Copertina
Autore Raymond Queneau
Titolo Gli ultimi giorni
EdizioneNewton Compton, Roma, 2007, Grandi tascabili economici , pag. 224, cop.fle., dim. 13,5x22x1,6 cm , Isbn 978-88-541-0783-0
OriginaleLes Derniers jours
EdizioneGallimard, Paris, 1977 [1936]
PrefazioneArnaldo Colasanti
TraduttoreFrancesco Bergamasco
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe narrativa francese
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Pagina 29

Capitolo primo


Faceva un tempo sul tipo sottili gocce d'acqua qua e là, faceva un tempo da notte umida. La luce dei lampioni si spandeva in pozzanghere sui marciapiedi. All'angolo fra Rue Dante e Boulevard Saint-Germain, un vecchio esitava, non osando attraversare. Un camion gli sfiorò l'ombrello; inerpicato su alcune casse, un cane abbaiò al telaio di stecche di balena. Il tizio indietreggiò brontolando tra i baffi, che aveva folti e spioventi. Passavano veicoli d'ogni genere: tassì, vetture da signori, vetture da servi, biciclette, mezzi a cavallo, tram. Li odiava tutti. Non era certo trascorso molto tempo da quando aveva rischiato di prendersi un ciclofurgone nelle costole, e da quello sfioramento aveva guadagnato un respiro spezzato e una prudenza maggiore; si riprometteva di eliminare un giorno dalla radice quei bolidi funesti, ma tale giorno restava indeterminato. A volte pensava di forare di soppiatto le gomme di quelli parcheggiati lungo i marciapiedi; lo si può fare molto facilmente, con un piccolo temperino. Ma non metteva mai in pratica il suo piano, forse a causa del rischio, delle possibili pedate nei fianchi. L'unica speranza ancora rimastagli era che, con quel tempo da cani che imbratta d'unto il selciato, uno di quegli arnesi si sarebbe ribaltato, per trasformarsi sotto i suoi occhi in briciole fangose, fantino compreso. Il tempo, del resto, giocava a favore. Ottobre languiva come un pesce che boccheggia, un pesce sott'olio, una sardina sott'olio. Buona, questa. Non si sarebbe detto olio, quel piovischio? Non gli piaceva la cucina all'olio; neanche nella vinaigrette bisogna mettercene troppo. Un secondo vecchio venne a piazzarsi al suo fianco sul ciglio del marciapiede, in attesa di una schiarita per attraversare.

Si somigliavano come due fratelli. Eppure non lo erano affatto; da vicino, né alla lontana. Forse era per i baffi folti e spioventi che si somigliavano come due fratelli. Allo stesso modo in cui un occhio inesperto prende tutti gli indigeni colonizzabili per copie in serie di un modello invariabile, così un altro occhio, in altro modo inesperto, prende tutti i vecchi dai baffi folti e spioventi per repliche di un medesimo individuo. È vero che, inversamente, uno dei due lì presenti trovava, lui, che sono i giovani a somigliarsi tutti, con quelle loro facce glabre. Però non era lui che con il gesso scriveva nei vespasiani questa imprecazione: «Nelle fogne i musi rasati».

Lui si chiamava signor Brabbant. Guardò l'altro che si chiamava signor Tolut. Il signor Tolut guardò il signor Brabbant. Brabbant disse a Tolut:

«Si direbbe olio, vero? Io, questo qui non lo chiamo tempo, lo chiamo olio».

«Che ci vuol fare, è dalla guerra che è così; le granate hanno mandato le stagioni a gambe all'aria. Pensi agli ottobre di prima della guerra. Ce n'erano, allora, di belle piogge. E il sole, quando c'era sole, era un bel sole. Adesso invece è tutto rimescolato, gli abiti con gli stracci e Natale con la festa di San Giovanni. Non si sa più quando mettere il cappotto e quando toglierlo».

«A parer mio, è per colpa dei cannoni che è diventato tutto così, come olio».

«Anche a parer mio. Fortuna che è l'ultima guerra, se no si finirebbe per vedere Natale alla festa di San Giovanni, come le ho detto poc'anzi».

