultima istanza su ogni interesse umano); 2) per illustrare il modo in cui l'etica è (con un termine preso a prestito da Wittgenstein ) un "miscuglio".

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Pagina 25

Lezione 1

Etica senza metafisica


Circa quarant'anni fa il mio famoso collega Willard van Orman Quine, deceduto purtroppo nel dicembre del 2000, si trovò ad ascoltare, a Harvard, la conferenza di un noto filosofo del quale non faccio il nome. Quando, qualche anno dopo, gli venne chiesto che cosa pensasse di quella conferenza, Quine, con squisita cortesia, rispose: «Dipinge con un pennello a punta grossa». Tacque, poi con minor cortesia aggiunse: «E pensa con lo stesso pennello!».

In questa lezione introduttiva anch'io userò un pennello a punta grossa per spiegare in modo molto generale ciò che vorrei esporre nelle prossime quattro lezioni. Ma in quelle successive userò un pennello più sottile.


Che cosa intendo con il termine "Ontologia"

Il titolo dell'insieme di lezioni che compongono questa prima parte è "Etica senza ontologia". So bene che in Europa (perlomeno in alcuni paesi) il termine "ontologia" è spesso associato all'"ontologia fondamentale" di Martin Heidegger, più che alla ricerca tradizionale risalente alla Metafisica di Aristotele, o a quella particolare accezione della nozione di ontologia riscontrabile nella filosofia analitica contemporanea, a partire dalla famosa pubblicazione di Quine del 1948, Che cosa c'è. Dato che, come Heidegger, ho una posizione critica nei confronti dell'ontologia tradizionale (seppur non per le stesse ragioni: Heidegger non ha mai ritenuto la filosofia analitica degna di particolare considerazione) – critica verso ciò che Heidegger chiamava sprezzantemente "onto-teologia" – e, dato che (di nuovo, come Heidegger) ritengo che la filosofia debba prendere in considerazione ciò che è indispensabile nella vita quotidiana molto più seriamente di quanto abbia fatto la tradizione ontologica, sembrerebbe che io mi stia schierando dalla parte di Heidegger, o perlomeno che mi avvicini ad alcune conclusioni heideggeriane, muovendo da una prospettiva di tipo wittgensteiniano. Ma non è quel che mi propongo di fare in queste lezioni.

Heidegger non è stato il solo grande filosofo del XX secolo a valorizzare il "mondo della vita" (Lebenswelt) e a condannare la tendenza dei filosofi metafisici (inclusi alcuni metafisici che si definiscono "filosofi analitici") a non prenderlo in seria considerazione. Anche Wittgenstein fece questo e come lui alcuni pragmatisti americani, in particolare John Dewey. Il mio pensiero filosofico, al pari di quello di Dewey, è fondamentalmente fallibilista, ma, analogamente a Wittgenstein e diversamente dai pragmatisti, ritengo che uno dei compiti più ardui della filosofia consista nel trovare un modo per sostenere la verità rimanendo nelle coordinate del fallibilismo senza cadere nello scetticismo. In particolare, concordo con i pragmatisti nel rifiutare totalmente l'idea che esista un insieme di verità sostanziali e necessarie che la filosofia ha il compito di scoprire, ma non penso più (come in passato) che abbia senso ritenere, come Quine, che qualsiasi cosa in cui in questo momento crediamo possa essere riesaminata.

Ho affrontato la questione un po' alla larga per concludere che non userò il termine "ontologia" nel senso di Heidegger. L'ontologia, nell'altro senso, quello tradizionale, è parte della metafisica (talvolta, per alcuni filosofi, essa sembra virtualmente costituire l'intera metafisica), e viene spesso descritta come "la scienza dell'essere".

[...]

