Copertina
Autore Raymond Queneau
Titolo Tempi duri, Saint Glinglin!
EdizioneNewton Compton, Roma, 2007, Grandi Tascabili Economici 550 , pag. 240, cop.fle., dim. 13,5x22x1,8 cm , Isbn 978-88-541-0947-6
OriginaleSaint Glinglin
EdizioneGallimard, Paris, 1948
CuratoreFrancesco Bergamasco
PrefazioneRenato Minore
TraduttoreFrancesco Bergamasco
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe narrativa francese
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Indice


  7 Un'opera in nero sulla lingua magica,
    introduzione di Renato Minore

 12 Nota biobibliografica

 17 Prière d'insérer, di Raymond Queneau


    TEMPI DURI, SAINT GLINGLIN!

 21 1. I pesci
 45 2. La Festa di Primavera
 84 3. Il sasso
105 4. I Contadini
119 5. I Turisti
156 6. Gli Stranieri
165 7. Saint Glinglin


210 Il tempo in Saint Glinglin e il tempo di Saint Glinglin,
    postfazione di Francesco Bergamasco

236 Appendice. Tre passaggi di Tempi duri, Saint
    Glinglin!, di Francesco Bergamasco


 

 

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Pagina 7

Un'opera in nero sulla lingua magica


Quale callida iunctura si sottende tra la vicenda narrata in Tempi duri, Saint Glinglin! e il linguaggio che la esprime? E tra quale degli «stati molteplici dell'essere» — verrebbe da dire con Guénon — si svolge, involve, evolve, tale vicenda?

«È quando metto da parte la vita come la concepisce l'uomo» udiamo da uno dei protagonisti, verso la fine del romanzo, «che raggiungo l'obiettivo della mia ricerca». È una spia di decifrazione, sebbene l'autore la ponga, di straforo, verso le ultime pagine, quando ormai i giochi sono fatti. Nelle sembianze dello scultore Pierre, impegnato ad ultimare la statua di suo padre Nabonide, ex-sindaco della città, per un istante forse possiamo intravedere quelle dell'enigmatico beffardo Queneau. Ma allora lo stesso libro che abbiamo in mano, di cui soppesiamo la concretezza, è da intendersi come il vero Convitato di Pietra? Grazie ad esso, si è sollevato il velo di maya, le verità che ci attorniano sono solo illusioni? La potente macchina linguistico-sperimentale messa in moto dallo scrittore francese mai come qui è spinta a tutta forza. Alla dirompente icasticità dei discorsi diretti fanno da sponda brucianti lacerti di una squallida scenografia urbana, dove la decadenza ha superato se stessa, quasi il flusso scritturale non fosse altro che l'acido del suo corrosivo passaggio.

Assai catturante, ma anche sorprendentemente sfuggente, anomalo, questo Tempi duri, Saint Glinglin! di Queneau, uscito per la prima volta da Gallimard nel '48.

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Pagina 21

1. I pesci


Pierre:

Strana vita, quella dei pesci!... Stranorata! Vairone... Non sono mai riuscito a capire come si potesse vivere in quel modo. L'acquesistenza della vita sotto quella forma mi inquieta ben oltre ogni possibile motivo di pianto che il mondo possa procurarmi. Un acquario fa divampare nella mia testa tutta una sfilza di chele arroventate dal fuoco. Oggi pomeriggio sono andato a vedere l'acquario di cui mena vanto il Giardino Zoologico della città Straniera. Vi rimasi, in preda allo sconvolgimento, finché gli impiegati non mi cacciarono fuori.

La condizione di prigionia fa risaltare ancora di più la stranezza di quella vita. Osservai uno di quegli animali, striato di nero, che nuotava in lungo e in largo con perfetta regolarità. Dato che quelle bestie non dormono mai, tale almeno è la mia opinione, suppongo quindi che in quest'ora tarda in cui sto adesso scrivendo, il mio pesce zebrato se ne stia ancora correndo in lungo e in largo, come prima ancora del tutto inoperoso. Non ha bisogno di fermarsi nemmeno per mangiare, non più di quanto ne abbia per riprodursi. Quest'ultima attività si svolge, si dice, in un modo così impersonale che per dedicarvisi non ha evidentemente bisogno di smettere di muovere la pinna.

Allora, a cosa pensa il mio pesce? Non pretendo da lui, beninteso, che rifletta, che si dedichi a un'attività razionale, che costruisca sillogismi e confuti sofismi, no, beninteso, ma il mio pesce non guarda dunque mai quel che succede dall'altra parte del grosso vetro che lo separa dal mondo umano? La risposta unanime è: no, il mio pesce non pensa, la sua attività intellettuale è pari a zero. È questo ciò che trovo atroce. È impossibile avere rapporti umani con un pesce. I pescatori, mi pare, raccontano certi aneddoti. Ma si tratta di persone che si incontrano di rado nella mia città Natale; per me questi aneddoti sono: leggende e voci che corrono. Fuori del suo acquario, l'animale riprende vita. Si può attribuire un senso alla sua acquesistenza: va e viene lungo il fiume (ne ho visti, di fiumi, presso gli Stranieri), fila via tra l'erba acquatica curvata dalla corrente, fa la posta alla sua preda, si lascia tentare dall'esca. Sì, il pesce d'acqua dolce, ancora ancora lo si capisce. Ma il pesce di mare? La sardina? L'aringa? Il merluzzo? È avvilente, una sardina. In un cinematografo della città Straniera in cui andai a depravarmi poco tempo fa, sfinito, vidi delle sardine, appiattite, innumerevoli e tutte di mare, una massa compatta che si grattava le squame senza tante cerimonie. Una sardina, tuttavia, è un essere vivente. E il merluzzo! L'aringa! Mi vengono le lacrime agli occhi. Papà! Mamma! È davvero troppo atroce la vita del pesce in banco! Se ci si pensa tanto, si rischia di farsi scoppiare la testa. Si nasce in massa a milioni, poi tutte insieme, noi sorelle aringhe, attraversiamo lo smisurato Oceano, tenendo le pinne ben strette e cadendo in tutte le reti. È questa la nostra vita, di noi aringhe. E quella che si trova in mezzo al banco? È circondata da milioni di suoi simili, ed ecco che un giorno, ma lei non conosce né giorno né notte, ed ecco che un giorno all'aringa che sta in mezzo le prende la vertigine. Sì, la vertigine. Quale sarà allora il suo destino? Oh, è davvero troppo desolante! Papà! Mamma! È davvero troppo atroce la vita del pesce in banco.


