Copertina
Autore Cosimo Quarta
CoautoreL. Battaglia, T. Brescia, P. Coluccia, M. Di Natale, V. Hösle, M. Manfredi, S. Müller, P. Pagano, M.A. Sarti, M. Tallacchini, C. Vigna
Titolo Una nuova etica per l'ambiente
EdizioneDedalo, Bari, 2006, Nuova Biblioteca 291 , pag. 278, cop.fle., dim. 13,5x21x1,8 cm , Isbn 978-88-220-6291-8
CuratoreCosimo Quarta
LettoreLuca Vita, 2007
Classe filosofia , ecologia , etica
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Indice


Il rapporto uomo-natura come problema etico
di Cosimo Quarta                                           5

1. La riflessione morale sul dissesto ambientale           5
2. Valenza utopica dell'ecologia                          11


PARTE PRIMA
L'AMBIENTE COME PROBLEMA ETICO


Perché un'etica dell'ambiente?
di Carmelo Vigna                                          21

Premessa                                                  21
1. Le due opzioni dei «Verdi»                             22
2. Una riconsiderazione del problema. Che cos'è «natura»  25
3. Implicazioni etiche del nostro rapporto con la natura  27

Per un umanesimo ecologico
di Luisella Battaglia                                     33

1.  Le epoche del moderno                                 33
1.1.Verso una nuova filosofia della natura                37
1.2.Oltre l'etica antropocentrica                         42
2.  Ecologismo e umanesimo                                46

L'ambiente come oggetto di riconoscimento

di Mario Manfredi                                         51
1. La crisi ambientale e il rapporto uomo-mondo           51
2. Qualità e immaterialità dell'ambiente                  55
3. Interesse naturale, obbligo naturale, valore morale    60
4. La fondazione del valore ambiente                      61
5. Beni culturali. Responsabilità                         65

Il problema dell'ambiente nel ventunesimo secolo
di Vittorio Hösle                                         71

1. La crisi ambientale e la sua rimozione                 71
2. Vecchi e nuovi paradigmi: continuità o discontinuità?  74
3. Bisogni umani e consumismo                             80
4. Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future83

Principio di precauzione e filosofia pubblica dell'ambiente
di Mariachiara Tallacchini                                95

1. La regolazione giuridica della scienza:
   epistemologia e oltre                                  96
2. Il fondamento epistemologico del principio
   di precauzione e la scienza incerta                    98
3. Dalla soggezione alla scienza certa alla regolazione
   della scienza incerta                                 101
4. Epistemologia dell'incertezza o euristica della paura?106
5. Gli esiti autoritari di scientismo e irrazionalismo   109
6. Oltre il principio di precauzione: democratizzazione
   della scienza, espertizzazione della democrazia       112

Antropocentrismo e biocentrismo.
Ricerca di una integrazione dialettica
di Piergiacomo Pagano e Maurizio Di Natale               117

Introduzione                                             117
1. L'ambito entro il quale ci muoviamo                   118
2  Due posizioni contrapposte:
   antropocentrica e biocentrica                         119
3. Differenze di vedute                                  120
4. Comunanza di opinioni                                 127
5. Responsabilità nell'operare                           129
6. Come agire                                            130

La formazione della coscienza ecologica
di Cosimo Quarta                                         133

1.  La coscienza ecologica: delucidazione concettuale    133
2.  Dal paradigma meccanicistico al paradigma ecologico  139
2.1.Il modello meccanicistico: dall'apoteosi alla crisi  141
2.2.L'imporsi del paradigma ecologico                    149
3.  Princìpi e forme dell'agire ecologico                155
3.1.Impotenza dell'etica?                                155
3.2.Coscienza di specie e responsabilità verso la natura 158
3.3.Le forme dell'agire ecologico                        159
3.4.Religione e coscienza ecologica                      164


PARTE SECONDA
PER UNA PRASSI ECOLOGICA


Mente, corpo, ambiente ed evoluzione:
la visione olistica originaria
di Teodoro Brescia                                       171

1.  Sistemica, complessità e olismo:
    attuali limiti paradigmatici                         171
2.  Leggi di sintesi: forma e informazione               173
3.  Naturale e artificiale:
    oltre i confini attraverso gli archetipi             178
4.  Livelli di linguaggio-informazione tra mente,
    corpo e genetica                                     183
5.  Informazione e forme d'onda                          185
6.  Energia: i percorsi delle sensazioni                 188
7.  Tecnica e forma: il legame uomo-natura               191

