Autore Ermanno Rea
Titolo Il sorriso di don Giovanni
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2014, I Narratori , pag. 236, cop.fle., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-07-03074-1
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe narrativa italiana , libri












 

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Pagina 13

1.



Ero un fiore ancora in boccio, ma già smaniosa di essere un'altra, anzi svariate altre, a seconda dei casi. Creatura di carta, sfogliavo pagine in continuazione pretendendo di entrarci dentro per farmi personaggio a mia volta, entità immaginaria come i miei eroi: ehi, adesso dovete fare i conti con me!

Lo dicevo al maschile: da grande farò il libraio, venderò storie, avventure, tormenti e tutto il resto. Mi arrampicavo su scale traballanti per raggiungere gli scaffali più alti, incuriosita dai dorsi dei classici che quasi toccavano il soffitto. Era tutto così bianco in quella intelligent room di don Arturo Mastrocinque, un bianco quasi accecante nel quale ogni volta rischiavo di precipitare assieme a una pioggia di romanzi con le ali aperte come uccelli. L'ho sognato almeno due volte: ero io stessa un libro che cadeva con le ali aperte.

Ma è arrivato íl momento di mettere un po' d'ordine in questo racconto: se non proprio un'autobiografia, la storia di una passione senza fine.

Chiamatemi Adele.

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Pagina 18

Quando lo incontrai, disse di chiamarsi Fausto. Quell'amore durò a lungo, molto a lungo. Poi finì. Ma fu un sentimento possente ed esclusivo, una tenerezza che non si è mai più rinnovata con nessun altro. E in quanto sentimento senza destinatario dura ancora, nel senso che dura il dolore della sua perdita e della mia impotenza a resuscitare dentro di me una capacità affettiva di pari portata.

Era pallido, bruno, con un bel naso diritto, occhi grandi, umidi e inquieti, sempre intenti a scrutare chi gli stava intorno, ma non in maniera sospettosa, piuttosto in modo esitante, dubbioso. Era molto impegnato politicamente (un comunista convinto), il che moltiplicava ai miei occhi il suo fascino, benché coltivassi all'epoca ideali politici molto più radicali dei suoi. In certo modo, lui incarnava la bandiera della razionalità, io quella della passione. Eravamo i classici due contrari che si cercano disperatamente al solo scopo, si direbbe, di riconoscersi diversi.

Anche Fausto era un divoratore di libri (oggi non so più, ma penso che continui a leggere accanitamente, saggi e romanzi, perché da questa malattia, intendo la lettura, non si guarisce mai, nel senso che così nasci e così muori). Del resto, fu un libro a incrociare le nostre vite, L'isola di Arturo della Morante.

Dio mio, com'era carino Fausto a quell'età! Ci conoscevamo soltanto di vista. Frequentava la mia stessa scuola, solo che lui era al terzo liceo classico mentre io ero in quarto ginnasio; lui aveva diciotto anni, io quattordici.

Ricordo che non lo sentii entrare, quel fatidico pomeriggio, nell' intelligent room del buon Mastrocinque. Ero immersa nella lucida e accattivante prosa della Morante, forse ero arrivata a uno snodo importante del romanzo, e con me era sprofondato nel libro tutto quanto mi circondava, compreso il rumore dei passi del mio futuro amante. D'improvviso sollevai lo sguardo dal libro (attratta dal suo profumo?): mi stava fissando chissà da quanto tempo e mi sorrideva. Ma non in maniera sfacciata. Sulle sue labbra vagava come una trattenuta condiscendenza, una pudica ammirazione o qualcosa del genere, ma in maniera sfumata, di chi non intende sbilanciarsi o forse semplicemente non ne ha il coraggio.

Dev'essere proprio un bel libro, mormorò. Come s'intitola?

Mi chiamo Adele, risposi confusa. Forse non avevo capito la sua domanda per via della grande eccitazione. Oppure, più probabilmente, speravo che ripetesse il mio nome. Infatti lo ripeté.

Adele? Bel nome. Ma io ti conosco. T'incontro spesso.

