Copertina
Autore Bruno Remaury
Titolo Il gentil sesso debole
SottotitoloLe immagini del corpo femminile tra cosmetica e salute
EdizioneMeltemi, Roma, 2006, Melusine 43 , pag. 288, cop.fle., dim. 120x190x25 mm , Isbn 978-88-8353-483-6
OriginaleLe beau sexe faible. Les images du corps féminin entre cosmetique et santé
EdizioneGrasset & Fasquelle, Paris, 2000
TraduttoreAntonio Perri
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe storia sociale , antropologia , sociologia , scienze umane , comunicazione , salute
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Indice


  7 Introduzione
    La donna "messa in cultura"



    Parte prima - Le immagini del corpo femminile

 23 Capitolo primo
    Il corpo al presente: l'"ipotesi di maturità"

 34 Capitolo secondo
    Al servizio del corpo: il dovere di bellezza

 59 Capitolo terzo
    Al servizio del corpo: il dovere di salute


    Parte seconda - Le tecniche del corpo femminile

 99 Capitolo primo
    Le tecniche della bellezza

137 Capitolo secondo
    Le tecniche della salute

160 Capitolo terzo
    La terza "tecnica": la coscienza del corpo

    Parte terza - La "natura" del corpo femminile

183 Capitolo primo
    Le sostanze della bellezza

213 Capitolo secondo
    Sulle malattie delle donne

264 Conclusione

279 Bibliografia


 

 

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Pagina 7

Introduzione

La donna "messa in cultura"


Alla fine degli anni Ottanta circolava insistentemente una voce, sorta di leggenda metropolitana: si narrava di una giovane e bella svedese che, dopo aver avuto rapporti sessuali con un partner occasionale, scompariva lasciando dietro di sé il messaggio "benvenuto nel gruppo dei sieropositivi" scritto con il rossetto sullo specchio del bagno. Questa leggenda metropolitana sintetizzava l'idea di femminilità seduttrice (la bella donna, il rossetto), quella dell'aspetto esteriore sano (la "svedese" rinvia sempre e inevitabilmente all'immagine della ragazza fresca e sana) e l'archetipo della donna malsana, essa stessa veicolo di malattia. Quando si diffuse, quella voce era presente con poche varianti in numerosi paesi, tanto più che l'immagine del femminile da essa proposta era davvero sorprendente perché al tempo stesso letteraria (l'amante che divora le sue prede, la morte dal volto bellissimo) e cinematografica (lo specchio inscritto con il rossetto nel quale si riflette il viso della vittima): era l'immagine di una malattia nuova, destinata improvvisamente a ridestare il vecchio mito della femminilità velenosa. Qualche tempo dopo, nel 1993, Benetton suscitò una polemica per aver mostrato, nella sua campagna pubblicitaria, un pube e una natica sui quali era tatuata in primo piano la scritta "HIV positivo". Le componenti essenziali del messaggio erano le stesse in entrambi i visual, e quel che lasciava sconvolti non era in realtà il tatuaggio in sé quanto piuttosto il fatto che comparisse su pelli perfette – pelli di corpi che ci si poteva immaginare giovani, belli e desiderabili – e ancor più che si trattasse di parti del corpo tradizionalmente associate al registro dell'intimità erotica. Al tempo stesso un'altra pubblicità rappresentava una donna nuda, anch'essa con un corpo desiderabile, mentre mangiava uno yogurt: lo slogan diceva che quel che il prodotto faceva all'interno si vedeva esteriormente, riprendendo e accentuando in senso fisiologico l'antica equazione platonica fra bellezza interiore e bellezza esteriore. Non è difficile individuare il rapporto fra questi due testi pubblicitari: se quel che lo yogurt fa all'interno si vede dall'esterno, nel caso della sieropositività i danni prodotti interiormente non appaiono sulla superficie esterna del corpo. In gioco c'è dunque una dialettica fra la salute – che si vede – e la malattia – che invece si nasconde –, fra corpo trasparente e corpo opaco; tale dialettica, del resto, può anche essere riproposta sotto forma di sostanze e di umori: lo yogurt o la crema di bellezza corrispondono in questo caso al sangue e ai fluidi sessuali. Ma non è tutto, perché associazioni come questa producono immediatamente altre immagini metaforiche: è il caso delle pubblicità che vendono prodotti alimentari utilizzando il lessico dei prodotti di bellezza ("Juvamine, la bonne mine au rayon frais"), e di quelle che vendono prodotti di bellezza utilizzando il lessico dei prodotti alimentari ("Crème fraξche de beauté, le nouveau régime aroma-lacté pour une peau en pleine forme"). Fatti poco rilevanti, certo, che tuttavia assieme a molti altri mi hanno progressivamente indotto a interessarmi al perché e al come di questo equilibrio del corpo fra interno e esterno, fra bellezza e salute, fra apparenza e malattia: una problematica essenzialmente ontologica insomma, che a mio giudizio, però, costituiva uno dei sistemi chiave di rappresentazione del corpo. Posto dinanzi a questo sistema, ho cercato di capire cosa potesse delineare i contorni di questo "eterno femminino", questa immagine fondamentale del corpo femminile che aleggia fra pelle e carne, fra latte e sangue in tutto il suo spessore e la sua sostanza.