Ecofemminismo e natura
di Maria Alberta Sarti                                   195

Premessa                                                 195
1.  Il manifesto di Françoise D'Eaubonne                 196
2.  Tutela della biodiversità                            200
2.1.Locale contro globale                                200
2.2.Donne, sapere e biodiversità                         202
3.  Ecofemminismo ed etica ambientale                    206
3.1.Retroterra storico-filosofico di una logica
    di dominio amorale                                   207
3.2.Individualità, specificità e virtù                   209

Dalla distopia ipertelica all'etica conviviale:
verso nuovi fattori di ricchezza
di Paolo Coluccia                                        215

1.  Dalla distopia alla convivialità                     215
2.  Il punto della situazione ambientale e programmi
    per un'etica conviviale                              222
3.  Le innovazioni socio-economiche e la ricerca di
    un nuovo paradigma                                   230
3.1.Per un'economia partecipativa (Parecon)
    e solidale (Pses)                                    230
3.2.Cantieri di PermaCultura e di Agricoltura urbana     234
3.3.L'analisi dell'Impronta Ecologica                    237
4.  Prospettive utopiche a livello globale               240
4.1.La Carta della Terra                                 240
4.2.Per uno stato ecologicamente e socialmente
    responsabile                                         243

Dalla teoria alla prassi: una testimonianza
del Movimento ambientalista in Germania
di Siegfried Müller                                      249

1.  La nascita dei «Verdi»                               249
2.  Alcune nostre battaglie in difesa dell'ambiente      252
2.1.La moria delle foreste e le alluvioni                252
2.2.L'inquinamento elettromagnetico e il problema
    dei «valori-limite»                                  255
3.  Non scoraggiarsi mai di fronte a qualche
    battaglia perduta                                    259
4.  Altre iniziative del nostro Movimento ambientalista  262

Indice dei nomi                                          269

 

 

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Pagina 5

Il rapporto uomo-natura come problema etico

di Cosimo Quarta


1. La riflessione morale sul dissesto ambientale

La necessità di una riflessione morale sul rapporto uomo-natura è sorta nel momento in cui l'umanità ha preso coscienza dei gravissimi danni, talvolta irreversibili, che una prassi sconsiderata stava causando non solo alla specie homo, ma all'intera biosfera.

Uno dei primi autori che ha sentito l'urgenza di una riflessione etica sull'ambiente è stato il naturalista statunitense Aldo Leopold, il quale, intorno alla metà del '900, esprimeva con forza l'esigenza di un'«etica della terra» (Land Ethic), ossia di una nuova concezione della moralità che includesse tra i doveri dell'uomo il rispetto non solo dei propri simili, ma anche delle altre specie viventi e dell'intero pianeta.

Alle istanze di Leopold fecero seguito, di lì a poco (ossia nei primi anni Sessanta), le denunzie di alcuni autori, come, ad esempio, Rachel Carson – la quale, in un suo documentatissimo e pionieristico volume, mise a nudo i terribili guasti prodotti dall'uso irresponsabile dei pesticidi nelle campagne USA – o come Barry Commoner, che in un suo saggio chiamò direttamente in causa, per il dissesto ambientale, la responsabilità degli scienziati e dei tecnologi. Pur con queste ed altre circostanziate denunzie, il dibattito sull'ambiente non riuscì ad imporsi all'attenzione dell'opinione pubblica per tutti gli anni Sessanta. Fu solo con la pubblicazione, nel 1972, del famoso primo rapporto al Club di Roma, dal titolo I limiti dello sviluppo, che la discussione sui problemi ambientali attrasse l'attenzione non solo di studiosi di diverse discipline, ma anche del grande pubblico. Dal dibattito emerse con chiarezza che le cause del dissesto ambientale affondavano le loro radici nell'etica. Da questo momento in poi, la riflessione morale sull'ambiente prese il largo, grazie agli studi di autori come Passmore, Jonas, Apel e molti altri, che si sforzarono di individuare nuovi princìpi e norme per regolare i rapporti tra uomo e natura.

