Copertina
Autore Fabrizia Ramondino
Titolo Il calore
Edizionenottetempo, Roma, 2004, , pag. 158, cop.fle., dim. 140x200x10 mm , Isbn 978-88-7452-013-8
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe narrativa italiana
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Indice


Il calore                         7

Ragnatele                        15

Il vecchio turbato               21

L'intrusa                        29

Giosuè                           43

Una passione                     69

Una brutta bestia                81

Il gatto                        103

La colombaia                    125

Il fratello di Enzino           141


 

 

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Pagina 7

Il calore


Quando si torna dal lavoro la sera d'inverno, per strada fa freddo e ansia. Anche prima faceva freddo nella scuola, perché non c'è riscaldamento e in qualche aula sono rotti i vetri; in alcune aule i riscaldamenti c'erano, ma un po' si sono rotti un po' li hanno rotti i ragazzi; rompono la manopola e si divertono a bagnarsi poi all'improvviso l'uno con l'altro i calzoni. Le ragazze invece non vogliono che si bagni loro la gonna e danno schiaffi ai ragazzi; se uno dice al ragazzo: "Smettila!", lui dice: "Che ho fatto?" e un altro dice: "Non vedi che le hai bagnato la gonna e che lei ti ha anche dato uno schiaffo!" e lui dice: "Ma non si è sentito niente!" e l'altro dice: "Ma gli schiaffi non si sentono solo, si vedono anche!" e tutti ridono, e allora lui dice: "Ma lei guardava dall'altro lato" e di nuovo tutti ridono; e allora ci si mette a ridere davanti a questi ragazzoni costretti a fare gli infanti.

Per strada fa freddo, c'è un vento sul Corso che sbatte le serrande dei negozi chiusi e anche la malferma insegna della fermata del pullman sbatte di qua e di là, e il grattacielo, giú verso il mare, sembra sbattere come un pezzo di cartone marcio. Se uno torna a casa quella sera con lo stipendio, da un lato sotto il mantello nella sacca a sinistra ha il calore dei soldi, dall'altro ha il freddo della paura di uno scippo, oltre al vero freddo che c'è per conto suo; e ha paura di quei ragazzi agli angoli delle strade, teneri, torvi, disorientati.

Per la stanchezza uno si sente i dolori al fegato, al cuore e al collo; e ne avverte piu del solito perché si sente, come dire, meschinamente chiuso e preoccupato. Quando poi uno scende dal pullman, tutto è cattivo e deserto, e uno si ficca in un bar a prendere un brandy, ma il bar sta chiudendo. Ma uno entra lo stesso e dice: "Un brandy". Poi uno si accorge che non ha gli spicci per pagare - in genere al giorno di stipendio uno arriva con le cento lire del pullman e basta; il segretario ha dato due centoni e qualche altra cosa, ma questa volta i centoni erano netti perché ci sono state le trattenute per gli scioperi. Uno ha aperto il portafoglio, ha cominciato a contare, a cercare mille, cinquemila lire, o almeno cinquecento lire, ma niente; e i tre ragazzi che erano nel bar semichiuso hanno visto i soldi; li hanno guardati, si sono guardati. Uno ha paura, mormora in fretta: "Pago domani" e se ne va - per fortuna il bar è vicino casa e uno è conosciuto, un credito per un brandy lo ottiene. Ma uno continua a camminare con paura verso casa, ha paura forse solo perché è stanco; comunque se gli rubano lo stipendio, come si fa a pagare la casa e il mangiare, uno cosi non ha risparmi.

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Pagina 15

Ragnatele


La condussero in una radiosa mattina di maggio al palazzo battuto dal vento. I lunghi capelli bianchi disciolti sulle spalle e il corpo magro stretto nell'abituccio nero. Sorridente, timida, cancellati antichi vizi e rancori, rinata a nuova vita come una educanda dopo la confessione.

Ma, a un occhio piú vigile, disperatamente supplice che non la si abbandonasse.

Salutò i nipoti con i quali avrebbe diviso la sua solitudine.

Fu sistemata in alcune stanze del grande palazzo abbandonato. Con sei bauli, di cui quattro contenenti il suo corredo di fanciulla, intatto; e gli altri, pochi panni, qualche antico gioiello e scatole giapponesi laccate.

I giovani sposi, i nipoti, abitavano in due stanze fuori del palazzo.

La cura dei suoi pasti e delle stanze fu affidata a una contadina quindicenne che veniva ad accudirla tre volte al giorno.

Mangiava brodi e pastine, tè e biscotti, caffè acquosi.

Per la pietà del fratello era stata trasferita qui dal paese natio, e non in un ospizio, quando avevano venduto la casa; ma la casa si era potuta vendere solo dopo che una dietro l'altra erano morte le altre, piu temibili sorelle.

