Copertina
Autore Thomas Pynchon
Titolo L'arcobaleno della gravità
EdizioneRizzoli, Milano, 2001 [1999], BUR La scala , pag. 974, dim. 128x200x60 mm , Isbn 978-88-17-86690-3
OriginaleGravity's Rainbow [1973]
TraduttoreGiuseppe Natale
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


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Indice


1. Oltre lo Zero                       pag.   7

2. Une perm au casino Hermann Göring   pag. 237

3. Nella Zona                          pag. 363

4. La Forza Contraria                  pag. 787

 

 

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Pagina 9

Un grido s'avvicina, attraversando il cielo. È già successo prima, però niente di paragonabile ad adesso.

Ormai è troppo tardi. L'Evacuazione prosegue, ma è tutta scena. Le luci dei vagoni sono spente. Sono spente anche fuori. In alto, sopra la sua testa, si ergono le travi oblique, vecchie quanto la regina di ferro, e più in alto ancora una vetrata in grado di lasciar filtrare la luce del giorno. Sennonché è notte. La vetrata cadrà giù - presto - sarà un crollo temibile, spettacolare, il crollo di un palazzo di cristallo. Però avverrà nel buio più totale, senza neppure un barlume di luce a rischiararlo, un grande schianto invisibile e nient'altro.

L'uomo se ne sta seduto nell'oscurità vellutata di quella carrozza a più piani senza niente da fumare, avverte il fremito del metallo, vicino e lontano, che sfrega e si aggancia, gli sbuffi di vapore, una vibrazione che si propaga lungo il telaio della carrozza, un senso di sospensione, di disagio; gli altri passeggeri schiacciati attorno a lui, i deboli, le pecore secondarie, i quali hanno esaurito la loro scorta di tempo e di fortuna: ubriachi, vecchi reduci di guerra ancora sotto shock vent'anni dopo per un fuoco d'artiglieria, lestofanti in abito borghese, derelitti, donne sfinite in possesso di una quantità disumana di marmocchi, ammassati in mezzo alle altre masserizie da mettere in salvo. Solo le facce a lui più vicine sono in qualche modo visibili, e per giunta somigliano alle immagini semiargentate che si vedono nel mirino di una macchina fotografica, alle facce dei VIP intraviste dietro i finestrini verdi delle auto blindate che sfrecciano per la città...

Hanno cominciato a muoversi. I vagoni sfilano via lenti, lasciano la stazione principale, il centro, e si spingono nei sobborghi più vecchi e più desolati della città. L'uscita è veramente di qua? I passeggeri si voltano per guardar fuori dai finestrini, nessuno però ha il coraggio di fare domande, per lo meno non ad alta voce. Piove. No, di qua non si va da nessuna parte, non ci si libera, anzi, ci si aggroviglia sempre più - si infilano sotto i passaggi a volta, entrate segrete di cemento armato putrefatto, sembrano passanti ferroviari, ma in realtà non lo sono... sopra il loro capo passano alcuni tralicci di legno annerito, nell'aria ora si sente l'odore di carbone dei tempi lontani, degli inverni che sapevano di nafta, delle domeniche senza traffico, delle concrezioní coralline, misteriosamente vitali, cresciute lungo le curve cieche, sopra i raccordi solitari, un odore acre nato nell'assenza di materiale rotabile, l'odore della ruggine che avanza, che matura in quei giorni di svuotamento totale, luminosi e profondi, soprattutto all'alba, quando le ombre blu sigillano il suo passaggio, nel tentativo di riportare gli eventi allo Zero Assoluto... più si addentrano nei sobborghi più lo scenario si fa desolato... sono le città dei poveri, posti segreti, in sfacelo, dal nome a lui sconosciuto... i muri si sgretolano, i tetti si fanno sempre più scarsi, così come le loro probabilità di rivedere la luce. La strada, invece di allargarsi come ci si sarebbe aspettato, si restringe sempre più, si fa sempre più tortuosa, le curve si fanno sempre più strette finché all'improvviso, decisamente troppo presto, il convoglio si infila sotto l'ultimo arco: i freni scattano, bloccandosi con un rumore tremendo. È una sentenza senza appello.

Il convoglio si è fennato. Sono arrivati al capolinea. Tutti gli sfollati ricevono l'ordine di scendere. Si muovono lentamente, ma senza far resistenza. I soldati incaricati di smistarli portano una coccarda color piombo e non parlano. Il posto in cui sono arrivati è un albergo enorme, molto vecchio e molto buio, un prolungamento metallico del sistema di binari e di scambi che li ha portati fin lì... Appesi alle elaborate gronde in ferro battuto vi sono dei globi dipinti di verde scuro, spenti da secoli... la folla avanza silenziosa, senza mormorii o colpi di tosse, lungo i corridoi diritti e funzionali quanto le corsie di un magazzino... le superfici rivestite di velluto nero assorbono il movimento: si sente un odore di legno vecchio, di aria stantia, di ali remote appena riaperte per ospitare quella calca di anime, un odore di intonaco freddo, dove han trovato la morte tutti i topi, solo i loro fantasmi, infissi nelle pareti, brillano ancora ostinati, immobili come dipinti preistorici... gli sfollati vengono fatti salire a gruppi sull'ascensore: un ponteggio mobile di legno aperto da tutti i lati, sollevato da vecchie funi incatramate che girano su pulegge di ghisa dai raggi a forma di S. A ogni piano, i passeggeri scendono e scompaiono nel buio... esistono migliaia di queste stanze ovattate, senza luce...

