Copertina
Autore Giovanna Ricoveri
Titolo Beni comuni vs merci
EdizioneJaca Book, Milano, 2010, Di fronte e attraverso 951 , pag. 114, cop.fle., dim. 15x23x1 cm , Isbn 978-88-16-40951-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe beni comuni , economia politica , globalizzazione
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Indice


Ringraziamenti                                                 9

Introduzione
I BENI COMUNI SALVERANNO IL MONDO?                            11

Capitolo primo
DI CHE COSA STIAMO PARLANDO                                   17

I beni comuni: un caleidoscopio                               19
Beni comuni a geometria variabile                             29
Empedocle e i quattro elementi                                33
Madre Natura e i servizi ecosistemici                         39
La proprietà: comune, collettiva, pubblica, privata, statale  43
La comunità, ieri e oggi: un concetto controverso             45
La tragedia dei beni comuni?                                  48

Capitolo secondo
LA DELEGITTIMAZIONE DEI BENI COMUNI: UN EXCURSUS STORICO      51

La Rivoluzione industriale tra prima e seconda accumulazione
    originaria                                                54
Il riduzionismo scientifico e la «Morte della Natura»         60
La mano invisibile e l'homo oeconomicus                       64

Capitolo terzo
LE CONSEGUENZE: DISTRUZIONE DI RICCHEZZA A MEZZO DI MERCI     69

Premesse ed esiti della crisi: vincitori e vinti              72
Le nuove recinzioni al Nord e al Sud                          74
Colonialismo e neocolonialismo come politiche di recinzione   84
Il colonialismo sotto mentite spoglie: lo «sviluppo»          88
Il consenso tra menzogne e omologazione                       91

Capitolo quarto
TUTTO IL POTERE AI COMMONS                                    95

Finanziarizzazione: il cancro che divora i beni comuni        98
Il ritorno dei beni comuni: una proposta                     101
Il territorio e l'empowerment delle comunità                 103
La democrazia reale, la politica e l'ecologia politica       106

Bibliografia essenziale                                      111



 

 

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Pagina 11

Introduzione
I BENI COMUNI SALVERANNO IL MONDO?



Agli inizi del terzo millennio, le frontiere del profitto si sono spostate sui beni comuni e sui beni pubblici. Si tratta di un patrimonio consolidato di beni naturali, di infrastrutture e di servizi il cui valore è aumentato via via, grazie al lavoro, all'ingegno e al risparmio delle popolazioni locali – una ricchezza collettiva molto appetibile per le grandi multinazionali e per la finanza. Una riprova del fatto che i beni comuni non sono un retaggio del passato, né una realtà che riguarda solo i «poveri» nei paesi in ritardo di sviluppo del Sud globale, ma una realtà ambita dal capitale e dalla finanza.

Il concetto di beni comuni ha subìto nel tempo cambiamenti profondi: da una parte si è dilatato fino a diventare un termine di uso corrente per indicare i beni e servizi cui tutti dovrebbero avere accesso: cibo, acqua, farmaci, energia, salute, istruzione, spazio pubblico. Per affermare la natura collettiva di questi beni e servizi – molti dei quali considerati anche diritti umani – ne viene rivendicata la proprietà e gestione pubblica, e cioè dello Stato. L'assunto che pubblico e statale siano la stessa cosa, proprio della cultura giuridica dei paesi di tradizione giuridica napoleonica, comincia finalmente a essere messo in discussione: l'evidenza indica infatti che lo Stato non svolge più la funzione di terzietà rispetto alle imprese e ai cittadini, essendosi spostato dalla parte delle multinazionali, del profitto monopolistico e della finanza.

Il significato del concetto di beni comuni si è nello stesso tempo ristretto tanto da far passare in secondo piano i beni comuni naturali, ancora attuali in molte parti del Sud globale, dove un terzo della popolazione mondiale vive nelle campagne e nelle vicine foreste e trae il proprio sostentamento direttamente dal libero accesso alle risorse naturali di sussistenza. Nella cultura occidentale, estesasi anche nel Sud del mondo, è ormai radicata la convinzione che le comunità non esistono più ed è bene che sia così, perché esse rappresenterebbero un ostacolo alla modernizzazione. È caduto dunque sui beni comuni lo stesso anatema che ha marginalizzato e distrutto i contadini e l'agricoltura contadina agli inizi del secolo scorso, per far posto all'agricoltura industriale. I beni comuni e le comunità esistono invece anche nel Nord del mondo, in forme nuove all'interno dei movimenti ambientalisti e contadini, che non sono né percepite né riconosciute come tali dalla cultura dominante.

