Copertina
Autore David Ricardo
Titolo Principi di economia politica e dell'imposta
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 [1986], collana e num. , pag. 580, cop.fle., dim. 12x19x3 cm , Isbn 978-88-02-07358-3
OriginaleOn the Principles of Political Economy, and Taxation
EdizioneJohn Murray, London, 1817
CuratorePier Luigi Porta
TraduttoreAnna Bagiotti
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe economia politica , storia della scienza
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Indice

  9  Introduzione di P. L. Porta
 55  Nota biografica
 73  Nota bibliografica


     PRINC̀PI DI ECONOMIA POLITICA E DELL'IMPOSTA

105  Introduzione di P. Sraffa
165  Prefazione
168  Avvertenza alla 3a edizione
169      I. Valore
206         (Appendice al Cap. I, testo della la ed.)
222     II. Rendita
239    III. Rendita delle miniere
242     IV. Prezzo naturale e prezzo di mercato
246      V. Salari
261     VI. Profitti
278    VII. Commercio estero
297   VIII. Imposte
302     IX. Imposte sul prodotto grezzo
317      X. Imposte sulla rendita
320     XI. Decime
324    XII. Imposta fondiaria
333   XIII. Imposte sull'oro
342    XIV. Imposte sulle case
346     XV. Imposte sui profitti
356    XVI. Imposte sui salari
381   XVII. Imposte su merci diverse dal prodotto grezzo
394  XVIII. Imposte per i poveri
399    XIX. Mutamenti improvvisi dei canali commerciali
408     XX. Valore e ricchezza: loro proprietà caratteristiche
422    XXI. Effetti dell'accumulazione sui profitti e
            sull'interesse
433   XXII. Premi all'esportazione e divieti d'importazione
451  XXIII. Premi alla produzione
457   XXIV. Dottrina di Adam Smith sulla rendita della terra
468    XXV. Commercio coloniale
476   XXVI. Reddito lordo e reddito netto
481  XXVII. Moneta e banche
501 XXVIII. Valore comparato dell'oro, del grano e del lavoro
            nei paesi ricchi e nei paesi poveri
507   XXIX. Imposte pagate dal produttore
510    XXX. Influenza della domanda e dell'offerta sui prezzi
514   XXXI. Macchine
525  XXXII. Opinioni di Malthus sulla rendita

567 Indice analitico


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



L'aspetto che distingue David Ricardo dai maggiori autori di Economia politica risiede in una peculiare combinazione di «talento nell'arricchire» e di poteri eccezionali, che egli fu in grado di dispiegare nel ragionamento analitico.

Sulle attività e gli affari di Ricardo, suo fratello Moses, uno dei suoi primi biografi, scrisse:

«La totale dimestichezza con tutte le complicazioni [degli affari]; la sorprendente rapidità con numeri e calcoli; la capacità di portare a compimento, senza apparente sforzo, le immense operazioni delle quali si occupava; la sua lucidità e il suo giudizio, uniti certamente a un (per lui) felice intreccio di pubblici eventi, gli consentirono di sopravanzare di molto tutti i suoi contemporanei al mercato di borsa, e di elevarsi, non soltanto in fortune, ma nell'immagine e nella stima generale, assai più di chiunque altro in quel mestiere. L'impressione che queste sue qualità avevano destato nei concorrenti era tale che diversi di costoro di grande giudizio, assai prima che egli emergesse in pubblico, predicevano, nella loro ammirazione, che egli si sarebbe avviato a ricoprire una delle più elevate posizioni nello Stato».

Fu difatti a seguito delle «immense operazioni che egli aveva con la Banca d'Inghilterra» che Ricardo fu «indotto a riflettere sull'argomento della moneta, per tentare di dar ragione della differenza che esisteva tra il valore del coniato e dei biglietti della Banca, e per individuare la causa dalla quale dipendeva il deprezzamento di questi ultimi».

Alcuni anni più tardi, nel 18x5, egli rivolse l'attenzione alla questione della libertà di commercio e di nuovo incontrò successo con le posizioni espresse nel suo saggio circa l'influenza di un basso prezzo del grano sui profitti del capitale.

Di fronte all'idea di dare una enunciazione più completa alle proprie concezioni di Economia politica, Ricardo, che non era uomo di cultura, divenne assai incerto.