Brabbant guardò Tolut da sotto l'ombrello.

«Guarda, guarda, mi sembra di conoscerla, caro signore. Credo proprio di averla già incontrata da qualche parte».

L'altro rifletté.

«Agli Archivi, forse?»

«No, di sicuro no. Non li conosco, gli Archivi, conosco solo la strada in cui si trovano. Però lei ha un aspetto che non mi e nuovo. Mi domando dove mai posso averla incontrata».

«Da mio cognato, allora?»

«Suo cognato?»

«Sì, Brennuire, sa, l'editore d'arte. Forse mi ha visto da lui. Riceve spesso, scrittori, pittori, giornalisti e anche poeti».

Brabbant sogghignò.

«Oh, i poeti!», disse insinuante.

«Ce ne sono di molto buoni», ribatté Tolut indispettito.

Non che il lirismo non lo spaventasse abbastanza, solo che, incontrandoli da suo cognato, si credeva in dovere di tenere i poeti in considerazione. Tuttavia, un po' vigliacco, aggiunse:

«Certo che alcuni di loro!».

Dal cielo nero non trasudavano più le gocce oleose. Tolut chiuse l'ombrello. Brabbant fece altrettanto ed esclamò:

«Adesso ricordo dove l'ho vista! Tutta quest'estate, non era sempre al Lussemburgo seduto...».

«Dalle parti del vivaio? Proprio così. Anch'io mi ricordo di lei. Non aveva l'abitudine di sedersi vicino alla statua di...».

«Esatto», disse Brabbant, porgendogli la mano. «Mi chiamo Brabbant. Antoine Brabbant. Reduce del Settanta. Avevo diciassette anni alla battaglia di Bapaume».

«Tre gennaio 1871. Fu vinta dal generale Faidherbe, che i tedeschi avevano soprannominato "La Gramigna" per la sua tenacia».

«Ah, ah, ottimo. C'era?»

«No. Io sono – ero - professore di storia. Mi chiamo Tolut, professor Jéróme Tolut. I miei allievi mi chiamavano "Il Pasticca"».

«Sono stupidi, i mocciosi», disse Brabbant.

«Ce ne sono d'intelligenti. Ne ho visti di quelli che sapevano a memoria tutte le date della storia moderna, quelle che si chiedono al baccalaureato».

Erano fermi a chiacchierare sul ciglio del marciapiede.

«Guardi, credo che potremmo attraversare», disse Brabbant.

Un camion era rimasto intrappolato fra un tram e un autobus.

«Approfittiamone».

Avanzarono con prudenza.

«Si scivola, sembra grasso. Olio. Non hanno ancora trovato un buon sistema per lastricare le strade».

Raggiunsero l'altro ciglio.

«È sotto Filippo Augusto che hanno cominciato a lastricare le strade di Parigi», disse Tolut.

«Davvero? Non l'avrei mai immaginato. Sono felicissimo di aver fatto la sua conoscenza, caro signore. Quando la vedevo ogni giorno al Lussemburgo, dicevo tra me: "Guarda un po', chi sarà mai quel signore? Un commerciante? Un giudice? Un militare?". Le confesserò che propendevo per quest'ultima categoria».

«Non aveva indovinato, eh? L'insegnamento! Per trentacinque anni, signore, ho insegnato storia. Storia antica, moderna e contemporanea, francese e universale, greca e romana. E anche geografia ho insegnato, signore, geografia, la Francia, l'Europa, le Grandi Potenze Mondiali. Sono per giunta l'autore di qualche lavoretto sulla storia della Rivoluzione francese nella Seine-Maritime, perché negli ultimi vent'anni ho insegnato al liceo di Le Havre».

«Seine-Maritime, capoluogo Le Havre. Sottoprefetture Fécamp, Bolbec, Pont-Audemer, Honfleur», disse Brabbant tutto d'un fiato.

Tolut si fermò, con aria preoccupata; esitò un istante, poi riprese il cammino, lo sguardo fisso sugli occhielli delle scarpe. Il suo compagno si girò verso una ragazzina; quindi eseguì qualche mulinello con il parapioggia.