Alcuni restano ad aspettare da soli, altri condividono le loro stanze invisibili. Sì, propio così, invisibili. Del resto, che importanza possono avere i mobili, a questo punto? Le suole delle loro scarpe frantumano la lordura più antica della città, la cristallizzazione finale di tutto ciò che la città ha negato ai propri figli, ricorrendo alle minacce e alle menzogne. Ognuno di loro, in tutto quel tempo, ha sentito una voce che pensava parlasse a lui solo: «Non credevi davvero che qualcuno t'avrebbe salvato. Su, andiamo... Ormai lo sappiamo tutti, chi siamo. Chi poteva prendersi la briga di salvare proprio te, vecchio mio...?»

Non c'è via d'uscita. L'unica cosa da fare è starsene giù distesi ad aspettare, senza muoversi e senza fare rumore. Il grido sta ancora attraversando il cielo. Quando cadrà, verrà giù al buio, oppure porterà con sé la propria luce? E la luce verrà prima o dopo?

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Pagina 38

Era stato un venerdì sera, il settembre scorso. Slothrop aveva appena finito di lavorare e si stava dirigendo verso la stazione della metropolitana di Bond Street, la mente già assorbita dal fine settimana che lo aspettava e dalle sue due ausiliarie, Norma e Marjorie, a cui non doveva far sapere l'una dell'altra. Proprio mentre stava allungando la mano per togliersi la caccola dal naso, all'improvviso nel cielo dietro di lui, lungo il fiume, a chilometri di distanza, memento mori, aveva sentito uno schianto secco e subito a seguire una forte esplosione, simile al rombo di un tuono. Ma non era un tuono. Alcuni secondi dopo, questa volta davanti a lui, il rombo si era ripetuto, forte e chiaro, su tutta la città. Tiro a forcella. Non era una bomba volante, non era opera della Luftwaffe. «Non è neppure un tuono», aveva detto ad alta voce, perplesso.

«Sarà una di quelle maledette condutture del gas», aveva esclamato una signora, in mano il cestino vuoto della colazione, gli occhi gonfi per la lunga giornata, che gli aveva rifilato una gomitata nella schiena mentre passava.

«No, sono i tedeschi...» aveva replicato la sua amica, la frangetta bionda arricciata nascosta sotto un foulard a scacchi - la quale si stava ora esibendo in un numero mostruoso, «sono i tedeschi che vengono a prender questo qua», e, alzando le mani verso Slothrop, «gli piacciono gli americani, soprattutto quelli belli cicciottelli...» Tempo un minuto e avrebbe allungato la mano per pizzicargli la guancia, scuotendola avanti e indietro.

«Salve, bellezza», aveva detto Slothrop. La ragazza si chiamava Cynthia. Slothrop era riuscito a farsi dare il suo numero di telefono prima che lei gli facesse ciao ciao con la manina, riassorbita dalla folla dell'ora di punta.

Era uno di quei grandi pomeriggi plumbei tipici di Londra: il sole veniva lentamente sciolto in trefoli dal respiro di un migliaio di camini che scodinzolavano all'insù, senza pudore. Quel fumo era qualcosa di più del respiro del giorno, della forza oscura - era una presenza viva che si spostava maestosa per la città. La gente andava di qua e di là, attraversando strade e piazze. Gli autobus avanzavano in uno stridio metallico, a centinaia, sul lunghi viadotti di cemento consunti da anni di uso impietoso, di cupa tetraggine, addentrandosi nel grigio della caligine, nel nero dell'untume, nel rosso del piombo, nel pallore dell'alluminio, fra mucchi di rottami che svettavano alti come caseggiati, lungo le linee secondarie che sfociavano nelle strade intasate di traffico, piene di convogli militari, di altri autobus alti, di autocarri col telone, di biciclette e di automobili, ciascuno con una origine e una destinazione diversa, muovendosi in un flusso compatto, avanzando ogni tanto a singhiozzo, il tutto sovrastato dalle immense rovine gassose del sole fra le ciminiere, i palloni di sbarramento, le linee elettriche e i camini marroni, scuri come il legno invecchiato degli interni, un marrone che s'incupisce, diventa quasi nero per un istante - forse il vero momento del tramonto - che per voi è vino, vino e consolazione.

Il momento preciso: le 18.43.16, ora legale britannica. Il cielo vibrava ancora, come il tamburo della Morte, e l'uccello di Slothrop - Come ha detto, scusi? Sì, guardate pure dentro le sue mutande tattiche, il suo uccello si sta rizzando furtivo, pronto a saltar su - be', santo cielo, che cosa l'aveva eccitato a tal punto?

Come rivela il suo passato e, che il Signore lo aiuti, anche il suo fascicolo personale, Slothrop è stranamente sensibile alle rivelazioni del cielo. (Sì, va bene, ma un'erezione...?)