Il premio Nobel per l'economia, assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom – la studiosa statunitense dei beni comuni della University of Indiana –, è un segnale autorevole della vitalità e dell'attualità di questo modo di organizzazione sociale, produttiva e istituzionale. Il contributo del suo pensiero è così efficacemente sintetizzato da lei stessa:

Il tema centrale di questo studio è il modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in una situazione di interdipendenza possono auto-organizzarsi e autogovernarsi per ottenere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tutti tentati di sfruttare le risorse gratuitamente, evadere i contributi o comunque agire in modo opportunistico.

Affrontare il tema dei beni comuni «materiali naturali» oggi, nel pieno della globalizzazione neoliberista e della sua crisi, è facile e difficile allo stesso tempo: facile perché la crisi del capitalismo e degli assiomi, grazie ai quali quel sistema si è esteso al mondo intero negli ultimi 250 anni, favorisce «oggettivamente» la «riproposizione» riveduta e corretta dei beni comuni come modello di organizzazione sociale e culturale «altra» rispetto a quella della mano invisibile o scambio di equivalenti. Difficile perché íl dominio economico e culturale conquistato dal mercato capitalistico è penetrato a fondo in tutti gli aspetti della società, cancellando non solo la conoscenza di altri modi di pensare e operare, ma anche la percezione delle alternative possibili che, se prese in considerazione, aprirebbero molte altre strade. In questo modo, è stata legittimata l'abitudine a pensare e operare in termini di monocolture della mente:

Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversità e insieme la diversità stessa. La scomparsa della diversità fa scomparire le alternative e crea la sindrome della «mancanza di alternative». Troppo spesso, di questi tempi, lo sradicamento totale della natura, della tecnologia, della comunità e della civilizzazione intera viene giustificato dalla «mancanza di alternative». Le alternative ci sono, ma non sono prese in considerazione: farlo richiederebbe un diverso contesto, caratterizzato dalla diversità.

Il testo che segue si occupa esclusivamente dei beni comuni materiali naturali (quelli legati agli elementi vitali di Empedocle: aria, acqua, terra e fuoco), considerati qui prioritari dal punto di vista della costruzione di un'alternativa al dominio del mercato capitalistico rispetto a tutti gli altri beni comuni: immateriali, culturali, welfare e servizi pubblici locali. La tesi e la proposta del libro è che la difesa dei beni comuni (dove essi ancora esistono) e la loro riproposizione (dove sono stati cancellati) non è tanto o soltanto un problema di giustizia distributiva delle risorse, ma la risposta più robusta possibile alle forze distruttive del sistema: una risposta parziale, che tuttavia — nella fase attuale di crisi del modello dominante — può diventare un grimaldello per avviare la costruzione di una società e di uno sviluppo alternativi a quelli delle merci e del mercato.

Affinché questa proposta possa essere presa in considerazione, molte cose dovrebbero cambiare, prima fra tutte il modus operandi della politica. La politica dovrebbe essere intesa anche come «ecologia politica», nel senso di messa in conto a monte dei limiti fisici delle risorse naturali da cui dipende la ricchezza delle nazioni e di una valutazione ex ante di quali potranno essere gli effetti (ecologici e sociali) delle sue scelte. Dovrebbe inoltre diventare orizzontale, instaurando un sistema di interazione permanente tra amministratori e amministrati, governanti e governati, nelle forme adeguate alla scala territoriale delle scelte — da quelle locali fino a quelle internazionali. Occorre riconoscere infatti che nella globalizzazione la democrazia rappresentativa non è più in grado di assolvere da sola questa funzione, e finisce per dare una delega in bianco ai governanti.

Un'altra ragione, che sta alla base della proposta avanzata nel testo, riguarda il significato attuale dei diritti umani individuali che, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, hanno sostituito i diritti comuni, anziché integrare i primi con i secondi. La conquista dei diritti umani, che ha segnato un passaggio fondamentale nella vicenda dei popoli, incontra oggi forti limiti a causa della rinascita dei nazionalismi e del divampare delle guerre per il petrolio e per le risorse, millantate spesso come guerre di religione. È lecito dunque chiedersi che valore concreto abbiano le «Carte dei diritti» approvate o proposte nelle diverse sedi internazionali, incluso quella europea, nell'attuale fase storica caratterizzata dall' esclusione sociale, come sostiene molto autorevolmente il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos.

