Copertina
Autore Ermanno Rea
Titolo La fabbrica dell'obbedienza
SottotitoloIl lato oscuro e complice degli italiani
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2011, Serie Bianca , pag. 224, cop.fle., dim. 14x22x1,7 cm , Isbn 978-88-07-17206-9
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe paesi: Italia: 2010 , storia contemporanea d'Italia , storia moderna , religione
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Indice


 11 Middlebury, Vermont, estate 2009

 15 1.
    - Philippe Leroy e il vigile urbano
    - Il sogno di Bertrando Spaventa
    - La «Oratio de hominis dignitate» di Pico della Mirandola
    - L'Italia inventa il cittadino responsabile

 31 2.
    - L'ira di Ingrid Thulin
    - Gli italiani non cantano più
    - Il «peccato» di evasione fiscale
    - «E se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther
      quanto me medesimo»

 39 3.
    - Attualità di un vecchio libro dedicato all'Italia
    - Fuga da Montecassino: un colpevole chiamato Jacopone
    - Covi e altari: le alleanze clandestine di santa romana Chiesa

 53 4.
    - Il regista fantasma di questo libro
    - Malinconia ed ermetismo, «invenzioni» rinascimentali
    - Un paradigma di nome Giordano Bruno

 65 5.
    - La lettera di Leopardi al cardinal Consalvi
    - Il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani»
    - Montesquieu e l'«homme du midi»
    - Tutta colpa del clima

 83 6.
    - Vietato ridere; vietato burlarsi di se stessi
    - Il Settecento e la censura
    - Il cinema nell'ultimo dopoguerra
    - L'Italia aspetta ancora il suo Principe

 99 7.
    - La vita ci divide ma la superstizione ci unisce
    - Un mondo senza santi e senza reliquie
    - La religione barocca del Sud
    - Il culto dei sondaggi

105 8.
    - Una storia qualunque a base di relazioni pericolose
    - Santità, mi perdoni
    - Un romanzo dimenticato: «Rubè»
    - La «questione protestante» in Italia: Piero Gobetti

117 9.
    - Il fascismo coda della Controriforma:
      le analisi di Curzio Malaparte
    - Mussolini, novello Ignazio di Loyola
    - L'arte di dire no
    - Il fascino (e i vantaggi) del pensiero unico
    - L'astronave televisiva di Berlusconi
    - Craxi e gli infami anni ottanta

133 10.
    - Faccia d'Angelo, «gentiluomo del papa»
    - Difendere gli indifendibili
    - L'Osservatorio del Vesuvio
    - Gli orrori della «democrazia bloccata»
    - Circa trentamila ettari di campagna spariti nella sola Lombardia

143 11.
    - Gli italiani non sono eroi
    - «Caporetto», romanzo non scritto
    - Plotone di esecuzione
    - L'amnistia ai disertori
    - Lo specchio rotto
    - Mussolini e l'educazione dei giovani
    - La Resistenza

155 12.
    - Il Risorgimento, frutto di un moderatismo senza idee
    - Gramsci liberista?
    - La teoria della palla al piede
    - La Cassa per il Mezzogiorno secondo Amendola
    - I guasti del Regionalismo
    - L'Istituto napoletano di studi filosofici
    - Un paese troppo lungo?

169 13.
    - L'Italia spaccata in due
    - Trenta milioni di auto vendute all'anno
    - Il pianeta piange
    - Il futuro non si chiama Pomigliano
    - La critica di Revelli e il secolo breve
    - Il rimpatrio dei «congedati»

183 14.
    - Un quadro bello e basta
    - Manzoni, scrittore asessuato
    - Il vuoto dietro la bella koinè
    - Aria da guerra civile?
    - Gli eterni «registi occulti»
    - In nome di santa romana Chiesa

189 15.
    - La sindrome di Stendhal
    - Lo specchio del Caravaggio
    - Assistette al rogo di Giordano Bruno?
    - I quadri rifiutati: «La morte della Vergine»
    - Nelle grinfie dell'Inquisitore (immaginario)
    - Anche lui si pentì


 

 

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Pagina 9

Il più eroico «no» mai pronunciato:
poi, in Italia, fu subito «sì», da parte di tutti
(o quasi)



Giordano del quondam Giovanni Bruni frate apostata da Nola di Regno, eretico inpenitente. Il quale esortato da' nostri fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l'error suo, finalmente stette senpre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l'intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da' ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a l'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita.

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Pagina 15

1.


Philippe Leroy e il vigile urbano
Il sogno di Bertrando Spaventa
La «Oratio de hominis dignitate» di Pico della Mirandola
L'Italia inventa il cittadino responsabile



Italiani, per favore, non urlate così. Ma è mai possibile che chi entra in un ristorante debba uscirne un'ora dopo con la testa sul punto di scoppiare? Tutti che raccontano i propri guai: prima della pastasciutta, tra la pastasciutta e il rollè di vitello, in attesa della mousse, prima del caffè, dopo il caffè, un impasto greve e quasi gelatinoso di vapori e parole pronunciate sempre a voce altissima, un po' fissando il proprio commensale, un po' la signora del tavolo accanto, in modo da essere sicuri che abbia sentito anche lei, che sia d'accordo con noi, anzi piena d'ammirazione per noi. Si direbbe che l'italiano sia spinto dal bisogno non di comunicare con il proprio simile, ma di trasmettere messaggi all'universo mondo: che cosa è mai la vita senza una grande platea?

«Siete degli attori nati», concluse la sua tirata il mio illustre interlocutore, un simpatico francese, attore a sua volta ma professionista. L'intervista risale a una montagna d'anni fa e se la cito è soprattutto per la ruvida schiettezza con la quale Philippe Leroy replicò alla mia richiesta di esprimere un giudizio estemporaneo sul «civismo» degli italiani, anzi sul loro sentimento della responsabilità pubblica. Rispose ridendo che, semplicemente, gli italiani non ne conoscono neppure l'esistenza in astratto. E mi raccontò che cosa gli era capitato tempo addietro, subito dopo aver interpretato il personaggio di Yanez nello sceneggiato televisivo dedicato alle imprese del salgariano Sandokan.