«È maledettamente interessante la storia». esclamò con aria estasiata, «dà una conoscenza degli Uomini...».

«E delle cose».

«Sono veramente contento dì aver fatto la sua conoscenza, caro signore», concluse Brabbant.

Erano giunti al Boulevard Saint-Michel. Risalirono verso il Lussemburgo. La pioggia riprese a cadere con più insistenza. Entrambi riaprirono gli ombrelli.

«Stavolta è acqua», disse Brabbant con soddisfazione.

«Il cannone ha guastato tutte le stagioni. Ah, questa guerra! Non abbiamo ancora finito di patirne le conseguenze».

«E questa pioggia che non sembra voler smettere».

«Non sembra proprio».

«Che ne direbbe, caro signore, di andare a sederci a un tavolo davanti a una bevanda confortante?»

«A dire il vero, non ho niente in contrario»

«Che le pare del Soufflet?»

«Ci andavo da giovane, ci torno da vecchio» declamo Tolut.

«Oh, oh! Vecchio, lei! Suvvia!».

«Non sono mica più un bambino!».

Entrarono nel caffè pieni di brio e chiusero gli ombrelli con l'aria di chi la sa lunga. Non c'era molto posto; sugli attaccapanni i soprabiti si spogliavano della loro umidità. C'era puzza di cane, di cane bagnato, un cane bagnato che avesse fumato la pipa. I due avventori trovarono con difficoltà un tavolo fra un gruppo di giovani dalle indubbie origini provinciali e una puttana. Per darsi un tono il gruppo faceva chiasso; la donna sognava. Si udiva la pioggia tamburellare sull'asfalto. Quando vennero a contatto con la panca, Brabbant e Tolut emisero piccoli sospiri di soddisfazione. La donna, sollevando le palpebre pesanti e voluttuose, li squadrò con uno sguardo ruminante. Poi tornò al suo sogno. Loro, i giovani provinciali, non fecero affatto caso a quei vecchi.

«Io prendo un Pernod», disse Brabbant.

«Per me lo stesso», disse Tolut, che non aveva per nulla l'abitudine di berne.

«Non vale certamente l'assenzio».

«Certamente no», disse Tolut.

Sopraffatti dal caldo, cominciavano quasi ad appisolarsi. Il Pernod li risvegliò.

«Lei ha fatto la guerra, caro signore?»

«Né questa, né l'altra, ahimè. Ma a modo mio ho fatto anch'io il mio dovere; il mio lavoro era per me una missione!».

«La capisco».

«Ho plasmato il comprendonio di un bel po' di giovani, signore. Gli ho insegnato a conoscere gli uomini... le lezioni della storia... le sconfitte, le vittorie... la cronologia...».

Soverchiato da quelle allusioni, Brabbant si versò nella strozza qualche sorsata di alcol verde.

«È quello che manca ai nostri uomini politici, conoscere la storia. E la geografia. Non dimentichiamo la geografia. Sa cosa si dice dei francesi?».

Brabbant fece finta di niente. Tolut glielo svelò. La definizione li divertì. Notarono che loro non vi corrispondevano per nulla perché, sebbene entrambi decorati, guerra del Settanta da un lato, onorificenza della Pubblica istruzione dall'altro, avevano in compenso notevoli conoscenze in fatto di geografia, ciò che per l'uno era soltanto normale e si può anzi dire necessario, ma che per l'altro non sembrava scontato. Brabbant si giustificò così:

«A forza di viaggiare, sa».

«Lei ha viaggiato molto?»

«Moltissimo».

«Io, non ho viaggiato moltissimo. Quasi niente. Avrei tanto voluto...».

I suoi baffi meditabondi si piegarono verso il cubetto di ghiaccio che si stava sciogliendo nel bicchiere.

«Avrei tanto voluto viaggiare», riprese. «Ah signore, ne ho viste di navi scomparire all'orizzonte! E altre tornare dalle Indie, dalle Americhe. Come si diceva un tempo: dalle Americhe. Per vent'anni ho insegnato al liceo di Le Havre, quel grande porto. Quel "grande porto" della città, dico, non quel "grande por-co" del liceo».

«Ah, ah».