Nell'analisi di questo corpo, peraltro, non ho cercato di descrivere i differenti archetipi del femminile quanto piuttosto di rintracciare ciò che ne costituisce l'essenza: la mia è dunque ricerca di un immaginario fisiologico, ossia di quelle componenti che la cultura attribuisce da sempre alla donna considerandole parte integrante della sua stessa fisiologia. Di che materia è fatta la donna, qual è la natura della sua carne? Quali sono le conseguenze per il suo corpo di tale natura biologica quanto a bellezza, salute o fecondità (la donna bella e sana, o quella bella e malsana)? Quali rapporti intrattiene con le sostanze che la circondano – tanto corporee quanto esterne al corpo e assunte da questo? E infine di quali tecniche dispone per completare o, a volte, "disfare" la sua natura fisiologica – tecniche il cui scopo è abbellire, curare, non fare invecchiare? Il mio obiettivo, insomma, non è stato di illustrare a quali immagini della donna conduca questa "messa in cultura" del corpo femminile ma al contrario di scoprire i meccanismi profondi che le condizionano, confrontando espressioni contemporanee dell'identità corporea femminile con altre più antiche.

Non ho neppure tentato di sviluppare l'ambizioso progetto di una storia delle rappresentazioni del corpo femminile né tanto meno del pensiero cosmetico e medico relativo alla donna, sebbene mi sia spesso servito dei risultati delle ricerche condotte nell'ambito di quella che viene comunemente indicata col nome di "storia del corpo": ho, infatti, badato a situare storicamente modelli identitari e di comportamento per meglio comprenderne l'attualizzazione. Di conseguenza, invece di adottare uno sguardo attento a registrare le evoluzioni e le trasformazioni più impercettibili della sensibilità corporea ho cercato di fare mia una prospettiva situata, per così dire, al di fuori della storia – che cioè guarda dall'esterno le evoluzioni e i mutamenti subiti dall'immaginario del corpo – interessandomi maggiormente alle permanenze e alle ricorrenze; credo infatti che questo tipo di analisi sia più adatto a portare alla luce i rapporti tra le varie componenti di un sistema di rappresentazioni riconducibile a uno "zoccolo duro" invariante di natura antropologica.

[...]

La risposta alla prima domanda è evidente: il mio lavoro di ricerca non verte tanto sulle donne ma piuttosto sull' immagine della donna nella cultura; il mio principale "materiale" non è dunque il corpo in sé e neppure l'immagine che di esso ha la donna in quanto singolo individuo, ma solo le rappresentazioni del corpo proposte dalla cultura. Proprio per questo, lavoro su un materiale accessibile a tutti, per studiare il quale anzi è forse preferibile assumere un atteggiamento leggermente distaccato, uno sguardo dall'esterno. Dopotutto, visto che il mio intento è proporre un'analisi antropologica del sistema di rappresentazione del corpo femminile nella cultura occidentale e posto che l'oggetto dell'antropologia è affrontare, "nel presente, la questione dell'altro" (Augé 1992, p. 22), forse la cosa migliore è proprio mantenere questa posizione "esterna" – come se fossi un semplice etnologo al quale, dopotutto, nessuno rimprovera il fatto di essere italiano pur svolgendo ricerche sulla cultura maori, o di esser protestante e interessarsi ai riti sciamanici. Come ha scherzosamente fatto notare Jackie Pigeaud – autore di una delle due relazioni preliminari sulla mia tesi – la mia posizione mi ha dato modo di assumere il ruolo del kataskopos: la spia che osserva e proprio perché lo fa dall'esterno è in buona posizione per svolgere il proprio compito. Così questa ricerca non verte sulle donne (perché non mi sentirei affatto legittimato a svolgerla), ma piuttosto su La donna e sul modo in cui si sviluppa, attraverso la sua "messa in cultura", l'immaginario relativo al suo corpo che l'uomo (inteso nel senso generale di homo) ha da sempre costruito e continua a costruire – anche se, come si vedrà meglio in seguito, dietro tale immaginario sarà spesso possibile scorgere lo sguardo che l'uomo (stavolta nell'accezione sessuata di vir, primo "altro" dell"`altro" antropologico e soprattutto produttore storico del discorso), accorda al corpo femminile.