La cosa sta diventando insopportabile. Ho le squame tutte scorticate. Il sale mi screpola le gengive. Lo spumeggiare dell'Oceano viene a fare scoppiare le sue ultime bolle sotto la mia finestra. Sono così solo in questa città in cui con tanta fatica studio la Lingua Straniera. Ma questo è proprio l'ultimo dei miei pensieri. Non m'interessa. La mia città Natale mi concede una Borsa Onorifica per permettermi di acquisire una solida conoscenza di questa lingua. Professore di ostrogoto, è l'unica parte che mio padre mi crede capace di interpretare. Non vorrei deluderlo; mi mostrerò degno di questo favore che è riuscito a ottenere per me; ho cuore e so che cos'è la riconoscenza; ma perché mio padre mi crede stupido? E sia, sarò professore di questa lingua da selvaggi. Mi piego e sto zitto, ma non posso non nutrire altre inquietudini, riguardanti la scienza della vita. La vita! Consacrerò la mia vita allo studio della vita! Pronuncio il giuramento qui e ora, davanti alla mia finestra che si affaccia su una delle strade quadrilatere della Città Straniera. Mi sono alzato, ho steso il braccio verso la strada e ho detto: io, eccetera, vita. Poi mi sono rimesso seduto. Ecco fatto. La mia ecsistenza ha un significato, adesso, e ritengo che il fatto di dare un senso alla propria vita quando si è ancora giovani permetta di accrescere le proprie possibilità e di rendere più intenso il proprio divenire, in breve: di costruirsi un destino. Mi sembra che stia spuntando la stella che mi guiderà verso le vette che voglio raggiungere e che raggiungerò. Perché ho dell'orgoglio, io. E alle vette della scienza della vita che arriverò, io, e al diavolo il minestrone di suoni da bifolchi di questi Stranieri che veniamo a conoscere solo sotto forma di Turisti, e di rado. A che scopo parlare con loro?


Oggi, sono tornato all'acquario. Ho visto le murene. Ognuna è sola nella sua gabbia. Sono feroci. Mangiano carne. Al tempo in cui i popoli avevano un imperatore, le murene mangiavano schiavi, dicono i giornalisti. Sono molto diverse dagli altri pesci, e ciò che ne fa un caso a parte è la loro ferocia. Orbene, la ferocia è una delle categorie fondamentali della vita dell'uomo in società. Qui si cela un grande mistero. Che la ferocia salvi determinati pesci dall'atrocità che accomuna le loro vite è un altro motivo di inquietudine. La murena sembra essere un individuo autonomo solamente in virtù della sua ferocia!

C'è per me un altro motivo d'angoscia: la razza. La conformazione anatomica di questo pesce mi stringe il cuore: avere a quel modo la testa sulla schiena o sul ventre, non si capisce, è una cosa che mi addolora. Le sue orecchie, le scambio per gli occhi. E gli occhi, li ha sotto! E ha un naso! E una bocca piccola e crudele. Per poco non mi sono messo a piangere di dolore nel decifrare questa figura spaventosa, e questa apparizione è volata via verso la superficie, muovendo le pinne come se fossero ali, divenuta d'un tratto un qualche uccello marino, immagine riflessa dell'albatro dalle lunghe penne. No. L'esistenza della razza non è una cosa possibile. Avere gli occhi sistemati in quel modo, e volare nell'acqùa, e non far niente. No.

Ecco cosa succede. Sono partito da troppo in basso nella scala degli esseri viventi. L'abisso è così profondo. La vita di una scimmia è una cosa che si può accettare; di una mucca, ancora ancora; di un uccello, e va bene. Ma quel che non riesco a capire in tutte queste bestie è che non abbiano nessuna occupazione e ancor meno preoccupazioni. Cambiamo argomento. I pesci a un altro momento. Stamattina, ho ricevuto due lettere, una di mio padre e l'altra di Paul. Il primo mi scrive:

«La nostra città si sta preparando per la Festa. Mi dispiace che tu non possa assistervi; sarà la più bella da moltissimi anni a questa parte. Io farò sacrifici ragguardevoli che consacreranno la mia ricchezza e la mia gloria.

Spero che tu stia lavorando con passione e che ti mostrerai degno della Borsa Onorifica che mi è costata tanta fatica farti assegnare. Per fortuna sono riuscito a farti ottenere questo ambito privilegio che ti garantisce un posto brillante, rispettato e del tutto nuovo: guida, interprete, dragomanno patentato della città Natale. Bello, vero? Che avvenire, figliolo! Quanta riconoscenza mi devi! Senza di me, che cosa saresti? Per me, che cosa non devi fare? Renditi degno del mio grande nome. Lavora».

E sia. Il secondo mi scrive: «Grazie per il mezzo di trasporto a due ruote che mi hai mandato. Adesso so usarlo e suscito meraviglia nelle genti, cosa che non desideravo. Tutti dicono che quest'anno la Festa supererà quanto a splendore tutto ciò che si è visto fino a oggi. È seccante che tu non ci sia. Ma non è questa la cosa più interessante. Jean sta facendo delle scoperte singolari; è su una pista davvero molto strana. Aspettiamo di esserne sicuri prima di darti ragguagli su questa notizia straordinaria. Il velocipede mi è molto utile». Una scoperta è una scoperta, una pista non è una scoperta. I miei fratelli? Dei bambini.