«Cosa stavo dicendo? Ah sì, Le Havre. Sissignore, ne ho visti partire di vascelli per lontani peripli, sì, sì, peripli. Alcuni se ne andavano verso i poli e altri verso gli antipodi. E io, non ho neanche mai messo piede sul battello per Trouville. Adesso sono troppo vecchio per andare per monti e per valli o per imbarcarmi su un guscio di noce. Troppo vecchio».

Stava per mettersi a piagnucolare. Brabbant tossì. L'altro recuperò un po' di dignità.

«Ho degli allievi che sono diventati marinai o che vivono nelle colonie. Ce ne sono alcuni che mi hanno spedito cartoline un po' da dovunque. Un po' da dovunque».

Dopo l'eco, tacque. Il compagno prese la parola e gli elencò alcuni luoghi in cui diceva di avere soggiornato, ma avrebbe altrettanto bene potuto raccontargli che il paese che conosceva meglio era una certa colonia francese dell'America del Sud, per via dei quindici anni di lavori forzati che credeva talvolta di averci passato.

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Alfred


Quel signore, non ci sarebbe niente di interessante a dirvi da quanto tempo di preciso viene qui. L'importante è che viene, e ogni volta che viene mi rivolge la parola e si chiacchiera; lui è interessato a quel che gli dico io, e io mi mostro interessato a quel che mi dice lui, anche se non mi racconta mai cosa fa, chi è, da dove viene, dove va, né qual è la sua professione. Ho molti clienti, vecchi e giovani, uomini e donne, grossi e mingherlini, civili e soldati. All'inizio dell'anno c'è un po' di ricambio, alcuni studenti partono, altri arrivano, dei vecchi muoiono, dei giovani invecchiano. Quando arriva il mese di gennaio, sono, per così dire, sempre gli stessi che arrivano ai miei tavoli. Quest'anno, ci sono parecchi gruppi di giovani che s'incontrano qui con regolarità. Alcuni si occupano di politica, altri s'interessano di letteratura, e ci sono quelli che parlano di sport e di donne; è sempre così, ogni anno; qualsiasi cosa succeda, ogni specie è rappresentata. Anche durante la guerra era così. Ecco perché mi occupo di statistica. Quest'anno sono così? Bene! Il prossimo anno sarà tutto uguale. Ci saranno quelli che parleranno di faccende letterarie e altri di faccende politiche e altri di cose di sport e tutti di sesso, senza contare quelli che hanno i capelli lunghi e che credono di valer mica poco e senza contare quelli che non dicono granché e ci si chiede che studi fanno e che cos'hanno in testa, ma, dopotutto, non sono affari miei. E poi, ci sono i vecchi, quelli che vengono da quindicine d'anni e che dài e dài hanno preso le loro abitudini. E poi, ci sono anche le donne. Alcune sono delle pollastrelle che i loro amici portano qui; sono schedate e non fanno molti affari, parola mia. Se io fossi una donna e cadessi in miseria e nella prostituzione, garantito che non verrei a scalcagnarmi i tacchi a spillo nel quartiere; non rende abbastanza. Loro sono gentili con me; gli tocca, restano lì giornate intere con una sola birra, alla fine non ne vien fuori mica tanta, di mancia. Se tutta la gente fosse così, non si tirerebbe su granché in una giornata; tanto più che nel quartiere tutta la gente tende a essere così. Il tempo che si può perdere in un caffè come questo, roba da non credere.

Quest'anno, c'è una cosa che trovo strana. Nessuno di quei giovani ha ancora fondato una rivista. Credo proprio che sia la prima volta. Se ne ho viste fondare, di riviste! Ma ho sentito dire che adesso fatti del genere non capitano più nel quartiere e che la gioventù al passo coi tempi, la gioventù che se ne intende, non bazzica più da queste parti neanche per idea e preferisce quartieri più eccentrici. Insomma, affari loro; veder fondare o no delle riviste, a me, capirete, non fa né caldo né freddo.