«Ma certo, lei è Yanez», gli disse un giorno un vigile della polizia urbana mentre gli controllava attentamente la patente. Leroy aveva oltrepassato un semaforo che segnava rosso assieme ad altri automobilisti, tutti bloccati da un nugolo di agenti in agguato. Ma poiché a Yanez non può essere inflitta la medesima sorte riservata a un comune mortale, gli altri furono multati e Leroy no. Invano l'attore cercò di protestare. Non ci fu niente da fare. Il vigile tagliò corto: «Decido io. Le contravvenzioni le faccio a chi mi garba».

Non replicai una sola parola a Yanez, pardon, a Leroy. L'aneddoto mi aveva annichilito. L'intervista comunque andò avanti sempre più mossa e pungente: l'asciutto attore francese, ex parà nella guerra d'Indocina e anche in Algeria («Attenzione: sono un nazionalista, ma un fascista proprio no»), si mostrò sempre arguto e sottile, con giudizi mai campati in aria.


E dire che a inventare il cittadino responsabile siamo stati noi italiani! Accadde molti secoli fa, tra il Trecento e il Cinquecento, con l'Umanesimo e il Rinascimento. Fu una lunga stagione di gloria che durò non meno di centocinquant'anni; poi, lentamente, furono spente tutte le luci che erano state accese e, tra roghi e altre forme di violenta repressione, la Controriforma espulse dall'Italia quell' homo novus appena plasmato sostituendolo con un suddito deresponsabilizzato, vera e propria maschera della sottomissione e della rinuncia a ogni forma di autonomia di pensiero.

Siamo condannati a restare per l'eternità figli della Controriforma? La domanda che inquieta è soprattutto questa. La pose con forza, anche se forse non per primo, Bertrando Spaventa: di qui la mia appassionata attenzione a questo ormai dimenticato filosofo. In ogni caso, l'esperienza dell'Inquisizione (ma quando mai è finita?) ha segnato, anzi manipolato, in profondità il nostro carattere, il che a me pare non soltanto un'innegabile mostruosità ma anche una di quelle spine di cui nessuno ama parlare: il silenzio come cancellazione del peccato.

Parliamone, invece. Subito.

Se è vero, come è vero, che sono soprattutto la storia e le istituzioni a forgiare un popolo, credo allora che sia nostro dovere interrogare prima di tutto il nostro vissuto. Come fa appunto Spaventa domandandosi chi fossero gli italiani prima della Controriforma. La sua idea è insomma che noi siamo le nostre esperienze, che il nostro ritratto è tutto racchiuso nelle vicende e nelle contraddizioni che ci portiamo dietro. Per guardarci in faccia, per riconoscerci, per raccontarci a noi stessi e agli altri, sembra dire il filosofo, è questa la matassa che bisogna cercare di sbrogliare.

Bertrando Spaventa la sbroglia raccontandoci una favola bella ed edificante (favola, sia chiaro, non infondata, non fuori della realtà), secondo la quale la Controriforma trovò nel popolo italiano un materiale umano nient'affatto malleabile, anzi di grana dura e speciale, come sta a dimostrare la vicenda di Giordano Bruno che muore sul rogo convinto che la libertà di giudizio è tutto e senza libertà di giudizio la vita non è più un bene, non vale nulla, meglio non viverla affatto.

Che splendido esempio di coraggio e di fermezza d'animo, si entusiasma Bertrando Spaventa. Ma purtroppo, soggiunge, non sono gli eroi a tessere il filo della storia. È la potenza dei muscoli. Così accadde che gli italiani furono costretti a vivere l'esperienza di una sottomissione di cui continuano a pagare le conseguenze attraverso quel divieto di pensare in proprio, che si trasformerà ben presto in conformismo coatto e cortigianeria.

Che cosa fu infatti la Controriforma se non l'obbligo ad affidarsi ciecamente alla parola dei papi e delle gerarchie della Chiesa, unica titolata a pronunciare sentenze di merito, e non soltanto nel campo etico e in quello dei comportamenti quotidiani, ma persino in quello scientifico?

Scrive a questo proposito Enzo Mazzi:

La modernità che nei secoli XV e XVI nasceva fu segnata dal ricatto della violenza, marchiata col rosso colore del sangue e del fuoco. Furono incenerite con inaudita e, per noi oggi, mostruosa violenza le utopie, le esperienze e le voci che avrebbero potuto dare alla transizione e in particolare all'umanesimo rinascimentale uno sviluppo diverso e aprire alla modernità orizzonti se non di pace almeno di attenuazione della distruttività. Ed oggi siamo qui alle prese con gli esiti di una simile castrazione, affaticati dalla ricerca di un bandolo che dia senso all'itinerario della speranza. Reputo un errore considerare la vicenda, l'esperienza e il rogo di Giordano Bruno come cose di un lontano passato senza attinenza col presente.

Mazzi non cita Spaventa, ma meglio di così il suo pensiero non potrebbe essere riassunto. Spaventa dipana infatti una narrazione da grande romanzo, con un tempo «aureo» che genera frutti così rigogliosi da inquietare i guardiani del potere dominante (congiuntamente ecclesiastico e secolare) al punto da indurli a dar vita alla più mostruosa macchina repressiva sino ad allora conosciuta, le cui conseguenze arrivano fino ai nostri giorni - e tutto lascia pensare che li supereranno.

Il filosofo non dice esplicitamente che Umanesimo e Rinascimento, privi di così agguerriti nemici, avrebbero portato ben presto l'Italia a unificarsi anche politicamente. Non lo dice, ma lo lascia intendere: il primato morale e intellettuale della Penisola in Europa avrebbe determinato di necessità una simile conseguenza. In ogni caso, la sua nostalgia per l'«aureo» tempo perduto, anzi usurpato, è straziante. Il «cittadino responsabile», ovvero l'uomo rinascimentale, in realtà non è morto, egli dice, è scappato altrove. Bisogna che il suo spirito ritorni nella sua patria d'origine. L'Italia deve riappropriarsi di quel Rinascimento che santa romana Chiesa le ha brutalmente sottratto e che per fortuna altri hanno ereditato e custodito.

