Copertina
Autore Federico Rampini
Titolo "Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale" (Falso!)
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2012, Idòla , pag. 112, cop.fle., dim. 11x18x1,3 cm , Isbn 978-88-420-9502-6
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe politica , economia , paesi: USA , paesi: Germania , paesi: Italia: 2010
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Indice


Introduzione                                            VII

1. L'America è un modello "superiore"?                    3

2. Il modello europeo più forte che mai                  30

3. La virtù è esportabile?                               43

4. Le promesse che l'euro ha tradito (e perché)          57

5. In cerca di un nuovo "pensiero" economico             81

6. La grande malata                                      97


Indice dei nomi                                         109
L'Autore                                                111


 

 

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1. L'America è un modello "superiore"?


Noi europei siamo stati nel mirino della destra americana durante tutta la campagna elettorale americana. Ho vissuto il "processo all'Europa" in prima persona, avendo seguito Mitt Romney durante la campagna elettorale, anche in volo sul suo aereo insieme a un gruppo di giornalisti americani. Romney non concludeva mai un comizio senza aver lanciato questa accusa - secondo lui infamante - a Barack Obama: «Ci vuole trasformare in uno di quegli Stati fallimentari che vediamo in Europa. Il presidente vuole che l'America diventi una società assistita, dove ciascuno dipende da un aiuto statale, come in Europa». Spesso le bordate diventavano ancora più specifiche. Ecco un'altra frase che ho sentito più volte da Romney: «Se non cacciamo via Obama, farà salire il debito pubblico americano a tali livelli che diventeremo come l'Italia e la Grecia». Per la propria autostima non è il massimo, seguire passo per passo in campagna elettorale un politico che cita il tuo paese come un insulto contro l'avversario. (Per inciso, non c'è limite al peggio: la prima volta in cui sono stato invitato a parlare come ospite in diretta nel telegiornale più seguito degli Stati Uniti, alla Nbc, è stato per spiegare se il comandante Schettino della Costa Concordia sia un archetipo del nostro carattere nazionale oppure no.)

Il fatto che dal novembre 2011 al posto di Silvio Berlusconi sia subentrato Mario Monti, ha cambiato sì la percezione del rischio-paese dentro l'Amministrazione Obama, ma nel discorso pubblico americano "Italia e Grecia" continuano a essere sinonimi di "Stati candidati alla bancarotta". La mia costernazione la sento non solo da italiano, ma come cittadino europeo. Tutta l'Europa viene associata a un sistema statalista, assistenziale, che deprime l'iniziativa individuale e la creatività, condannandosi a una perpetua stagnazione. E fosse solo la destra americana a pensarla così... Il guaio è che a sinistra pochi ci difendono. Li capisco: l'idea che "Europa uguale declino" è diventata un luogo comune. La forza dei luoghi comuni è irresistibile, guai a mettersi contro. Pensate se Obama avesse risposto a Romney con affermazioni di questo tipo: «Non mi pare che in Europa stiano poi così male: quei poveracci dei francesi hanno una longevità media superiore agli americani; le diseguaglianze sociali in Germania e Danimarca sono un terzo delle nostre; i norvegesi hanno un reddito pro capite superiore agli americani; tutti i paesi dell'Europa nordica piazzano i loro studenti in cima alle classifiche Ocse-Pisa sulla qualità dell'apprendimento, mentre i licei pubblici americani sono al 27° posto». Se Obama avesse osato dire queste semplici verità, apriti cielo! I suoi avversari avrebbero replicato: «Ecco la conferma che il nostro presidente è un alieno, un esterofilo, un ammiratore del socialismo europeo, quindi un antiamericano».


Ma da che pulpito ci vengono queste prediche? In che stato si trova l'America, dopo l'inizio della Grande Contrazione economica? Quello che vedo nella nazione più ricca del pianeta è un paesaggio sociale con tinte drammatiche: l'impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, l'arretramento del tenore di vita e del potere d'acquisto. Le aspettative di intere generazioni si sono ridimensionate di colpo: non solo in Europa, anche negli Stati Uniti. Mentre scrivo, gli ultimi dati relativi al 2010 rilevano 56,2 milioni di americani che vivono sotto la soglia della povertà, fissata al livello di 22.000 dollari di reddito annuo per un nucleo familiare di quattro persone.

