Copertina
Autore Jacques Rancière
Titolo Il disaccordo
SottotitoloPolitica e filosofia
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, Biblioteca 36 , pag. 152, cop.fle., dim. 14,3x21x1,4 cm , Isbn 978-88-8353-511-6
OriginaleLa Mésentente. Politique et Philosophie
EdizioneGalilée, Paris, 1995
PrefazioneBeatrice Magni
TraduttoreBeatrice Magni
LettoreLuca Vita, 2007
Classe filosofia , politica
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Indice


  7 Introduzione
    Pensare la politica sotto il segno della divisione:
    l'itinerario eretico di Jacques Rancière
    Beatrice Magni

 17 Prefazione
 23 Capitolo primo
    L'inizio della politica

 41 Capitolo secondo
    Il torto: politica e polizia

 61 Capitolo terzo
    La ragione del disaccordo

 79 Capitolo quarto
    Dall'archi-politica alla meta-politica

109 Capitolo quinto
    Democrazia o consenso

133 Capitolo sesto
    La politica nella sua età nichilista

149 Bibliografia

 

 

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Pagina 17

Prefazione


Ma non deve sfuggire tra quali termini debbano intercorrere rapporti di uguaglianza e tra quali invece rapporti di inuguaglianza, perché questo punto solleva una difficoltà e spetta alla filosofia politica. Aristotele, Politica, 1282b 21.


La filosofia politica esiste? Una domanda simile sembra inopportuna, per due ragioni. La prima è che la riflessione sulla comunità e i suoi scopi, sulla legge e il suo fondamento, si trova all'origine della nostra tradizione filosofica, e non ha mai smesso di animarla. La seconda risiede nel fatto che, da qualche tempo, la filosofia politica va affermando a gran voce il suo ritorno e un rinnovato vigore. A lungo ostacolata dal marxismo, che considerava la politica l'espressione ipocrita di rapporti sociali, soggetta agli sconfinamenti del sociale e delle scienze sociali, essa ritroverebbe oggi, sulla scia del crollo dei marxismi di Stato e della fine delle utopie, la sua manifestazione più autentica, come pura riflessione sui principi e sulle forme di una politica restituita anch'essa alla sua purezza, grazie al declino del sociale e delle sue ambiguità.

Questo ritorno, tuttavia, pone alcuni problemi. Nel momento in cui non si limita al commento di alcuni testi della sua storia, testi celebri o caduti nell'oblio, la filosofia politica ritrovata non sembra affatto spingere la sua riflessione al di là di ciò che gli amministratori dello Stato possono argomentare sulla democrazia e sulla legge, sul diritto e sullo Stato di diritto. In sostanza, tutto quello che sembra in grado di garantire è, soprattutto, la comunicazione tra le grandi dottrine classiche e le ordinarie forme di legittimazione degli Stati cosiddetti democratico-liberali. Ma anche la presunta concordanza tra il ritorno della filosofia politica e il ritorno del suo oggetto, la politica, non va da sé. Nei periodi in cui la politica veniva contestata in nome del sociale, del movimento sociale o della scienza sociale, essa si manifestava tuttavia secondo una pluralità di modi e luoghi, dalla strada alla fabbrica, all'università. Il ritorno della politica si palesa, oggi, secondo modi discreti o in spazi non visibili. Più precisamente, diremo che la politica purificata ha ritrovato i luoghi propri della deliberazione e della decisione sul bene comune, le assemblee in cui si discute e si legifera, le sfere dello Stato in cui si decide, le giurisdizioni supreme atte a verificare la conformità delle deliberazioni e delle decisioni alle leggi fondamentali della comunità. Il problema è che, in questi stessi luoghi, va diffondendosi l'opinione disincantata che c'è poco su cui deliberare, che le decisioni si impongono da sé, e che il ruolo specifico della politica si traduce quindi soltanto in un adattamento puntuale alle esigenze del mercato mondiale, e nell'equa ripartizione dei profitti e dei costi di tale adattamento. Si annuncia così il ritorno della filosofia politica, mentre contemporaneamente i suoi rappresentanti più accreditati ne dichiarano l'eclissi.