Al suo paese d'origine, Mingeborough, nel Massachusetts, nel cortile della chiesa congregazionalista, su una vecchia lapide in schisto, si vede la mano di Dio emergere da una nuvola, i suoi contorni, dopo duecento anni, appaiono erosi, cesellati dal fuoco e dal ghiaccio delle stagioni. Sulla pietra si legge l'iscrizione:

            A Ricordo di Constant
            Slothrop, morto addì,
            4 marzo 1766, nel suo 29.mo
            anno di vita.

            La morte è un debito che
            Alla natura si deve pagare,
            Io l'ho fatto, ora sei tu
            Che lo devi saldare.

Constant aveva visto, e non solo col cuore, la mano di pietra emergere da quelle nuvole secolari e puntare decisa verso di lui, i suoi contorni disegnati da una luce accecante, sopra il mormorio del fiume e i lunghi pendii azzurri delle sue Berkshires, così come sarebbe successo a suo figlio Variable Slothrop e, in verità, in un modo o nell'altro, a tutta la sua stirpe, ruzzolando all'indietro, risalendo lungo i rami delle nove o dieci generazioni di Slothrop: tutti, fatta eccezione per il primo in assoluto, William, sepolto sotto le foglie morte, sotto le piante di menta e di salicaria, sotto le ombre gelide dell'olmo e del salice che ornavano il cimitero al limitare della palude, in un lungo gradiente di putredine, di lisciviazione, di assimilazione con la terra, mentre sulle pietre apparivano angeli dalla faccia tonda e il naso lungo da cane, teschi di morte dai denti grandi e dalle orbite indossate, simboli massonici, urne fiorite, salici piumati dritti o spezzati, clessidre vuote, dischi solari sul punto di sorgere o di tramontare con occhi che sbirciavano oltre il loro orizzonte come tanti Kilroy, e versi commemorativi che andavano dallo schema metrico lineare, deciso, di Constant Slothrop, passando attraverso il metro saltellante, gagliardo, alla Star Spangled Banner, di Mrs Elizabeth, la moglie del tenente Isaiah Slothrop (morta nel 1812):

    Adieu, miei cari amici, a questa tomba mi
                                   feci portare
    Dalla Morte Insaziabile, nella sua
                                     mietitura.
    Finché Cristo non risorgerà i Suoi figli a
                                       salvare,
    Come m'ha insegnato la Sua Parola, nella
                                     Scrittura.
    Nota il mio grido, o Lettore! Volgi i
                             pensieri al Cielo,
    Nel pieno della prosperità coglierti può lo
                                       sfacelo.
    Mentre lassù, nell'oscurità, tesse il
                             Telaio del Signore
    Le nostre pene, quaggiù son solo i fili del
                                     Suo Amore.

Per arrivare a Frederick Slothrop (morto nel 1933), nonno dell'ultimo Slothrop, il quale, con l'astuzia e il sarcasmo a lui tipici, aveva usato come epitaffio i versi di Emily Dickinson, appropriandosene senza citare la fonte:

    Poiché la Morte non potei aspettare,
    Lei, gentilmente, aspettò me.

Viene per ognuno il momento di pagare il proprio debito alla natura, e la rimanenza passa al nome successivo nella linea di discendenza. Gli Slothrop avevano cominciato commerciando in pellicce, lavorando il cuoio, producendo pancetta salata e affumicaia, si erano poi lanciati nella produzione del vetro, erano diventati consiglieri municipali, avevano costruito concerie, estratto la pietra nelle cave di marmo. La campagna circostante, per chilometri, s'era trasformata in una necropoli, resa grigia dalla polvere di marmo, una polvere che era il respiro, l'anima di tutti quei monumenti falsoateniesi che venivano eretti un po in tutta la Repubblica. Ma non lì, sempre da qualche altra parte. I soldi svanivano a poco a poco, passando attraverso un portafoglio titoli dai rami più intricati di un albero genealogico: ciò che restava sul luogo, nel Berkshire, veniva investito nei boschi da legname, acri e acri di distese verdi sempre più piccole venivano velocemente convertiti in carta - carta igienica, fasci di banconote, carta da giornale - lo strumento o il pretesto per la merda, i soldi e il Verbo. Non erano aristocratici, nessuno Slothrop era mai riuscito a entrare ne Social Register o nel Somerset Club - continuavano nella loro opera in silenzio, completamente integrati, da vivi, nella dinamica che li circondava, così come da morti lo sarebbero stati nella terra del cimitero. La merda, i soldi, e il Verbo, le tre verità americane che alimentano la mobilità sociale, avevano reclamato a sé gli Slothrop, li avevano stretti nella loro morsa, legandoli per sempre al destino dei paese.