[...]


Tra gli stereotipi più tenaci, equamente ripartiti in Europa e in America, c'è il seguente: l'americano medio rinuncia ad avere un Welfare generoso come quello europeo, perché in cambio ha una pressione fiscale nettamente inferiore. È il "patto sociale" di una nazione più propensa al rischio, più individualista, più competitiva. Ma quanto è vantaggioso questo patto sociale? Essendo un contribuente degli Stati Uniti dall'anno 2000, ho fatto qualche verifica concreta in proposito. Anzitutto, l'idea che l'America sia una sorta di paradiso fiscale rispetto all'Europa è un'esagerazione. Non mi riferisco solo al fatto che negli Stati Uniti sia bassissima l'evasione, e quindi sono inesistenti quelle aree di "privilegio implicito" che da noi si annidano nell'economia sommersa, in certe aree di piccola impresa, libere professioni, artigiani, ecc. In America pagano tutti, con rare eccezioni, e chi prova a fare il furbo rischia grosso. Ma lasciamo stare l'evasione italiana che è un'anomalia, e facciamo un confronto più generale America-Europa. L'aliquota marginale dell'imposta federale sul reddito arriva al 35% e sta tornando al 36,5% con lo scadere degli "sgravi Bush". A questa va aggiunta l'aliquota che preleva lo Stato di cui si è residenti: nel caso della California è stata a lungo il 10,3% e si appresta a salire al 13%. Fate la somma e vi accorgete che il prelievo non è poi così tanto inferiore all'Europa. Solo un po' inferiore. Ma per fare i conti in tasca al "patto fiscale" americano, devo chiedermi: che cosa ottengo, in cambio delle tasse che pago? Ed è qui che il bilancio per il contribuente Usa diventa deprimente. In cambio delle tasse che pago, non ho alcuna assistenza sanitaria. L'assicurazione sanitaria me la devo comprare a parte, ed è costosissima: se spendo "solo" 1000 dollari al mese ho una polizza scadente, con buchi vistosi e ticket altissimi che devo sborsare io. Inoltre vivo nell'incertezza costante perché le compagnie assicurative (tutte private) cambiano tariffe di anno in anno, alzando il "premio" che devo pagare e riducendo le prestazioni a cui ho diritto.

[...]

Alla fine, che cosa ricevo in cambio delle mie tasse americane? Niente sanità, niente scuola, niente pensioni, niente trasporti pubblici. Francamente, il patto sociale americano non mi sembra così vantaggioso.


Come si vive in un mondo senza tutela del posto di lavoro? È una domanda che angoscia molti italiani: cambiano alcune norme che regolavano il mondo del lavoro da decenni. Per una parte degli italiani - certamente per quelli della mia generazione - quelle leggi sono state sinonimo di un certo livello di sicurezza. In futuro sarà più facile essere licenziati, anche per coloro che finora si sentivano più stabili e protetti. Come si vive in un "mondo senza articolo 18", è una domanda a cui posso tentare di rispondere, perché è il mondo che ho osservato da vicino negli ultimi dodici anni. Qui in America non esiste una differenza tra "stabili" e "precari"; tra "posto fisso" e "insicuro". I miei figli, 26 e 25 anni, sono cresciuti qui e hanno studiato qui. Nel momento in cui si affacciano sul mondo del lavoro, qualsiasi opportunità riescano a trovare sarà sempre un posto precario: ma non più precario di quanto lo sia l'impiego di un mio coetaneo collega giornalista del «New York Times». Nel senso che qualsiasi lavoratore dipendente qui negli Stati Uniti è licenziabile a vista. Spesso anche nel pubblico impiego: per effetto dei tagli di bilancio a livello degli enti locali (Stati e Comuni) ho visto licenziare migliaia di dipendenti pubblici. Esistono eccezioni, ma sono molto limitate.

[...]