Vivo davvero come uno straniero in questa città Straniera: senza nessun contatto con la sua popolazione. Non conosco altri che l'Affittacamere, il Professore e il Custode. Nemmeno con gli abitanti ho quei rapporti normali e foltitudinari che derivano dalla condivisione dei mezzi di trasporto, perché io mi sposto solamente mediante birotazione. La mia bicicletta mi porta dal luogo in cui sta di guardia la mia affittacamere al luogo in cui insegna il mio professore, e da lì, il più delle volte, al luogo che presidia il custode. Giro per la città Straniera, senza altri rapporti con la massa compatta che si accalca per le strade se non gli insulti, che non capisco, degli autisti dei bus e i rimproveri degli agenti di polizia municipale che controllano la regolarità del traffico. I soli rapporti esistenti sono quelli che mi costruisco io, per me stesso, da me stesso. In altri termini, tra le realtà, non ne vedo nessuna femminile. La mia verginità, la ritengo necessaria all'intensità del mio pensiero. E così che uno Straniero immagina la legge della caduta della mela. Non devo disperdere sotto forma di seme ciò che sale al cervello a mia futura gloria. La mia vita è consacrata alla vita; ho pronunciato il giuramento. La vita, la prendo in esame nell'omaro. Allora è spaventosa. Lui, l'omaro, ci si trova bene. Almeno è quel che sembra. Ho appena scritto a mio padre ciò che pensavo della vita degli omari. So bene che non ha alcuna idea al riguardo, mio padre, ma ci tengo a metterlo al corrente dei progressi del mio pensiero.

A prima vista mi sembra che non ci siano molte differenze tra la vita dei pesci e quella dei crostacei. L'altro ieri guardavo un omaro che se ne andava a zonzo fra rombi e sogliole. Sembravano appartenere tutti allo stesso mondo. Ma, pensandoci bene, mi rendo conto che tra loro ci sono delle belle differenze. Un omaro è una cosa diversa da un pesce! La sogliola non si discosta molto dall'uomo, in fin dei conti: questo è quel che credo in questo momento. Ma l'omaro! Vivere in un carapace, in altri termini, avere attorno a sé ossi, che cambiamento radicale dev'essere nel modo di concepire la vita! Avere continuamente attorno a sé il mare intero; muovere le chele; guardare gli altri passare; fare la posta alla preda: questi sono indubbiamente i prolegomeni a ogni riflessione dell'omaro.

Quanto ai pesci, insisto nel ritenere che abbiano una vita da cani, una porca acquesistenza priva di personalità. L'orchesistenza dell'omaro non è perciò meno angosciante. È vita, quella? Quel silenzio, quell'ombra, quelle alghe, quella sorta di ferocia sulla punta delle chele, quella ingorda armatura? Provate a farvi un'idea della vita, pensando all'omaro nell'osscurità. E come muoiono, quelli che non finiscono sbollentati nelle pentole delle massaie? Si consumano di vecchiaia, gli omari? "Se ne vanno" dolcemente, oppure lottano contro la morte con le loro chele irrigidite dall'artrite e incrostate da piccoli anellidi? Presagisce il suo decesso, l'omaro? Non preferirebbe essere una razza, per esempio, con due occhi sulla panza e le ali bianche? Non preferirebbe poter arrampicarsi sugli alberi per divorarne i frutti, come il suo collega, il granchio del cocco, animale veloce e dentato? E quando dico che un animale è così o colà, non voglio certo formulare un giudizio soggettivo. Nemmeno umano. Ma definire il senso stesso della sua eksistenza.

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Pagina 35

Torno all'insetto. Ripartendo dall'omaro, per parlarne dovrei risalire all'uomo, perché l'insetto va su su parallelamente all'uomo. Così nel caso della formica, che, con tre paia di zampe e respirazione tracheale, è l'artropode per eccellenza, il fatto di vivere in una società cancella l'inumanità della sua esistenza, sebbene da un altro punto di vista questa vita collettiva sembri opprimente. Cerco qualcosa di diverso e l'ho trovata nell'omaro e nei pesci cavernicoli: l'orrore inspiegabile di certi aspetti della vita e la loro totale illegittimità agli occhi degli esseri superiori, intendo tanto il lupo e la lucertola ocellata quanto l'uomo o il cormorano.

Più ci penso, più mi persuado che sia l'Oceano a dare alla vita di coloro che lo abitano quel carattere di inumanità che mi sgomenta così tanto nell'omaro e così poco nella formica. Confrontate, infatti, l'ostrica e la lumaca, l'una oceanica e l'altra terrestre, ebbene, la seconda non è poi un animale tanto misterioso né dall'aspetto tanto incomprensibile. Sarà perché ha certe caratteristiche della tartaruga? I suoi minuetti campestri la introducono in un ambito di giudizio squisitamente umano. Mentre l'ostrica... questo aspetto da sputo, questo modo brutale di disinteressarsi del mondo esterno, questo isolamento assoluto, questa malattia: la perla... se appena appena ci faccio caso, il mio terrore ricomincia. Questo essere vivente, VIVENTE! vive, VIVE! attaccato per un tempo indeterminato a uno scoglio, immobile, impassibile, feroce, aprendo la bocca per richiuderla crudelmente su disgraziati animalucoli e povere alghe. Questa è la vita. Si moltiplicano, le ostriche, sarebbero addirittura (mi vergogno a scriverlo) ermafrodite; in breve, vivono. Muoiono, anche, in modo molto atroce! Le lumache almeno vengono cotte prima di essere mangiate; le ostriche vengono divorate vive.

La cozza è ancora più rivelatrice dell'ostrica e a maggior ragione entra di diritto nel dominio dello spavento. Si consideri infatti questa piccola massa vischiosa, che per la stupidità comune a tutto il suo gruppo si attacca ai pali di fondazione delle passeggiate a mare, si consideri che è un essere vivente allo stesso titolo di una mucca. Perché non ci sono gradi nella vita. Non c'è un più o un meno. La vita tutt'intera è presente in ogni animale. La cozza è un essere tanto perfettamente e tanto pienamente vivente quanto la mucca o l'uomo. Che LA COZZA, che una cozza abbia, non dico una coscienza, ma una certa maniera di trascendersi: eccomi piombato di nuovo in abissi di angoscia e d'insicurezza.