Frequentiamo la stessa scuola, dichiarai con veemenza. Avevo recuperato tutto il mio sangue freddo. Risi, senza un motivo preciso: in genere, quando voglio conquistare una persona, rido sempre. Mi viene naturale (i tuoi non sono denti ma diamanti, il tuo riso acceca... finché è vissuta, mia madre non si è stancata mai di ripetermelo). E finalmente gli mostrai la copertina del libro. Allora lui mi confidò di non averlo letto.

Me lo consigli?

Oh, sì, molto, risposi con voce piena di entusiasmo.

Speravo che mi chiedesse ancora qualcosa: chessò, della trama, dei personaggi, delle atmosfere. Ma lui non aggiunse altro. Non si trattenne neppure a curiosare tra gli scaffali. Semplicemente, tagliò la corda dopo un fugace saluto.

Non me la presi troppo a male. Nonostante avessi quattordici anni soltanto, avevo imparato già da tempo a distinguere la timidezza dall'indifferenza o, peggio, dalla superbia. Dissi a me stessa: ecco un uomo schiavo dei suoi impacci. Ma lo pensai affettuosamente. Anzi, con il senso di possesso di chi ritiene di avere improvvisamente incrociato il proprio destino.

Sono sempre stata una persona piuttosto sicura di sé. Da ragazzina lo ero anzi molto più di adesso. Forse l'espressione «sicura di sé» non è la più esatta. Come tutti gli esuberanti, tendo a rivestire le mie idee e in particolar modo i miei desideri, le mie preferenze, di una perentorietà che in effetti non hanno. Magari fossi sicura sino in fondo di ciò che penso e dico. Le cose non stanno così. Mi tradisce insomma la forma – l'irruenza –, che fa di me quella che non sono: una donna priva di dubbi, poco disposta a mettere in discussione le proprie convinzioni. Se dovessi paragonarmi a un frutto direi che assomiglio, e molto, alla noce, passabilmente morbida dentro ma così dura all'esterno. Vallo a rompere quel guscio rugoso con le sole dita. Ci vuole un'arma, bisogna ridurlo in mille pezzi. Quanto al gheriglio, è tenero ma non molle, ha un suo sapore inconfondibile, una sua personalità. Ecco, io sono un gheriglio nascosto dentro a una corazza.

D'altronde, avrei potuto amare così tanto la lettura, e soprattutto í libri d'immaginazione, se non fossi stata fondamentalmente una persona insicura, perennemente alla ricerca della propria anima? A che cosa servono i romanzi se non a spogliarti del tuo piccolo ego per farti assumere il peso di ciò che non ti appartiene ma che, a furia di leggere, si fa carne della tua carne? I buoni libri, diceva mia nonna Serafina, la madre di mia madre, i buoni libri moltiplicano la tua vita; ti fanno vivere come tuoi dolori ed emozioni che altrimenti non avresti mai conosciuto, forse neppure immaginato. E non è vero che, passato il santo, passata la festa: i buoni libri restano dentro di te, non li cancella neppure il tempo lungo, si depositano non so in quale anfratto della tua mente o del tuo cuore, e da laggiù continuano silenziosamente a tessere le loro trame. A condizionarti. A costituirsi parte di te.

Questo sosteneva nonna Serafina, e quel che sosteneva lei per me rimane tuttora materia indiscutibile. Dirò di più. Anche se è scomparsa ormai da un considerevole numero di anni, io continuo a pendere dalle sue labbra, a chiederle consigli, a frequentare le sue massime, a condividere le sue idiosincrasie. Del resto, ho avuto sempre i suoi stessi gusti, amato i medesimi colori che amava lei, gli stessi tessuti, gli stessi ninnoli, gli stessi libri. I libri soprattutto. Se sono diventata una lettrice accanita credo che ciò sia avvenuto soprattutto per spirito di emulazione nei suoi confronti, o forse soltanto per devozione. Avrà pure trovato in me una materia particolarmente malleabile, sta di fatto che senza nonna Serafina la mia personalità, la mia stessa esistenza, non sarebbero state le stesse.