[...]

Rifacciamo di nuovo il giro della piazza, e osserviamo i diversi modelli di femminilità che ci vengono proposti: alcuni sono chiaramente lì per indurre un desiderio di identificazione (quelli delle marche di cosmetici e di abbigliamento ma anche il costume da bagno, l'antirughe e il calmante per l'intestino); altri, con altrettanta evidenza, puntano a stimolare il desiderio maschile (la bionda del terminale minitel, la bruna con l'auto sportiva, il profilo di Marilyn); altri ancora hanno lo scopo di identificare dei personaggi (le donne del bel mondo, le attrici), i quali però rimandano all'immagine di alcune donne piuttosto che a la donna come modello. Prima constatazione, così banale da essere nota a tutti: l'immagine della donna nella cultura si sovrappone a quella della bellezza. Da ciò, tuttavia, segue immediatamente una seconda constatazione, meno ovvia: le donne che appaiono nella nostra piazza immaginaria sono tutte ridotte al loro corpo – si tratti del corpo estetizzato che risponde ai canoni di giovinezza e bellezza, del corpo ipersessuato che risponde al desiderio maschile o ancora del corpo medicalizzato che lotta contro la costipazione e l'invecchiamento. Θ chiaro insomma – per tornare alle riflessioni che ho solo abbozzato all'inizio di questa mia passeggiata – che il luogo in cui la cultura incontra la donna è proprio il suo corpo, e si tratta in realtà di un corpo duplice: visto anzitutto a partire dal proprio involucro – con tutti i corollari di giovinezza e bellezza (o di vecchiaia e bruttezza) a esso connessi –, e in seguito attraverso il suo funzionamento – con tutti i corollari connessi alla salute e alle potenzialità sessuali e di fecondità (o legati alla malattia e alla sterilità). In tal modo, pertanto, il discorso fa ritorno alla preoccupazione ontologica cui ho fatto cenno all'inizio di questo capitolo; ho finalmente compreso che "il sesso" tout court – posto che sino a non molto tempo fa si parlava delle "persone del sesso" – poteva suddividersi semplicemente fra quelli che sono i suoi due appellativi più estremi: il gentil sesso e il sesso debole. Così è davvero sorprendente constatare che per la cultura donna e sesso siano divenuti sinonimi, come se la donna fosse il sesso, e che questo amalgama abbia dato origine a due locuzioni che riconducono e riducono le donne proprio a queste dimensioni simultanee di bellezza e debolezza.

[...]

Ma dove conduce questo sfruttamento dell'immaginario fisiologico femminile? Poiché ritengo che le scienze sociali non debbano limitarsi a raccontare il mondo ma hanno anche il compito di comprenderlo – nell'accezione consueta del termine certo, ma anche in quella spaziale ed etimologica: cum-prehendere vuol dire inglobare, situarsi in relazione a qualcosa – in questo libro cercherò di proporre un punto di vista (sempre in senso spaziale), ovvero una prospettiva critica sull'immagine del corpo femminile proposta dalla cultura. Così, al di là del solo interesse generico per un'esplorazione degli immaginari del corpo, nel corso di questa ricerca mi piacerebbe proporre una riflessione su un elemento che, debbo ammettere, a prima vista non mi era apparso essenziale: il carattere particolarmente normativo e alienante delle "figure retoriche della persuasione" che si collegano ai discorsi sul corpo femminile. Dopo essermi accostato con uno sguardo "dall'esterno" alla massa di ingiunzioni destinate a un pubblico femminile, sono rimasto colpito dalla potenza della normatività a esse soggiacente: si tratta di un vero e proprio dispositivo repressivo, del quale la donna è oggetto attraverso il suo corpo.