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Pagina 77

Entrambi si rendono conto di quanto possa apparire strano il loro legame. Roger Mexico poteva essere considerato l'anti-Pointsman per eccellenza, se mai ne fosse esistito uno. Non è tanto per la questione delle ricerche psichiche, com'è pronto ad ammettere lo stesso dottore. Il giovane Mexico si occupa di cifre e di metodi statistici, non di colpi sul tavolo e di pii desideri. Tuttavia, nel regno che va dallo zero all'uno, dal niente al qualcosa, Pointsman domina solo lo zero e l'uno. Non potrebbe sopravvivere, come fa Mexico, in una zona intermedia. Come già il suo maestro Ivan Petrovic Pavlov prima di lui, Pointsman ritiene che la corteccia cerebrale sia un mosaico composto di minuscoli elementi, di cellule accese o spente. Alcune cellule sono sempre splendenti per l'eccitazione, altre buie per l'inibizione. Anche se i contorni formati dalle cellule chiare o scure cambiano in continuazione, a ogni elemento, a ogni punto sono consentite solo quelle due condizioni: veglia o sonno. Uno o zero. «Sommazione», «transizione», «irradiazione», «concentrazione», «induzione reciproca» - tutti termini pavloviani che si riferiscono alla meccanica del cervello - presuppongono la presenza di questi punti bistabili. Mexico, però, domina il regno compreso fra lo zero e l'uno, il territorio intermedio che Pointsman ha tagliato fuori: la probabilità. Esiste una probabilità deloo 0,37% che nel momento in cui avrà terminato i suoi calcoli, una certa casella della sua cartina sia stata colpita una volta, una probabilità dello 0,17% che sia stata colpita due volte...

«Non si potrebbe dire...» Pointsman offre a Mexico una delle sue Kyprinos Orient, le cicche che tiene nascoste nel taschino segreto, cucito all'interno di tutti i suoi camici da laboratorio, «guardando questa cartina, qual è il posto più sicuro da un attacco? C'è un posto più sicuro di un altro?»

«No.»

«Ma ci deve pur essere...»

«Ogni casella ha sempre le stesse possibilità di essere colpita di nuovo. Le zone colpite non costituiscono un raggruppamento. La densità media resta costante.»

Sulla cartina non c'è niente che stia a provare il contrario. Si vede solo una distribuzione che rispecchia lo schema classico di Poisson, i centri si depositano con calma e precisione fra le caselle, proprio come previsto...

«Però le caselle che sono già state colpite parecchie volte, voglio dire...»

«Spiacente. Quello è il Sofisma del metodo Montecarlo. Non importa quante bombe siano cadute entro una certa casella, le probabilità che quella casella venga colpita di nuovo rimangono inalterate. Ogni centro è indipendente rispetto agli altri. Le bombe non sono cani. Non c'è nessun collegamento. Nessuna memoria. Nessun condizionamento.»

Proprio la cosa da dirsi a un pavloviano. Mexico sta come al solito facendo sfoggio della sua spocchiosa insensibilità, oppure sa realmente quel che dice? Se davvero non c'è nessun collegamento fra i punti colpiti dalle bombe razzo - nessun arco riflesso, nessuna Legge di Induzione Negativa - allora... Per Pointsman, andare tutte le mattine nell'ufficio di Mexico è come sottoporsi a una dolorosa operazione chirurgica. La sua aria da chierichetto lo lascia sempre più allibito, così come le sue battute da collegiale. Però è una visita obbligata. Come fa Mexico a giocare con tanta disinvoltura con i simboli del caso e del terrore? Innocente come un bambino, forse inconsapevole - forse - che il suo gioco demolisce le eleganti sale della storia, minaccia l'idea stessa di causa ed effetto. E se per caso tutti quelli della generazione di Mexico fossero stati come lui, che cosa sarebbe successo? Il Dopoguerra non sarebbe stato altro che una serie di «eventi» appena creati, da un momento all'altro? Non c'era nessun collegamento? Era la fine della storia?

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Pagina 242

«Lieto di avervi potuto aiutare», brontola Slothrop, insaponando Tantivy tra le scapole.

«Ma potete venire con noi!» esclamano le ragazze gridando per superare il rumore delle onde. Due di loro reggono un enorme cestino di vimini, dal quale sporgono delle lucenti bottiglie verdi di vino affusolate e delle pagnotte dalla crosta scabra, ancora fumanti sotto la tovaglietta bianca: il vapore si alza ondeggiando in piccoli fili frastagliati dalle glasse castane e dalle fenditure più chiare. «Venite... sur la plage...»

«Vado solo a tenergli un po' compagnia», fa Bloat già sulla soglia, «finché voi non...»

«Sur la plage...» ripete Tantivy un po' sognante, ammiccando al sole, sorridendo davanti al sogno di quella loro mattina fattosi realtà «si direbbe un quadro. Un quadro impressionista. Fauve. Pieno di luce...»

Slothrop s'aggira per la stanza dandosi dei buffetti sulle guance per applicarvi l'amamelide. L'odore della camera gli riporta il ricordo dei sabati passati nel Berkshire: le boccette di tonico color prugna e ambra, le spirali di carta costellate di mosche attorno al ventilatore appeso al soffitto, le fitte di dolore causate dalle forbici dalle lame smussate... Slothrop si divincola per sfilarsi la felpa senza togliersi la sigaretta di bocca, il fumo esce dal collo come da un vulcano. «Ehi, posso scroccarti una delle tue...»

«Hai già il mio pacchetto», gli grida Tantivy. «Signore Onnipotente, ma che cos'è quella roba?»