E l'oloturia dei grandi fondali? Costituita solamente da una specie di budello, sopravvive nella tenebra assoluta e uniforme delle profondità oceaniche, trascinando sulla sabbia rossastra degli abissi le sue forme martoriate e vacue, lontano dalle minacce umane, liberata dal timore...

Liberata dal Timore. Mi fermo sbalordito.


Da mezzanotte, sono rimasto a bocca aperta. È incontrovertibile che in quel momento abbia avuto un lampo di vertigine. Ho passato la giornata ad analizzare quell'istante, ma senza riuscirci: e questa è una prova. Ci stavo pensando oggi pomeriggio, mentre facevo il noioso percorso che va dalla mia affittacamere all'Istituto Superiore in cui si teneva una lezione sull'evoluzione dei tempi in Lingua Straniera dall'epoca arcaica ai giorni nostri. Stavo dunque meditando, e mi resi conto che ciò che avevo scoperto era probabilmente soltanto un luogo comune, ma che, in quanto scoperto da me, da banale diventava vertiginoso. Mi sono affrettato a farglielo sapere. Dapprima con un telegramma, poi con una lettera che scrissi su una panchina e sotto l'occhio di un poliziotto addetto alla sorveglianza della strada che somigliava parecchio a Choumaque, il fornitore, ma più atletico, cosa che mi ha fatto tornare in mente che, quando avevo circa dodici anni, quell'individuo aveva l'abitudine di dire di me: «Questo moccioso, nonostante l'aria da stupido e i piedi piatti, diventerà qualcuno», al che il mio caro papà rispondeva: «È vero che ha l'aria da stupido, ma non ha i piedi piatti», e, adesso, potrebbe aggiungere: «Sì, è diventato qualcuno di vertigeniale».

Il fatto che abbia la vertigine cambia completamente la situazione. Come si presentava questa prima che diventassi consapevole di quella? Se fossi tornato nella città Natale incapace di usare la Lingua Straniera, incapace di accogliervi i Turisti, incapace di giustificarmi snocciolando le mie ricerche, poiché del tutto inconcludenti, sarebbe stato un disastro. Mentre adesso! Dal momento che la vertigine è una realtà soggettiva incontrovertibile, mio padre dovrà riconoscermi e io legittimerò la mia ignoranza della Lingua Straniera esibendo la mia vertiginosità! Così sarò il primo Urbinataliano di questa specie, poiché ho percorso a gran passi la via più difficile, più ardua e più appassionante, quella che conduce alle profondità della vita.

Sono dunque giunto a un punto di svolta, a un momento decisivo: ho scoperto una categoria che accomuna l'ostrica, l'omaro e l'uomo: il timore. So bene che in un certo senso è una banalità. Dico un truismo quando sostengo che i due istinti fondamentali sono quello di conservazione e quello di riproduzione, e si può dire che il timore sia un'espressione del primo sentimento. Ma data la strada che ho seguito, è escluso che mi mantenga sul terreno classico. In effetti, il timore produce l'inquietudine e l'inquietudine è esattamente l'alto emblema dell'umanità, la cui scomparsa mi spaventava così tanto. L'ostrica è inquieta, l'omaro e il merluzzo sono inquieti, e in ciò si avvicinano all'uomo. La loro inumanità si umanizza, la loro vita si giustifica, la loro aspresistenza si legittima. Tra l'uomo e l'omaro, tra l'omaro e l'ostrica c'è (al di là della lettera o) questo legame, questo ponte, questa forma di solidarietà: il timore.

Ma non è in ciò che consiste la mia scoperta. Il momento in cui io scopro, il momento in cui vertigino è quando porto alla luce esseri viventi che non temono nulla e che non hanno nulla da temere se non la loro "morte naturale", esseri viventi che non devono aver paura della ingordigia di altri esseri o dei danni provocati dai batteri, esseri viventi che sono al di là del timore, come i pesci cavernicoli e le oloturie dei grandi fondali. Perché le acque sotterranee, benché limpide, sono un equivalente dei limacciosi abissi dell'oceano. E non mi si vengano a obiettare obiezioni apparentemente obiettive, come: anche loro devono avere le LORO malattie microbiche, le oloturie dei grandi fondali, i LORO cancri e tubercolosi, i pesci cavernicoli; e, mi si dice, le, dove mette, nasse degli oceanografi e reti degli speleologi? Dove le metto? Chi? Io, fra parentesi li ficco, sia i mali, sia gli scienziati, e continuo la mia descrizione. Semplicemente, fra parentesi. Sorprendente e meravigliosamente sconvolgente scoperta! Forse conservano le tracce di antichi timori, gli uni del tempo in cui i loro avi si arrangiavano come potevano, l'occhio vispo e la branchia leggera, con la paura dell' amo o del luccio, le altre del tempo in cui i loro progenitori abitavano presso le alghe più vicine alla superficie dei mari nei quali le giunche d'altura eseguono manovre gastronomicamente finalizzate. Forse gli uni e le altre conservano tali tracce nella loro albumina! Ma, adesso, queste e quelli non sono più stravolti dalle ansie e dai timori, vivono isolati e bizzarri nelle tenebre opache e nel perfetto silenzio delle acque. Queste e quelli, nulla li avvicina all'uomo, da cui sono separati da fosse e baratri. La loro vita non è più la nostra vita. Ma, tuttavia, è LA vita. Essa ci sfugge. L'assenza persino del timore ci sembra un'assenza di vita eppure è una vita, molto lontana, molto lontana al di sotto di noi.