La pesantezza spinta sino all'estremo delle immagini del corpo, come pure il loro ricorrere così frequente, sono particolarmente evidenti quando solo si pensi alla forma che assumono nel discorso popolare contemporaneo: slogan delle pubblicità di prodotti di bellezza e medicina volgarizzata delle riviste di salute. In questa ricerca il mio intento è proprio di portare alla luce le forme repressive più o meno sottili che possono assumere i discorsi sul corpo femminile, mettendo in luce i meccanismi sui quali sono fondate. In poche parole – e rispondendo così a una preoccupazione già emersa da tempo – i discorsi pubblicitari relativi all'identità della persona mi sono da sempre apparsi molto più dannosi di quanto non lasci supporre la loro breve durata mediatica. Lo scopo che mi propongo di raggiungere "smontando" i pochi principi retorici che li costituiscono è di tenerli "a distanza", mantenendo una posizione critica dinanzi a forme discorsive tanto più insidiose quanto più aderiscono intimamente alla nostra vita quotidiana – al punto che la loro normatività finisce per confondersi con la banalità. L'intento di questo libro, allora, è anche quello di "smontare" il dispositivo che ingiunge alla donna di perfezionare incessantemente la propria bellezza e la propria salute, per riuscire a portare alla luce tutto ciò che contribuisce a rafforzare questo rapporto di soggezione che fa dell'individuo uno schiavo del proprio corpo.

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Pagina 179

Parte terza
La "natura" del corpo femminile



Ho dedicato la prima parte di questo libro alle immagini del corpo femminile tra cosmetica e salute, e la seconda alle tecniche del corpo che da tali immagini derivano. Il complesso di queste immagini e tecniche traccia in tal modo i limiti di uno spazio femminile — di natura al tempo stesso retorica e tecnica — dettando i principi fondamentali che determinano i grandi schemi culturali su cui si fonda l'identità corporea femminile. Giunti a questo punto bisogna interessarsi alla natura stessa di tale identità, alle caratteristiche stesse che la cultura assegna alla carne della donna — nonché alle sostanze e ai fluidi da cui quella carne è composta o che a quella carne servono (e rendono un servigio), senza trascurare i modi in cui quella carne funziona e le patologie da cui può essere affetta. Questa terza parte, pertanto, si sviluppa anzitutto con una sequenza di brevi paragrafi che trattano i principali fluidi legati alla bellezza del corpo femminile — sia quelli consustanziali al corpo (come il latte o il sangue) sia quelli associati a esso in modo metaforico (l'acqua, il fiore); in seguito mi soffermerò sulle rappresentazioni dei modi di funzionamento del corpo, anzitutto nella sua specificità biologica — vale a dire la sessualità e la maternità —, vista attraverso alcune delle patologie "culturali" da cui il corpo della donna è affetto: prima fra tutte l'isteria, ma anche i mali moderni nati attorno alle dimensioni della sessualità e dell'alimentazione.

L'insieme delle mie osservazioni sul funzionamento culturale del corpo femminile dovrebbe in definitiva condurmi a dare una definizione della "natura" della carne della donna, che rappresenta il tentativo di delineare con maggiore precisione alcuni fra i principi più importanti che governano l'immaginario fisiologico femminile.

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Pagina 183

Capitolo primo

Le sostanze della bellezza


L'acqua

L'acqua fonte di vita: quest'immagine così ricorrente negli universi discorsivi più diversi – dalla volgarizzazione scientifica all'alimentazione – è anche una delle costanti della cura di bellezza. Fra tutte le sostanze cui farò cenno in questo capitolo l'acqua è senza dubbio la più importante, quella citata con più regolarità e che vanta un immaginario più ampio, dalle risonanze molteplici: l'acqua, infatti, fa appello a differenti dimensioni discorsive a seconda che sia dolce o di mare – ovvero i due generi d'acqua essenziali e comunemente utilizzati dal discorso sulla bellezza. Siamo cioè dinanzi a un duplice immaginario dell'acqua: da un lato l'acqua chiara e pura "di superficie", dall'altro l'acqua ricca delle profondità marine. Si tratta però di due immaginari che rinviano in modo identico all'identità del femminile: l'acqua è l'elemento che, più di ogni altro, "incarna" il femminile. Si tratti dell'acqua leggera dei fiumi o dell'acqua marina profonda, insomma, essa è sempre legata a una rappresentazione del corpo femminile e in questo modo evoca, secondo Bachelard, la nudità della donna: "L'acqua del resto evoca la nudità naturale, la nudità che può conservare una certa innocenza. Nel regno dell'immaginazione, gli esseri veramente nudi, dalle forme prive di qualsiasi vello emergono sempre da un oceano" (Bachelard 1942, p. 39). Così la ninfa Juventa, dopo esser stata trasformata da Giove in fonte dell'eterna giovinezza (e dunque dell'eterna bellezza), diviene meta di un'ininterrotta ricerca; ed è inutile ricordare che Venere nasce dal mare (non dunque nel mare), dopo che Crono vi ebbe gettato i testicoli tagliati al padre Urano: dalla schiuma (aphros) creatasi nell'acqua "prese forma una giovane donna" – una descrizione questa che allude all'idea della nascita come processo che ha luogo in acqua e grazie all' acqua, chiamando in causa un immaginario della generazione e della rigenerazione in cui senza dubbio ritroviamo l'essenza di pratiche e discorsi legati alla cura di bellezza. Nell'acqua, dunque, abitano sempre corpi femminili: ogni sorgente ha le sue naiadi, ogni mare le sue nereidi.