«It's a Rich Man's World», annunciava all'inizio del 2012 una copertina della rivista «Harper's Magazine»: il mondo appartiene ai ricchi. Se questo titolo si riferisse solo alla crescente diseguaglianza di risorse e di opportunità, non sarebbe nuovo: questo fu già nel 2011 il tema di battaglia di Occupy Wall Street. La novità sta nel modo in cui la ricchezza si trasferisce tout court in influenza di governo, potere decisionale. I super-ricchi non esitano più a intervenire direttamente come "azionisti" delle scelte di governo. Il pensatore più emblematico di quest'epoca forse un giorno sarà considerato Ajay Kapur. Non è un politologo né un economista o un sociologo, è un analista di origine indiana che decide le strategie della Deutsche Bank in Asia. Nel suo mestiere precedente, come stratega del colosso bancario Citigroup a Wall Street, Kapur pubblicò uno studio interno in cui teorizzava l'avvento di una "plutonomia": un sistema in cui i ricchi definiscono le leggi, scrivono le regole, dettano l'agenda ai leader del mondo. Stati Uniti, Inghilterra e Canada per Kapur sono i "modelli" originari di plutonomie nel XXI secolo, come in passato lo furono la Spagna del XVI secolo, l'Olanda del XVII, la stessa America nei ruggenti anni Venti alla vigilia della Grande Depressione. Per Thomas Frank, autore del saggio su «Harper's Magazine», «i veri partiti politici di riferimento, per i candidati americani, sono i super-ricchi, che investono nelle loro candidature e hanno obiettivi di ritorno precisi».

La dilatazione delle diseguaglianze è solo un aspetto: un sintomo e una conseguenza, non la malattia. I dati sono impressionanti. Dal 1978 a oggi l'1% degli americani più ricchi hanno visto i loro redditi aumentare del 256% mentre il potere d'acquisto della famiglia americana media è rimasto stagnante. Dopo la fine ufficiale della recessione americana (2010), il 93% degli aumenti di reddito nazionale è stato "sequestrato" dall'1% dei privilegiati. I livelli di concentrazione delle risorse sono paragonabili a situazioni storiche pre-capitalistiche, regimi imperiali o feudali. Il "governo dei ricchi" converge, almeno in parte, con il potere delle loro aziende. Una ragione è ovvia: i Padroni dell'Universo in genere sono capitalisti, azionisti di controllo e di riferimento, oppure top manager al comando di imperi economici che superano di gran lunga la dimensione degli Stati-nazione.

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2. Il modello europeo più forte che mai


Da molti anni si è imposta fra noi un'interpretazione tragica della globalizzazione. L'impatto della competizione fra l'Occidente e le potenze emergenti come Cina, India, Vietnam o Brasile - ci è stato spiegato - ci risucchia verso il basso. Per non soccombere dobbiamo scendere sempre di più, adattare i nostri costi a quelli cinesi, quindi rinunciare a tante conquiste sociali, a tanti diritti, a tante regole. Per combattere ad armi pari con chi è più povero di noi, insomma, dobbiamo impoverirci. Potremmo chiamarlo anche il "teorema Marchionne"; perché in Italia l'amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler ha contribuito con le sue scelte aziendali a diffondere l'idea che queste sono le conseguenze ineluttabili della globalizzazione. Nel mondo delle grandi imprese multinazionali questo discorso viene presentato come oggettivo, neutrale, scientifico: è inutile opporsi alla realtà delle cose, alle regole che la globalizzazione impone a tutti i soggetti del mercato. Se tre miliardi di asiatici sono integrati a pieno titolo nell'economia mondiale, è sciocco far finta che questo non abbia conseguenze; è assurdo pensare di poter continuare a produrre nelle stesse condizioni (salari, diritti, tutele, rigidità) che vigevano in Italia negli anni Settanta quando ancora la Cina era un'economia chiusa.

È anche in quest'ottica che il modello americano ci è stato presentato come superiore al nostro. È più flessibile, pronto a rispondere ai diktat della competizione, se necessario con sacrifici tremendi. Un esempio recente, e importante per noi: quando si è trattato di salvare l'industria automobilistica di Detroit che nel 2008-2009 rischiava di scomparire, pur di evitare il fallimento di General Motors e Chrysler, il sindacato dei metalmeccanici (United Auto Workers) ha accettato un brutale taglio dei salari. I nuovi assunti guadagnano grosso modo la metà, rispetto ai salari in vigore prima della crisi. La metà! Questa sì, è flessibilità. Questa è la ragione per cui Sergio Marchionne preferisce senz'altro trattare con i sindacalisti americani, e spostare negli Stati Uniti il baricentro del gruppo Fiat-Chrysler.