Nel 1817, egli diede alle stampe «la sua grande opera Principi di economia politica e dell'imposta. Fu questo un passo che egli fece non senza grande esitazione.

Ricardo non era, né si atteggiava a essere, insensibile al valore della reputazione letteraria e filosofica; ma la sua modestia lo induceva costantemente a sottovalutare le proprie capacità; e avendo già ottenuto un grado elevatissimo di celebrità come autore sulla moneta, egli era riluttante a mettere a repentaglio quanto già aveva raggiunto nel tentativo di fare di più. Alla fine, tuttavia, si convinse, attraverso le pressioni degli amici, e soprattutto di Mill, a consentire che il suo lavoro venisse dato alle stampe».

La determinazione di Ricardo di intraprendere un trattato dall'aspetto sistematico sull'Economia politica deve essere ricondotta ai suoi legami con gli Utilitaristi o, secondo una diversa dizione, gli esponenti del Radicalismo filosofico e, in particolare, all'influenza di Mill. «A James Mill si deve l'onore di avere provocato la decisione di Ricardo di scrivere i Princìpi tra il 1815 e il 1817».

Infatti, fu soltanto dopo che Ricardo ebbe pubblicato la sua argomentazione «irresistibile» a favore della libertà di commercio, nel 1815, che James Mill (che egli già frequentava dal 1808, l'anno del Commerce Defended, dove Mill stesso aveva difeso la libertà di commercio e la legge dei mercati, in particolare contro Spence), cominciò seriamente e apertamente a «consigliare» Ricardo di avviarsi a ulteriori realizzazioni. «La mia amicizia per voi, per l'umanità, e per la scienza» egli scrisse «tutte mi spingono a non darvi requie, finché non sarete completamente immerso nell'economia politica». La risposta di Ricardo, secondo la quale «l'esperimento ... verrà tentato», può essere considerata come il punto di partenza del suo lavoro a un volume di princìpi.

L'atteggiamento e l'influenza di Mill erano del genere che può derivare dall'«autorità di un insegnante», e Ricardo poté contare sul consiglio di Mill nelle successive occasioni in cui si trovò a esprimere la propria posizione su temi di Economia politica o su problemi istituzionali. Il momento pubblico di tutta l'attività di Ricardo si ricollega alla sua amicizia con Mill.

Quanto a teoria economica, non vi è quasi proposizione di Ricardo che non appaia ispirata o sviluppata attraverso le sue continue discussioni con Malthus. Quando l'ultima edizione dei Princìpi era vicina a essere conclusa, Ricardo scriveva in una lettera a McCulloch: «Non ho mai conosciuto in nessun campo uomo più tenace di quanto è Malthus in Economia politica — lo incalzo da presso — eppure dopo le molte ore che abbiamo trascorso nel tentativo di persuaderci a vicenda siamo all'incirca allo stesso punto. Uno di noi due deve sbagliarsi di grosso».

All'epoca del loro primo incontro, avvenuto verso la metà di giugno del 1811, Malthus e Ricardo occupavano un posto diverso nella considerazione del pubblico. Malthus, di qualche anno più vecchio, era già famoso per avere pubblicato, nel 1798, il Saggio sulla popolazione, giunto ormai alla sua quarta edizione. Ricardo aveva da poco iniziato a scrivere di Economia politica, nella forma alquanto modesta e un poco casuale di contributi al «Morning Chronicle» su questioni monetarie.

Da allora, ha inizio una corrispondenza complessivamente piuttosto intensa tra i due autori, che si interromperà soltanto con la morte di Ricardo, nel 1823. La raccolta della corrispondenza di Ricardo indica che Malthus vi occupa la posizione quantitativamente di maggiore rilievo, e dall'esame dei testi epistolari emerge il contenuto e la motivazione prevalentemente scientifica degli scambi di lettere con Malthus. Esse costituiscono — come è noto — una fonte insostituibile per lo studio della formazione del pensiero economico dei due autori.