Quando li si ricollega alle cure di bellezza, tuttavia, questi due tipi di acque fanno capo a immaginari specifici: da una parte c'è un'acqua chiara e leggera, dall'altra una ricca e pesante; se la prima serve alla purificazione, l'altra è deputata all' arricchimento: in poche parole l'acqua dolce pulisce, quella marina nutre. Ecco allora che l'acqua finisce per essere, letteralmente, legata a filo doppio alla bellezza, perché questo rapporto investe al tempo stesso il pulire e il nutrire – una duplice missione che esemplifica esattamente le due azioni cui di solito fa ricorso chi cura la bellezza della propria pelle. A differenza delle altre sostanze presentate nel seguito del capitolo, l'acqua è l'unica che agisce simultaneamente su entrambe queste dimensioni: non sorprende perciò che le vengano attribuite al tempo stesso forme differenti, nella misura in cui ci si attende che svolga diverse funzioni.

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Pagina 238

La pletora alimentare

All'immaginario della continenza patogena si affianca un altro genere di "ingorgo", anch'esso legato al femminile e proprio come il primo riconducibile al suo ventre: la pletora alimentare. Il discorso dell'ossessione per la magrezza che ho ricordato in precedenza è un fenomeno che è stato abbondantemente discusso, commentato e analizzato. Anche se quasi sempre lo si è criticato – e giustamente – per il suo carattere normativo, tale discorso è stato interpretato per lo più dal punto di vista del terrorismo estetico più che della disciplina sanitaria. I non-dieteting movements e la critica femminista americana sono stati i più assidui critici degli eccessi cui inducevano le diete, avvalorando le loro argomentazioni con cifre davvero catastrofiche: così negli Stati Uniti le anoressiche sarebbero un milione, e vi sarebbero ben 150.000 decessi ogni anno causati dalle diete – senza contare i guasti prodotti all'immagine che di se stesse hanno tutte le donne.

Comunque stiano le cose, per il pensiero contemporaneo la ricerca della magrezza è un fenomeno che dipende per lo più dall'estetica, e condiziona il rapporto fra la donna e l'immagine del suo stesso corpo. Questa visione sociale della magrezza (quando non si trasforma addirittura in visione politica) occulta in genere la dimensione medica della ricerca di magrezza: esiste un campo patologico della grassezza legato all'immagine dell'ingorgo, secondo la quale ingrassare è malsano. La norma estetica del codice della magrezza non deve far dimenticare l'altra norma – stavolta di natura fisiologica – che ci presenta un corpo la cui salute si legge attraverso l'equilibrio del peso: quello della magrezza non è solo un discorso estetico, ed è parte integrante di ciò che forse può essere definito il principale ambito patologico della fine del XX secolo – l'"ossessione purgativa", che spinge a vuotare i corpi delle sostanze superflue.

Dietro l'immagine di un corpo che soffre per il suo eccesso di peso troviamo infatti un'immagine assai più antica, che attraversa l'intera storia della medicina classica: si tratta della pletora. Sin da Ippocrate lo stato pletorico è caratterizzato da un "ingorgo" del corpo, causato da eccesso di sangue: "Replezione d'umori, in particolar modo riferita al sangue e in seguito anche ad altri umori. La pletora e la cacochimia sono le cause che precedono l'insorgere di tutte le malattie" (Dictionnaire universel de Furetière 1680, t. IV, p. 906). Inutile dire che la pletora rappresenta per la donna uno stato "naturale": i suoi moltissimi umori, il suo modo di vita, la mollezza della sua carne, tutto concorre a far nascere in lei lo stato pletorico – come testimonia anche l'esistenza delle regole: "Poiché la donna ha natura più molle, dal corpo confluisce nel suo ventre più fluido, e più rapidamente di quanto accada nell'uomo; a causa di questa rilassatezza, quando il corpo si è empito di sangue, se non c'è modo per le carni di espellere lo stato di pletora e calore sopraggiunge la sofferenza" (Ippocrate, Sulle malattie delle donne, I, 1).