Si tratta di un «romanzo» a dir poco affascinante, a tinte forti se si vuole, pervaso da un afflato patriottico che sembra voler mantenere accesa una fiammella di speranza per il futuro nonostante l'enormità del danno subìto. Vale ancora la pena di leggerlo? Secondo me sì. Intanto, perché si tratta di un notevole contributo di intelligenza per quel che riguarda la nostra tormentata vicenda storica; in secondo luogo perché esso è in grado di agire come un balsamo, e non si può immaginare che bisogno abbia oggi l'Italia perbene (esiste, nonostante le apparenze) di parole d'incoraggiamento che la sollevino dalla stupefatta rassegnazione a quello che accade. Nella denuncia dei nostri difetti - lo sanno tutti - ormai abbiamo imparato a essere più sferzanti degli inglesi, più caustici dei francesi, più pignoli dei tedeschi. Sembriamo un popolo che odia se stesso (purtroppo non senza ragione), rischiando addirittura di dimenticare che, pur nel disastro, qui c'è ancora gente onesta e ricca di estro. Proprio così, gente onesta: un aggettivo che ormai suscita quasi incredulità, così diffusa appare la corruzione, diffusa e interiorizzata tanto da essere considerata da molti quasi un punto di forza, un dono di natura da ostentare anziché una mostruosità da nascondere, insomma, se non proprio una virtù qualcosa che le rassomiglia.

A tutto questo il pensiero di Spaventa oppone l'onore del passato. Con l'aria di dirci che, se soltanto fossimo capaci di non stancarci di celebrarlo, l'onore del passato potrebbe anche trasformarsi, a lungo andare, in una medicina utile, se non a risalire rapidamente dal baratro, quanto meno a porre un freno alla nostra regressione senza fine.

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Pagina 21

Ma quale tenace ricerca del vero può darsi al di fuori di una piena libertà del pensiero? La contraddizione è lacerante: la Chiesa pretende di avere proprie risposte a qualunque quesito, terreno e ultraterreno. Risposte indiscutibili. Risposte che non ammettono alcun compromesso. Risposte che esigono soltanto cieca obbedienza. Possiamo ben dire che la Chiesa, tra il Cinquecento e il Seicento e anche oltre, farà conoscere con notevole anticipo all'Italia (e non soltanto) il fascismo che si annida tra le pieghe del potere, di qualsiasi potere, e tanto più di quello che non si accontenta di imporre le sue regole con la forza bruta ma pretende di impossessarsi della coscienza stessa del cittadino, espugnandone mente e cuore.


Potrei definire il testo che vado scrivendo una «riflessione su me stesso»: non mi colloco al di sopra di nessuno. Forse gli aspetti meno onorevoli dell'italiano «medio» non mi appartengono, ma sono consapevole di far parte di una ben determinata comunità e perciò di essere vittima, assieme agli altri, di una manipolazione lunga e tenace dai cui effetti non posso non essere stato toccato.

Il tema dell'appropriazione della coscienza dell'italiano da parte di una Chiesa invasiva come nessun'altra in Occidente non è nuovo, anche se non è mai emerso con altrettanta evidenza come in questi tempi di diffusa e cieca soggezione al potente di turno. Servilismo con prospettiva di lucro, o comunque di vantaggio contingente, e mancanza di scrupoli e di senso della responsabilità si caratterizzano sempre più come il portato di un lungo, anzi lunghissimo addomesticamento che si sviluppa nei secoli a partire dalla Controriforma fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità. Come ricorda Adriano Prosperi in un vasto saggio intitolato Tribunali della coscienza, complesse e ancora non tutte ben scandagliate sono le ragioni dell'«egemonia della Chiesa di Roma sulla società italiana», vero e proprio nodo storico che percorre tutta intera la nostra vicenda collettiva.

Circa le tecniche per il controllo delle anime, Prosperi individua nell'istituto della confessione lo strumento principe usato da santa romana Chiesa per raggiungere i suoi scopi, vale a dire per rafforzare il proprio potere tutelandosi contemporaneamente da tutte le eresie.

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Pagina 34

Come non menzionare a questo proposito, per amore della contrapposizione, del gioco incrociato dei contrari (penso a quella vena di cinismo che ci portiamo dietro forse da sempre), le parole del Guicciardini contenute nella ventottesima nota dei suoi Ricordi? La sua impressionante attualità impone un'estesa citazione (afferma con inquietante sincerità che se non gli tornasse troppo vantaggioso onorare i pontefici, come ha sempre fatto, si farebbe di corsa luterano):

Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dipendente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici, m'ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non funsi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa comunemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.

Secondo Guicciardini, si sa, per il cittadino el particulare conta più di tutto, o quasi. Non credo che vada censurato per questo, anche perché attraverso el particulare egli finisce per collocarsi dalla parte di quegli umanisti che celebrano il primato dell'uomo anche come primato dell'individuo, dei suoi diritti terreni oltre che spirituali. Meritano particolare attenzione, invece, le sue accuse contro la corruzione ecclesiastica imperante, contro la «mollizie de' preti». Del resto, già Machiavelli aveva addebitato alla Chiesa la responsabilità di aver reso gli italiani «sanza religione e cattivi». Nel nostro paese sopruso e ribalderia hanno fatto presto a trasformarsi in istituzione e, di conseguenza, in costume diffuso, comportamento abituale e, se non questo, in modo indulgente e perfino bonario di considerare tutte quelle trasgressioni che, riguardando la compravendita di privilegi, protezioni e impunità, costituiscono la versione laica del reato di simonia.

Tutto ciò non vuoi dire, beninteso, che se oggi gli italiani (i più ricchi in particolare) non pagano le tasse è colpa diretta della Chiesa. Vuol dire soltanto che non pagarle non costituisce peccato, tanto è vero che, immaginandoci inginocchiati al confessionale mentre ci incolpiamo di evasione fiscale, nessuno di noi saprebbe attribuire al sacerdote una reazione diversa dalla risata: tutto qui, figliolo? A farla breve, neanche un rimprovero, neanche un' Avemaria di penitenza.