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In quei giorni avevo cominciato a leggere Cent'anni di solitudine, sulla spinta della passione suscitata dappertutto da questo romanzo-capolavoro di García Márquez, e non soltanto da questo romanzo, ma da tutta la nuova letteratura latinoamericana, così intrisa dei profumi rivoluzionari cubani e delle speranze incarnate da quel mito universale che rispondeva al nome di Ernesto Guevara, il Comandante. Ah, quei romanzi! Era tutto un subcontinente, da sempre genuflesso e in ombra, che svegliavano dalla sua sonnolenta sventura. E poiché la Macondo di Márquez mi aveva stregato con quelle sue case rivestite di specchi, avevo preso a chiamare «Macondo» anche la mia piccola città, dove la storia era arrivata sino a quel momento sempre di riflesso.

Nel mondo stanno accadendo cose incredibili, dicevo a mia madre adoperando le stesse parole di Arcadio Buendía all'indirizzo di Ursula, sua moglie. Mia madre, che pur adorandomi mi considerava un po' matta, non replicava. Non replicava quasi mai alle mie fantasiose sortite. Qualche volta si limitava a scuotere la testa. Come quando le dissi, proprio sull'onda dell'entusiasmo per Cent'anni di solitudine, che secondo me sarebbero stati i romanzi a salvare il mondo dalla dissoluzione.

Non lo avevo mai detto prima, e neppure pensato. Quel giorno lo dissi. E il bello è che continuo a pensarlo, anche adesso che sono una donna sola e di molta esperienza e vedo intorno a me un'Italia stremata. Oh Dio, mi dico ogni tanto, che cosa fanno i romanzieri mentre la casa brucia? Perché sussurrano invece di parlare?

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Pagina 44

Si era iscritto alla facoltà di Ingegneria e sognava di diventare un costruttore di ponti: c'era una vena patetica e anche letteraria in questa ambizione, che un giorno declamò come una poesia (forse lo era davvero, anche se non me ne accorsi: una poesia in prosa). Desiderava collegare mondi separati, riunire il divaricato, ricucire ciò che la vita, la natura, aveva lacerato. Le sue parole mi colpirono: erano agitate da una quasi nevrotica ansia ricompositiva, proclamavano senza pudore il suo slancio per tutto ciò che è compatto, indiviso, unico. Ricordo che gli accarezzai il volto con tenerezza, memore del suo dramma familiare: i genitori si erano separati da un bel po' di tempo, vale a dire in un'epoca in cui ogni separazione era un indicibile scandalo e ogni attore dello scandalo, soprattutto la donna, era un reprobo indegno di ogni perdono (tanto più quando ad abbandonare il tetto coniugale – figlio incluso – era una lei e non un lui).

Di norma, l'assenza in casa della figura materna dicono che incentivi nei figli maschi una certa tendenza all'aggressività. In Fausto incentivò una propensione diametralmente opposta, che la parola mitezza riassume soltanto in parte. Fausto, soprattutto allora, si professava mite per scelta ideologica prima ancora che per carattere. Diceva che la mitezza, il disinteresse, l'oblio di ogni forma di egoismo spianano la strada a una forma superiore di apprendimento della realtà. Dio, com'era bello ascoltarlo quando parlava di queste cose, le uniche che riuscivano veramente a infervorarlo e a farlo emergere dai suoi silenzi prolungati, dalla sua ostinata riservatezza. E non ne discuteva soltanto con me. Leopoldo anzi lo rimproverava di essere un uomo a una dimensione, insomma di tornare sempre sullo stesso argomento. Salvo però pendere anche lui dalle sue labbra come gli altri frequentatori abituali di Nicola il Breve, allorché esponeva, con parole sempre ispirate, la sua teoria sul disinteresse inteso come oblio del sé, totale apertura all'altro, e quindi strumento ineguagliabile di conoscenza del mondo.

Un po' a causa dei suoi affetti per il materialismo storico, un po' a causa di questo chiodo fisso sulla mitezza-disinteresse (dono di sé, lo chiamava anche), prima di iscriversi a Ingegneria era stato a lungo indeciso se non dovesse preferire la facoltà di Filosofia. Poi aveva optato per Ingegneria, anche per effetto del mio convinto incoraggiamento.