[...]

Questo immaginario dell'ingorgo del corpo percorre l'intero sviluppo del pensiero medico sino a un'epoca piuttosto recente, lasciando tracce indelebili che sopravvivranno all'abbandono della teoria umorale. In qualunque epoca lo squilibrio alimentare "racconta" la storia di un corpo invaso da eccedenze, intasato da umori, un corpo che per così dire si soffoca dall'interno – asfissiando sotto l'accumulo di un "inquinamento interiore" condannato con tanta più forza perché si estende a ogni sorta di bruttezza. A prescindere dalle varianti che ha assunto a seconda delle diverse epoche, l'idea di pletora è presente in tutta la storia del corpo adattandosi ininterrottamente alle evoluzioni della coscienza fisiologica.

Oggi la principale rappresentazione dell'idea di pletora è legata per lo più all'alimentazione; questo rapporto diventa anzi tanto più stretto dopo la grande diffusione dei discorsi estetici sulla magrezza e dopo che il sospetto dei medici nei riguardi delle diete patogene è così cresciuto – in particolare per quanto riguarda le malattie cardio-vascolari. Un simile immaginario del grosso e del grasso è diventato così la rappresentazione per eccellenza del corpo malsano contemporaneo: oggi il corpo pletorico e malsano è, per definizione, il corpo grasso. In realtà la letteratura medica che in qualunque epoca ha affrontato il tema degli "scarti" che allontanano il corpo da una "giusta" costituzione – giusta perché intermedia – è davvero inesauribile; forse, però, mi si potrà obiettare che il "grosso" del XVII secolo non equivale al "grosso" del XX, perché nel primo caso la pinguedine [embonpoint] non era altro che uno stato ritenuto "a puntino" [en bon point] – ovvero un equilibrio buono e giusto, come nel caso delle dame galanti di Brantóme: "belle, bianche, cicciottelle, tonde e colorite al punto giusto". Il che è senza dubbio vero, anche se l'immagine del grosso si misura sempre a partire da uno scarto rispetto alla norma che ogni dato periodo ha stabilito – ed è noto che un'identica visione negativa della grassezza e del grosso percorre la cultura nel suo complesso. Il "troppo grosso", dunque, a prescindere dalla misurazione che se ne fa di volta in volta, è sempre esistito agli occhi di una medicina attenta alla ricerca dell'equilibrio e pronta a condannare gli scarti dalla norma: "Guardate pure una di queste Falstaff donna: le guance sono rosse e molli, gli occhi semichiusi per le pieghe della carne in eccesso, la voce rauca, il fisico è quello di una botte e cammina dondolandosi. Solo un abissino potrebbe considerarla bella! Aggiungete a tutto questo che un simile fardello di carne procura disagi estremi e colei che lo sopporta è davvero una poveretta, non diversa da una vera e propria malata" (Brinton, Napheys 1870, p. 37). Troppo grossa, dunque malata: si continua a rappresentare l'esser grossi come uno scarto rispetto alla norma igienica – scarto che ovviamente riguarda per lo più le donne, come sempre al centro dei fitti dialoghi incrociati fra estetica e salute.