Ora io mi chiedo quale sia il senso più vero e nascosto di questa risata così piena di bonomia e di comprensione. Possibile che la Chiesa non riesca tuttora a concepire alcuna relazione tra peccato e reato che non sia una relazione tutta interna alla logica della Chiesa stessa, e perciò di totale disconoscimento dell'autorità dello Stato? Anche quando tace, o forse soprattutto allora, essa ha l'aria di ripetere il suo più caro ritornello: lo Stato sono io!

Sarà questa la ragione per la quale, di fronte al malaffare, le gerarchie ecclesiastiche (per non parlare del papa) preferiscono chiudersi nel loro mistico silenzio? Io non ho mai saputo di un banchiere truffatore scomunicato o anche soltanto pubblicamente biasimato. Di fronte al ricco che ruba, evade, specula, mette sul lastrico la povera gente la Chiesa non ha mai agitato crocifissi al grido di Vade retro, Satana!. Il che ci autorizza a chiedere se questo silenzio, questa ostentata disposizione alla benevolenza, non abbiano incoraggiato e non continuino a incoraggiare abusi e reati, insomma se non configurino un «costo» economico per l'intera comunità.

Ed eccoci alla conclusione obbligata del discorso (almeno dal mio punto di vista): se oggi più che mai il malaffare imperversa, se i nostri comportamenti nazionali suscitano all'estero indignazione e al tempo stesso derisione, ciò non dipende dal fatto che improvvisamente ci è piovuta addosso una terribile malattia o, peggio, che la natura ci ha fatti brutti, storti e cattivi, ma soltanto che ci è stata inculcata una cultura sbagliata, una pessima educazione (gli spagnoli la chiamano mala educación, intendendo appunto qualcosa che viene da molto lontano), insomma che chi ci ha condotto per mano sin qui è stata una Chiesa preoccupata soprattutto di garantire nel tempo la propria egemonia, impedendo, per dirla ancora una volta con Prosperi, «che altri unificassero politicamente la penisola».

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Pagina 85

In conclusione, sono circa cinque secoli che la Chiesa lavora senza sosta sulla coscienza degli italiani, ne modella il carattere, lo condiziona, l'orienta, lo domina. Cinque secoli! Uno e mezzo dei quali - anno più anno meno - spesi a seminare terrore, ad accendere roghi, a operare ricatti, a umiliare senza pietà.

Ancora oggi, assicurano gli storici, non possediamo un bilancio affidabile degli orrori compiuti dalla Controriforma attraverso i suoi bracci armati. Ancora oggi non possediamo informazioni adeguate sulla sua capacità di penetrazione tra le pieghe più nascoste della società, e non soltanto di quella cittadina ma anche di quella rurale. Di sicuro, denuncia e delazione erano dappertutto dietro la porta: bastava una bestemmia, una giaculatoria, una qualunque pratica superstiziosa a far scattare l'obbligo di presentarsi davanti al vicario dell'Inquisizione. In che misura ha inciso tutto questo sul nostro comportamento, sul nostro modo di pensare oltre che di agire?

Ma ciò che mi preme sottolineare qui adesso è come la percezione della Chiesa da parte del cittadino-suddito non muti in maniera sostanziale allorché l'autorità ecclesiastica passa dalle tecniche repressive più feroci e perfino sanguinarie a quelle incruente ancorché pesantemente censorie dei secoli successivi al Seicento. Soggezione e subordinazione non cedono affatto il passo a un rapporto più liquido e dialettico.

Bisognerà aspettare la fine del secondo conflitto mondiale perché gli italiani comincino finalmente a ridere liberamente di se stessi, a vedersi come sono, ad autofustigarsi, a chiedersi sbigottiti come mai, per colpa di chi, abbiano fatto una fine così miserevole. Il «miracolo» lo fa il cinema, in un momento in cui i cosiddetti poteri forti sono in ginocchio. La censura è in ginocchio. La Chiesa è in ginocchio. Lo Stato è in ginocchio. E le coscienze più vigili e avvertite possono finalmente interrogare in maniera diretta la realtà e se stesse.

La letteratura cinematografica dell'immediato dopoguerra si trasforma così in un'unica sferzante satira che ha per bersaglio fisso l'italiano medio, quel borghese piccolo piccolo privo di spina dorsale, un po' mammone, un po' cinico, un po' imbroglione, nonché arrogante, servile, fanfarone, perfido, querulo, spaccone, bugiardo, egoista. E soprattutto senza scrupoli.

Quale paese al mondo è stato altrettanto denudato e psicanalizzato?, ha subìto processi così capillari e martellanti? Tra la fine degli anni quaranta e la fine degli anni settanta ne abbiamo presi di schiaffi in faccia (chi non ricorda il Fellini dei Vitelloni o il Monicelli di Amici miei? Chi non ricorda certe interpretazioni di Totò, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e via elencando? Chi non ricorda le storie disperate raccontate in La terra trema e Ladri di biciclette?).

Penso che tanta pungente denuncia non sia scivolata senza conseguenze sulla nostra pelle; ha sicuramente aiutato molti di noi ad aprire gli occhi, a correggerci, almeno in parte. In ogni caso è un fatto che a questi comici, registi, sceneggiatori arrise un consenso tanto straordinario quanto sorprendente, o perlomeno rivelatore: della latente consapevolezza da parte degli italiani delle proprie anomalie e storture.

Ma la consapevolezza non è tutto e il tempo non ha lavorato a nostro favore: ha lavorato contro. Tramontata rapidamente la speranza della virtù, il passato ha ripreso il sopravvento e quel borghese piccolo piccolo, messo alla gogna negli anni del dolore e della consapevolezza, è tornato prepotentemente alla ribalta.

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Pagina 90

In parole più stringenti voglio dire che Machiavelli, certamente suo malgrado, ha finito per dare una maschera all'italiano, per cucirgli addosso un certo abito che lo veste tuttora a pennello, soprattutto a parere di chi ci osserva da oltreconfine. Si dirà che si tratta di una vulgata indecente e che Machiavelli non c'entra niente con il cosiddetto «costume machiavellico». Non ne dubito. Però le cose stanno così ed è un fatto che, come scrive il professor Artemio Enzo Baldini che dirige il Dipartimento di Studi Politici dell'Università di Torino, si va accreditando un uso «sempre più estensivo e poliedrico del termine «machiavellismo», che ad esempio in ambito psicologico indica ormai da tempo un ben codificato disturbo della personalità».