Nella cultura occidentale, com'è noto, l'etica tradizionale ha assunto un carattere fondamentalmente antropocentrico, dal momento che ha rivolto la sua attenzione, in modo pressoché esclusivo, ai problemi concernenti i rapporti tra uomo e uomo. E ciò perché lo sfondo su cui l'etica tradizionale si è costituita è stata la polis, ossia la città, lo stato nelle sue diverse articolazioni. Basti pensare alla definizione aristotelica dell'uomo come zoon politikon, ossia come l'essere, il vivente che si caratterizza per la sua politicità, per la sua socialità, per il suo co-essere. Il problema del rapporto uomo-natura non veniva preso in considerazione, sotto il profilo etico, perché si dava per scontato che la natura – in quanto principio di vita e di movimento, in quanto sostrato, in quanto ambiente che da ogni parte e da sempre avvolge e ingloba l'uomo, di cui si configura, appunto, come l'originario ed ineludibile spazio d'esistenza – fosse stabile, inattaccabile, indistruttibile, capace, in ogni caso – in quanto cosmo, in quanto realtà bene ordinata e principio d'ordine – di rimarginare con prontezza le eventuali ferite che l'uomo poteva causarle, anche involontariamente, con la propria attività.

E invero per secoli, anzi, per millenni, il rapporto uomo-natura non ha posto grossi problemi, perché l'agire umano, anche quando utilizzava strumenti (ciò che, del resto, l'umanità ha imparato a fare fin dai suoi primordi), intaccava solo marginalmente gli equilibri ecologici, data l'esigua potenza delle sue tecniche. Le cose cominciarono a cambiare con l'evo moderno, allorché la ragione umana si trasforma e si riduce a «ragione calcolante», prima con la scienza sperimentale (che cerca di conoscere la natura, attraverso il calcolo, applicando cioè alle scienze naturali il metodo matematico), poi con la presenza egemonica del capitale e, quindi, con la scienza economica moderna, la quale ragiona solo in termini di «profitti e perdite», di vantaggi e di svantaggi, dal momento che ha come criterio-guida solo l' utile. La scienza, con i suoi continui progressi, costituiva una ghiotta occasione per aumentare i profitti, che il capitale non si lasciò sfuggire, utilizzando su vasta scala le macchine e gli altri ritrovati della tecnica. Nacque così il fenomeno industria, che favorì e accelerò il processo di trasformazione – che era in corso ormai da qualche secolo – della scienza in tecnologia. Con tale trasformazione, la scienza non è più rivolta alla conoscenza pura, ma s'impegna a costruire nuovi strumenti di produzione o, comunque, a escogitare nuove tecniche; le quali, se da un lato contribuiscono ad accrescere il benessere dell'umanità, dall'altro vengono sovente utilizzate anche per massimizzare i profitti o per accrescere la potenza economica o militare degli stati.

Oltre a ciò, la «ragione calcolante», utilizzando come criteri di giudizio l' efficienza, la produttività e il profitto, ha finito col generare quello che ora viene chiamato pensiero unico. Si tratta di quel pensiero, di quella mentalità, di quella Weltanschauung che ha ridotto l' agire umano ad un mero fare. Frequentemente, i termini «agire» e «fare» vengono usati come sinonimi, occorre rilevare invece che tra i due verbi vi sono differenze che non sono di poco conto. Il verbo «agire», infatti, etimologicamente significa «spingere in avanti» (in questo senso è l'opposto di ducere, «essere capo», «guidare») e designa «l'attività nel suo esercizio continuo». In altri termini, nell' agire, l'uomo esercita o può esercitare la sua libertà, nel senso che può agire in diversi modi. Al contrario, il verbo facere (fare), poiché esprime l'esecutività di un atto, implica l'idea di costrizione, di necessità, ossia di qualcosa che bisogna fare, eseguire. Dal verbo agire derivano infatti i termini azione e atto, in cui v'è dentro l'idea di qualcosa che è in via di svolgimento, mentre dal verbo fare deriva il termine fatto, ossia l'idea di qualcosa che è già compiuto e da cui non si può tornare indietro.