Per tornare a quel signore, ha cominciato a venire all'inizio dell'anno scorso, all'inizio dell'anno scolastico, naturalmente. Io, conto in anni scolastici, per forza; in ottobre si arriva e poi in luglio si parte. Quindi è verso ottobre che ha cominciato a venire. L'anno prima non veniva mai. A volte è venuto da solo, a volte con un altro signore del suo genere. Sono tutti e due dei signori di una certa età e che parlano bene. Ho l'impressione che non si siano conosciuti per caso, ma che sia stato lui a volerlo. Lui, è il primo di cui parlavo. Si chiama signor Brabbant. L'altro si chiama signor Tolut. Be', è un'impressione che ho io, ma penso che il signor Brabbant abbia voluto fare la conoscenza del signor Tolut. E perché? Non sono affari miei, naturalmente, eppure mi ricordo che un giorno di quest'inverno il signor Brabbant mi ha chiesto se credevo che la sua impresa sarebbe andata bene, e io gli ho chiesto che specie di impresa era; allora lui mi ha risposto che era un segreto. Io ho tirato fuori dalla tasca il mio taccuino e gli ho risposto che c'erano molte probabilità che andasse bene, ma non nella maniera che pensava lui. Ma non mi aveva detto di cosa si trattava. A ogni modo, la mia risposta era esatta, e di sicuro ci sono molte probabilità che vada bene, ma non nella maniera che crede lui. Da quella volta, li rivedo molto spesso tutti e due; vengono verso le sei e mezza, sette, e prendono l'aperitivo insieme. Prima giocano a biliardo e dopo vengono qui. E tutti i giorni uguale. Chiacchierano, e sono venuto a sapere che a biliardo il signor Tolut è parecchio più forte del signor Brabbant. Da un po' di tempo vengono in tre. Sono qua tutti i giorni; io faccio in modo che abbiano il loro tavolo, loro si siedono, chiacchierano e bevono i loro Pernod. Il terzo si chiama signor Brennuire. Sembrano tutti e tre vecchi amici, eppure, io, so che non sono neanche sei mesi che si conoscono, o almeno che conoscono il signor Brabbant, perché gli altri due si conoscono già da un bel pezzo, visto che uno ha sposato la sorella dell'altro. Io, li chiamo "i due cognati", e l'altro lo chiamo "l'intraprenditore", perché intraprende qualcosa. Naturalmente è un gioco di parole, e neanche tanto riuscito. Be', insomma, tutti e tre vengono qui praticamente tutti i giorni, e io gli porto il Pernod. Loro, chiacchierano. Parlano di politica, di letteratura e di come dovrebbe essere il tempo e poi anche di Landru. Gli sport, non sembra che se ne interessino molto, e di donne ne parlano solo con un'aria da sporcaccioni. Capisco che non si interessino di sport, ma potrebbero parlare di donne con un altro tono. Non fanno molto altro a parte parlarne, perché, per la pratica, sembrano piuttosto stanchi, meno il signor Brabbant, che corre dietro alle ragazzine, a quanto mi risulta. Credo che dipenda dai pianeti. Quelli che nascono sotto un certo pianeta vanno forte con le donne fino a un'età avanzata, quelli che nascono sotto un altro sono mosci fin da giovani. Nella vita è dappertutto uguale; si è così o colà per via dei pianeti e delle stelle. E poi, bisogna tener conto della statistica. Ma naturalmente la statistica con i cavalli fila via liscia, dato che è una cosa stampata e che si fa in maniera ufficiale. Quando si deve sapere chi è che fa l'amore e quante volte alla settimana e da quando, allora chiaro che non ci sono più cifre ufficiali e che si può parlarne solo un poco a caso, senza una seria base scientifica. Naturalmente, io, se volessi, potrei fare delle statistiche anche su questo, ma è soprattutto di un altro ramo della scienza che mi occupo.

A proposito di scienza, ho letto sui giornali degli articoli su questo tedesco che si chiama Einstein e la sua relatività. Adesso va di moda e pare che non ci sia proprio niente da capire. Ho sentito da un signore, che dice di essere bene informato, che non resisterà alla prova dei fatti, e che quando sono le otto in una stazione non sono le otto meno cinque nel treno, anche se questo treno va velocissimo. Questo era il suo ragionamento.