Il disturbo in questione si configura come la capacità di ingannare e manipolare gli altri per interesse personale.

Non si tratta di un «disturbo» esclusivamente italiano, questo va da sé: per esempio, il New Oxford Dictionary of English riporta alla voce a Machiavelli la seguente definizione: «a person perceived as prepared to use unethical means to gain advantage» (ovvero, «qualcuno percepito come pronto a valersi di mezzi non etici per conseguire dei vantaggi»). Ma è innegabile che il machiavellismo, in quanto precettistica politica d'autore, è pianta autoctona, e pertanto riguarda soprattutto il nostro modo di essere e di pensare. La fondatezza di questa asserzione ha basi solide. Non è certo per caso, ad esempio, che ancora di recente ben tre presidenti del Consiglio dei ministri italiani abbiano dedicato grande attenzione e perfino scritti esegetici al cinquecentesco Segretario fiorentino: Mussolini, Craxi e Berlusconi, tutti, come dire?, intensamente affascinati dalla figura del suo Principe mezzo angelo e mezzo diavolo. Anzi più diavolo che angelo.

Dell'infatuazione mussoliniana e craxiana non dirò nulla: il tempo ha già detto tutto, o quasi tutto. Quanto a Berlusconi, anche per la natura risibile degli eventi che lo riguardano - nonché per la sua pretesa di fare del machiavellismo una specie di norma di comportamento generale per tutte le persone alle sue dipendenze - forse è il caso di spendere qualche parola.

Mi limito a citare il blog di una docente, Lorenza Boninu, nel quale si legge:

Stavo correggendo i compiti dei miei ragazzi su Machiavelli e Guicciardini quando dal famoso cassetto della memoria è uscita una suggestione improvvisa legata all'attualità. Mi sono ricordata che qualche anno fa uscì per la Silvio Berlusconi Editore un'edizione del Principe corredata di note attribuite a Napoleone, poi rivelatesi false, e soprattutto da un'introduzione del Silvio nazionale, allora capo di Fininvest.

Nel 1998 il giornalista e scrittore Nello Ajello spiegò che ciò che di Machiavelli maggiormente entusiasmava l'imprenditore-politico di Segrate era - come affermato dallo stesso Berlusconi - l'«assoluta tensione verso l'obiettivo del potere», da conquistare «se necessario operando al di fuori del dominio della morale».

«Fin qui», commentava tagliente Ajello, «siamo nel recinto delle "idee ricevute". Ci viene in soccorso, ad attenuare la noia, uno specifico berlusconiano. È una specie di ricetta manageriale per l'uso di Machiavelli. Gli executives, specie se dediti alla Tv, dovrebbero sempre portarsene dietro una copia, nell'apposito "kit" aziendale. Il fai-da-te si giova di massime trascritte con le parole del Principe: "Dare di sé in ogni azione fama di uomo grande e di uomo eccellente". Oppure ricordarsi che "ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'". Egolatria, insomma, e cura dell'immagine. Siamo nella Firenze del Cinquecento o, quattro secoli più tardi, in una scuola per venditori di spot?...»

In maniera ancora più incisiva: siamo in pieno Rinascimento oppure nell'Italia sfarinata, aggressiva e senza ideali dei giorni nostri? Berlusconi sarà pure un'anomalia, un isolato caso di infezione culturale, come sostengono alcuni, e tuttavia come ignorare il successo del suo proselitismo, insomma il consenso di cui questa caricatura di Principe gode?

Per chiudere su questo punto torno al blog della professoressa Boninu:

C'è poco da sorridere. Ho trovato molto istruttivo, nelle circostanze presenti, leggere con occhi nuovi il capitolo XVIII del Principe, per esempio quando si dice, a proposito della necessità di ingannare gli uomini quando li si voglia dominare: «Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore e sono tanto semplici li uomini, e tanto obbediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare». E ancora: «Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non v'è se non vulgo; e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi». Ovvero, parafrasando: la maggioranza degli uomini sono degli sciocchi che vedono quello che uno sembra, non quello che uno è. E i pochi che sono consapevoli e che non fanno parte del «vulgo», non hanno peso e non hanno la forza o il coraggio di opporsi a fronte di una maggioranza plaudente (bah, non si parlava qualche giorno fa di «Dittatura della maggioranza»?). Non c'è che dire: il Premier ha studiato. E bene.


A questo punto s'impone di necessità una domanda: ma questo executive berlusconiano, che cerca di sembrare in tutti i modi quello che non è, ci rappresenta veramente? In parole più semplici: è proprio vero che il machiavellismo, intendo quello di peggior specie, sta negli italiani come il sale nel mare?

Che esso faccia parte delle nostre tentazioni è fuori dubbio; meno certo è che possa essere definito un tratto distintivo del nostro carattere. L' homo machiavellicus (ammesso che lo si possa chiamare così) è, o dovrebbe essere, un freddo, misurato, abile calcolatore, insomma dovrebbe somigliare a un provetto giocatore di poker. Noi siamo grandi giocatori di poker? Non credo. Non che non ci piaccia il poker, tutt'altro. Ma non lo sappiamo giocare. Quando cerchiamo di bluffare ci tradiamo subito. Credo per eccesso di emotività. O forse per esibizionismo, teatralità.

Prendiamo proprio Berlusconi. Le sue battaglie le ha vinte non grazie a una qualche maschera (ne ha usate, ma senza mai ingannare chicchessia). Le ha vinte perché agli italiani, o almeno a una parte rilevante di italiani, lui piace così com'è: fanfarone, puttaniere, enfatico, teatrale, arrogante, senza scrupoli. A pensarci, forse Machiavelli ha tracciato il profilo di un Principe che in Italia, per fatalità, non può esistere. Non può esistere, voglio dire, nella sua versione più nobile: quella dell'uomo «astuto» (per il Segretario fiorentino l'astuzia è virtù somma) che si esercita nell'arte di conquistare il potere, ma per uno scopo alto (secondo Gramsci, Machiavelli intese soprattutto «educare il popolo», convinto che la necessità di uno Stato unitario-democratico fosse così forte da indurre tutti, prima o poi, a «stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe» che avesse deciso di perseguire tale «altissimo fine» con tutti i mezzi a sua disposizione).