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Pagina 52

A proposito del 1975, devo aggiungere che mi fu improvvisamente chiara un'amara verità: mia nonna Serafina se ne stava andando. Lentamente ma inesorabilmente. Ormai non ci vedeva quasi più: il diabete si era accanito sui suoi begli occhi celesti, velandoli con una sorta di sipario appena trasparente, oltre il quale la realtà si addensava in forme via via più indefinite, in volumi d'incerto contenuto. Quanto alla lucidità, quella no, rimaneva più integra che mai, anche se attraversata un po' troppo da sentimenti di nostalgia. Da mia madre si faceva leggere soprattutto poesie. A me chiese di leggerle un libro che l'aveva appassionata da ragazza, un testo che probabilmente la riportava alla sua relazione con il misterioso Loris e alle loro comuni scorribande in groppa a purosangue arabi nelle distese semidesertiche dell'entroterra tunisino.

Il viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov, con le sue steppe spazzate dal vento e i nitriti dei cavalli in libertà, procurò qualche vertigine anche a me, inducendomi qua e là a una lettura troppo veloce e disordinata per i gusti di mia nonna, la quale invece avrebbe voluto che, proprio quando le pagine risuonavano con più fragore dell'equino scalpiccio, io rallentassi fino a sillabare ogni singola parola, fino a farle respirare l'aria stessa di quella steppa satura di erbe e di sale. Piano, figliola, diceva con un sorriso trasognato, il sorriso di chi sta in un magico altrove e là vuole rimanere. Corri troppo per le mie orecchie. Ti prego, fammi sentire il suono delle parole, il suono delle cose. Questo libro è una sinfonia.

Nonna Serafina morì galoppando tra i tartari, viaggiatrice incantata lei stessa, o forse morì galoppando in Tunisia assieme al suo perduto Loris. Per me fu un dolore indicibile. Ho quasi vergogna a dirlo: un dolore così temo di non averlo provato neppure quando è morta mia madre. Per fortuna, ventidue anni dopo, nel 1997.

Dal giorno successivo al trapasso di nonna Serafina la sua casa, antica e immensa, diventò il mio rifugio, il mio angolo di paradiso, e anche il deposito delle mie eccedenze, per esempio di tutti i libri che non riuscivo più a conservare in casa di mia madre. Avendomela lasciata in eredità, decisi di non spostare neppure un ninnolo: tutto avrebbe dovuto tramandarmi il ricordo di mia nonna, compresi gli odori delle sue lozioni.

È un vecchio appartamento dai soffitti alti come si costruivano una volta: mura spesse, ambienti vasti, corridoi che non finiscono mai. Un appartamento a misura della mia avidità di bibliomane: oggi – accresciuta di altri duecento metri quadrati – contiene più di quindicimila libri, il mio piccolo mare sapienziale, una quantità di storie da togliere il fiato. E infinite altre ne accoglierà in futuro.

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Pagina 71

A tutti i miei traumi io ho reagito sempre alla stessa maniera: chiedendo aiuto ai libri. Per quel che mi riguarda, il libro è prima di tutto una ciambella di salvataggio. Non che ti migliori, a questo credo poco. E neppure che ti sani le ferite. Però ti placa. Alla maniera di un lenimento, di un farmaco di pronto intervento. E quando dico libro, dico libro in generale. Non romanzo soltanto. Il romanzo ha in più che, quando è teso come un fil di ferro, quando scava dentro di te depositandovi nuova conoscenza, quando insomma ti sorprende mostrandoti una nuova faccia del mondo che non conoscevi, allora si fa moltiplicatore di saggezza e di quella pietà laica che non ha bisogno di Dio per convincerti che il mondo è abitato da un solo essere umano, uno solo, e la pluralità è poco più di un'illusione ottica.