«Quale roba?» replica Slothrop con aria del tutto innocente, mentre si infila l'indumento in questione e comincia ad abbottonarselo.

«Vuoi scherzare, naturalmente. Slothrop, le signorine son giù che ci aspettano. Mettiti qualcos'altro di un po' più civilizzato, su, da bravo...»

«Eccomi pronto», dice Slothrop mentre passa davanti allo specchio, e si pettina facendosi il suo solito ciuffo sportivo alla Bing Crosby.

«Non vorrai mica che noi ci si faccia vedere in giro con...»

«Me l'ha mandata mio fratello Hogan per il mio compleanno», lo erudisce Slothrop, «arriva fin dal Pacifico. La vedi la scritta sulla schiena, sotto quei tizi nella canoa a bilanciere, a sinistra dei fiori di ibisco? SOUVENIR OF HONOLULU. Questa è roba autentica, non una volgare imitazione, mio caro Mucker-Maffick.»

«Dio mio», geme Tantivy, seguendolo con aria sconsolata fuori dalla stanza, riparandosi gli occhi dalla camicia in questione, la quale riduce debolmente nell'oscurità del corridoio. «Infilala per lo meno nei pantaloni e coprila con qualcosa. Tieni, son disposto perfino a prestarti la mia giacca di Norfolk...» Eh, sì, è un vero sacrificio: viene da una sartoria di Savile Row le cui sale di prova, in effetti, sono decorate dai ritratti di tutte le pecore venerande da cui era stata tosata la lana originale della giacca, di un color grigio nebbia argentato; alcune se ne stanno nobilmente in posa sulle rocce scoscese, altre sono raffigurate in primo piano, l'aria mite e pensierosa.

«Questa non è lana, ma filo spinato», è l'opinione di Slothrop. «Dimmi tu quale ragazza vorrebbe avvicinarsi a una cosa simile.»

«Può darsi, ma dimmi tu quale donna sana di mente vorrebbe essere nel raggio di dieci chilometri da quella... camicia spaventosa.»

«Aspetta!» Slothrop tira fuori da qualche parte uno sgargiante fazzoletto giallo, verde e arancione e, malgrado i gemiti di raccapriccio di Tantivy, lo infila nel taschino della giacca del suo amico, sistemandolo in modo da lasciar sporgere tre punte. «Ecco fatto! Questa sì che è vera eleganza!»

Quando escono splende il sole. I gabbiani prendono a lamentarsi, la camicia di Slothrop sfavilla di luce propria. Tantivy serra gli occhi. Quando li riapre, le ragazze sono incollate a Slothrop, gli carezzano la camicia, gli mordicchiano le punte del colletto, tubando in francese.

«Mi sembra ovvio», fa Tantivy, raccogliendo da terra il cestino di vimini. «E va bene.»

Le ragazze sono delle ballerine. Il direttore del casinò Hermann Göring, un certo César Flebótomo, aveva ingaggiato un intero corpo di ballo subito dopo la Liberazione, però non aveva ancora avuto il tempo di cambiare il nome attribuito alla casa da gioco durante l'occupazione. Nessuno comunque sembrava fare caso all'insegna, lassù dov'era, un piacevole mosaico composto da migliaia di piccole conchiglie viola, rosa e marroni di forma perfetta, fissate nella malta. Il mosaico occupava una grande sezione del tetto al posto delle tegole (le quali giacevano ancora accastate accanto al casinò), messo insieme due anni prima, come terapia ricreativa, da una squadra di piloti di Messerschmitt in licenza, una scritta a caratteri gotici abbastanza grande da poter esser letta dal cielo, come del resto era nelle loro intenzioni. Il sole adesso sfiora quelle parole, ma è ancora troppo basso per delinearle, le separa appena dalla loro base, di modo che se ne stanno come schiacciate, senza più alcuna relazione con gli uomini che le avevano composte, con il dolore nelle loro mani, con le vesciche che diventavano nere sotto il sole per il sangue e per le infezioni - le lettere si limitano a rimpicciolire mentre i componenti della nostra comitiva (ora passano davanti alle lenzuola e alle federe dell'albergo messe ad asciugare sulla spiaggia in declivio, con le loro fini grinze orlate d'azzurro destinate a scivolar via mentre il sole sale in cielo, sei paia di piedi rimescolano nella sabbia i frammenti mai rastrellati, una vecchia fiche mezzo sbiancata dal sole, le ossa traslucide di un gabbiano, una camiciola di saglia grigia, fornitura della Wehrmacht, strappata, macchiata di grasso per cuscinetti...