La «ragione calcolante», attraverso la scienza-tecnologia, la scienza economica e il fenomeno industria, ha trasformato l' agire umano in fare. L'uomo dell'era tecnologica opera all'interno di apparati (uffici pubblici e privati, banche, industrie, negozi, ecc.), al cui interno egli è chiamato solo ad eseguire. E mentre, fino a pochi decenni fa, ad «eseguire» erano solo i lavoratori dipendenti (si pensi alla catena di montaggio in fabbrica), ora invece anche l'alta dirigenza sembra aver perduto la propria autonomia. la libertà di decidere. Non a caso, infatti, molti imprenditori o managers, in occasione, ad esempio, della chiusura o trasferimento di un'azienda, dichiarano, con estrema naturalezza, che a tale decisione sono pervenuti perché «costretti» dal mercato. E al «dio mercato» ormai, soprattutto in seguito all'attuale processo di globalizzazione, offrono «sacrifici» anche gran parte dei capi politici di tutti i paesi del mondo; al punto che perfino coloro che erano pregiudizialmente ostili e refrattari all'economia di mercato, come i comunisti cinesi, oggi riconoscono, senza arrossire, che non si può fare a meno di obbedire alle sue ferree leggi. Anche la politica, dunque (ossia la sfera del potere per antonomasia), pervasa dalla «ragione calcolante», si è posta ormai a servizio dell'economia, perdendo così il suo primato, ossia la capacità di prendere liberamente decisioni. Ma se nemmeno i politici sono più liberi di decidere e, quindi, non sono più responsabili delle loro azioni, ossia se anche l' agire politico si è trasformato in fare, in mera esecutività, allora oggi costoro – non potendo nemmeno ricorrere alla terribile ed ipocrita giustificazione che gli ufficiali nazisti addussero al processo di Norimberga e altrove, allorché dichiararono che loro si limitavano ad eseguire gli ordini dei «superiori» – sono costretti a scaricare la responsabilità dei guasti sociali sul «dio mercato», considerato, appunto, come un'entità, a cui ci si deve solo inchinare.

Qui si può capire meglio la distinzione tra l' agire e il fare. Chi «agisce», proprio perché libero, è responsabile delle proprie azioni. Chi invece «fa», ossia chi si limita ad eseguire, non si sente per niente responsabile. E in una società in cui l'agire è stato trasformato in fare, è inevitabile che il senso di irresponsabilità dilaghi. Così, se un operaio costruisce mine antiuomo, o armi chimiche o batteriologiche, ecc. può sempre dire: «Io mi limito ad eseguire gli ordini e, quindi, non sono responsabile». Oppure, di fronte ad un'azienda che chiude o si trasferisce, gettando sul lastrico migliaia di famiglie, l'imprenditore e il politico si limitano a dichiarare, magari con animo costernato, la loro «impotenza», rifugiandosi dietro il comodo paravento del «mercato». Senza dire poi dei danni ambientali, di cui nessuno si sente responsabile. In un contesto storico, come quello odierno, in cui l' agire umano è ridotto al puro fare ossia a mera esecuzione, gli spazi per l'agire etico, ossia per l'esercizio della libertà e della responsabilità, sembrano davvero ridotti ai minimi termini se non addirittura scomparsi. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Come si diceva, dunque, a trasformare l'agire umano in fare tecnico è stato il connubio tra capitale e scienza. È accaduto cioè che il capitalismo, con la sua logica del profitto, ha soppiantato l'agire etico, nel senso che il profitto è diventato il valore sommo, a cui ogni altro valore deve essere sacrificato. A questa ferrea logica del profitto ha dovuto piegarsi anche la scienza moderna, la quale, per altro, aveva già, con Bacone e Cartesio, indicato nell' utile il fine ultimo della conoscenza. Una ricerca che mirasse alla pura conoscenza, che si fermasse cioè alla sola teoria, senza trasformarsi in strumenti di utilità pratica, era ritenuta, appunto, inutile. E non a caso, ancor oggi, ogni progetto di ricerca che non indichi gli scopi pratici cui mira viene preso in scarsa considerazione ai fini del finanziamento e, al più, deve accontentarsi delle «briciole» che cadono dalla mensa, spesso riccamente imbandita, della ricerca applicata.