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4. I Contadini


Paul:

Attorno a me si stende la campagna in tutto il suo orrore, un lungo lenzuolo di noia e di clorofilla in cui i Contadini si avvolgono giorno e notte. Come ho potuto farmi infinocchiare un'altra volta... quelle pidocchiose coltri dei terreni da pascolo, quei tappeti di graminacee commestibili, i ciuffi oscenamente pelosi dei boschetti, l'erezione granulosa degli alti alberi... Ah, il silenzio dei campi... i versi confusi dei parassiti, vacche avvinghiate alla lupinella come piattole ai peli del pube, greggi di animali a uno stadio tanto larvale da sembrare radici che escono da terra per brucare... il suono ovattato e maligno dei rami che oscillano, lo stormire passivo e lamentoso, questa curvatura costante nel senso del vento che fa venire il vomito... le parole urlate dei braccianti, la lingua da bifolchi dei Contadini... Detesto questa striscia di verzura che si allarga attorno alla nostra città, la molle albumina di cui il tuorlo deve nutrirsi. È in mezzo a noi, dietro le pietre delle nostre costruzioni o su quelle delle nostre strade che si può percepire la vita; e è da lì che la vita si irradia verso l'oscurità della campagna.

Come ho potuto farmi infinocchiare un'altra volta?... Eccomi di nuovo condannato allo spettacolo senza pari di un regno vegetale esibito nel suo candore tracotante e ai rapporti perennemente rozzi con bipedi e quadrupedi confinati nell'ambito della loro digestione. Che tedio! Dovunque trionfa la vegetazione, dovunque germogliano piante, il tetro e perpetuo rinnovamento dei figli e delle figlie del seme.

Come ho potuto farmi infinocchiare un'altra volta? Mi ritrovo circondato da un orizzonte di alberi scarmigliati e dalle siepi di recinzione dei proprietari terrieri. Nel terreno circostante trasformato in scacchiera dai registri del catasto e dai lasciti testamentari, scorgo soltanto l'orma profonda delle stagioni, l'avido morso di un lavoro guidato dall'interesse, la lenta preparazione delle digestioni future, la solenne scocciatura della vita contadina. Perché non somiglio al sole la cui vasta intelligenza lascia che i suoi raggi, senza che ne siano insudiciati, indugino su questi licheni e su questi muschi?

E quando lui (il sole) ha compiuto come ogni giorno la sua curva traiettoria seminando la notte dietro di sé, io sospiro e mi struggo pensando ai valori della Città. In cielo splendono i pianeti e le stelle che esaltano la geometria, ma dal suolo coltivabile si liberano masse globulari e oscure, pozzanghere d'inchiostro che salgono verso le cime. L'intera natura precipita in un orribile marasma. Tutto affonda nel rincretinimento. Il granello di luce che fa vivere le piante torna alla propria sorgente e sulla superficie terrestre rimane soltanto la vertiginosa stupidità di ombre informi. Come non provare paura di fronte a questa assenza di ragione priva di ogni follia? Come non essere terrorizzati di fronte a questa pesantezza vegetale dell'essere proteso verso una fine senza memoria e senza spettri, senza morte e senza fantasmi? Immerso in questa insulsa tenebra, l'uomo prostrato non sente nemmeno più l'eco della propria paura.

In una città, ogni pietra risplende del bagliore sprigionato dallo spirito umano, e le minacce della notte sono minacce umane. Alle curve dei sentieri vi assalgono angosce innominabili, il grigio strangolamento degli incubi vegetali; agli angoli delle strade luccica il coltello dell'assassino, un coltello comprensibile e che all'evenienza ciascuno saprebbe maneggiare come un segnale che non lascia spazio a discussioni. Là (dove mi trovo adesso) il senso di soffocamento e la palude, qui (dove vorrei essere) i ruscelli imporporati di un sangue ancora pregno di desideri e di vitalità. Se le nostre case sono perseguitate, lo sono da spoglie umane, dai gemebondi riflessi di esseri della nostra specie; attorno a me non mi figuro altro che ombre di ombre, consistenze di consistenze, morve tenebrose, esalazioni sfrigolanti da mucchi di letame.

Appena mi allontano da una costruzione abitabile in cui permane rappreso nelle pareti l'odore di esseri umani, il panico rivoltante da cui vengo afferrato mi provoca nausea verso le bellezze naturali, al punto da vomitare. Chi mai dunque ha potuto credere che avrebbe potuto esserci un qualsiasi rapporto fra l'uomo e il suo ambiente, un rapporto naturale? Le sole armonie autentiche, l'uomo le ha create. I punti in comune, l'uomo soltanto li ha raggiunti. Lo spirito soffia unicamente dove l'uomo respira, ma l'uomo svincolato dalle costrizioni biologiche e agresti: lo spirito soffia unicamente quando la natura si annulla e svanisce. L'uomo non trova il proprio compimento che nella città. Qui, non avverto che il terrore e l'asservimento. Anelo ai fremiti e alle febbri che possono sbocciare soltanto nelle comunità urbane.

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Pagina 115

Bugia! Non ero infelice! Bugia! Bugia! Ma preferivo che immaginassero questo piuttosto che la verità, perché allora si sarebbero fatti beffe dei miei amori. Il fatto che non fossi conosciuto dalla stella impediva forse al mio pensiero di assillarla? Come credere che la forza di un sentimento non possa raggiungere il suo obiettivo, ovunque esso sia? E il rapporto ideale che io creavo non aveva tanta forza e tanto valore quanto ogni rapporto stabilito dallo spirito tra due cose lontane nello spazio? La violenza dell'immaginazione stabiliva tra lei e me un legame cui lei non poteva sfuggire. Lei conosceva soltanto un misero numero di tutte le proprie caratteristiche; sospettava probabilmente i desideri moltiplicati a ogni sua apparizione; certo, e, fra tutte le caratteristiche il cui intreccio componeva la sua personalità, andava annoverata, e fra le più importanti sebbene a lei ignota, il mio amore.