Forse è arrivato il momento in cui le esperienze di riappropriazione delle risorse naturali da parte delle comunità locali è più importante, perché «capace di futuro».

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Pagina 17

Capitolo primo
DI CHE COSA STIAMO PARLANDO



Partendo dalla definizione «impossibile» dei beni comuni, si passano in rassegna in questo capitolo gli elementi costitutivi dei beni comuni «storici» (acqua, terra, foreste, pascoli, pesca), legati ai beni naturali di sussistenza. Si riportano poi alcuni casi di beni comuni storici; taluni ancora in essere sia al Nord che al Sud. Si spiega subito dopo che i beni comuni naturali sono legati agli elementi vitali di Empedocle – aria, acqua, terra, fuoco-energia – e che anche per questo sono importanti e tali da ridefinire la sussistenza in termini ampi di rapporto con l'energia, il clima e l'atmosfera, la scarsità idrica e la terra, il territorio, l'agricoltura e i servizi degli ecosistemi. Segue una riflessione sulla proprietà privata, che almeno in relazione ai beni comuni naturali è sicuramente un furto, e sulla comunità in quanto soggetto naturale e multiforme dei beni comuni: proprietario e gestore, anzi, «usufruttuario».


I beni comuni: un caleidoscopio

Non è possibile, e sarebbe comunque sbagliato, definire in modo preciso e univoco i beni comuni, la cui forza e ragion d'essere è la specificità di luogo e la flessibilità con cui le comunità riescono ad adattarsi al variare delle situazioni. È possibile tuttavia descriverne i tratti distintivi, e cercare di render conto — in questo modo — del perché essi possono diventare utili, se riproposti in forme adeguate alla realtà attuale, come antidoto alla crisi del modello di sviluppo dominante. Riproporre i beni comuni anche nei paesi del Nord, nelle forme nuove adeguate alla realtà contemporanea, è infatti un problema diverso dal riappropriarsi dei beni comuni, che è l'obiettivo storico delle comunità del Sud, la cui vita dipende direttamente dall'accesso ad acqua, terra, e foreste. Ancora oggi nei paesi del Sud del mondo un terzo della popolazione mondiale vive grazie alle economie locali di sussistenza, e cioè grazie alla possibilità di accedere ai beni comuni. Queste popolazioni o comunità locali usano terra, foreste e acqua senza averne la proprietà, ma esercitando forme efficaci e partecipate di sovranità. Configurano infatti un tipo di organizzazione istituzionale, sociale e produttiva alternativa al mercato capitalistico.

I beni comuni sono risorse collettive condivise, amministrate e autogestite dalle comunità locali, che incarnano un sistema di relazioni sociali fondato sulla cooperazione e sulla dipendenza reciproca. Non sempre però sono risorse in senso proprio, e cioè beni fisici o materiali — un campo da coltivare, un pascolo, un corso d'acqua, una zona di pesca. Sono anche diritti d'uso comuni o collettivi sui frutti derivanti da un bene naturale — i common rights della common law anglosassone, gli usi civici nella tradizione giuridica italiana —; le «servitù» che gravano sui beni naturali, grazie ai quali le comunità ricavano, o integrano, i loro mezzi di sussistenza. Un punto da chiarire riguarda il termine comunità, che può indicare sia il gruppo di persone che gestiscono insieme il bene naturale o godono del diritto d'uso sui suoi frutti; oppure l'autorità di villaggio che è proprietaria delle terre fertili da distribuire tra le famiglie del villaggio, affinché le usino per la propria sussistenza. Questo avviene ancora oggi in molti paesi tra cui l'Etiopia; che è uno dei casi più noti in letteratura, nella maggior parte dei paesi dell'Africa subsahariana, in tutti i paesi dell'Asia sudorientale incluso l'India e la Cina, e nei paesi andini dell'America Latina, fortemente caratterizzati dalle comunità di villaggio, spesso indigene.