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Pagina 21

Le pagine che seguono costituiranno dunque un tentativo di definire alcuni criteri per un accordo sul disaccordo, grazie al quale l'aporia della politica possa essere ammessa come oggetto filosofico. Metteremo alla prova la seguente ipotesi: ciò che chiamiamo "filosofia politica" potrebbe anche essere l'insieme di artifici di pensiero attraverso cui la filosofia cerca di farla finita con la politica, sopprimendo uno scandalo di pensiero tipico dell'esercizio della politica. Questo scandalo teorico rappresenta la ragione del disaccordo. Ciò che fa della politica un oggetto scandaloso è il fatto che essa è l'attività che ha, come logica propria, la logica del disaccordo. Il disaccordo tra politica e filosofia ha allora come principio proprio la semplificazione della logica del disaccordo. Questa operazione, tramite la quale la filosofia espelle da sé il disaccordo, si identifica dunque naturalmente con il progetto di fare "davvero" politica, realizzando così la vera essenza di cui la politica parla. La filosofia non diventa "politica" perché la politica è una questione importante, che necessita del suo intervento. Lo diventa perché mettere ordine nella logica della politica è una condizione per definire ciò che è proprio della filosofia.

Questo saggio è organizzato nel modo seguente: si partirà dai presunti principi fondanti con cui Aristotele definisce il logos proprio della politica. Si cercherà di mettere in evidenza, nel determinare l'animale logico-politico, il punto in cui il logos si divide, lasciando apparire quel proprio della politica che la filosofia a partire da Platone rifiuta, e con Aristotele invece cerca di cogliere. A partire, dunque, dal testo aristotelico, e dalle indicazioni che suo malgrado offre, si cercherà di rispondere alla domanda: che cosa c'è, di specifico, da pensare, sotto il nome di politica? Riflettere su questa specificità obbligherà a separare la politica da tutto ciò che comunemente si colloca sotto il suo nome, e per il quale propongo di adottare il nome di "polizia". Sulla base di questa distinzione, si cercherà di definire, in primo luogo, la logica del disaccordo tipica della logica politica, e in seguito il principio e le grandi linee della "filosofia politica", intesa come modello specifico della distinzione. Si cercherà, in seguito, di riflettere sulle conseguenze della "filosofia politica" nel campo della pratica politica. Quindi potremo dedurre alcuni criteri di pensiero, proposti al fine di distinguere che cosa si possa intendere con il nome di democrazia, e la sua differenza con le pratiche e le forme di legittimazione del sistema consensuale, e di apprezzare ciò che si dice e si pratica in nome della fine della politica, o del suo ritorno, ciò che viene esaltato in nome dell'umanità senza frontiere, e si confina al regno del disumano.