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PRINC̀PI DI ECONOMIA POLITICA
E DELL'IMPOSTA



INTRODUZIONE
di Piero Sraffa



I. La stesura dei «Princìpi».

Il piano dal quale hanno avuto origine i Princìpi di economia politica e dell'imposta prese forma subito dopo la pubblicazione dell' Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock nel febbraio del 1815. L'intenzione originaria di Ricardo (su suggerimento di James Mill) era semplicemente di dare una versione ampliata dell' Essay. Come scrisse a J.-B. Say dalla sua casa di campagna, Gatcomb Park, nell'agosto 1815: «Mill vuole che lo riscriva ampliandolo»; e aggiungeva immediatamente: «Temo che l'impresa superi le mie capacità». Mill, tuttavia, come riferì a Ricardo nello stesso mese, era determinato a non dargli requie finché egli non si fosse «tuffato a capofitto nell'economia politica». Sei settimane dopo (il 10 ottobre), Mill già considerava il volume ampliato come un impegno vincolante: «Conto che a quest'ora siate in grado di darmi qualche notizia sui progressi che state facendo a proposito del vostro libro. Penso che adesso siate bene impegnato a portare a termine il compito». Così il 29 dello stesso mese Ricardo poteva scrivere a Trower della decisione presa di «concentrare tutto il talento» posseduto sugli argomenti in cui le sue opinioni «differiscono da quelle delle grandi autorità di Adam Sinith, Malthus ecc.», ossia «i principi della rendita, del profitto e dei salari». «Per mia soddisfazione personale farò senz'altro il tentativo; e forse, dopo ripetute revisioni, in capo a uno o due anni riuscirò finalmente a produrre qualcosa di comprensibile». Il 9 novembre in risposta ad una lettera scoraggiata di Ricardo («Oh, fossi capace di scrivere un libro!»), Mill doveva intervenire a fare da «maestro di scuola», ordinandogli «di cominciare dal primo dei tre argomenti che avete stabilito: rendita, profitto e salari — e quindi rendita, senza alcun indugio».

Durante questo periodo Ricardo era stato impedito dalle difficoltà della stesura. Più tardi si lamentò con Malthus: «Non faccio alcun progresso nella difficile arte del comporre, che penso dovrebbe essere la mia cura principale». L'aiuto di Trower si ridusse al suggerimento, non molto pratico, di consultare le Lectures on Rhetoric and Belles Lettres del dottor Blair. Mill provvide comunque a inviare dettagliate istruzioni sul modo di comporre l' «opus magnum». Il 22 dicembre 1815 era «in attesa del manoscritto» che sperava di «ricevere presto, come parte del grande lavoro»; e dandogli ulteriori istruzioni sulla maniera di scrivere, insisteva perché Ricardo considerasse sempre i propri lettori «come persone digiune dell'argomento». Mill gli assegnò pure un «compito»: dare una dimostrazione dettagliata del principio, così spesso enunciato da Ricardo, «che le migliorie agricole aumentano i profitti del capitale senza provocare immediatamente alcun altro effetto». «Poiché siete già la migliore mente nel campo dell'economia politica, voglio che diventiate anche il migliore scrittore»

Si deve notare come in queste lettere dell'ottobre e novembre 1815, che danno i principali argomenti dell'opera proposta (rendita, profitto e salari), non ci sia alcun riferimento al valore. Esso è menzionato per la prima volta, come argomento a sé stante, con cui Ricardo avrebbe prima o poi avuto a che fare, soltanto in una lettera a Mill del 30 dicembre: «So che presto sarò fermato dalla parola prezzo — vi è detto — e allora dovrò ricorrere a voi per aiuto e assistenza. Prima che i miei lettori possano comprendere la dimostrazione che intendo offrir loro, essi devono capire la teoria della moneta e del prezzo». Da questo momento in poi la questione del valore lo preoccupò in maniera crescente. Il 7 febbraio 1816 scrisse a Malthus: «Se potessi superare gli ostacoli che incontro nel dare una chiara percezione dell'origine e della legge del valore relativo o di scambio, avrei già vinto metà della battaglia».

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PREFAZIONE



Il prodotto della terra – tutto ciò che proviene dalla sua superficie con l'impiego combinato del lavoro, macchine e capitale – viene distribuito fra tre classi della collettività, cioè i proprietari della terra, i proprietari del capitale necessario per coltivarla e i lavoratori che la coltivano con la loro attività.

Ma nei diversi stadi della società le proporzioni di tutto il prodotto della terra assegnate ad ognuna di queste classi sotto il nome di rendita, profitto e salari saranno essenzialmente diverse; soprattutto a seconda dell'effettiva fertilità del suolo, dell'accumulazione di capitale e della popolazione e a seconda dell'abilità, ingegnosità e strumenti impiegati nell'agricoltura.

La determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione è il problema principale dell'Economia politica: benché questa scienza sia molto progredita grazie agli scritti di Turgot, Stuart, Smith, Say, Sismondi e altri, questi ci informano in modo assai poco soddisfacente relativamente all'andamento naturale della rendita, del profitto e dei salari.

Nel 1815, Malthus, nella sua Inquiry into the Nature and Progress of Rent [Indagine sulla natura e sul progresso della rendita] e un membro dello University College di Oxford nel suo Essay on the Application of Capital to Land [Saggio sull'impiego del capitale sulla terra], presentarono al pubblico, quasi contemporaneamente, la vera teoria della rendita, senza la conoscenza della quale è impossibile capire l'effetto del progresso della ricchezza sui profitti e sui salari, o individuare in modo soddisfacente l'influenza dell'imposta sulle differenti classi della collettività, particolarmente, quando le merci tassate sono prodotti che provengono direttamente dalla superficie della terra. Non avendo inteso esattamente i princìpi della rendita, mi sembra che Adam Smith e gli altri egregi autori menzionati, abbiano trascurato molte importanti verità che si possono scoprire soltanto comprendendo appieno l'argomento della rendita.

Per colmare questa lacuna, sono necessarie capacità ben superiori a quelle possedute dall'autore delle pagine che seguono; tuttavia, dopo aver dedicato all'argomento la sua migliore considerazione, con l'aiuto derivato dalle opere degli eminenti autori sopra menzionati e con la preziosa esperienza che questi recenti anni così densi di avvenimenti hanno fornito alla nostra generazione, egli spera di non essere ritenuto presuntuoso se espone le sue opinioni sulle leggi dei profitti e dei salari e sull'azione delle imposte. Se i principi ch'egli ritiene corretti dovessero rivelarsi tali, spetterà ad altri più capaci di lui di trarne tutte le importanti conseguenze.

L'autore, nell'opporsi alle opinioni correnti ha dovuto riferirsi particolarmente a quei passi di Adam Smith dai quali ritiene di dissentire; ma spera che per questo non si pensi che egli non condivida, insieme con tutti coloro che riconoscono l'importanza della scienza dell'Economia politica, l'ammirazione che tanto giustamente suscita la profonda opera di questo celebrato autore.

La stessa osservazione può farsi relativamente agli eccellenti lavori di Say che non solo fu il primo o fra i primi autori continentali che giustamente apprezzarono e applicarono i principi di Smith e che ha contribuito più di tutti gli altri autori continentali insieme a raccomandare alle nazioni europee i principi di quell'illuminato e utile sistema; ma che è riuscito a ordinare la disciplina in un sistema più logico e più istruttivo; e l'ha arricchita di molte discussioni originali, accurate e profonde. Tuttavia, il rispetto che l'autore nutre per gli scritti di Say non ha impedito di commentare quei passi dell' Economie politique che gli sembrano discordanti dalle sue idee, con la libertà che egli ritiene necessaria agli interessi della scienza.

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CAPITOLO I
VALORE



SEZIONE I


Il valore di una merce, cioè la quantità di qualsiasi altra merce con cui si può scambiare, dipende dalla quantità relativa di lavoro necessario a produrla e non dal maggiore o minore compenso corrisposto per questo lavoro.

Adam Smith ha osservato che «la parola valore ha due differenti significati: talvolta esprime l'utilità di qualche particolare oggetto e talaltra il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce. L'uno può essere detto valore d'uso; l'altro valore di scambio. Le cose – continua – che hanno il massimo valore d'uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d'uso». Acqua e aria sono estremamente utili e addirittura indispensabili all'esistenza; tuttavia, in circostanze ordinarie, non si può ottenere nulla in cambio di esse. L'oro, invece, sebbene poco utile in confronto all'aria o all'acqua, si può scambiare con una gran quantità di altre merci.

L'utilità, quindi, non è la misura del valore di scambio sebbene a tale valore sia assolutamente essenziale. Se una merce non fosse affatto utile — in altre parole, se non potesse in nessun modo contribuire alla nostra soddisfazione — sarebbe priva di valore di scambio, comunque scarsa possa essere o comunque grande fosse la quantità di lavoro necessaria per ottenerla.

Nel caso in cui posseggano utilità, le merci traggono il loro valore di scambio da due fonti: dalla loro scarsità e dalla quantità di lavoro necessario per ottenerle.