La distanza che avevo stabilito tra un genere e me era dunque il nostro legame, e le forme del mio erotismo non denunciavano altro che la volgarità delle leggi di natura. Ero del resto pronto a rispettare tali regole; era sufficiente per me, e lo era in generale, che le mie tensioni immaginarie restassero al livello delle idee più belle. Quella stella che viveva incarnata in una carne biondissima e passava intangibile al di sopra degli oceani conservava nondimeno tutto il fascino della sua carnagione, quella stella che, in un dominio limitato, non poteva far altro, nella sua bellezza suprema, che attirare ogni tipo di elogio e un certo numero di desideri, divenuta immagine impalpabile, era gravata da una somma sempre maggiore di sguardi affamati e assetati, e, cinta della bardatura erotica che rendeva ai miei occhi più intenso ogni incarnato e ogni bellezza femminile, veniva a collegarsi per me con l'altra sorgente della mia morale e della mia religione, il torrente del mio feticismo.

Nessun capo femminile merita che ci si dia il pensiero di commentarlo, il disturbo di difenderlo, anche se le stesse pelli di cui la sollecitudine di un signore geloso vestì la prima donna hanno sollevato a partire da quel tempo il problema delle pellicce. I gioielli e i merletti sono lussi che mi disorientano poco. Si comprende facilmente come le vestaglie di una volta siano escluse dal mio sistema. Le mie cogitazioni non si erano mai basate sulle frasi dei libri e sui vecchi vestiti ingialliti dal tempo. Le crinoline mangiate dai vermi depositavano nei sedimenti terziari della mia memoria solo la loro intelaiatura a tronco di cono, e i corsetti irti di stecche ortopediche giacevano nell'orrore della storia dei costumi e nel fondo di cassetti che la trascuratezza aveva reso puzzolenti. Quel passato senza resurrezione avrebbe lasciato nel suo sonno il mio capriccioso erotismo, se la novità sorprendente a cui continuamente mi riferisco non mi avesse fatto capire che le svolte della storia facevano alla fine coincidere in una strabiliante unità il profumo di una forma rara, l'oggettività di una parure di diamanti e l'artificio di un'umanità spogliata.

La guaina riunisce in sé l'elemento artificiale e quello erotico, al di là delle contingenze materiali della riproduzione. Le pagine di anatomia che descrivono il funzionamento di organi segnati dalle vicissitudini della carne, dalle necrosi, dalla putrefazione a venire, chi mai ne fa carta straccia, di quelle pagine, di quelle realtà, se non questa forma di seduzione? Non potevo che ammirare l'arte eccelsa del commerciante straniero che veniva a proporre ai fianchi delle Urbinataliane l'artificio esaltante da lui inventato, artificio e realtà in cui la purezza dell'idea, il valore della linea e la geometria del sesso si congiungevano per estendersi al corpo intero. La materia stessa di tale oggetto rappresentava l'equivalente metaforico dell'elasticità della carne femminile.

Ed è così che ho vissuto. In conseguenza dell'invasione della nostra città Natale da parte della propaganda e del lusso stranieri, alcune circostanze fortuite mi posero di fronte a ciò che fu per me una rivelazione. Senza di loro non avrei affatto vissuto. Così, cosa volete che faccia, sbattuto lontano dalle sorgenti urbane dei miei slanci nel verde e brunastro magma della vita contadina, sbattuto lontano dalle fotografie delle mie fantasie nella tridimensionale brutalità dello spazio biologico, sbattuto lontano dalle postazioni cittadine nella densa vitalità delle stalle e dei campi, cosa volete che faccia, se non vomitare?

Del resto, quant'è ancora più abietto l'atteggiamento dei Cittadini smarriti in questi paraggi; l'atteggiamento per esempio di colui che per poco non diventò mio suocero, intendo Le Busoqueux, che, impastato di polvere di città, viene qui a scaldarsi tanto per l'abbondanza delle messi e il peso dell'uva. Stando a quel che dice, gli piace l'aria "aperta", il buon odore dei vegetali e la purezza della loro fisiologia, la schiettezza dei costumi, la bellezza delle sassefriche, la maestosità delle zucche, l'utilità dello sterco e il suo impiego, il risveglio al cantar del gallo. Quanto a me, subisco, e aspetto l'ora di fare ritorno. «Aha», mi ha detto Le Bu, «qui devi proprio sentire la mancanza di un cinematografo, tu che ci andavi ogni sera». E mi lascia intendere che la vita con una famiglia mi eviterebbe questa spesa, laggiù, e, qui, questa noia. Come se pensasse che voglia riprenderla, sua figlia. Come se pensasse che dopotutto la nipote non era così male. Gli ho risposto che mi facevano ridere, lui e la sua famiglia. Non ha capito.

E questi campi, anche questi campi mi fanno ridere; o piuttosto mi farebbero ridere se non sapessi che sono concimati con escrementi. I campi, come i cani, mangiano sterco, è la natura. Puah! La Natura! Puah! Puah! Per fortuna l'uomo non è naturale. Che vita da immondizia dovremmo fare se fossimo naturali! E questi campi ricordano all'uomo la sua natura naturale, si avvinghiano a lui, lo riprendono, lo avviliscono, gli sbattono il muso nel fetido fango da cui nasceranno i cavoli. Bleah!

Io non sono fatto per questa vita. Per fortuna, per fortuna hanno coperto le strade con pavé e asfalto e la purezza antinaturale vi cresce sino a stanare le erbacce che cercano di spuntare fra gli interstizi del selciato. Hanno anche inventato la periferia per gli impuri in modo che al centro delle città lo spirito fosse finalmente libero dagli attacchi biologici.

Fra poco questi campi, questi prati, questi boschi, io non li vedrò più, e al momento non so quali tra loro mi siano venuti più a noia. Perché se i primi, recando l'impronta umana, escono dalla loro animalità, gli ultimi hanno come un odore di sangue preferibile a quello da servo. D'altronde che importanza ha? Non mi curo di scegliere tra inimicizie diverse tra loro. La mia vita improntata all'astrazione mal si adatta alle realtà, siano queste silvestri o agronomiche. Non è tra due orizzonti senza città che io mi ci ritrovo. Ho bisogno della bellezza, non di questa bellezza carnale legata ancora all'animalità, ma della bellezza in forma di statua, e non di una bellezza qualsiasi, ma di una determinata bellezza.