Il fratello pubblicò, in occasione di quella vendita, un libro: vi si narrava della sua avola che, donna di grande coraggio, aveva affrontato avventure di terra e di mare; i naufragi, i briganti, i pirati; il bisogno; i rimbrotti del marito; lo sprezzo degli altri. Ma alla fine era giunta allo scopo: ottenere l'eredità per la quale aveva tanto lottato. Ultimo residuo di quella eredità era la villa. Il fratello, sulle orme dell'avola, aveva continuato quella guerra; e l'aveva vinta anche lui contro le sorelle!

La sua cristianissima cognata non volle perdonarle oscure offese subite in gioventú, da lei e dalle sue sorelle defunte, e mai venne a farle visita; né volle mandarle le figlie, per proteggerle da pericolose identificazioni, zitelle com'erano, e da malinconie e nevrosi. Solo il fratello, sempre allegro e gioviale, veniva ogni tanto, carico di salsicce e di vino; la casa allora si animava; ma a sera andava via intristito, perché nessuno faceva onore ai suoi pranzi. Sicché a poco a poco diradò le visite.

I nipoti le dedicavano una quotidiana visita di convenienza, della durata calcolata di pochi minuti.

Di notte aveva paura degli spiriti; sempre freddo d'estate. La domenica il prete le faceva visita.

Per vizio o pudore, non tollerava che le si toccasse il letto, le si cambiassero le lenzuola; non mutava mai d'abito, tranne un colletto bianco di merletto. Sicché il nipote, ben contento di trovare una volta tanto l'occasione di esercitare il suo inutile fermo carattere, imponeva i cambi di biancheria.

Non aveva imparato nulla dalla vita, e nulla aveva da insegnare. Nulla quindi in lei affascinava i nipoti.

Ma alla serva quindicenne, abituata ai tepori e alle opere della sua casa, gremita di persone e di bestie, pareva lusso crudele la vita della vecchia nell'ampio e gelido palazzo; le teneva la mano. E ciò facendo l'ascoltava, diventava favola il racconto della vecchia misera.

Quando venne l'inverno si accesero stufe e bracieri. Invano. Ella aveva sempre freddo e sedeva sempre piú strettamente avvolta in panni e coperte. Sempre piu si accostava al braciere, col viso in giú, che le si chiazzò di rosso e di viola.

Fu allora che la nipote usci dal suo crudele egotismo e cominciò a darsene pensiero. Il marito diceva: "Non è niente". La zia, secondo lui, stava benissimo.

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Pagina 48

Che cosa gli avessero fatto a Quarto Oggiaro, la moglie non riusciva a capirlo. Ogni volta che tornava, per una settimana, quindici giorni, la moglie ne imparava di nuove. Erano anni che Giosuè criticava il Partito; ma lo faceva a tu per tu con la moglie, col padre, con qualche vecchio compagno fidato, tra le mura della sezione, mai fuori. Fuori bisognava stare tutti uniti.

Che fuori si dovesse stare tutti uniti, Giosuè, si può dire, lo aveva succhiato col latte. Aveva cinque anni quando erano venuti a casa i carabinieri. Stavano mangiando; il padre tagliava il pane; le fette erano eguali e ne dava una a ciascuno; la madre invece versava un mestolo di fagioli in ogni piatto; se ne rimaneva, ne metteva a ciascuno un altro mezzo mestolo. Allora avevano ancora il vino a tavola e a Giosuè ne toccava mezzo bicchiere: la nonna glielo allungava con l'acqua. Era la festa dei morti; ai morti allora mangiavano anche il coniglio.

"È questa la casa di Giuseppe Marchetta?"

"Sono io, il sottoscritto," disse il padre.

"Noi vi dobbiamo ammonire," disse il carabiniere. Era imbarazzato, era un brav'uomo, e si rifugiava nel linguaggio burocratico.

"Eravate il capo della lega dei braccianti".

"Signorsí," disse il padre di Giosuè. Stava in piedi, e tutta la famiglia lo guardava.

"Siete comunista," disse il brigadiere.

"Se non è comunista la classe operaia, chi lo deve essere?" disse il padre. Il brigadiere taceva imbarazzato.

"Beh, comunque siete ammonito," disse e usci con l'altro carabiniere.

Giosuè si stringeva alla nonna; la nonna, quando la faceva arrabbiare, minacciava di andare a chiamare i carabinieri.