[...]

La Germania non è un caso del tutto isolato. È la più grossa tra un gruppo di nazioni che incarnano il modello sociale europeo nella sua versione migliore. Con lei possiamo elencare l'Olanda, l'Austria, la Svizzera, più le quattro nazioni nordico-scandinave: Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia. Ciascuna ha caratteristiche peculiari. Tutte hanno alcuni ingredienti di successo in comune. Alti salari, sindacati forti, tutela avanzata dell'ambiente. Ne aggiungerei ancora due: l'attenzione alla qualità della scuola pubblica, e una società più "egualitaria" sia rispetto alle nazioni dell'Europa del Sud, sia rispetto al modello angloamericano. Come cercherò di spiegare più avanti, credo che tutti questi ingredienti siano legati fra loro. I paesi nordico-scandinavi occupano con una regolarità impressionante i primi posti nella classifica mondiale Ocse-Pisa sulla qualità dell'apprendimento scolastico. La Finlandia è considerata un modello in questo senso, per la sua politica di reclutamento degli insegnanti tra il 33% dei migliori laureati delle sue università: una chiara indicazione che l'insegnamento è un mestiere di "eccellenza" nella sua società (un altro segnale sono gli elevati stipendi dei professori). I risultati sono così benefici, che le popolazioni dell'Europa nordica sono le più ottimiste, quando vengono interrogate sul proprio futuro nella globalizzazione. Investendo tanto e bene nell'istruzione, non hanno paura della concorrenza asiatica, non patiscono la sindrome del declino. La Danimarca è studiata anche negli Stati Uniti per il suo sistema di flexicurity (flexibility più security), che unisce un Welfare generoso verso i disoccupati, insieme ad una notevole flessibilità del mercato del lavoro. Austria e Olanda hanno in comune con la Germania dei buoni sistemi di apprendistato e formazione professionale; i loro tassi di disoccupazione giovanile sono un terzo di quelli dell'Europa meridionale e la metà rispetto agli Stati Uniti.

[...]

«Il problema - ha concluso Roubini - si pone in quei paesi che hanno alta spesa pubblica ma per molti anni o decenni non l'hanno finanziata con un gettito fiscale adeguato». È questo il nodo venuto al pettine in Grecia, Spagna, Italia: noi sì abbiamo vissuto a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Il discorso di Roubini non fa una piega. Si può riassumere così: se volete il modello sociale europeo, pagatene il conto disciplinatamente come fanno gli svizzeri, i tedeschi o gli svedesi. Se invece pretendete di godere a sbafo di un Welfare di tipo europeo, allora state vivendo su una "bolla" destinata a scoppiare.

Attenzione: quando si usa l'espressione "vivere al di sopra dei propri mezzi", bisogna evitare l'errore di confondere il tenore di vita nazionale e quello dei singoli individui o famiglie. Collettivamente si può vivere al di sopra dei propri mezzi, anche se tanta parte della società vede regredire il proprio tenore di vita, il proprio potere d'acquisto, il valore dei risparmi.

In effetti le nazioni "sfiduciate dai mercati" sono anche quelle dove l'evasione fiscale e l'economia sommersa sono le più alte. Il problema di fondo, quindi, riguarda il nostro "capitale sociale": il livello di fiducia che abbiamo nei nostri concittadini, nelle nostre istituzioni, è quello che ci porta ad accettare la condivisione dei costi del Welfare. Fiducia uguale lealtà, lo sappiamo quando ci troviamo con i nostri amici e parenti più stretti: fatta una spesa in comune, non ci verrebbe in mente di imbrogliare sul conto per alleggerire la nostra parte. Nei paesi dove il capitale sociale è più basso, dove troppi fanno i furbi e vogliono profittare dei vantaggi dello Stato sociale scaricandone i costi su altri, l'accumulo dei debiti è diventato insostenibile. Il modello europeo muore laddove è malata la coscienza civile, il senso del dovere, il patto che lega tutti al rispetto delle stesse regole. Non regge quel modello, nelle nazioni dove interi strati sociali hanno da tempo dichiarato una silenziosa secessione, attraverso l'evasione di massa, il parassitismo, le frodi, la corruzione. "Di massa", è importante: non solo certi politici corrotti, o le organizzazioni criminali, ma corpose e rispettabili categorie sociali si sono abituate per decenni a vivere in un mondo parallelo, dove i servizi pubblici esistono e fanno comodo, mentre le tasse sono un optional.