Avanzano lungo la spiaggia, la stupefacente camicia di Slothrop, il fazzoletto di Tantivy, gli abiti delle ragazze, le bottiglie verdi ballonzolanti, parlano tutti insieme nella lingua franca dei giovani, le ragazze confabulano spesso fra di loro mentre gettano qualche occhiata in tralice ai loro accompagnatore. Questo dovrebbe fornire altro materiale per alimentare... eh eh... la paranoia mattutina, una sorta di cordiale in attesa di ciò che sarebbe successo sicuramente nel corso della giornata. Invece no. È una mattina troppo bella per quel genere di cose. Le piccole onde si frangono a riva, sui ciottoli scuri di una piccola insenatura, incrinandosi come la superficie di una crostata, spumeggiando fra le rocce nere che affiorano più lontano, lungo il Cap. In lontananza si vedono ammiccare le schegge gemelle di una barca a vela mentre vengono risucchiate al largo, verso il sole, verso Antibes, l'imbarcazione bordeggia gradualmente, fragile come un guscio di noce fra le onde lunghe e basse, Slothrop quella mattina può sentire il rugghio sibilante del mare mentre lambisce i calanchi, riportandogli alla mente i Comet e gli Hampton di prima della guerra, avvistati dalla spiaggia di Cape Cod, fra gli odori della terra, le alghe quasi secche, l'olio per cucinare vecchio quanto l'estate, la sabbia sulla pelle scottata dal sole, le punte dure e acuminate dell'erba delle dune sotto i piedi nudi. Più vicino alla riva si vede avanzare un pedalò pieno di ragazze e di soldati, si dondolano, si spruzzano, se ne stanno distesi a poppa, sulle sdraio a strisce bianche e verdi. Alcuni bambini giocano vicino all'acqua, si inseguono ridendo e strillando disperati, in quella vote roca tipica dei ragazzini quando gli si fa il solletico. Dietro, sull'esplanade, una coppia di anziani se ne sta seduta su una panchina bianca e blu, sotto un parasole color crema, un'abitudine mattutina, un'ancora per il giorno...

Avanzano fino ai primi scogli, trovano una caletta che li protegge parzialmente alla vista dal resto della spiaggia, dal casinò che incombe in lontananza alle loro spalle. La loro colazione di quella mattina consiste di pane, di vino, di sorrisi, del sole che si diffrange attraverso i fini reticoli dei capelli lunghi delle ballerine, scossi, smossi, sempre in movimento, un bagliore color viola, sauro, zafferano, smeraldo... Per un attimo si può lasciar perdere tutto, le forme solide si vanno fratturando, la calda mollica è lì a portata di mano, il vino profumato di fiori scorre facilmente a lunghi sorsi verso la base della lingua, l'aggira, e scende giù...

«Dimmi un po', Slothrop», interviene all'improvviso Bloat, «è anche lei una tua amica?»

Mmm... Che succede...? Lei chi? Bloat è là seduto, l'aria soddisfatta di sé, e indica a forza di gesti gli scogli e una pozza di marea lì vicino...

«Qualcuno ti sta facendo gli occhi dolci, vecchio mio.»

Bah... deve essere emersa dal mare. Da dove si trovano, a una ventina di metri di distanza, la ragazza non è che una figura confusa, in un vestito di bambagina nera che le arriva fino alle ginocchia, le gambe nude lunghe e diritte, un caschetto di capelli biondi che le mantiene il viso nell'ombra, dal quale sporgono due ricci che le sfiorano le guance. La ragazza sta osservando Slothrop, sì, decisamente... Lui le sorride, accenna un saluto con la mano. La ragazza però si limita a starsene lì, mentre la brezza le schiaccia le maniche del vestito. Slothrop si volta per sturare una bottiglia di vino, lo schiocco del tappo fa da fioritura al grido lanciato da una delle ballerine. Tantivy praticamente è già balzato in piedi, Bloat guarda in direzione della ragazza a bocca spalancata, le danseuses scattano istantanee per riflesso di difesa, in uno svolazzare di capelli, un attorcigliarsi di vesti, un balenar di cosce...

Oh, merda, quella cosa si muove... è una piovra? Sì, cazzo, è la piovra più grande che Slothrop abbia mai visto, cinema a parte... è appena emersa dall'acqua e, contorcendosi, è già salita a metà su una delle rocce nere. Adesso, gettando uno sguardo maligno alla ragazza, sotto gli occhi di tutti, allunga uno dei suoi lunghi tentacoli costellati di ventose e glielo avvolge attorno al collo, poi gliene mette un altro attorno alla vita e comincia a trascinarla verso il mare, sott'acqua, mentre lei si dibatte, cercando di resistere.

Slothrop scatta in piedi, la bottiglia in mano, supera di corsa Tantivy, il quale compie un esitante passo di danza, tastandosi le tasche dell'abito da passeggio alla ricerca di un'arma che non c'è. Più Slothrop s'avvicina, più la piovra emerge in tutta la sua imponenza... santo cielo, è veramente enorme - Slothrop si arresta di colpo sbandando di fianco, un piede nella pozza di marea, e si mette a tempestare di colpi la testa della piovra con la bottiglia di vino. I paguri scivolano attorno al suo piede, s'avvinghiano in una lotta mortale. La ragazza, già mezzo immersa nell'acqua, cerca di strillare, ma il tentacolo, scivolando viscido e gelido sulla sua gola, le lascia appena l'aria sufficiente per respirare. Lei tende la mano, una mano infantile dalle nocche delicate, al polso porta un braccialetto di riconoscimento d'acciaio da uomo, afferra la camicia hawaiana di Slothrop e comincia a stringere la presa - chissà, forse fra le ultime immagini che la ragazza avrebbe visto ci sarebbero state quelle danzatrici di hula dalla faccia volgare, gli hukulele, i surfisti ritratti nei colori sgargianti dei fumetti - Oh, mio Dio, mio Dio, ti prego... la bottiglia sbatte ripetutamente con un rumore sordo sulla carne bagnaticcia della piovra, inutilmente però, maledizione, la piovra fissa Slothrop con aria trionfante mentre lui, al cospetto della morte certa, non riesce a staccare lo sguardo dalla mano della ragazza, la stoffa della camicia si increspa in linee tangenti al suo terrore, un bottone si tende finché resta attaccato solo a un filo - Slothrop vede un nome inciso sul braccialetto, le lettere argentate, prese una a una, sono chiare, però per lui non hanno nessun significato davanti alla presa di gola soffocante del tentacolo grigio, viscido, fluttuante, che si va stringendo, più forte di lui e lei messi insieme, incorniciando la povera mano che quello spasmo crudele sta separando dalla Terra...