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Capitolo quarto
TUTTO IL POTERE AI COMMONS



Il titolo di questo capitolo conclusivo non va preso alla lettera, non solo perché lo slogan che imita, «tutto il potere ai Soviet», non portò fortuna ai Soviet; ma perché la proposta che di seguito si avanza non è dare la sovranità esclusiva sulle risorse naturali alle comunità locali, ma recuperare la logica di solidarietà e di cooperazione che caratterizza l'istituto dei beni comuni. Nel merito si affrontano brevemente quattro questioni: la finanziarizzazione dell'economia, che alza il livello della sfida ai beni comuni come modo di produzione e di organizzazione sociale; la riproposizione o ritorno dei beni comuni anche nei paesi industriali del Nord in questa fase storica; l'empowerment delle «nuove» comunità, come soggetti dotati della sovranità per co-decidere sull'uso delle risorse naturali insieme agli altri soggetti già dotati di questo potere; il superamento della dicotomia Stato-Mercato e pubblico-privato, e la costruzione di uno spazio entro cui i beni comuni possano contribuire a ridare legittimazione allo Stato, all'intervento pubblico e alla politica. L'ecologia politica è uno strumento per ricostruire quello spazio.


Finanziarizzazione: il cancro che divora i beni comuni

Di fronte alla crisi globale apertasi nell'autunno del 2008, analisti e ricercatori si sono chiesti se il capitalismo sarà in grado di rinnovarsi e superare la crisi, oppure se sia giunto al capolinea. Le proposte avanzate da quanti pensano che il sistema sarà in grado di riorganizzarsi si articolano in estrema sintesi intorno a due assi: la riconversione ecologica dell'economia, una green economy a risparmio energetico o economia a bassa intensità di carbonio, che riprenda l'ispirazione del New Deal rooseveltiano degli anni Trenta; una nuova e più stringente regolamentazione dei mercati finanziari, una Bretton Woods rivista alla luce dei tempi.

La proposta della green economy — un modo di produzione più sobrio, che risparmi le risorse naturali e induca un modello di consumo più frugale — esprime un punto di necessità e di verità, ed è pertanto utile «a prescindere». La Natura è il più grande produttore al mondo di beni e servizi, da usare con parsimonia senza distruggerli: attraverso processi ecologici complessi, la Natura fornisce le risorse naturali che sono alla base di tutti i beni e servizi prodotti dall'uomo: servizi ecosistemici che nessun laboratorio potrebbe mai produrre, quali la rigenerazione delle risorse idriche, i microrganismi che fertilizzano il suolo, l'impollinazione che consente alle piante di riprodursi, e molti altri processi di circolazione della materia. La green economy è dunque uno strumento utile, anche come base per un progetto di riconversione ecologica delle economie industriali, nei paesi dove esiste un apparato tecnologico e infrastrutturale complesso e articolato, che fa parte della ricchezza sociale di quel paese e che non deve essere appropriato dal capitale, ma destinato a fini socialmente utili.

La proposta di nuove regole da imporre alla finanza appare invece velleitaria in una fase come questa, dominata dalla finanziarizzazione che ha imposto le sue finalità speculative a tutti i settori dell'economia — industria, agricoltura e servizi —. Schematizzando, si può dire infatti che l'economia si articola su tre livelli: quello della finanza, che produce «ricchezza virtuale», fatta di debiti che crescono su se stessi; quello «reale», o economia produttiva, che non può crescere tanto da coprire i debiti, se i debiti sono fuori controllo; e il livello «reale-reale», cioè l'economia dell'energia e dei flussi di materia, che cresce appena o non cresce affatto: gli stock di carbone e petrolio diminuiscono, così come è limitata la capacità degli ecosistemi di assorbire anidride carbonica.

Il fine dell'economia dovrebbe essere il benessere e la felicità, la buona occupazione, non la speculazione. Ma è lecito dubitare che questi obiettivi possano essere raggiunti nel regno della finanza, e che bastino regole più stringenti per contenerne la logica distruttiva. L'economia di carta è un cancro che ha contagiato tutti i settori dell'economia e della società, facendo fare un ulteriore passo avanti alla privatizzazione delle risorse e dei beni comuni: favorisce il malaffare, il traffico della droga e la camorra. Marcia a vele spiegate sia nell'edilizia e nelle infrastrutture sia nei servizi, dove la finanziarizzazione è legittimata dal WTO: nato al fine preciso di aumentare il commercio internazionale, è stato pertanto accompagnato da uno degli accordi collegati — il GATS, l'accordo sui servizi — che del WTO è la logica conseguenza, il braccio armato. La finanza è entrata con determinazione — recentemente — nel settore agroalimentare, dove gli investimenti finanziari si sono moltiplicati di 20 volte dal 2003, con ripercussioni pesantissime sui prezzi; dove la terra fertile è diventata — con il fenomeno del land grabbing — un importante settore di investimento internazionale, che condiziona a monte le scelte degli operatori del settore: la Cina ad esempio si sta comprando mezza Africa.