L'aderente ha sostituito il drappeggiato. Non sono più le ampie pieghe di stoffa a sublimare la bellezza della donna, ma la forma sottolineata nel modo più vicino possibile alla perfezione, e aggiustata, se il caso lo richiede, secondo i principi di una regola intellettuale: il reggiseno, la guaina, la calza di seta manifestano chiaramente tale evidenza e la traducono attraverso il loro fascino. E così il nudo si innalza alla dignità del corpo svestito. Agilità, forza, flessuosità, dipendono, grazie a quelle virtù, dalla rigorosa purezza delle linee. Qui, come nello stile classico, l'arte economizza i propri mezzi; si rende degna per mezzo dell'artificio e annulla la volgarità. Celebra la bellezza del corpo femminile spogliandosi di ogni orpello. La donna, in quanto immagine e modello irreale delle realtà, porta così a concepire la cosiddetta astrazione come qualcosa di vivente.

Alice Phaye, lei, mi immagino che fasci il proprio corpo secondo tali regole rigorose o che limiti i suoi capi intimi a ciò che le regge le calze e a ciò che le regge il seno. Quali suoi film verranno offerti quest'inverno alla mia bramosia? Quali sue nuove immagini verranno a fissarsi nella mia anima per vivervi la vita dei fantasmi? Lo scandaloso negozio appenderà ancora le foto di modelle. E come le stelle, e come le modelle, le intense luci delle realtà depurate delle loro contingenze risplenderanno in me, nel tornare alla loro origine, nell'attraversarmi, mentre passano, con i loro fuochi, finché io stesso non mi concentri in un ultimo bagliore.

Felice l'inverno, se lei viene, altrimenti più mnemonico. Poi ci saranno le belle giornate e la Festa e il Gioco di Primavera, che mi diede sempre il voltastomaco per le sue allusioni vegetali. Poi verrà la nuova estate, un'estate per me forse senza campagna. Ma per quale motivo dovrebbe essere più bella delle altre?

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5. I Turisti


Alice Phaye e Dussouchel si fermarono davanti alla statua e la esaminarono in silenzio.

«Non è molto decoroso», disse alla fine Alice, «soprattutto se si tratta di un uomo autentico».

«Credo che lei si trovi veramente di fronte all'originale».

«Non le sembra indecente prima di tutto, macabro poi?»

«Forse. In ogni caso, molto impressionante. Non ho mai visto niente di simile».

«Neanch'io. È vero che arrivo direttamente dal Bosco Sacro».

«Non per vantarmi, conosco quasi tutte le popolazioni che calcano e sfiorano la Terra: questa statua è proprio unica».

«Ma allora ammette che sia macabra e indecente».

«Noi, dotti esploratori ed etnografi disciplinati, non abbiamo il compito di esprimere giudizi di valore sull'oggetto dei nostri studi. Io devo cercare il significato di questo monumento, ma non fornire un giudizio sulle sue qualità».

Alice Phaye e Dussouchel fecero un altro giro intorno alla statua.

«Era un bell'uomo», disse Alice.

«Con tanti muscoli quanti se ne può avere in una città in cui non si praticano sport».

«E lei non crede che ci sia stato qualche ritocco?»

«Forse qualcuno, qua e là. A voler essere pignoli forse avrebbero potuto fare i buchi del naso e degli orecchi. Ma non è detto. L'insieme ha un'aria rispettabile».

«Quando penso a ciò che in realtà è questo blocco di pietra mi vengono i brividi. Preferisco non guardarlo più».

Si allontanò.

«Dovrò chiedere il permesso per prendere le misure. Tra l'altro. Mi accompagna dal sindaco? Potrebbe essere un'esperienza originale».

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Bevvero un bicchierino di Trapu, un liquore urbinataliano a base di cedro e di issopo.

Si stava foltitudinando gente proveniente da ogni dove.

In quella vigilia di Saint Glinglin, le digestioni si facevano lente e pesanti, in modo da allenare gli stomaci alle brouch-toucailles procrastinate e la pasta umana scivolava lentamente lungo i viali, un po' più vischiosa del solito. C'erano tutti, gli Urbinataliani, i grandi e i piccoli, i notabili e gli umili, i buoni e i cattivi, gli stronzi e i megastronzi, i moderati e gli estremisti, gli uni e gli altri, che andavano e che venivano, che parlavano e che stavano zitti, e oltre a questi c'erano i Contadini, grandi e piccoli, notabili o umili, buoni o cattivi, stronzi e megastronzi, moderati o estremisti, gli uni o gli altri, che andavano e che venivano, che parlavano e che stavano zitti, e poi gli Stranieri, grandi o piccoli, notabili soprattutto, non molti gli umili è lontana la C.N. bisogna avere Ganeloni e Turpini per andarci, buoni o cattivi, moderati o estremisti, gli uni o gli altri, che andavano e che venivano fra i Contadini e gli Urbinataliani che dicevano parlando tra loro ecco la star Alice Phaye Alice oppure e così è la prima volta che la vede, la Festa di Saint Glinglin, e quelli che stavano zitti erano gli snob che l'avevano vista parecchie volte la Festa di Saint Glinglin ma che non fiatavano per fare la loro figura.

Dussouchel si scolò parecchi altri bicchieri di Trapu, mentre i suoi pensieri si perdevano dietro ad Alice. Poi uscirono, lasciando Simon Zober a prosciugarsi nel suo buco. Dussouchel prese il braccio di Alice, in un moto di tenerezza dovuto naturalmente al Trapu ma anche alla gelosia. Alice non si liberò; accettò quella pressione sulla parte grassa del bicipite, che aveva robusto per merito dello sport, un'attività del Bosco Sacro sconosciuta nella città Natale. Fra le acacie si accendevano le lampadine. Si riusciva talvolta a riconoscere le persone. Le persone che non conoscevano certo, certo che non le conoscevano.