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Chiese da scrivere e stilò su due piedi un compendio del proprio sistema filosofico

1. Il metodo filosofico consiste: a) in una ricerca personale che può pervenire o all'adozione di un sistema esistente, o alla costruzione di uno nuovo; b) in una conciliazione tra il risultato della propria ricerca e i risultati ottenuti dagli altri pensatori.

2. I sistemi filosofici differiscono solamente per alcuni punti di vista.

3. Si possono conoscere due serie di fenomeni, gli uni detti "esterni" (sensazioni, percezioni), gli altri detti "interni" (immagini, ricordi).

4. Tutti i fenomeni sono dotati di due specie di qualità: la durata e l'estensione.

5. Il tempo e lo spazio sono solamente deformazioni schematiche della durata e dell'estensione; non è inesatto considerarli intuizioni a priori.

6. I concetti si sottraggono alla durata e all'estensione.

7. L'osservazione dei fenomeni interni mostra che al di sotto della durata vi è qualcosa d'immutabile.

8. L'osservazione dei fenomeni esterni mostra oggetti complessi e divisibili.

9. Ciò che è costante sotto il flusso della durata, il letto del torrente dei fenomeni interni, è la sostanza.

10. Ciò che è non complesso e non divisibile è la sostanza.

11. La sostanza rivelata dall'intuizione interna è identica alla sostanza rivelata dall'analisi esterna.

12. Non bisogna confondere la seconda con l'atomo, nozione contraddittoria.

13. La sostanza esiste al di fuori del tempo e dello spazio.

14. Le sostanze si manifestano.

15. L'insieme dei fenomeni costituisce il mondo fisico; l'insieme delle sostanze (e delle essenze) il mondo metafisico.

16. La percezione è un prisma che trasforma il mondo metafisico in mondo fisico.

17. La materia consiste nel passaggio delle organizzazioni delle sostanze attraverso questo prisma deformante. La resistenza è l'individualità delle sostanze. La forza è la tendenza all'organizzazione.

18. La sostanza individuale ci appare dunque come qualcosa di infinitamente attivo, poiché in essa ha sede il prisma della deformazione.

19. Inoltre, sebbene atemporale nel mondo metafisico, essa nondimeno si sviluppa, e tale sviluppo, deformato dal prisma della percezione interna, ci induce a credere che ci sia un flusso di fenomeni interni.

20. Il mondo metafisico è al di fuori di ogni categoria di tempo, spazio causalità ecc., e anche di sostanza.

21. Ogni problema che ci si può porre in merito al mondo metafisico è insolubile per il fatto stesso che il linguaggio è governato dalle categorie. Fintantoché il linguaggio si interporrà fra esso e noi, il mondo metafisico ci resterà inintelligibile.

22. Il mondo metafisico non esiste, perché l'esistenza è una categoria.

23. La "sostanza", nel momento in cui si isola dal resto del mondo, si costituisce in rapporto all'uso delle categorie.

24. È il mondo delle sostanze (e delle essenze) visto attraverso le categorie che costituisce il mondo fenomenico.

25. La "sostanza", isolandosi dalle altre sostanze, concepisce il mondo metafisico in una forma vieppiù degradata.

26. L'Essere-oltre-l'Essere è il mondo metafisico; l'Essere-che-pone-il-Non-Essere è il mondo delle sostanze che si isolano; l'Essere-non-Essere è il mondo dei fenomeni.

27. La scienza e le religioni sono solamente limitazioni della metafisica.

28. La Storia è uno scorrere immobile.


Vincent Tuquedenne non fu in grado di mantenersi all'altezza di questi ventotto punti. La primavera lo fece vacillare. Sguazzava nelle torbide acque dell'erudizione. Leggeva ormai soltanto cataloghi di librai, bibliografie, opere di consultazione. Vagava per le strade, ma sempre per le stesse strade.