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Pagina 172

A me, ricordo, toccò parlare di Seneca, che nelle Epistulae morales ad Lucilium dice cose memorabili sui consumatori accaniti di libri: in pratica, tutto quello che penso al riguardo da sempre, e ancor più dopo aver avuto la fortuna di potermi misurare con questo testo eccezionale. Fu tanto il pathos di quel discorso, fu tanto il mio fervore, che a un certo punto vidi gli occhi di Alessandro (sedeva davanti a me, a poca distanza) inumidirsi e tutto il suo volto morbido assumere un'espressione di gratitudine che non dimenticherò più.

L'amicizia tra me e Alessandro in quei mesi era letteralmente esplosa.

Come dobbiamo chiamarla, dal momento che la parola amicizia suona insufficiente?, mi chiedeva di tanto in tanto.

Chiamiamola amore, rispondevo seria.

E il sesso?

Quello non ha importanza, almeno nel nostro caso.

In effetti, quanti erano all'oscuro delle preferenze di Alessandro in materia di alcova, erano convinti che io e l'angelo biondo fossimo, come si dice, una cosa sola: furiosamente amanti. Del resto, non facevamo nulla per smentirlo: stavamo sempre insieme, ci colmavamo reciprocamente di premure, ostentando la fisicità del nostro rapporto – abbracci, carezze, bacini, buffetti, che per gli ignari non potevano avere altro significato che quello sbagliato.

A segnalarmi le pagine che Seneca dedica al tema della lettura (in particolare la lettera 2 del Libro Primo e la lettera 84 del Libro Undicesimo) era stato proprio Alessandro, latinista di rara bravura e preparazione.

Una sera si presentò nell'aereo bicamere napoletano che avevo preso in affitto (Quartieri Spagnoli) con Le lettere a Lucilio sottobraccio. Veniva a trovarmi abbastanza spesso, dopo veloci telefonate di preavviso durante le quali io lo pregavo invariabilmente di portare qualcosa da mangiare, due uova, una confezione di stracchino o del burro, per condire un piatto di spaghetti.

Tombola, disse. Senti che cosa consiglia Seneca riguardo alla lettura. Per prima cosa, scegliersi i libri che contano, quelli veramente importanti che scavano dentro di noi. Tuttavia, essendo un uomo di mondo, ammette che una persona, di tanto in tanto, possa aver voglia di distrarsi con qualche libro leggero, facile. Faccia pure, dice, purché torni subito dopo ai testi dei grandi autori. Probatos itaque semper lege et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi.

Trascorremmo l'intera serata in compagnia di Seneca: che modernità di vedute, che autorevolezza, che perspicacia. Rideva, il ragazzo gay, della mia emozione.

Adesso hai un padre spirituale, disse, che cosa si prova a scoprirlo all'improvviso?

Alessandro mio, senti che roba.

Senza rispondere alla sua domanda mi misi a rileggere a voce alta, come declamassi, uno dei passi che più mi aveva colpito: Nos quoque has apes debemus imitari et quaecumque ex diversa lectione congessimus separare... Ti rendi conto? Il lettore accanito deve comportarsi come le api che succhiano l'umore dei fiori per trasformarlo, loro, in miele. È il lettore, insomma, a trasformare un libro in una rivelazione, in un bene collettivo, in uno strumento di cambiamento. Siamo noi che, nell'ombra, tessiamo la tela della storia. Le parole di Seneca sono inequivocabili: Noi dobbiamo imitare le api e classificare tutte le nozioni che abbiamo raccolto in letture eterogenee... dobbiamo fondere in un solo sapore questi vari succhi delibati qua e là...