È chiaro, allora, come in un siffatto contesto storico, in cui ogni attività umana è orientata al profitto o, comunque, all'utilità pratica, anche la ricerca scientifica ha dovuto adeguarvisi. Anzi, è accaduto che, grazie proprio alla scienza, ormai trasformatasi in scienza-tecnologia, l'imperativo dell'etica tradizionale, che Kant aveva sapientemente sintetizzato nel motto «devi, quindi tu puoi», sia stato capovolto nell'imperativo della tecnica, che comanda, in modo perentorio: «Puoi, quindi tu devi». Nel senso che, secondo le clausole stabilite dal contratto, il risultato di ogni ricerca scientifica deve essere immediatamente «brevettato» e trasformato in un qualche prodotto vendibile, cioè in merce e, quindi, in profitto. E se non ci si adegua a tali condizioni-capestro, oggi è assai difficile ottenere finanziamenti per la ricerca.

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2. Valenza utopica dell'ecologia

Come si vedrà, le proposte avanzate nei diversi saggi, oltre ad elaborare princìpi e norme etiche, miranti a provocare un cambiamento nei comportamenti quotidiani di ciascuno di noi, implicano anche un mutamento della prassi sociale nella sua globalità. E ciò accade perché il superamento della crisi ambientale impone un ripensamento dell'intera struttura sociale, impone cioè una riprogettazione della società. La crisi ambientale, proprio per la sua gravità e complessità, non consente scorciatoie, ma anzi, ci esorta ad affrontare i molteplici ed intricati problemi ad essa connessi con strumenti adeguati, senza cioè lasciarsi vincere dalla tentazione delle soluzioni «facili», a portata di mano. Tali soluzioni, infatti — in quanto scaturiscono da intuizioni personali più che da una reale e approfondita conoscenza della realtà — si rivelano, soprattutto nelle nostre società complesse, non solo unilaterali e inadeguate, ma spesso anche controproducenti. Insomma, la crisi ambientale non si risolve con misure tampone, ma con interventi radicali, in grado di apportare mutamenti significativi in ogni ambito della società. Si tratta di ripensare il senso dell'economia, della politica, della scienza, della tecnologia e dell'intero modello culturale su cui si sono costruite, lungo l'evo moderno, soprattutto in Occidente, le nostre società. Questo mostra come l'ecologia abbia anche una forte valenza utopica.

E qui è opportuno soffermarsi brevemente per chiarire il senso in cui il termine utopia, in questo contesto, deve essere inteso. Contrariamente all'opinione corrente, l' utopia non è un gioco letterario, un ozioso fantasticare su mondi impossibili, un sogno, un'illusione, una chimera, un castello in aria, ma non è nemmeno un puro ideale della ragione. Essa è invece, anzitutto, una categoria fondamentale dello spirito umano, il quale ha come sua caratteristica essenziale quella di sporgersi dall' essere verso il dover essere, ossia di protendersi a diventare quel che ancora non è.

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Sia chiaro, qui, che rispettare la natura non significa fare di essa qualcosa di sacro e intangibile, come si è pure sostenuto da parte di certo estremismo ecologico. L'opposizione tra «natura naturata» e «natura artificiata» non è una conseguenza inevitabile del progresso scientifico-tecnologico. È la sua distorsione ai fini del profitto di pochi ad aver generato quella opposizione. Come si diceva, l'uomo ha da sempre interagito col suo ambiente naturale. Ma tali interazioni, anche quando si rivelavano distruttive per la natura, non lo erano mai in maniera irreversibile, proprio perché gli strumenti tecnici di cui egli disponeva avevano una potenza assai limitata. Ora, invece, attraverso la «macchina», l'uomo possiede uno strumento talmente potente che, usato in maniera scriteriata, può provocare danni irreparabili all'ambiente.

L'uomo rispetta la natura quando, intervenendo su di essa per adeguarla ai propri bisogni, non le si contrappone, non la considera come mero oggetto di sfruttamento e rapina, ma si adegua alle sue «leggi» e ne tutela la bellezza. Una norma di comportamento, questa, che l'uomo tecnologico sembra aver dimenticato.