«Slothrop!» È Bloat, a una decina di metri di distanza, che gli offre un grosso granchio.

«Ma che cazzo...» Forse, se avesse spezzato la bottiglia sulla roccia, se avesse infilzato quella carogna colpendola in mezzo agli occhi...

«Ha fame, lascerà la presa per il granchio. Non l'uccidere, Slothrop. Tieni, per amor di Dio...» ed ecco arrivare il granchio al volo, ruotando in aria, le gambe drizzate all'infuori a causa della forza centrifuga: Slothrop lascia andare titubante la bottiglia, appena prima che il granchio vada a sbattere con uno schiocco contro il palmo dell'altra mano. Bella presa. Slothrop avverte immediatamente il riflesso della piovra davanti al cibo, attraverso la camicia e le dita della ragazza.

«D'accordo.» Tutto scosso, Slothrop sventola il granchio davanti alla piovra. «È l'ora della pappa, bella mia.» Appare un altro tentacolo, il liquido corrugato che lo ricopre gli sfiora il polso. Slothrop lancia il granchio a qualche passo di distanza lungo la spiaggia e... ma guarda un po', la piovra ci casca davvero, insegue il granchio, trascinandosi dietro per un tratto la ragazza e il barcollante Slothrop, infine lascia andare la ragazza. Slothrop allora afferra di nuovo veloce il granchio, agitandolo per bene davanti agli occhi della piovra per assicurarsi che lei lo veda, e fa allontanare quella creatura lungo la spiaggia danzando, la bava che gronda dalla bocca, gli occhi fissi sul granchio.

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Abbiamo superato indenni i giorni di Eis-Heiligen: san Pancrazio, san Servazio, san Bonifacio, die kalte Sophie... sono sospesi sopra i vigneti nelle nuvole, sono esseri santi di ghiaccio, pronti con il loro soffio, con la loro intenzione, a rovinare tutta un'annata attraverso il freddo e il gelo. In certi anni, in particolare gli anni di Guerra, sono privi di carità, sono permalosi, compiaciuti del proprio potere: un atteggiamento non propriamente santo, e neppure cristiano. Le preghiere dei coltivatori, dei vendemmiatori e degli amanti del vino arrivano sicuramente fino a loro, ma non c'è modo di sapere la reazione di quei santi di ghiaccio - una risata volgare, un'irritazione pagana - chi può capirla, quella retroguardia che protegge l'inverno dai rivoluzionari di maggio?

Quell'anno, i santi hanno trovato la campagna in tempo di pace, a malapena, per pochi giorni. Le viti stanno già cominciando a ricrescere mascherando le difese anticarro, gli Stuka abbattuti, i carri armati bruciati. Il sole riscalda le pendici delle colline, i fiumi scorrono luminosi come il vino. I santi finora si sono trattenuti. Le notti sono state miti. Non ci sono state gelate. È la primavera della pace. E se Dio concede almeno cento giorni di sole, per il vino sarà una buona annata.

Nordhausen presta meno fede ai santi di ghiaccio di quanto facciano le regioni vinicole situate più a sud, ma anche lì la stagione sembra promettere bene. Quando Slothrop arriva, al mattino presto, gli sporadici rovesci di pioggia bagnano la città. I suoi piedi scalzi, coperti di vesciche vecchie e nuove, trovano ora refrigerio nell'erba umida. Il sole brilla alto sulle cime delle montagne. Slothrop si è fatto fregare le scarpe da un qualche profugo dalle dita più leggere del sonno mentre, profondamente addormentato, si trovava su un treno che attraversava la Baviera, uno dei tanti treni presi dopo aver superato la frontiera svizzera. La persona che aveva fatto il colpo, chiunque fosse, gli aveva lasciato un tulipano rosso infílato fra le dita del piede. Slothrop lo aveva interpretato come un segno. Un ricordo di Katje.