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Pagina 177

Dopo il concorso ripresi tra le mani le pagine scritte sino a quel momento della mia Storia della lettura, il libro che avevo da tempo messo in cantiere e che avevo più volte interrotto ora per un motivo ora per l'altro. Ne avevo tracciato un'infinità di volte la scaletta. Avrebbe dovuto essere il libro-rivelazione sul ruolo svolto nella storia dell'umanità dalle accanite formiche, anzi api, come consiglia Seneca, condannate da un misterioso comando a leggere senza posa romanzi e saggi, trasformando in miele gli umori a essi sottratti. Un miele corrosivo, capace di demolire dalle fondamenta istituzioni solidissime e non meno solidi modi di pensare, consuetudini radicate, pregiudizi considerati invincibili. Era accaduto dappertutto. In Inghilterra, in Francia, in Russia. Il mio compito era rintracciare il filo di bava che inevitabilmente questi eserciti di oscuri e minuscoli insetti si erano lasciati alle spalle. Scavando con accanimento, questo filo di bava sarebbe di sicuro tornato alla luce. Certo, non sarebbe stato facile disseppellire le prove materiali di un così gigantesco lavoro di demolizione. Ma che gloria, al culmine di una simile impresa, che sovvertimento di prospettiva, che rivalutazione di quella misconosciuta opinione pubblica formata dai consumatori accaniti di libri.

No, la mia Storia della lettura non era una ricerca qualunque, corrispondeva a un disegno temerario, rivoluzionario, in grado di conferire una nuova prospettiva alla vicenda storico-politica in particolare dell'Europa, ma non soltanto di essa. Per fortuna non ero sola a cercare risposte al mare di domande che la stesura di un tale libro comportava. Collaboravano con me svariate persone del collettivo di lettura, in genere giovani non soltanto volenterosi ma entusiasti di compiere scandagli mai prima tentati, almeno in maniera così specifica e orizzontale.

Adele-demonio, sei troppo ambiziosa, mi rimproveravo talvolta da sola, rassicurandomi tuttavia con il pensiero della solidarietà che il mio progetto riscuoteva dentro e fuori dell'Università. Naturalmente non mancava chi mi considerava un'acchiappanuvole, promotrice di una ricerca ideologicamente infondata, in quanto postulava una categoria sociale inesistente: quella del lettore accanito, giudicato da sempre fenomeno isolato senza nessuna incidenza sulla vita pubblica.

Non sono mai stata incline al dubbio. In ogni caso, se momenti d'incertezza turbarono in quella fase il mio animo, ci pensò l'angelo biondo a sanarmi le ferite. I suoi ragionamenti erano irresistibili, e non si trattava soltanto di oratoria garbata, in bilico tra ironia e sottigliezza. No, era la sua logica a incantare chi l'ascoltava; era la messe di fatti circostanziali che quella logica nutrivano a svuotare di contenuto ogni obiezione, mia stessa o di altri, poco importava.

Sei una miniera inesauribile, gli dicevo. Che ne sarebbe delle mie teorie senza di te?

Al che lui replicava con un'alzata di spalle. Oppure contestava con una smorfia ironica quel mio preteso copyright, affermando di essere stato lui a convertire me all'epica della lettura. La chiamava proprio così, epica, o anche scienza, teoria, perfino mistica. Lo ascoltavo incantata.

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Pagina 218

In prima fila vi sono libri di giurisprudenza; ma alle loro spalle, che c'è?

Una scelta e preziosissima raccolta di erotica, de' quali mi guarderò bene dal riferire gli autori e i titoli, e tanto meno dal descrivere le illustrazioni (alcuni, e questo non potrei tacere, rigurgitavano di disegni originali aggiuntivi di Rops, di Le Foittevin, del barone Bairos, di Beardsley). Non mancava la edizione prima della famigerata Justine del marchese De Sade: cito questo malvagio, e per altro tediosissimo libro, a causa di una singolarità che a me fece rizzare i capelli sul cranio e a Ricciardi, prontamente accorso, fece accendere uno strano bagliore negli occhi. L'opera era rilegata in morbidissima pelle bianco-avorio con qualche venatura rosa: aprendo il primo volume notammo un foglietto con una serie di annotazioni mss. La prima, con la data di Parigi del 15 aprile del 1821, avvertiva cinicamente: Reliure en peau de jeune fille, e continuava spiegando come il primo possessore, Lord Honey and Honey, fosse riuscito a procurarsi, al prezzo di cento sterline, il cadavere di una giovinetta deceduta alla Salpêtrière per farne conciare la tenera pelle a scopo rilegatorio. Le altre note riflettevano i successivi possessori del macabro cimelio...