Vi sono alcune merci il cui valore è determinato soltanto dalla loro scarsità. Non vi è lavoro che possa aumentarne la quantità e perciò il loro valore non può venir diminuito da una maggiore offerta. Esempi di queste merci sono certe statue e quadri rari, libri e monete scarse, vini di particolare qualità prodotti soltanto da uva coltivata su un suolo particolare dì cui vi è una quantità molto limitata. Il loro valore è completamente indipendente dalla quantità di lavoro necessaria originariamente per produrle e varia al variare della ricchezza e dei gusti di coloro che desiderano possederle.

Tuttavia, queste merci costituiscono una parte piccolissima di tutte le merci che si scambiano quotidianamente sul mercato. La parte di gran lunga maggiore dei beni desiderati, vengono ottenuti per mezzo del lavoro; ed essi possono essere moltiplicati quasi illimitatamente, non in un paese soltanto, ma in molti paesi, se si è disposti a impiegare il lavoro necessario per produrli.

Perciò, quando si parla di merci, del loro valore di scambio e delle leggi che regolano i loro prezzi relativi, intendiamo sempre soltanto quelle merci la cui quantità può venire aumentata con l'applicazione dell'attività umana e che vengono prodotte in condizioni di illimitata concorrenza.

Nei primi stadi della società, il valore di scambio di queste merci, ossia il criterio che determina quanto di una merce deve essere dato in cambio di un'altra, dipende quasi esclusivamente dalla quantità relativa di lavoro impiegato in ognuna.

«Il prezzo reale di ogni cosa», dice Adam Smith, «ciò che ogni cosa realmente costa all'uomo che vuole procurarsela, è la fatica e l'incomodo di ottenerla. Ciò che ogni cosa realmente vale per l'uomo che l'ha acquisita e che vuole disporre o cambiarla con qualcos'altro, è la fatica e l'incomodo che può risparmiargli e imporre agli altri». «Il lavoro è stato il primo prezzo, la moneta d'acquisto originaria pagata per tutte le cose». Di nuovo: «Nello stato primitivo e incivile della società che precede l'accumulazione del capitale e l'appropriazione della terra, la proporzione tra le quantità di lavoro necessario per ottenere diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire qualche regola per scambiarli l'uno con l'altro. Se ad esempio tra un popolo di cacciatori per uccidere un castoro occorre doppio lavoro che per uccidere un cervo, un castoro dovrebbe naturalmente scambiarsi contro due cervi. È naturale che ciò che è normalmente il prodotto di due giorni o di due ore di lavoro debba valere il doppio di ciò che è normalmente il prodotto del lavoro di un giorno o di un'ora».

Che questa sia realmente la base del valore di scambio di ogni cosa, tranne quelle di cui l'attività umana non può aumentare la quantità, è teoria della massima importanza in economia politica; infatti non v'è fonte più prolifica di errori e di divergenze di opinioni delle vaghe idee che si riconnettono alla parola valore.

Se la quantità di lavoro impiegato nella produzione delle merci ne regola il valore di scambio, ogni aumento della quantità di lavoro deve accrescere il valore della merce cui viene applicato e ogni riduzione deve diminuirlo.

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Pagina 408

CAPITOLO XX
VALORE E RICCHEZZA:
LORO PROPRIETA CARATTERISTICHE



«Ogni uomo è ricco o povero — dice Adam Smith — nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita».