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Pagina 133

Capitolo sesto

La politica nella sua età nichilista


Ricapitolando: la politica esiste laddove il conto delle parti e degli elementi della società viene scombinato dall'inclusione di una parte dei senza-parte. La politica inizia quando l'uguaglianza di ciascuno con chiunque si traduce in libertà del popolo. Questa libertà del popolo è una proprietà vuota, una proprietà impropria attraverso la quale coloro che non sono niente pongono il loro essere collettivo come identico al tutto della comunità. La politica esiste finché forme di soggettivazione singolari sono in grado di rinnovare le forme dell'inclusione originaria dell'identità tra il tutto della comunità e il niente che la separa da sé, ovvero dal solo calcolo delle sue parti. La politica cessa di esistere nel momento in cui questo scarto non ha più luogo, quando il tutto della comunità è ricondotto nel suo insieme alla somma delle sue parti. Molteplici sono i modi di pensare al tutto come alla semplice somma delle sue parti. La somma può essere il risultato di individui, piccole macchine che sfruttano intensamente la loro libertà personale di desiderare, di cominciare e di godere. Può essere l'esito di gruppi sociali, che compongono i loro interessi come agenti responsabili. Può essere l'effetto di comunità, dotate ognuna del grado di riconoscimento della sua identità e della sua cultura. Lo Stato consensualista è, sotto questo aspetto, tollerante. Ciò che invece non tollera più è la parte in soprannumero, quella parte che falsifica il calcolo della comunità. Ciò di cui ha bisogno, sono parti reali, che includano le loro proprietà e contemporaneamente la proprietà comune del tutto. Ciò che non può tollerare è un niente che sia tutto. Il sistema consensualista riposa su questi solidi assiomi: il tutto è tutto, il niente è niente. Sopprimendo le entità inutili della soggettivazione politica, si raggiunge gradualmente l'identità del tutto con il tutto, ovvero l'identità del principio del tutto con il principio di ciascuna delle parti, degli aventi diritto al tutto. Questa identità è chiamata umanità.

A questo punto iniziano i problemi. Il sistema consensualista celebrava la propria vittoria sul totalitarismo come vittoria ultima del diritto sul non-diritto, e del realismo sulle utopie. Era pronto a ricevere, nel suo spazio liberato dalla politica e chiamato Europa, le democrazie nate sulle rovine dei regimi totalitari. Ma ovunque osserva il paesaggio dell'umanità liberato dal totalitarismo e dalle utopie, e ostaggio degli integralismi identitari. Sulle rovine degli Stati totalitari, l'etnicismo e la guerra etnica vanno scatenandosi. La religione e gli Stati religiosi, glorificati un tempo come sbarramento naturale all'espansione sovietica, prendono la forma della minaccia integralista. Una minaccia che viene a insinuarsi persino nel cuore degli Stati consensualisti, dovunque vivano quei lavoratori che non sono più soltanto immigrati, ovunque degli individui si rivelino incapaci di rispondere alla richiesta di essere militanti della loro integrità. E, di fronte a essa, le comunità consensualiste assistono alla rinascita del netto rifiuto nei confronti di coloro la cui etnia o la cui religione non trovano adeguata difesa. Il sistema consensualista si auto-rappresenta come il mondo del diritto opposto al mondo del non-diritto – il mondo della barbarie identitaria, religiosa o etnica. Ma in questo mondo di soggetti rigorosamente identificati alla loro etnia, alla loro razza o al popolo illuminato dalla divinità, in queste guerre di tribù che combattono per occupare l'intero territorio di coloro che condividono la loro identità, questo sistema può anche osservare una caricatura estrema del suo ragionevole sogno: un mondo ripulito dalle identità eccedenti, animato da corpi reali dotati di proprietà, identificate dal loro nome. Al di là del demos, esso annunciava un mondo fatto di individui e di gruppi, che rappresentavano soltanto l'umanità comune. Peccato, aveva dimenticato questo: tra gli individui e l'umanità si pone sempre una pluralità del sensibile: una configurazione che determina il modo in cui le parti entrano a far parte della comunità. E due sono i modi di raffigurare tale pluralità: quello che considera una parte dei senza-parte, e quello che non la considera, il demos e l' ethnos. Il sistema consensualista pensava che la sua estensione non avrebbe avuto confini: Europa, comunità internazionale, cittadinanza del mondo, umanità: tanti nomi di un tutto uguale alla somma dei suoi elementi, detentori ognuno della proprietà comune del tutto. Scopre invece una figura nuova, radicale, dell'identità tra il tutto e il nulla. La nuova figura, la forma non politica del tutto identico al nulla, dell' integrità ovunque raggiunta si chiama ormai, anch'essa, umanità. L'uomo "nato libero e ovunque in catene" è diventato l'uomo nato umano e ovunque disumano.

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