I paesi dove il capitale sociale è così esiguo, sono anche quelli dove esiste un alibi culturale di massa: hanno le burocrazie pubbliche più scassate, inaffidabili, improduttive. È difficile stabilire se sia nato prima l'uovo o la gallina: viene prima l'inefficienza dello Stato, oppure la sfiducia di quel cittadino che si sente legittimato moralmente a evadere le imposte? È un argomento di sicuro interesse per gli storici, ma secondario per il nostro futuro: è evidente che bisogna agire su ambedue i lati di questo connubio perverso, che fa del nostro Welfare una caricatura penosa del modello europeo. La lotta contro l'evasione e la lotta contro i parassiti della burocrazia pubblica sono le due facce della stessa medaglia.

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Paul Krugman è convinto che siamo in una situazione analoga, e diversi indicatori lo confermano. Negli Stati Uniti, ad esempio, il Congressional Budget Office (bipartisan) ha calcolato che il livello della disoccupazione è tale da costituire un "ammanco" di 900 miliardi di dollari di Pil all'anno. Non siamo dunque in una situazione di "penuria" di risorse, di scarsità che dobbiamo gestire attraverso l'austerity. Siamo, al contrario, in una crisi dovuta all'immensa quantità di risorse inutilizzate. Se si riuscisse a rimettere nel circuito produttivo la forza lavoro disoccupata (e altre risorse inutilizzate: fabbriche ferme, capitali non investiti), l'aumento del reddito nazionale si tradurrebbe anche in maggiore gettito fiscale, consentendo di ripagare più facilmente tutti i debiti incluso quello dello Stato.

Una buona parte dell'establishment tedesco continua a usare una dottrina pre-keynesiana. Del liberismo ci è familiare la versione "neo", quella angloamericana, che ha avuto il suo padre teorico in Milton Friedman e i suoi sponsor politici in Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Molto prima di Friedman, però, un grande pensatore del liberismo economico fu l'austriaco Friedrich von Hayek, la cui influenza sui conservatori tedeschi è tuttora significativa. Chiamano "ordo-liberalismo" la loro versione, per distinguerla da quella angloamericana. Quasi a voler sottolineare l'elemento dell'ordine e della stabilità, contro l'esuberanza irrazionale dei cugini "anglo".

Un'altra volta nella storia recente la Germa- nia si trovò a un bivio. Era il 1992, anno terribile per l'instabilità monetaria mondiale. Allora non c'era l'euro bensì il Sistema monetario europeo (Sme), costruito per mantenere la parità di cambio tra le monete dell'Unione entro oscillazioni limitate. Lo Sme nel '92 vacillava paurosamente: nella tempesta globale, i capitali fuggivano verso la Germania, il marco schizzava all'insù e le monete più deboli stentavano a rimanere agganciate. L'Italia era penalizzata dagli alti tassi d'interesse, quelli che la Bundesbank imponeva per attirare fondi e finanziare la riunificazione. Giustificati per la situazione economica tedesca, quei tassi erano un costo sempre meno sostenibile per il nostro paese. La Germania avrebbe potuto salvare lo Sme: tagliando il costo del denaro, e accettando una maggiore inflazione in casa sua. Fece la scelta opposta, tenne duro sulla politica monetaria rigorista, volle difendere la tradizione del marco forte. Lo Sme si sfasciò, lira e sterlina vennero travolte dalla speculazione e furono costrette a uscirne.

L'attaccamento tedesco alla moneta forte, anch'essa vissuta quasi come un valore etico, viene spesso spiegato con i terribili ricordi dell'iperinflazione che contribuì alla caduta della Repubblica di Weimar e all'avvento di Adolf Hitler al potere. C'è però una razionalità tutta economica della moneta forte: è il vincolo che costringe il capitalismo tedesco a fondare la sua competitività non su bassi prezzi bensì sull'alta tecnologia, la qualità, l'affidabilità dei prodotti. La moneta forte è un modo per tenere sempre sotto pressione l'industria tedesca, perché non abbassi mai il livello d'investimenti in ricerca e innovazione che sono il suo punto di forza mondiale. Anche in questo caso, ciò che appare come una virtù, ha una funzione economica legata al modello di sviluppo trainato dalle esportazioni.