Ecco perché l'etica è chiamata a svolgere oggi un ruolo decisivo. Per stabilire i doveri in questo ambito importantissimo dell'agire umano è necessario che essa entri in un campo dal quale, forse da sempre, era stata esclusa: il campo delle tecniche. L'etica deve intervenire in questo ambito non per indicare come fare una certa cosa o un certo intervento, ma se e perché è il caso di farlo. Occorre cioè bloccare l'assurdo imperativo della scienza- tecnologia moderna, in base al quale tutto ciò che è possibile fare è da farsi. Occorre restituire all'uomo il potere di guidare le tecniche, piuttosto che lasciarsi guidare da esse. Occorre restituirgli quella saggezza pratica che sa commisurare i mezzi ai fini e che è stata emarginata ed occultata dal delirio di onnipotenza.

Ma oltre che a livello culturale è necessario intervenire con urgenza anche sul piano delle strutture. È necessario intervenire anzitutto sulle tecniche di produzione per renderle quanto più possibile compatibili con gli equilibri naturali. Oggi gran parte dei prodotti del settore industriale finiscono col rivelarsi inquinanti, come ci attesta non solo l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo, ma anche l'enorme quantità di rifiuti che vengono prodotti nelle società industrialmente avanzate. Di qui l'urgenza di porre mano ad una riforma radicale della produzione. Si tratta di reimpostare l'economia, orientando la produzione non verso «merci» che generano il massimo profitto e il massimo inquinamento, ma verso beni che abbiano il minimo impatto ambientale e siano realmente rispondenti ai bisogni della persona, della sua autentica crescita.

Al tempo stesso, occorre agire sul fronte dei consumi, che è strettamente connesso a quello della produzione. Occorre rilevare, a questo proposito, che ben pochi ai nostri giorni, soprattutto nei paesi industrializzati, si rendono conto che responsabili verso l'ambiente non sono solo coloro che producono beni, inquinando, ma anche coloro che tali beni consumano in tranquilla coscienza, salvo poi protestare — con altrettanta tranquilla coscienza — contro l'inquinamento del pianeta. Qui mi preme rilevare che limitare i consumi non significa affatto bloccare la crescita dei bisogni umani. Blocco che sarebbe, per altro, un obiettivo assai difficile da realizzare, dal momento che una delle caratteristiche fondamentali della specie umana è proprio il bisogno evolutivo, dinamico, creativo, rispetto alla staticità del bisogno animale. Ciò che invece qui si propone è di far cessare i consumi inquinanti.

Occorre cioè che si prenda coscienza che la società dei consumi, oltre a rapinare le risorse naturali, induce molto spesso bisogni illusori e perciò falsi, la cui soddisfazione anziché arricchire impoverisce l'uomo. Lo spreco che così si genera si rivela dannoso non solo per la natura e per l'uomo dei paesi industrializzati, ma anche e soprattutto per i paesi del Terzo Mondo, i cui bisogni, non essendo «solvibili», vengono ignorati dal sistema produttivo. Qui va ricordato che il tragico fenomeno della continua crescita del numero dei denutriti e dei morti per fame è certamente dovuto anche alla sovrappopolazione, ma la causa prima di esso risiede nella rapina sistematica delle risorse dei popoli sottosviluppati; rapina che per altro è ordinata non a soddisfare gli urgenti bisogni di quei popoli, quanto piuttosto ad alimentare i consumi, o meglio, i flussi di spreco del mondo industrializzato.

Oggi perfino i sostenitori più tetragoni del vecchio modello di sviluppo riconoscono la necessità di un cambiamento di rotta. Quasi tutti ormai si sono convertiti all'idea dello sviluppo sostenibile, sebbene poi ciascuno lo intenda a suo modo. Per evitare che questa espressione diventi un puro slogan propagandistico, è necessario uscire dal vago, che genera solo umanismi di comodo, e conferirle dei contenuti e obiettivi chiari e precisi, in modo che i risultati possano essere riconosciuti e controllati da tutti i cittadini. Soprattutto, occorre prendere coscienza che lo sviluppo sostenibile ha dei costi, e che tali costi devono essere equamente ripartititi tra coloro che aspirano a svilupparsi, senza farli ricadere sulla natura o sui paesi economicamente più deboli, come finora è accaduto. Lo sviluppo sostenibile, comporta, infatti, tra l'altro, la fine della tecnologia del profitto, dello scambio ineguale, della rapina delle risorse naturali, dello sfruttamento della manodopera, dell' esportazione delle industrie inquinanti; della cancellazione dei debiti dei paesi poveri.

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