In breve, l'eliminativista, come il riduzionista, sostiene che non c'è nulla se non questo e quest'altro, dove questo e quest'altro è soltanto una piccola parte di ciò di cui normalmente pretendiamo di parlare. Perciò considero sia il riduzionismo sia l'eliminativismo alla stregua di strategie ontologiche deflazioniste o minimaliste. Diversamente dal riduzionista, tuttavia, l'eliminativista non direbbe che questo accade perché le cose di cui pretendiamo di discutere (le proprietà in opposizione ai nomi, nel caso della tradizionale disputa metafisica sugli "universali"; i valori, il dovere assoluto, i doveri verso gli altri, la virtù ecc. nel caso dell'etica; i numeri, le funzioni e gli insiemi nel caso della matematica) sono realmente questo e quest'altro. Inoltre l'eliminativista non afferma che discutere di cose di cui pretendiamo di discutere è in qualche modo "riducibile" a discutere di questo o quest'altro (parlare di nomi, di dati sensoriali, del piacere o di particelle elementari, per esempio). L'eliminativista afferma che il nostro discorso ordinario è cognitivamente infondato, così come lo è discutere di alchimia, del flogisto o delle streghe.

Obiettivo del riduzionista è mostrarci ciò che "realmente" affermiamo, e che esso è compatibile con la sua ontologia minimalista. L'obiettivo dell'eliminativista è mostrare che il nostro discorso verte su entità fittizie. Ma sia lui sia il riduzionista sono deflazionisti.

I due ontologi deflazionisti più famosi nella storia della filosofia sono stati forse Democrito ("Non c'è nient'altro che atomi e vuoto") e George Berkeley ("Non c'è nient'altro che lo spirito e le sue idee", cioè, la mente e le sue sensazioni). Essi hanno dato origine alle versioni riduzioniste ed eliminativiste, rispettivamente, del materialismo e dell'idealismo. Quando, nell'ultima di queste quattro lezioni, formulerò il necrologio del progetto ontologico, certificherò la morte, appunto, di tutte le versioni del progetto, quelle deflazioniste e quelle inflazioniste.

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Pagina 35

Che cosa intendo per "etica"

Con il termine "etica" non intendo dare un nome a un sistema di principi – sebbene alcuni principi (per esempio, la Regola aurea ["Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te.", n.d.r.] o altre sofisticate regole come l'imperativo categorico) siano parte essenziale dell'etica – ma intendo piuttosto un sistema di elementi correlati che si puntellano reciprocamente, presentando però una certa tensione oppositiva. A meno che il termine non sia "virgolettato", non va inteso estensivamente, alla maniera dei "sociobiologi", per esempio, i quali sostengono che l'"etica" è presente in tutte le culture umane perché in tutte le culture vi sono individui disposti a sacrificarsi per la sopravvivenza della comunità. L'attitudine umana alla lealtà per qualcosa che superi l'individualità, comprendente almeno la comunità, è effettivamente un presupposto dell'etica, nel significato che sto utilizzando; ma l'esplicarsi di tale attitudine è compatibile, per esempio, con un' "etica" (si notino le virgolette) che consideri non già la benevolenza altruistica ma il coraggio e l' "ardimento virile" come le virtù più elevate. L'esaltazione della guerra e del machismo potrebbe, di fatto, nella storia della cultura umana, venir prima della valorizzazione dell'attitudine a lenire le sofferenze altrui, a prescindere dalla condizione sociale o dal sesso di colui che soffre. È tuttavia a quest'ultima concezione, che ha radici profonde nelle diverse tradizioni religiose – non soltanto nelle religioni occidentali ma anche nell'islam, nel confucianesimo, nell'induismo e nel buddismo – che intendo riferirmi con il termine "etica". In effetti ciò che definirei "etica" è precisamente quella morale che Friedrich Nietzsche deplorava e che considerava debolezza e persino malattia (questo non significa accusare Nietzsche di pensare che l'etica del machismo e del coraggio fisico sarebbero oggi qualcosa di diverso da un ridicolo anacronismo).

Sebbene vi siano numerosissime questioni che sono state associate all'etica in questo senso – l'etica della compassione, specialmente dalla nascita della democrazia moderna – potrei indicare almeno alcuni dei problemi centrali, se non altro i più importanti, facendo il nome di tre filosofi, seppure in un ordine storico invertito: Emmanuel Lévinas, Kant e Aristotele. Faccio accenno a Lévinas innanzitutto perché il titolo di questo libro, Etica senza ontologia, avrebbe potuto essere il titolo di un'opera di Lévinas. Il tema centrale della filosofia di Lévinas, di fatto, è l'idea che qualsiasi tentativo di ridurre l'etica a una teoria dell'essere, o di fondare l'etica su una teoria dell'essere, sull'ontologia intesa sia in senso tradizionale sia in senso heideggeriano, è fallito miseramente.