Io questo passo logicamente non lo sogno, anzi ogni volta che rileggo il racconto di Doria tendo a saltarlo. Salvo l'annotazione successiva, in cui lo scrittore ci presenta, con non meno feroce ironia, l'amico Ricciardi ringiovanito e ipnotizzato da quella rilegatura, nell'atto di palpeggiarla e di accarezzarla con le lunghe dita sensibili.

Dico questo perché, anche se il dettaglio potrà apparire raccapricciante (e in effetti lo è); anche se l'ironia che lo anima potrà suscitare indignazione (e in effetti la suscita), non si può non riconoscere che quelle dita lunghe e sensibili evochino in maniera che non ha eguali il fascino materiale, starei per dire umano e quasi sanguigno del libro, che non può, non vuole essere soltanto immaginazione disincarnata, anzi rivendica un proprio status molto prossimo al nostro. Del resto, quante volte li ho sentiti io stessa proclamare a gran voce la propria umanità. Di notte origlio spesso i loro discorsi appassionati. Siamo esseri viventi, dicono, non cose, oggetti qualunque. E io sono totalmente dalla loro parte. Anche per me i libri sono materia viva, come quella che circola nelle loro pagine: uomini e donne talvolta sublimi, più spesso perversi o ambigui, tessitori di trame. Come per esempio quel don Giovanni Tenorio che attraversa non so quanti secoli di storia instancabile nella sua ossessione di seduttore.

Nella mia biblioteca i don Giovanni non si contano, del resto ogni epoca ne ha inventato uno, a cominciare da quel Burlador de Sevilla, capostipite, dovuto nel 1630 alla penna di Tirso de Molina (ma c'è chi, in alternativa, fa i nomi di Lope de Vega e di Calderón de la Barca, nonché del meno noto Andrés de Claramonte).

Caro, affascinante don Juan Tenorio (napoletano? pare proprio di no, anche se sulla scena, come seduttore, esordisce all'ombra del focoso Vesuvio, quasi un vulcano lui stesso): se penso che il nostro secolo lo sta mettendo definitivamente in soffitta mi viene quasi da piangere. Del resto chi, che cosa, non stiamo mettendo velocemente in soffitta, travolti da un'insana passione, quasi un delirio, che non ha altro significato che quello della corsa sfrenata al profitto? Altro che le copertine realizzate con pelle umana! È lo stesso libro così come l'ho amato io — carte e sangue, gioie e dolori — che sembra avere i giorni contati. Che orrore il libro immateriale, che naviga nell'etere, che non ha più peso, profumo, bordi da annotare, che va e viene senza occupare spazio nella tua casa, senza poterti più redarguire con la sua sola presenza accanto a te.

Non voglio più parlarne: il vociare che raggiunge le mie orecchie è disgustoso. Non perché, si badi, io detesti il nuovo, non perché io sia una conservatrice. Al contrario. Il fatto è che il mondo non sa scegliere la maniera giusta di cambiare, seleziona immancabilmente obiettivi sbagliati fregandosene di quelli che contano veramente. D'altronde viviamo all'interno di un sistema molto ben collaudato, che tollera soltanto quelle rivoluzioni che, lungi dal mortificare il capitale, sanno promettergli nuovi opulenti pascoli.

Be', io non mi associo a questo coro bastardo. Mille volte meglio la copertina in pelle umana di Justine: ci ricorda, se non altro, che un libro non è un passatempo, un gioco innocente, e che noi, i cosiddetti terrestri, non siamo angeli.

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Pagina 223

Forse un giorno saranno impressi su carta soltanto i libri veramente importanti. Sarà questa la soluzione? In qualunque modo verrà affrontato il problema, di una cosa sono sicura, e la dirò alla Gertrude Stein: Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa. Anche la mia biblioteca, né vanità né accessorio, vale una lunga reiterazione, costituisce, come la rosa, un bene assoluto, intramontabile. Io so che vivendo di libri e per i libri navigo su una zattera che non affonderà mai.

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