Grasso buono, grasso cattivo

Il grasso è una sostanza intrinsecamente ambivalente. Parte integrante dell'alimentazione, è presente in gran parte delle abitudini alimentari e nelle pratiche culinarie di tutte le culture. Si tratta di un elemento nutritivo della nostra vita quotidiana davvero molto importante in quanto – al contrario di altre sostanze – è presente in un gran numero di composti sia allo stato "puro" (burro, olio...) sia come semplice elemento (carne, latte, uova...). Alimento tradizionalmente ritenuto benefico e storicamente ricercato e apprezzato per le sue qualità nutritive, da meno di un secolo la materia grassa ha visto questa valorizzazione euforica ribaltarsi nel suo opposto: ha così assunto uno statuto sospetto, diventando sinonimo di squilibrio esterno (l'adipe) e interno (il colesterolo). Quest'ultimo aspetto rappresenta un eccellente esempio di quella corrispondenza tra la fobia contemporanea del grasso e le antiche immagini di squilibrio ormonale di cui ho parlato in precedenza: il colesterolo, infatti, è una sostanza valutata negativamente (è grasso), presente in sospensione entro un fluido corporeo essenziale (il sangue). Niente di strano, perciò, che nell'immaginario fisiologico attuale il "tasso di colesterolo" divenga per lo più sinonimo della pletora del sangue: non a caso entrambi fanno ricorso all'immagine forte di un "aumento del volume di umori nel sangue", così come l'ho descritta nel paragrafo precedente. Il rigido controllo del colesterolo rappresenta ormai un'abitudine che l'intero corpo medico riconosce essere "in voga", forse perché vi convergono in modo sin troppo perfetto un agente proibito (il grasso), un importante campo patologico (l'ingorgo) e uno dei mali del secolo (le malattie cardio-vascolari). Θ proprio come se il grasso fosse divenuto l'archetipo del "cattivo alimento" nell'ambito di una rappresentazione negativa e allarmista della nutrizione. Θ probabile che la molteplicità di forme assunte in natura dal grasso non abbia svolto un ruolo fondamentale nella comparsa di una vera e propria fobia per questa sostanza, scatenatasi da una trentina d'anni circa: questa fobia contemporanea, infatti, già in gestazione nel periodo tra le due guerre e le cui origini risalgono alla dietetica americana del secolo XIX, si basa sulla graduale presa di coscienza del fatto che in Occidente l'alimentazione è troppo ricca. L'idea è quella di una "malnutrition due to overnutrition" (Hauser 1961, p. 5), una "malnutrizione causata da eccesso di nutrimento" – in particolare dovuta a una dieta in cui il grasso era troppo presente.

Θ così che la materia grassa, in tutte le sue forme, si è trasformata nel nemico pubblico numero uno e la "lipofobia" occidentale ha assunto l'aspetto di un fenomeno senza precedenti – manifestandosi come rifiuto di una sostanza alimentare peraltro diffusissima nella nostra alimentazione quotidiana. Tutto questo ha causato il boom di diete alimentari destinate a diminuire la presenza di grasso nell'alimentazione, oltre alla creazione di nuovi prodotti "senza grasso" – prodotti alimentari che hanno mantenuto il tradizionale aspetto culinario ma ai quali sono stati tolti sin dall'inizio tutti i componenti nocivi, grassi e zuccheri. Se le diete pongono l'accento sul controllo di sé e la cura quotidiana del corpo, i prodotti "magri" prolungano di fatto il modello medico del contro-veleno: nel primo caso si tratta di cambiare le proprie abitudini alimentari onde riuscire a eliminare, per quanto possibile, l'agente nocivo; nel secondo invece, si tratta di continuare a seguire le proprie abitudini alimentari ma beneficiando di una garanzia di innocuità – posto che la sostanza cattiva è stata esclusa dalla preparazione dell'alimento. Il regno dei cibi "leggeri" ha insomma raggiunto frontiere impensabili ed esiti paradossali – tanto che oggi possiamo trovarci dinanzi piatti cucinati a base di uova strapazzate e patate fritte di cui però le promesse pubblicitarie dicono che "fanno bene al corpo". Questo immaginario del "non grasso" ha anche fatto nascere un certo numero di prodotti dagli effetti ancora più promettenti, il cui intento è né più né meno che di uccidere in nuce l'agente nefasto. Assunti assieme ai pasti, stando alle pubblicità che li promuovono, questi prodotti agiscono dall'interno, "come delle spugne lipofile: le compresse, infatti, assorbono i grassi presenti nell'alimentazione". Prodotti simili – in genere definiti "miracolosi" dalla stampa che sempre più li promuove e pubblicizza – tentano di assumere l'aura più seria e scientifica possibile: di Terrafor ventre piatto, ad esempio, viene detto che si adatta "al principio cronobiologico naturale del metabolismo"! A prescindere dalla loro reale efficacia, il successo di tali prodotti testimonia di un sogno molto più antico: combattere la pletora dell'interno, assorbendo assieme al delizioso veleno anche l'antidoto.

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Pagina 264

Conclusione


Giunto a questo punto dell'analisi, credo sia opportuno tentare di sintetizzare l'insieme delle osservazioni sull'immaginario fisiologico femminile raggruppandole attorno ad alcune caratteristiche fondamentali. Le varie dimensioni della cultura corporea femminile che ho tentato di mettere in luce rinviano tutte a rappresentazioni diverse, di cui tuttavia desidero isolare alcuni tratti invarianti: l'immaginario del corpo inquieto (che è tale perché preoccupato della propria bellezza, o della propria salute) si contrappone a quello del corpo inquietante – inquietante in quanto diverso dal corpo di riferimento, quello dell'uomo.