Essenzialmente, il valore differisce quindi dalla ricchezza, in quanto dipende non dall'abbondanza, ma dalla difficoltà o facilità della produzione. Il lavoro di un milione di uomini nelle manifatture produrrà sempre lo stesso valore, ma non produrrà sempre la stessa ricchezza. Con l'invenzione della macchina, con il progresso dell'abilità, con una migliore divisione del lavoro o con la scoperta di nuovi mercati dove si possono effettuare scambi più vantaggiosi, in un certo stadio della società, un milione di uomini può produrre una quantità di ricchezza, di «mezzi di sussistenza e di comodo e di piaceri» doppia o tripla di quella che potrebbe produrre in un altro stadio, ma essi per questo non ne aumenteranno il valore; perché il valore di ogni cosa aumenta o diminuisce in ragione della facilità o difficoltà di produrla, o, in altre parole, in proporzione alla quantità di lavoro impiegato nella sua produzione. Si supponga che con un dato capitale, il lavoro di un certo numero di uomini produca 1.000 paia di calze e che grazie all'invenzione di macchine lo stesso numero di uomini ne possa produrre 2.000 paia, o che continuino a produrne 1.000 paia e possano inoltre produrre 500 cappelli; il valore delle 2.000 paia di calze, o delle 1.000 paia di calze e 500 cappelli non sarà ne maggiore né minore di quello di 1.000 paia di calze prima dell'introduzione delle nuove macchine. Saranno infatti il prodotto della stessa quantità di lavoro. Ma il valore della massa complessiva delle merci sarà nondimeno diminuito; difatti, sebbene in seguito al progresso il valore dell'aumentata quantità prodotta sarà esattamente uguale a quello che avrebbe avuto la quantità minore che sarebbe stata prodotta in assenza di progresso, questo influisce anche sulla porzione delle merci che rimangono da consumare prodotte prima dell'introduzione delle nuove macchine ; il valore di quelle merci si ridurrà in quanto, per uguali quantità, scenderà al livello delle merci prodotte con tutti i vantaggi del progresso: e la società, nonostante l'aumento della quantità delle merci, nonostante l'aumento della sua ricchezza e dei suoi mezzi di godimento, avrà una minore quantità di valore. Aumentando continuamente la facilità di produrre, diminuiamo costantemente il valore di alcune merci prodotte prima, sebbene con questi stessi mezzi non soltanto aumentiamo la ricchezza nazionale, ma anche le capacità di produzione futura. Molti errori in economia politica derivano da errori a questo riguardo, dall'aver confuso l'aumento della ricchezza con l'aumento del valore, e da nozioni infondate relativamente a ciò che costituirebbe una misura tipo del valore. C'è chi considera la moneta come misura del valore e ritiene che una nazione diventi più ricca o più povera in proporzione alla maggiore o minore quantità di moneta contro cui si possono scambiare le merci di tutti i generi. Altri rappresentano la moneta come un mezzo molto conveniente a scopo di scambio, ma non come misura adeguata per stimare il valore delle cose; secondo costoro, la misura reale del valore è il grano e un paese è ricco o povero a seconda che le sue merci si scambino per una quantità maggiore o minore di grano. Altri ancora considerano un paese ricco o povero a seconda della quantità di lavoro che può acquistare. Ma perché l'oro, il grano, o il lavoro dovrebbero essere misura tipo del valore più del carbone o del ferro? — o più della stoffa, del sapone, delle candele e di altri mezzi di sussistenza del lavoratore? Perché, in breve, una merce, o l'insieme di tutte le merci, dovrebbe essere la misura, quando questa misura è essa stessa soggetta a fluttuazioni di valore? Il grano, come l'oro, può, a seconda della maggiore o minore facilità di produzione, variare del 10, 20 o 39 per cento relativamente ad altre cose; perché dovremmo sempre dire che sono queste altre cose che variano e non il grano? Rimane invariata soltanto quella merce la cui produzione richiede sempre lo stesso sacrificio di fatica e di lavoro. Di una merce siffatta non abbiamo conoscenza, ma possiamo ipoteticamente ragionarne e parlarne, come se ne sapessimo, e possiamo ampliare le nostre conoscenze in materia mostrando chiaramente l'assoluta inapplicabilità di tutte le misure che sinora sono state adottate. Ma supponendo che o l'una o l'altra di queste sia una corretta misura del valore, essa non sarebbe tuttavia una misura della ricchezza, perché la ricchezza non dipende dal valore. Un uomo è ricco o povero secondo l'abbondanza di beni di sussistenza e di lusso di cui può disporre; e comunque elevato o basso sia il valore di scambio di questi oggetti in termini di moneta, grano o lavoro, essi contribuiranno nello stesso modo alle soddisfazioni del loro possessore. È per la confusione tra le idee di valore e di ricchezza che è stato affermato che diminuendo la quantità delle merci, cioè dei mezzi di sussistenza, di comodo e di godimento della vita, si può aumentare la ricchezza. Se il valore fosse la misura della ricchezza, questo non si potrebbe negare, perché il valore delle merci aumenta in ragione della loro scarsità; ma se Adam Smith è nel giusto, se la ricchezza consiste nei mezzi di sussistenza e di godimento, allora la diminuzione della loro quantità non può far aumentare la ricchezza.

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