La riluttanza di Berlino ad esercitare in profondità la sua influenza, "germanizzando" i vicini, può quindi avere due interpretazioni. C'è la lettura benevola che l'attribuisce all'impraticabilità di forme di commissariamento degli Stati-partner, che evocherebbero le ferite del passato, resusciterebbero i timori sull'egemonismo e l'imperialismo tedesco. In questo senso la Germania pratica una forma di automoderazione che è comprensibile, anche se così facendo rallenta gli effetti benefici di una diffusione omogenea del "modello europeo forte". L'interpretazione meno benevola è che la Germania si è abituata ad essere vaso di ferro tra vasi di coccio, è diventata la sua vocazione, è sugli squilibri strutturali che ha costruito la sua eccellenza.

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E tuttavia, la Grande Contrazione di cui siamo prigionieri dal 2008 ha mostrato i tragici danni di trent'anni di liberismo. Un altro approccio al rapporto fra "pubblico" e "privato" dev'essere possibile. Quale?

L'America entrò nel XX secolo con un debito pubblico inferiore al 10% del Pil. Era salito appena al 16% nel 1929. Ma era balzato al 120% del Pil durante la seconda guerra mondiale. Per poi scendere al 32% nel 1974 alla vigilia del primo choc petrolifero. Trovare un nesso causale fra questi livelli di debito pubblico così disparati e la performance economica - in termini di sviluppo, lavoro, benessere - è impossibile. Perché allora il debito pubblico è diventato l'oggetto di culto prediletto nel "feticismo delle cifre" che ci soggioga?

Le grandi crisi partoriscono grandi idee. Così fu dopo il crac del 1929 e la Depressione. Per uscirne, l'Occidente ricorse al pensiero di John Maynard Keynes , scoprì un ruolo nuovo per lo Stato nell'economia, inventò le politiche sociali del New Deal e la costruzione del moderno Welfare State. Oggi siamo daccapo. L'eurozona ha conosciuto due recessioni in tre anni. Gli Stati Uniti, malgrado la ripresa in atto, pagano prezzi sociali elevatissimi della Grande Contrazione (almeno 15 milioni di disoccupati). Ma dall'America una nuova teoria s'impone all'attenzione. Si chiama Modern Monetary Theory, ha l'ambizione di essere la vera erede del pensiero di Keynes, adattato alle sfide del XXI secolo. Ha la certezza di poter trainare l'Occidente fuori da questa crisi. A patto che i governi si liberino di ideologie vetuste, inadeguate e distruttive. È una rivoluzione copernicana, e uno dei suoi alfieri porta un cognome celebre: James K. Galbraith, docente di Public Policy all'Università del Texas e consigliere "eretico" di Barack Obama, è figlio di uno dei più celebri economisti americani, quel John Kenneth Galbraith che fu grande studioso della Depressione e consulente di John Kennedy.

Il nuovo Verbo che sconvolge i dogmi degli economisti, assegna un ruolo benefico al deficit e al debito pubblico. È un attacco frontale all'ortodossia vigente. Sfida l'ideologia imperante in Europa, che i "rivoluzionari" della Modern Monetary Theory (o Mmt) considerano alla stregua di un vero oscurantismo. Per i teorici della Mmt l'austerity imposta dalla Germania, non è soltanto sbagliata nei tempi (è pro-ciclica: perché taglia potere d'acquisto nel bel mezzo di una recessione), ma è concettualmente assurda.

Un semplice esercizio mette a nudo quanto ci sia di "religioso" nella cosiddetta saggezza convenzionale degli economisti. Qualcuno ha provato a interrogare i tecnocrati del Fmi, della Commissione Ue e della Banca centrale europea, per capire da quali Tavole della Legge abbiano tratto alcuni numeri "magici". Perché il deficit pubblico nel Trattato di Maastricht non doveva superare il 3% del Pil? Perché nel nuovo patto fiscale dell'eurozona lo stesso limite è stato ridotto allo 0,5% del Pil? Chi ha stabilito che il debito pubblico totale diventa insostenibile sopra una soglia del 60% oppure (a seconda delle fonti) del 120% del Pil? Quali prove empiriche stanno dietro l'imposizione di questa cabala di cifre? Le risposte dei tecnocrati sono evasive, o confuse.