Il padre era un gran lavoratore, nessuno sapeva potare gli alberi come lui, lo chiamavano da tutti i paesi vicini, pure da Madonna del Ponte, una volta lo chiamarono perfino a Calafunna. Perciò trovava sempre lavoro e non se la passava male. Tanto che a otto-nove anni Giosuè invece di andare a caporale, andava a scuola. Una volta venne a casa e disse alla madre: "Voglio pure io la camicia nera, come gli altri". La madre gli disse: "Va bene". Ma non gliela comprava. E ogni volta gli diceva: "Va bene". Ma non l'aveva mai. Lo disse pure alla nonna, e la nonna si mise a parlottare con la madre, e la madre gli disse di nuovo: "Va bene". Allora un giorno lo disse al padre. Di cose di scuola forse era meglio parlare col padre. Il padre era un po' fatto a vino, stravaccato sulla sedia con la camicia dai bottoni neri aperta, portava il lutto per il fratello. Giosuè ricordava ancora che aveva le arterie del collo magro tutte sporgenti sulla pelle rossa e bruciata dal sole e gli occhi azzurri cerchiati di rosso. Il padre non lo picchiava mai, nemmeno quando era un po' fatto. Ma quando Giosuè gli disse: "Voglio pure io la camicia nera," gli diede un calcio in culo e lo cacciò dalla stanza. Che ne sapeva Giosuè che non si poteva avere la camicia nera? I quaderni e il lapis li aveva ogni volta che li chiedeva, e gli avevano comprato anche il libro del catechismo.

Il padre da quel giorno lo tolse dalla scuola, se lo portava in campagna a potare. Non gli aveva dato spiegazioni. Un giorno, dopo alcuni mesi, gli disse: "La camicia nera è nemica della classe operaia". E basta. Cosi Giosuè imparò che era diverso dagli altri ragazzi. Un'altra volta imparò cosa voleva dire che bisognava stare tutti uniti. Aveva preso due lepri con le trappole; ma a lui toccò solo un poco di fegato, perché alla festa della lepre suo padre aveva invitato anche i figli di Liberato. Il padre gli aveva detto: "Vai a chiamare i figli di Liberato". "Ma la lepre è poca!" era scappato detto a Giosuè. Fu la seconda volta nella sua vita che ricevette un calcio dal padre. Liberato aveva la tubercolosi e stava al Sanatorio; al paese nessuno voleva avere a che fare con i figli di Liberato per paura del contagio; sua moglie stava chiusa in casa al buio con la figlia e si diceva che anche la ragazza fosse tisica.

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Pagina 105

Le mie nuore e i miei figli mi conducevano talora per un pomeriggio o per uno o due giorni i nipoti. Giovane donna, avevo avuto i miei due figli come per una sorda necessità, allo stesso modo che avevo dovuto prendere un diploma, fare un concorso e sostituire mio padre nell'impiego alle poste; e allo stesso modo li avevo allevati, senza mai provare, cosí mi pareva di ricordare, né gioia né meraviglia, ma nemmeno ripugnanza o fastidio. Forse anche perché avevo sempre lavorato e, sin da quando i due bambini erano in tenerissima età, avevo dovuto mandarli alla materna e all'asilo; e dopo che per otto ore avevo timbrato vaglia e raccomandate, mi pareva, tornando a casa, e accudendo i bambini, di continuare con diligenza nello stesso lavoro. Ma ecco che ora, ed ero quasi decrepita, mi accorgevo di quanto avevo perduto nella cura dei miei figli, che mi trovavo davanti grandi, incravattati, e impiegati in posti onorevoli; casi piu che i miei figli e le mie nuore, avevo voglia di vedere i miei nipoti.

Nei primi tempi, le due nuore erano timorose di affidarmeli, o per riguardo nei miei confronti o per gelosia di madri. Ma a poco a poco, vedendo la felicità dei bambini quando stavano con me, e che io nei loro confronti non commettevo stravaganze, o solo perché non avevano tempo, sempre piú spesso me li affidavano. E io notavo che i figli li facevano e li allevavano in quello stesso modo sordo che era stato il mio. E perfino arrivarono ad affidarmi il piu piccolo, che aveva solo tre mesi. E piú erano piccoli, piú gioiva della loro presenza; e piú erano estreme le nostre età, piú li sentivo vicini. Mi piacevano quelle loro manuzze strette nel sonno come attorno a qualcosa di prezioso, e correvo a ogni loro richiamo, prima che si mutasse in pianto. E quando venivano i miei figli e le mie nuore, e attorno ai bambini che giocavano, diventati in loro presenza inopinatamente petulanti, facevano progetti di avvenire, mi risentivo, diventavo ombrosa e mi ritraevo in silenzio, come dinanzi a discorsi sacrileghi. Per loro avevo sistemato sulla terrazza dei vasi di terracotta dove piantavano e vedevano crescere piantine di lenticchie, di prezzemolo, di pomodori. Per loro, quando anche nel nostro quartiere cominciarono a vendere prodotti esotici, compravo piante di mandarini nani. E canarini, merli, pappagallini. Addirittura, non fosse stata cosí esigua la pensione, avrei comprato loro una scimmietta. Pure non ero per loro una nonna favolosa, ché nella mia vita non avevo mai sognato né fatto ricche e varie esperienze da raccontare; e solo da poco avevo scoperto piccole gioie quotidiane. Per loro ero certo come una nonna bambina, perché attraverso ogni loro gesto, ogni loro voce, mi pareva di ricordare me stessa bambina, e tutta mi perdevo in quel ricordo; pensavo anche alla giovane madre festosa che avrei potuto essere e non ero stata.

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