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Alfred


Hanno cominciato a smontare la Grande Ruota, e poi è arrivata la primavera, ed è arrivato anche il signor Einstein, cosa che ha messo in agitazione un bel po' di gente. Dei signori posati riempivano il caffè parlando con eccitazione della relatività, della curvatura dello spazio e delle cannonate che vengono sparate nell'infinito e che vi tornano indietro seicento anni dopo, con i contemporanei che hanno una barba di appena quindici giorni da farsi rasare. Io, ascolto le loro storie e non rido, neanche dentro di me, perché ho rispetto per la scienza, anche se una scienza come quella non è il mio genere. Io non baso la mia scienza su ipotesi e su calcoli dove ci sono solo lettere, io la baso su fatti solidi e reali e su calcoli in cui ci sono soltanto numeri. E dico davvero che i miei fatti sono solidi e reali, perché che cosa c'è di più solido di un pianeta e che cosa c'è di più reale di un cavallo? Perciò li ascolto senza ridere, ma senza farmi impressionare, quei signori che parlano di orologi in Manciuria, di raggi di luce ad arco di cerchio e di tensori con delle piccole lettere greche in alto e in basso. Io, non mi faccio influenzare dalla moda. Quando il signor Einstein sarà tornato nel suo paese, i lettori del «Matin» non ne parleranno più. Io, ho uno scopo e non mi lascio distrarre dall'attualità, sia questa il processo di Mécislas Charrier o il film cubista che danno sui Boulevard, o anche, come dicevo poco fa il soggiorno del signor Einstein a Parigi. Se fossi costretto a tener conto di tutto questo, non la finirei più. Naturalmente, se qualcuno mi venisse a chiedere: «I pianeti sono favorevolì, oggi?», gli risponderei sì o no. È attualità, se si vuole, ma lo farei soltanto per fare un piacere a un collega o a un cliente. Dovrei dire piuttosto al cliente, perché c'è solo il signor Brabbant che fa domande simili, qualche volta, di quando in quando, una volta ogni tanto, non tutti i giorni.

In questo periodo, non mi chiede niente perché è in viaggio. Il signor Brennuire ha ricevuto una cartolina con la Torre pendente di Pisa, e il signor Tolut ha ricevuto una cartolina che rappresentava anche quella la Torre pendente di Pisa. Erano firmate «Brabbant». Io speravo di riceverne un'altra con la Torre pendente di Pisa, ma il signor Brabbant non si è ricordato di me. Negli ultimi tempi, il signor Brennuire ha smesso di venire con regolarità, ma il signor Tolut, lui, continua. Allora faccio conversazione con lui, per svagarlo. Lui mi parla di viaggi e io gli parlo di pianeti, lui mi parla di avventure e io gli parlo di statistica, lui mi parla di esotismo e io gli parlo di numeri, lui mi parla di luoghi lontani e io gli parlo di campi da corsa. È un animo tormentato, quel vecchio signore. È roso dal desiderio di andare lontanissimo, allora, io, cerco di fargli cambiare argomento, perché alla sua età lo porterebbero dritto nella fossa, le avventure. A volte mi verrebbe da ridere, ma, come con quelli che si occupano degli orologi del signor Einstein senza capirci un'acca, non ne faccio niente, perché rispetto le opinioni degli altri. Se il signor Tolut vuole viaggiare, non c'è niente da ridere. L'altro giorno, mi ha parlato della Cina. Cosa pensavo della Cina? Non ne pensavo niente, naturalmente, ma lui ne pensava parecchie, di cose. Poi, vorrebbe andare nelle Ande. E in America del Sud, questa bella trovata. Le Ande? Lo lascio parlare quanto vuole. Quando vado a servire un altro cliente e poi torno, mi accorgo che ha parlato da solo per tutto il tempo che non ero lì, e così non seguo sempre bene il filo del suo discorso, cosa che non ha particolare importanza. Ultimamente, mi chiede: «I suoi calcoli possono dirmi se farò un gran viaggio?». Ci mancherebbe, niente di più facile. Lui mi fornisce i dati e io gli calcolo la cosa su un angolo della tavola. Alla fine, trovo che c'erano più di novecentonovantuno probabilità su mille che facesse ancora un viaggio all'estero. Non riusciva a crederci. Ha preso due consumazioni e mi ha lasciato una grossa mancia, almeno dal suo punto di vista. D'altro canto, vorrebbe tanto che il signor Brabbant ritornasse per fare di nuovo delle partite a biliardo con lui. Quando il signor Brabbant non c'è, cerca anche di giocare con persone che non conosce, ma siccome quelle sono più forti di lui, la sconfitta gli rovina tutta la serata. Il signor Brabbant, ecco chi gli ci vuole. un avversario per niente disprezzabile, ma con cui è sempre sicuro di cenare di buon umore e di andare a dormire dello stesso.