Che cosa dire? Non essendo riusciti ancora oggi a realizzare uno Stato unitario-democratico se non a parole (resta una nobile aspirazione peraltro sempre meno condivisa), la conclusione non può essere che una: l'Italia aspetta ancora il suo Principe vero (non la sua caricatura), che potrebbe anche materializzarsi non nei panni del tradizionale «uomo della Provvidenza» ma in quelli di un movimento politico, di un partito moderno libero da tutti i pregiudizi e da tutte le oscure eredità del passato. Come appunto Gramsci auspicava.

È ancora possibile? La mia risposta è no.

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Come tutti sanno (o dovrebbero sapere, compresi i più giovani), il primo maggio del 1947 a Portella, in prossimità di Palermo, Salvatore Giuliano e la sua banda, in agguato sulle colline che dominano la piana, presero a sparare con una mitragliatrice contro una folla di contadini - uomini, donne, bambini, anziani, circa duemila persone - che si era data convegno in quel luogo per celebrarvi la ricorrenza del Primo maggio. Si contarono undici morti e più di cinquanta feriti, falciati apparentemente senza alcun motivo. Invece il motivo c'era, eccome. Lo spiega lo storico Giuseppe Sircana: «Dopo anni di sottomissione a un potere feudale la Sicilia stava vivendo una fase di rapida crescita sociale e politica [...]. Un grande movimento organizzato aveva conquistato il diritto di occupare e avere in concessione le terre incolte o mal coltivate del latifondo [...]. L'offensiva del movimento contadino e il prevalere delle forze di sinistra suscitarono l'allarme di chi vedeva minacciato il proprio potere ritenuto intoccabile. La reazione degli agrari era stata rabbiosa e cruenta e si era diretta in particolare contro i sindacalisti, i capi lega, i dirigenti dei partiti della sinistra. Intimidazioni ed esecuzioni erano delegate al banditismo separatista».

Lo sanno tutti. Il mondo contadino è stato il «grande assente» del nostro Risorgimento e poi dell'Italia unita fino, appunto, a Portella della Ginestra. La protezione goduta dai grandi proprietari terrieri dalla Chiesa, dalla borghesia e perfino dai cosiddetti patrioti risorgimentali costituisce uno dei capitoli più scandalosi della nostra storia.

Si tratta di una responsabilità imperdonabile delle nostre classi dirigenti plasmate e ispirate da un Vaticano naturalmente nemico di ogni rivoluzione, anzi di ogni minimo cambiamento, vigile sentinella di tutti gli immobilismi possibili e immaginabili. «Il popolo delle campagne, si ripete, fu un assente quando non fu un nemico del Risorgimento; ed è vero», osservava nel 1954 uno storico, Niccolò Rodolico, autore di una corposa Storia degli italiani, «ma è vero altresì che esso fu quasi assente nella mente e dal cuore dei patrioti cittadini. Non aveva poi torto il Bakunin quando accusava il Mazzini di non essersi curato dei contadini.»

Torna utile a questo proposito riprendere tra le mani il libro di Isaia Sales (I preti e i mafiosi) che ci ricorda come la Chiesa meridionale si sia sempre schierata a favore dei movimenti «di contrapposizione violenta alla modernità» e contro tutte le aspirazioni di emancipazione dalle oppressioni feudali.

Completamente estranea, anzi apertamente contro, fu la Chiesa siciliana al movimento per l'occupazione delle terre che nel secondo dopoguerra vide masse contadine e bracciantili tentare di uscire dalla miseria e da una servitù secolare ai proprietari terrieri. E in questa occasione la Chiesa guardò addirittura con simpatia all'intervento di ripristino dell'ordine sociale da parte dei mafiosi, che uccisero in quel periodo più di cinquanta dirigenti sindacali, spegnendo nel sangue l'ultimo tentativo di emancipazione dall'arretratezza storica delle masse rurali siciliane. Nelle lotte sociali progressiste del Sud Italia la Chiesa si è sempre schierata per il vecchio ordine costituito, fossero i Borboni, i feudatari, i latifondisti o gli stessi mafiosi a rappresentarlo.

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In breve, per il modo in cui si realizzò, oggi l'unificazione non può essere considerata altrimenti che come iattura, condanna permanente a vantaggio del Nord di un Sud che pure, al momento della fusione, aveva un suo respiro, una sua dignità economica e produttiva. La verità è che il Risorgimento non riesce a esprimere alcuna idea nuova di Stato, si propone come progetto privo di immaginazione, fine a se stesso, tanto ridondante nella forma quanto vuoto nella sostanza, incapace, come ebbe a osservare Mario Missiroli, di risolvere i problemi con la Chiesa («un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica»). Per quel che riguarda la Chiesa, si può dire anzi che con il Risorgimento la dipendenza (di fatto, al di là delle apparenze e di contenziosi occasionali) si accentua, e non è certo per la ferma opposizione di un grande movimento popolare e rivoluzionario che alla fine del conflitto franco-austriaco non si realizza il progetto messo in piedi nel luglio del 1859 dai due imperatori, di Francia e d'Austria, di dar vita in Italia a una Confederazione sotto la presidenza del Pontefice.

L'Italia che si unisce lo fa dunque precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l'insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tarpano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell'illimitata ricchezza dei grandi proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l'unificazione l'ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.

Ma gli uomini non sono all'altezza del compito; anzi non riescono neppure a configurarlo, a pensarlo, a sognarlo. Tutto quello che sanno fare è sfruttare al meglio la situazione per il proprio immediato vantaggio. Ecco al proposito una bella pagina di Gramsci:

La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se l'industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l'espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L'egemonia si presentò come permanente, il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l'esistenza di una industria settentrionale.

La citazione è curiosa. Innanzitutto per il punto di vista che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. Sembrerebbe l'opinione di un protestante.

Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l'unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient'altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento dell'economia meridionale, colpita negli anni ottanta dell'Ottocento da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercé del Nord.