La Teoria Monetaria Moderna fa a pezzi questa bardatura di vincoli calati dall'alto, la considera ciarpame ideologico. La sua affermazione più sconvolgente, ai fini pratici, è che non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E non solo questo è possibile, ma soprattutto è necessario. La via della crescita passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora.

Se è così, stiamo sbagliando tutto. Proprio come il presidente americano Herbert Hoover sbagliò drammaticamente la risposta alla Grande Depressione, quando cercò di rimettere il bilancio in pareggio a colpi di tagli (stesso errore che rifece Franklin Roosevelt nel 1937 con esiti nefasti). Il "nuovo Keynes" oggi non è un profeta isolato. Galbraith Jr. è solo il più celebre dei cognomi, ma la Mmt è una vera scuola di pensiero, ricca di cervelli e di think tank. Così come la destra reaganiana ebbe il suo pensatoio nell'Università di Chicago (dove regnava negli anni Settanta il Nobel dell'economia Milton Friedman ), oggi l'equivalente "a sinistra" sono la University of Missouri a Kansas City, il Bard College nello Stato di New York, il Roosevelt Institute di Washington.

Oltre a Galbraith Jr., tra gli esponenti più autorevoli di questa dottrina figura il "depositario" storico dell'eredità keynesiana, Lord Robert Skidelsky, grande economista inglese di origine russa nonché biografo di Keynes. Fra gli altri teorici della Mmt ci sono Randall Wray, Stephanie Kelton, l'australiano Bill Mitchell. Non sono una corrente marginale; tra i loro "genitori" spirituali annoverano Joan Robinson e Hyman Minsky.

Per quanto eterodossi, questi economisti sono riusciti a conquistarsi un accesso alla Casa Bianca. Barack Obama consultò Galbraith Jr. prima di mettere a punto la sua manovra di spesa pubblica pro-crescita, così come fece la democratica Nancy Pelosi quando era presidente della Camera. Ma la vera forza della nuova dottrina viene dai blog: The Daily Beast, New Deal 2.0, Naked Capitalism, Firedoglake, sono quelli che ospitano l'elaborazione del pensiero alternativo. Hanno conquistato milioni di lettori: è una conferma di quanto grande sia la sete di terapie nuove, e quanto screditato sia il "pensiero unico".

La Teoria Monetaria Moderna è ben più radicale del pensiero "keynesiano di sinistra" al quale siamo abituati. Perfino due economisti noti nel mondo intero come l'ala radicale, Krugman e Stiglitz , vengono scavalcati dalla Mmt. Stephanie Kelton, la più giovane nella squadra, ha "battezzato" una nuova metafora... ornitologica. Da una parte ci sono i "falchi" del deficit: Angela Merkel, le tecnocrazie (Fmi, Ue), e tutti quegli economisti schierati a destra con il partito repubblicano negli Stati Uniti, decisi a ridurre ferocemente le spese. Per loro vale la falsa equivalenza tra il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia, che non deve vivere al di sopra dei propri mezzi: un paragone che non regge, una vera assurdità dalle conseguenze tragiche secondo la Mmt. Dall'altra ci sono le "colombe" del deficit, i keynesiani come Krugman e Stiglitz, che contestano l'austerity giudicandola intempestiva (i tagli provocano recessione, la recessione peggiora i debiti), ma che hanno un punto in comune con i "falchi": anche loro pensano che a lungo andare il debito crei inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e che quindi vada ridotto appena possibile.

Il terzo protagonista sono i "gufi" del deficit. Negli Stati Uniti come nell'antica Grecia il gufo è sinonimo di saggezza. I "gufi", la nuova scuola della Mmt, ritengono che il pericolo dell'inflazione sia inesistente. Secondo Galbraith Jr. «l'inflazione è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale». Di certo non oggi. Il deficit pubblico nello scenario odierno è soltanto benefico, a condizione che venga finanziato dalle banche centrali: comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Una soluzione monetaria alla crisi permetterebbe di risparmiarci il dissanguamento del modello sociale europeo, preso di mira dai salassi che ci prescrivono i cattivi dottori.

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