Non riconobbero per esempio Le Busoqueux, la sua signora e la figlia che facevano una passeggiata in quella serata prefestiva. Ma il traditario li riconobbe. Date istruzioni alla famiglia di tenersi in disparte, si fondò sui visitatori facendo ricorso alla Lingua Straniera:

«La signorina Alice Phaye, vero? Mi permette di permettermi di chiederle un autografo?».

Estrasse dalla tasca interna della giacca un dagherrotipo di Alice, leggermente screpolato. Lei vi era raffigurata grazie alla forza esercitata dalla luce su alcune sostanze saline; e vi era raffigurata vestita con una maglia di velluto e le gambe rese lisce da calze di seta, la calza sinistra ornata da un lepidottero di giaietto.

«Oh senta, senta», mormorava il traditario nell'osscurità. «Mifaccianadedica! Mifaccianadedica!».

«Sono molto onorata dalla sua richiesta», rispose la stella. «A chi ho il piacere di?»

«Il suo devoto ammiratore Le Busoqueux, traditario in questa città, la nostra città Natale».

«Io mi chiamo Dussouchel», disse Dussouchel pensando poco a poco a lasciare la presa sul braccio di Alice Phaye. «Faccio l'esploratore».

«Lieto», disse Le Busoqueux, benché non lo fosse affatto.

Messo in tasca il dagherrò autografato, chiamò con un piccolo cenno le due buone donne che lo accompagnavano. Ci si presentò. Dussouchel esitava fra la solitudine con Alice, che sapeva sarebbe stata breve poiché lei desiderava incontrare di nuovo Paul Nabonide, e il lavoro che gli richiedeva di incanaglirsi con l'elemento indigeno, cioè, nella fattispecie, con Le Busoqueux, quasi sicuramente fonte di informazioni su costumi, pettegolezzi, maldicenze, superstizioni ed espressioni da bifolchi. Alice, lei, voleva andarsene.

Ci riuscì.

Le Busoqueux chiacchierava, improvvisamente sedotto dall'etnografo, dimentico della stella. Gli chiedeva se la città Natale così, se la città Natale colà, insomma i soliti discorsi che si fanno con i Turisti. La signora e la figlia tenevano il becco chiuso. Dussouchel vedeva bene che facevano tutti e tre delle facce strane. Avrebbe di gran lunga preferito Alice, ma, insomma, visto che era andata via, ora raccoglieva informazioni. Ascoltava con orecchio fonografoso le parole del traditario sempre più stupidamente confidenziale. Lui, il traditario, trovava deplorevole dover sottostare al giogo di un ragazzino notevolmente ignorante del resto per quel che riguardava la Lingua Straniera, sorvoliamo, sorvoliamo, rimpiangeva il tempo del Grande sindaco Nabonide, non più vecchio di un anno, quel tempo, appena un anno, domani sarebbe stato giusto un anno: già. È la prima volta che viene qui? Mia figlia, Éveline, il suo matrimonio con uno di quella famiglia è fuori discussione. Chiaro. Fra notabili. Il grande Nabonide le aveva messo gli occhi sopra. Vero, gioia? Accidenti, essere la favorita, è già qualcosa. E comunque dà lustro. Soprattutto fra notabili. Era fuori discussione che avrebbe sposato Pierre.

«Ma no, papà, Paul».

Dussouchel esaminò la ragazza. Un buono specimen di verginella urbinataliana, gli parve. Gli venne voglia di esplorarla. Da tale confronto sarebbero potuti venire alla luce alcuni particolari elementi folcloristici.

Si strusciò contro di lei dicendole parole dolci, mentre il padre e la madre sorridevano untuosamente, pensando all'imminente coito della figlia con il Turista che aveva l'aria così dotta.

D'altra parte il traditario Le Busoqueux, facendo finta di niente, li seguiva da vicino spiegando questo e quello. E Dussouchel, mentre nell'ardore favorito dall'osscurità passava la mano sulle chiappe di Eveline, si informava con orecchio distratto sui diversi eventi che più o meno avevano della città i notabili Natale segnato della vita il corso. Così Le Bu si rallegrava di essere rimasto in sella. Pierre non lo aveva fatto fuori nemmeno per niente. Aveva la schiena elastica, lui, e non ne faceva mistero. Anche Eveline ce l'aveva elastica, la schiena. Dussouchel si interessava sempre più alla marmocchia. Ma i genitori gli stavano sempre alle calcagna. Molto dotati i due vegliardi, per quanto riguardava le cretinomanie sulla città Natale. Poi Le Bu iniziò a brontolare perché la star se l'era svignata. Cominciava a fluttuare nell'aria un po' di erotismo, e la signora Le Busoqueux si strusciava contro il suo sposo sussurrandogli nel padiglione auricolare mio bel micione e molto altro.

E passando da un discorso all'altro sarebbero certamente passati alle vie di fatto, sia la coppia legale sia quella turistico-verginale, quando s'imbatterono, come c'era da aspettarsi, in un gruppo di notabili che prendevano il fresco sgranchendosi le gambe, è una bella serata, va bene, e un bicchierino di Fifriquet non farà mica male, e altre stupidaggini, scempiaggini e coglionerie foniche. Gli Urbinataliani, mentre si asciugavano i palmi delle mani l'un con l'altro, seguivanò con la coda dell'occhio il Turista, che d'un tratto sembrava non saper più bene cosa fare dei propri artigli. Le Bu presentò lo stranierucolo, e fu la volta di altri sfregamenti di mani, ma gli occhi dei nativi indagavano, sospettosi, e la loro lingua toccava i palati solamente per frasi insignificanti.

«Io», disse alla fine Dussouchel (allo scopo di esercitare la propria professione), «sono felice di assistere domani a una Festa di Saint Glinglin tradizionale».

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