Vorrei incentrare le mie conclusioni proprio su questa differenza. Nella cultura la donna è rappresentata in vari modi, ma sempre a partire dall'aspetto che ho ricordato all'inizio del libro: la donna è l'altro. Il postulato di base della mia argomentazione è che il principio discorsivo su cui si fondano le rappresentazioni della bellezza femminile è prevalentemente di tipo maschile: sia le variazioni culturali sia le evoluzioni storiche del rapporto uomo/donna hanno avuto una scarsa incidenza sul modo in cui l'uomo pensa da sempre i propri rapporti fra l'identico (se stesso, un altro uomo) e il diverso (lei, l'altro da sé, la donna). Per il pensiero maschile, la donna è quasi sempre un essere assolutamente extraneus, nei due sensi del termine: strana ed estranea a un tempo. Si tratti del discorso scientifico che tenta di comprendere il ruolo e il divenire biologico dell'uomo, o delle tecniche di cura e perfezionamento messe a punto per regolare e gestire quello stesso divenire, o infine delle sostanze associate a tali tecniche, le cose non cambiano: la donna è sempre laggiù, sulla riva "altra" della cultura umana, poiché incarna essenzialmente l' alterità radicale dell'uomo.

Come abbiamo visto nel corso del libro, questa differenza necessaria è stata pensata in modo sorprendentemente costante dalla scienza degli uomini. A prescindere da quale opposizione, tra quelle citate nelle pagine precedenti, verrà effettivamente messa in primo piano – caldo/freddo, durezza/mollezza, stabile/erratico o umorale/nervoso –, il discorso sul corpo femminile si organizza sempre attorno a un'alterità fisiologica radicale che oppone punto a punto – proprio come nella frase di Virey già citata – il secco all'umido, lo scuro al bianco, il villoso al liscio, l'impetuoso al timido. Quando entrano in gioco le tecniche, inoltre, vengono sistematicamente ricondotte a sfere non maschili: la loro caratteristica specifica, anzi, è di essere sempre rappresentate nelle due dimensioni dell' infra e del supra, anch'esse ricordate in precedenza insieme alle loro manifestazioni concrete – cioè il quotidiano e la routine domestica, o il misterioso e lo straordinario. Entrambe queste dimensioni, del resto, si oppongono all'"evidenza" e ai risultati inconfutabili della tecnica maschile. Dal punto di vista delle sostanze, infine, un identico pensiero della differenza collega la donna a un certo numero di elementi – numero peraltro relativamente limitato e, ancora una volta, sorprendentemente invariato: quasi sempre si tratta di sostanze relative agli stessi fluidi corporei femminili, come il latte. Tra l'uomo caldo, secco e impetuoso e la donna umida, liscia e bianca la cultura ha sempre creato una frattura – e ha voluto che fosse la più netta possibile: ne è emerso un dimorfismo dell'apparire che si rivela al tempo stesso riflesso e origine di un "dimorfismo biologico", di una differenza radicale fra organi e consistenza fisiologica dell'uno e dell'altro sesso.

Θ probabile che una delle origini di questo pensiero della differenza biologica vada rintracciata nella credenza, assai radicata sin dalla medicina antica, che la riproduzione sia frutto della complementarità dei sessi; tale complementarità si rivela però sinonimo di contrarietà, ovvero di opposizione. Poiché l'uomo può individuare la causa del parto soltanto nella differenza fisiologica tra i sessi (al punto che la sterilità è stata a lungo considerata come l'unico risultato di un'eccessiva somiglianza fisiologica fra la donna e l'uomo), non stupisce che egli possa trarre da tale situazione – spingendo la logica di identità e differenza sino alle sue conseguenze più estreme – la necessità di una complementarità termine a termine: una logica dei contrari totalizzante, che oppone un sesso all'altro su basi al tempo stesso fisiche, biologiche e psicologiche. In questa logica dell'"a ciascuno il proprio corpo", l'uomo e la donna si sono visti concedere storicamente dal pensiero scientifico e medico corpi del tutto diversi e complementari, costruiti a partire dalle rappresentazioni che regolavano la creazione delle rispettive identità corporee. Il mio intento è di analizzare alcune di tali rappresentazioni; in questo modo riuscirò forse a capire meglio le basi da cui trae origine l'immaginario della consustanzialità sul quale ho più volte insistito – in particolare occupandomi dell'immaginario delle sostanze, sia legate alla bellezza che alla salute. Per capire come agisce questa relazione di consustanzialità è necessario tuttavia affrontare le rappresentazioni della texture, della "grana" del corpo, soffermandosi in particolare su tre dimensioni: quella del corpo molle, del corpo poroso e del "corpo che mangia".

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