Ecco come si chiacchiera noi due nell'attesa che tornino gli altri. Gli altri torneranno, finché un giorno tutto si scatenerà, finché un giorno il loro destino si compirà. Io penso che ci sia lo zampino del signor Brabbant, perché non dev'essere per sport che ha cercato ed è riuscito a fare la conoscenza di quei due signori. Tutto deve finire col trovare una spiegazione. Io, aspetto tranquillamente che la macchina smetta di funzionare. Aspetto, senza aspettare, perché non sono affari miei. A volte, potrei dirmi: "Il signor Tolut non tornerà più, è partito per un lungo viaggio, si è imbarcato per le Antille, oppure per le Indie". Cerco d'immaginarmelo per tutto il giorno. Ma verso le cinque faccio un po' di calcoli, e vedo che ci sono novecentonovantuno probabilità su mille che il signor Tolut venga anche quella sera. È vero che ci sono nove probabilità che non venga. Solo che, verso le sei, lo vedo arrivare; allora sorrido, e dico tra me e me: "Innegabilmente i miei calcoli fanno sempre centro, presto potrò andare avanti con passo sicuro", ed ecco come mi muoverò:

Vado a trovare il titolare e gli dico: «Tante scuse, ma me ne vado». Lui mi domanderà perché. Allora io gli risponderò: «Ho delle cose da fare». Penserà subito che il motivo sono le corse, e lui e i colleghi diranno: «Alfred, lo vedremo tornare presto, quando avrà lasciato tutto il gruzzolo nella cabina del banco scommesse». Io non lascerò lì un bel niente. Quella fra il banco scommesse e me è una questione fra uomini. Arriverò sul campo con un misero piccolo biglietto da dieci franchi e, in un colpo solo, ristabilirò l'equilibrio grazie a un raddoppio della posta calcolato così bene che nessun cavallo potrà scapolarla e nessun accordo sottobanco mandare a monte, un raddoppio che mi frutterà i duecentounmilaseicentoquarantré franchi che mi spettano. Dopo questo gran colpo, comprerò una casa in campagna per invecchiarci in pace.

Oppure tornerò qui. Darò la mancia al padrone, un piccolo biglietto da mille, e riprenderò il mio lavoro. Sarò stato via così poco tempo. Ritroverò i miei clienti abituali, tutti i miei clienti abituali. «Allora. Alfred, che cosa le è successo?», mi domanderanno. Io risponderò: «Ho avuto un giradito, non avete idea di quanto fa male», e ci sarà sicuramente uno dei clienti abituali che mi dirà: «Oh, i giraditi, so io che cosa sono, ne ho avuto uno, fanno un male boia». E ritroverò il signor Brabbant e il signor Brennuire e il signor Tolut, perché non sarà ancora successo niente. E ricomincerò a servire senza sosta infinite bevande, calde d'inverno e fredde d'estate, e alcol in ogni stagione. E vedrò tornare ogni giorno i clienti abituali e cambiare ogni giorno quelli di passaggio, come tornano ogni anno le stagioni e cambia ogni anno l'età delle persone. E io sarò immutabile e perfettamente in equilibrio perché avrò riconquistato la mia ricchezza perduta, compiendo il mio destino. Guarderò agitarsi i giovani e i vecchi, i maschi e le femmine, gli uomini e i cani, i gatti e i topi, le foglie sui rami, le nuvole sui tetti, i vecchi giornali sui marciapiedi, le idee nelle teste, le passioni nei cuori, i sessi nei pantaloni. Immobile e immutabile, guarderò tutto questo come l'acqua di un lago riflette il volo degli uccelli migratori, senza lasciare che la sua superficie venga increspata dal battito delle loro ali.

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