Lì, nella Zona, i segni non gli sarebbero certo mancati, e i suoi antenati sarebbero riemersi con tutta la loro forza. Era un po' come andare nell'Africa Nera per studiare gli indigeni e scoprire invece di subire il fascino delle loro curiose superstizioni. Infatti, cosa assai strana, proprio la sera prima Slothrop si era imbattuto in un africano, il primo africano da lui mai conosciuto. La loro conversazione al chiaro di luna, sul tetto di un carro merci, era durata un paio di minuti, non di più, il tempo di scambiarsi qualche parola a proposito dell'improvvisa dipartita in sottofondo del maggiore Duane Marvy, ruzzolato rumorosamente sopra i ciottoli del riporto laterale, finendo nella colmata giù a valle - be', allora non avevano certamente parlato delle credenze degli herero sui loro antenati. Eppure, mentre le frontiere si allontanano e la Zona lo avvolge, Slothrop ora sente il richiamo sempre più forte dei propri antenati, quei protestanti bianchi anglosassoni dagli abiti neri con le grosse fibbie, i quali sentivano chiara e tonante la voce di Dio in ogni stormir di foglia, in ogni mucca che s'aggirava libera fra i meleti in autunno...

I segni della presenza di Katje, perfino i segni doppi. Una sera Slothrop se ne stava seduto in una casa dei balocchi, in una tenuta abbandonata, ad alimentare un piccolo fuoco con i capelli biondi di una bambola dagli occhi di lapislazzuli. Gli occhi li aveva conservati. Qualche giorno dopo li aveva barattati in cambio di mezza patata bollita e di un passaggio. Sentiva abbaiare i cani in lontananza, fra le betulle soffiava il vento estivo. Slothrop si trovava su una delle arterie principali della disintegrazione e della ritirata finale della primavera. Non lontano da li, una delle unità del generale di divisione Kammler aveva trovato la morte collettiva, lasciandosi dietro, nella sua furia militare mutilata, i pezzi sparsi dei suoi razzi - moduli, sezioni della cellula, batterie in disfacimento, documenti segreti che la pioggia stava riportando allo stato di poltiglia. Slothrop ne seguiva le tracce. Ogni minimo indizio era buono per saltare su un treno...

I capelli della bambola sono veri: nel bruciare emanano un odore tremendo. Slothrop sente qualcosa muoversi al di là del fuoco, il rumore di una ruota a cricco - afferra la coperta, pronto a saltar fuori dal telaio vuoto della finestra, aspettandosi di veder arrivare una granata. Invece si tratta di uno di quei giocattolini tedeschi dipinti a colori vivaci, un orangutàn a rotelle che avanza a scossoni - i movimenti da spastico, la testa ciondolante, il sorriso idiota, le nocche d'acciaio che sfregano per terra - entra nella zona di luce prodotta dalle fiamme. La scimmia avanza vicinissima al fuoco, allorché la molla finalmente si scarica, la testa ciondolante si blocca esattamente al centro, e si pianta davanti a lui, fissandolo.

Slothrop getta nel fuoco un'altra ciocca di capelli biondi. «'Sera.»

Una risata, proveniente da un punto imprecisato. Una voce da bambina, ma una risata da vecchia.

«Dai, vieni fuori, non ti faccio mica niente.»

La scimmia è seguita da un minuscolo corvo nero dal becco rosso, anch'esso a rotelle il quale avanza saltellando, gracchiando, battendo le sue ali di latta.

«Perché bruci i capelli della mia bambola?»

«Be', non sono veramente i suoi capelli, no?»

«Papà m'ha detto che erano i capelli di un'ebrea russa.»

«Perché non vieni qui, vicino al fuoco?»

«Mi fa male agli occhi.» Si sente il rumore di un'altra molla che viene caricata. Non si muove niente. Ma poi si sentono le note di un carillon. È un motivo in tono minore, ben scandito. «Balla con me.»

«Ma se non ti vedo neanche.»

«Sono qui.» Nel pallido chiarore delle fiamme emerge un minuscolo fiore di ghiaccio. Slothrop si allunga e riesce a trovare a malapena la sua manina, a stringere la sua esile vita. Cominciano la loro danza maestosa. Slothrop non è neppure sicuro di essere lui a condurre.

Non ha ancora visto il suo volto. Gli sembrava di toccare un tessuto di voile, di organza.

«Bel vestito.»

«Me lo sono messo per la prima comunione.» in quel momento il fuoco si spegne, lasciando entrare dalle finestre senza vetri la luce delle stelle e un vago chiarore da est, sul cielo di una qualche città. Il carillon suona ancora, ben al di là, sembra, di quanto ci si potrebbe aspettare dalla carica di una molla normale. I loro piedi volteggiano sui frammenti di vetro opachi, sui pezzi di seta strappati, sugli ossi dei conigli e dei gattini morti. Il percorso geometrico dei loro passi li porta ad addentrarsi fra gli arazzi rigonfi, lacerati, impolverati, in un bestiario più antico di quello situato vicino al fuoco... liocorni, chimere... Che cos'era che ornava l'ingresso di quella casa dei balocchi, come un festone? Una testa d'aglio? Ma... un momento... l'aglio non serve a tener lontani i vampiri? In quel preciso istante, Slothrop viene raggiunto da una leggera zaffata d'aglio, un'irruzione di sangue balcanico nell'aria del suo nord, mentre si gira di nuovo verso di lei, apprestandosi a chiederle se sia davvero Katje, la piccola, adorabile Regina di Transilvania.

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