A partire da questo momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un voluminoso studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, la spaccatura del paese si fa definitiva e irrimediabile e il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».

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Pagina 160

A farla breve, non sappiamo come venir fuori da quel vero e proprio nido di vipere che è diventata la disunità d'Italia, fattasi ormai malattia collettiva, ferita irrimediabile, solco che ci separa colorandosi di volta in volta in maniera diversa, facendosi ora differenza geografica, ora differenza politica, ora differenza religiosa, ora differenza linguistica, sempre comunque tutte riconducibili, in un modo o nell'altro, alla madre di tutte le differenze, a quel nodo irrisolto di paese «troppo lungo» per non presentare pericolosi deficit di coesione.

E se provassimo, non dico a separarci in maniera traumatica e irreversibile, ma a farlo con intelligenza istituzionale e politica, insomma a renderci autonomi gli uni dagli altri senza odio e senza rivalità, conservando anzi un legame «nazionale» non formale, ma nello stesso tempo non opprimente né paralizzante? L'ipotesi arriva imprevedibilmente da sinistra: cauta, quasi felpata. Leggiamola: ne vale la pena, anche per la qualità di chi la propone, Giorgio Ruffolo, tra i più noti rappresentanti del riformismo socialista italiano.

L'era berlusconiana è una parentesi effimera? Ci sono buone ragioni per pensare che la sua spinta propulsiva sia esaurita (così la pensa, per esempio, Aldo Schiavone). Ce ne sono altrettante per valutare i rischi che essa presenta: quelli di una deriva autoritaria, di una polverizzazione sociale e, soprattutto, quello di una decomposizione territoriale del paese.

Per «decomposizione territoriale» intendo, per l'Italia, una condizione nella quale il Nord somigli a un «Belgio grasso» (secondo la definizione di Omodeo), e il Sud a una colonia mafiosa.

Una condizione a dir poco spiacevole, a centocinquant'anni dall'unificazione. Questo pericolo non è avvertito da una sinistra che ha cessato di rappresentare un'alternativa di governo credibile, per non dire un progetto di società diversa. E che si limita al «controcanto». Anche la sinistra, non solo la destra, ha da tempo abbandonato la «questione meridionale».

E invece, è proprio su questo terreno che essa potrebbe riacquistare l'iniziativa politica perduta: come forza capace di arrestare il processo di decomposizione, e di realizzare finalmente il compito storico «mancato» dell'unità, dopo quello conseguito dell'unificazione.

Riprendere in mano la questione meridionale non significa, ovviamente, riproporla nei termini «gramsciani». È passato quasi un secolo, e la depressione politica del Mezzogiorno non s'identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale, e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce attraverso i governi locali.

Questa borghesia «politica» è legata alla mafia militare, quella dei Provenzano e dei Riina, in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l'eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi, anche durissimi, che esse subiscono dall'apparato giudiziario e militare dello Stato.

D'altra parte, la mafia militare s'intreccia sempre più con le grandi reti della criminalità internazionale, acquistando sempre maggiore autonomia, e radicandosi profondamente non solo in Sicilia, ma in altre grandi regioni e città del Mezzogiorno, dove si trasforma in quartiere generale del crimine internazionale.

Questo è il doppio nodo che bisogna spezzare: tra la classe politica meridionale e la mafia; tra la mafia e le reti internazionali del crimine.

Queste due battaglie non hanno alcuna probabilità di essere vinte, nell'attuale stato di frammentazione politica e amministrativa del Mezzogiorno, lasciato nelle mani di governi regionali contaminati, e spesso sopraffatti, dai legami clientelari e dalle pressioni mafiose.

Bisogna mettere in campo un nuovo soggetto: un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. L'idea non è nuova. Essa riprende in circostanze nuove il grande progetto della rivoluzione meridionale di Guido Dorso, e della costituzione meridionale federalista di Gaetano Salvemini: un governo autonomo del Mezzogiorno, saldamente ancorato a una costituzione nazionale autenticamente federalista [...].

Questo disegno non ha niente a che fare con la boutade di un «partito del Sud», e cioè di una formazione leghista del Sud che si contrapponga a quella leghista del Nord: un vecchio progetto, ricalcato su precedenti, e ben note, insorgenze di carattere separatista, secessionista e mafioso...

Ho avuto modo di esprimere pubblicamente il mio personale favore a un dibattito su questi temi, a partire proprio dalla «provocazione» di Ruffolo, molto meno campata in aria e ingiustificata di quanto qualcuno la pretende (per esempio Eugenio Scalfari). Il che non significa, a mio giudizio, che Ruffolo abbia indicato la ricetta «sicura» per uscire dal buco nero nel quale ci siamo cacciati, ma soltanto che la sua proposta merita di essere approfondita, soprattutto in mancanza di una strada alternativa capace di prospettare un cammino diverso da quello sinora seguito.

Provo a semplificare al massimo la questione: il Mezzogiorno è con l'acqua alla gola. Impossibile continuare a gestire il carattere binario dell'Italia narcotizzandone la drammaticità tra doviziose elemosine, condoni, legittimazioni a delinquere e altre forme perverse tese a rendere la coabitazione possibile ancorché non tollerabile.

Si è fatto così, sinora. Adesso però gli errori del passato non possono essere rinnovati. In parole povere, occorre un'alzata d'ingegno, un gesto audace, un evento traumatico capace non soltanto di incidere il bubbone ma anche di risvegliare le coscienze intorpidite. Ruffolo avanza un'ipotesi: non vogliamo neppure parlarne? Prima di gettarla nel cestino bisognerebbe quanto meno proporne una sostitutiva. Limitarsi a proclamare ai quattro venti che l'Unità d'Italia è un bene che non si tocca non basta più. Soprattutto quando questa intangibilità si traduca (come è accaduto sinora) in inerzia, in rassegnata accettazione dello statu quo.

Per chi non lo avesse ancora capito, ritengo che ormai qualunque novità sia preferibile al prolungamento della pestifera agonia in corso.

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Pagina 169

13.