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Pagina 47

[...] Da tutto questo, sia nella fase iniziale, sia in quella finale del suo lavoro, Dewey concludeva quanto segue:

1. Il fine della filosofia in generale, e dell'etica in particolare, non è quello dell' infallibilità (ovvero di produrre una serie di verità teoriche eterne). Scrivendo «la filosofia ritrova se stessa quando smette di essere uno strumento per discutere problemi con dei filosofi e diventa un metodo, praticato dai filosofi, per affrontare i problemi degli uomini», Dewey ha evidenziato, durante tutta la sua vita, che la filosofia nasce dalle reazioni circonstanziate nel tempo a problemi specifici nei quali ci s'imbatte in circostanze culturali diverse. Se un filosofo può contribuire a fornire soluzioni ragionate ad alcuni problemi che segnano la sua epoca, il suo non sarà un contributo di poco valore, ed è ragionevole attendersi che in futuro alcune sue assunzioni potranno essere accettate o rifiutate. Il nostro obiettivo in quanto filosofi non è quello di conseguire l' "immortalità".

2. In particolare, si trattasse di consigli concernenti problemi specifici – soprattutto problemi di educazione democratica – o di consigli di carattere generale, le raccomandazioni etiche che lo stesso Dewey formulava erano di natura essenzialmente metodologica. Abbiamo la possibilità di migliorare il modo di far fronte ai mali particolari che affliggono il mondo – come la fame, la violenza e l'ineguaglianza – e non dobbiamo sentirci frustrati se dal nostro coinvolgimento non siamo in grado di ricavare un testo sulle verità etiche universali che possa orientare infallibilmente le generazioni future.

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Pagina 130

Il necrologio dell'Ontologia

Sono consapevole che non riuscirò a convincere i credenti convinti, ma se riuscissi a vaccinare qualche lettore contro questo particolare morbo, ne sarei più che felice. Ciò che si osserva in questo mio breve resoconto sulla rinascita dell'ontologia, all'interno di quelli che sono ritenuti gli incontaminati recinti della filosofia analitica, è qualcosa che ho cercato di porre in evidenza nella seconda lezione di questa serie. In sostanza, se assumiamo – in un certo senso a priori – che c'è un singolo senso "reale" e un singolo senso "letterale" dell' "esistenza" – e dunque un singolo senso "letterale" dell' "identità" – un senso scolpito nel marmo e che non può essere ristretto o esteso senza deturpare la statua del dio intoccabile, questo è segno che ormai ci troviamo nel mondo delle favole.

Tale assunto è implicito sin dall'inizio nel procedere di Quine. Di qui la sua ostilità verso la logica modale, persino quando le modalità sono chiare quanto il senso matematico di "possibile" e "impossibile". Ma a Quine questo sembra soltanto un modo per occultare ciò che affermiamo con il termine "esistenza" in senso letterale. Di qui anche il completo rifiuto del nostro "sistema [concettuale] di secondo grado", che Quine considera inadeguato a illustrare le infinite possibilità di estensione della nostra nozione di "esistenza" (pluralismo concettuale) e che egli vede piuttosto come un discorso, nella migliore delle ipotesi, privo di rigore.

Avevo promesso di pronunciare un necrologio dell'ontologia, ma sviluppare queste considerazioni, sarebbe come frustare un cavallo morto. Dirò invece quanto segue (poiché su colui che è morto è consuetudine spendere almeno una buona parola): anche se l'ontologia è diventata un cadavere maleodorante, in Platone e Aristotele essa ha rappresentato il veicolo per trasmettere molte intuizioni filosofiche originali. Queste intuizioni dànno da pensare ancora a tutti noi che, occupandoci di filosofia, nutriamo un sia pur minimo senso della storia. Peccato che quel veicolo, sopravvissuto da lungo tempo, sia oggi inesorabilmente inutile.

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