L'Italia spaccata in due
Trenta milioni di auto vendute all'anno
Il pianeta piange
Il futuro non si chiama Pomigliano
La critica di Revelli e il secolo breve
Il rimpatrio dei «congedati»



Può esistere un'economia della virtù? Con più precisione, può esistere un'economia fondata su un sistema produttivo rigorosamente «disintossicato», alternativo a quello proposto dalla società industriale classica e dalla competizione capitalistica? Ha una qualche legittimità l'ipotesi di un mercato sottratto al feticismo delle merci, all'imperativo dei consumi e dello spreco illimitati? Si tratta di domande tutt'altro che oziose o infantili. Anzi, stando a certe letture, sembra che vada crescendo sempre più il numero di coloro che, con competenza e rigore di ragionamento, ritengono non soltanto possibile ma ormai doveroso disegnare nuovi scenari sociali e politici, immaginare consorzi più o meno numerosi di esseri umani in grado di concedersi un soddisfacente livello di sopravvivenza collettiva, pur avendo bandito dal loro seno il lavoro nocivo e alienante (la catena di montaggio, anzi la fabbrica tradizionale in genere) nonché tutte le forme di rapina del territorio, dagli inquinamenti alla cementificazione intensiva fino all'esasperato traffico individuale delle persone.

Conosco bene l'obiezione corrente: ma questa è utopia bella e buona! Infatti è un'utopia, almeno a voler considerare la provocazione nel suo punto d'arrivo, di società virtuosa compiuta, di cartolina di un Eden felice. Ma si tratta di utopia anche a volerla considerare come semplice punto di partenza, programma, parola d'ordine, opera aperta, idea-guida?

Comincia qui il mio «sogno».

Pare che gli italiani siano particolarmente inclini a sognare; non vi dico poi i meridionali. A Napoli non si fa altro che sognare, e non soltanto per ricavarne numeri da giocare al Lotto, quanto per raccontare i propri sogni, il mattino dopo, a parenti e amici. Secondo Elias Canetti «nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione». Lo sanno bene proprio i napoletani, specialisti nell'interpretazione dei sogni, vale a dire nell'arte dell'insensatezza.

Lo ammetto: sono un po' imbarazzato. Non è facile dire che ho sognato l'Italia spaccata in due: il Nord con le sue industrie, il suo benessere, il suo prodotto interno lordo più o meno opulento; il Sud con la sua povertà, le sue mafie, í suoi fallimenti.

Ma sognare significa anche essere audaci. Generalmente mi capita di sognare in positivo ciò che invece ho pensato, da sveglio, in forma inversa. Si direbbe che io riservi il mio ottimismo al mondo onirico e il mio pessimismo a quello della veglia. Basta: può una condizione di assoluto svantaggio trasformarsi in un punto di forza, in un'occasione favorevole? La mia idea sta tutta in questa domanda. Dal momento che il Sud, dal punto di vista capitalistico, è una tabula rasa, questa debolezza (ormai irreversibile) non può essere convertita in vantaggio, posto che la prospettiva non sia più quella di rincorrere i miti di un industrialismo da combattimento?

In parole più semplici, l'idea che avanzo è quella di un totale mutamento di orizzonte economico, impossibile da affermare in una situazione di unità nazionale in cui non può non prevalere l'ideologia del Nord capitalistico.

Leggo da tempo ciò che vanno scrivendo vari autori di orientamento ambientalista e ne percepisco sempre più il fascino assieme alla fondatezza delle argomentazíoni. Non è vero, dice per esempio Guido Viale , che non ci sono alternative al corrente modello di sviluppo:

L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura a chimica zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro [...] mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l'inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall'efficienza nell'uso dell'energia...

Viale è molto convincente. Ti porta per mano dentro alle contraddizioni del nostro tempo; scava nella megalomania di certi progetti produttivi, come per esempio quello dell'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne che, mentre tutti gli indicatori danno per condannato nel prossimo futuro il trasporto privato, prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano e vendano sei milioni di auto all'anno, senza contare i piani di rilancio di tutte le altre ditte europee concorrenti. Se tutti questi piani (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) «andassero in porto», spiega Viale, «nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno: il doppio delle vendite pre-crisi».

Leggendo queste parole mi sono venuti in mente i processi necrotici del lago inquinato da scarichi e liquami nefasti, che muore moltiplicando parossisticamente la propria vita biologica, muore di quella paradossale malattia che si chiama eutrofizzazione, tra pesci che ingrassano spaventosamente a causa dell'eccesso di plancton, alghe che dilagano, batteri che simulano un delirio di onnipotenza che in realtà è soltanto una carnevalesca agonia. A questo ci sta portando il demone consumistico, l'elefantiasi produttiva? Gli ambientalisti dicono che il pianeta piange. Ma allora perché non sperimentare su una limitata fetta di territorio - il Sud d'Italia, appunto - una soluzione alternativa, un modello di sopravvivenza in grado di rappresentare un termine di confronto utile anche agli altri? Non si contano i tentativi che potrebbero essere sperimentati. L'economia della virtù, come mi è capitato di definirla ad apertura di questo capitolo-sogno, ha un orizzonte tanto vasto quanto imprevedibile, che va dalla ricerca scientifica più sofisticata all'oasi turistica ecologica, dall'industria cinematografica di qualità all'editoria e alla moda, dall'artigianato all'agricoltura biologica, dalla microelettronica alla cantieristica medio-piccola e forse anche, perché no?, quella di elevato tonnellaggio, posto che una volta costruire navi era un'arte prevalentemente napoletana (nella trazione a vapore il Regno delle due Sicilie anticipò quasi tutti gli altri paesi europei, Inghilterra esclusa).

Si osserverà che, essendo Napoli e in genere l'intero Mezzogiorno, «un paradiso abitato da diavoli», difficilmente potrebbero essere addomesticati cittadini così perversi. L'obiezione è fondata, me ne rendo perfettamente conto. Tanto che non so replicare altrimenti che ricordando l'immensa tenacia degli uomini che sanno quello che vogliono. Forse il nocciolo del problema è tutto qui, in un «Principe collettivo» illuminato che forse c'è (almeno in potenza), forse non c'è; forse emergerà dal nulla irradiando intorno a sé il suo prepotente magistero, forse non farà udire mai la sua voce.

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