Il caso più consolidato è quello dell'industria manifatturiera, che è ormai parte integrante della finanza. Ciò spiega perché una crisi apparentemente finanziaria come quella attuale si sia subito trasformata in crisi verticale dell'occupazione in generale e di quella industriale in particolare. Il nesso tra questi due elementi non sta tanto nella spiegazione che viene normalmente addotta, secondo cui le banche – colpite o minacciate dalla crisi – hanno ridotto il credito alle imprese, che sono così state costrette a ridurre il livello di attività e i posti di lavoro. Il nesso vero sta nella trasformazione della natura dell'impresa, che la finanza ha imposto all'industria da quando alcune decine di anni fa gli investitori istituzionali – fondi comuni, fondi pensione e assicurazioni – si sono impadroniti di oltre il 50% del capitale delle società quotate in Borsa, in media a livello globale.

Ciò ha loro permesso di imporre all'industria una nuova concezione dell'impresa, coerente con i fini speculativi che le sono propri: l'impresa non è più un'organizzazione di parti interdipendenti sia in senso economico che sociale, che tocca gli interessi di una pluralità di soggetti: azionisti, dipendenti, fornitori, comunità locali (oggi ridefinite territorio), verso i quali sa di essere «responsabile». È diventata invece un insieme di attività (cose materiali che si producono ma anche assets finanziari e futures) connesse temporaneamente tra di loro da un contratto; è diventata dunque «irresponsabile». Ciascuna componente dell'impresa – un impianto, un ufficio vendite, un'impresa di pulizie – è costantemente monitorata per verificarne il rendimento finanziario, che deve risultare eguale o superiore a quello dei suoi concorrenti sul mercato globale, pena la ristrutturazione, vendita o chiusura, con effetti comunque negativi sull'occupazione. I costi della disoccupazione così creata vengono addossati allo Stato del paese di insediamento dell'unità produttiva ristrutturata o chiusa: la solita socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni, spinta agli estremi.

Un altro aspetto della finanziarizzazione dell'industria manifatturiera è l'esternalizzazione della produzione a scala mondiale. L'integrazione verticale del processo produttivo è stata sostituita dal coordinamento orizzontale, affidato a un gruppo ristretto di persone che controllano centinaia o migliaia di produttori sparsi per il mondo. Prima l'impresa mirava a produrre al suo interno tutte le parti necessarie al prodotto finito; oggi, non vorrebbe produrre più niente, ma solo coordinare l'attività dei piccoli produttori sparsi in tutti i continenti, dei quali si può liberare in qualsiasi momento, anche per posta elettronica. I vantaggi per l'impresa sono consistenti in termini di profitti; i costi lo sono altrettanto sia per i lavoratori (aumento della precarietà, bassi salari, perdita della pensione e dell'assistenza sanitaria, debolezza del sindacato) sia per i cittadini, visto che le perdite sono socializzate.


Il ritorno dei beni comuni: una proposta

La sfida è oggettivamente complessa, soprattutto perché nella società dei consumi di massa è passata la convinzione che le banche e la finanza siano necessarie, anzi, indispensabili. La ribellione popolare che normalmente esplode contro le misure di austerità decretate dai governi per ripagare i debiti contratti per far fronte ai dissesti finanziari delle banche e della finanza – come è successo nel 2010 nei paesi europei denominati Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna – non arriva mai al nocciolo della questione: dire con chiarezza che l'economia finanziaria è un'economia «parallela» e parassitaria, dove non si crea ricchezza ma la si distrugge. È lo strumento con cui le classi dominanti vivono a scapito delle classi subalterne, sulle cui spalle viene scaricato il prezzo della speculazione: così facendo, esse vivono alla grande, mentre la maggioranza della popolazione fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. D'altra parte, è vero che la denuncia di questa economia parassitaria richiederebbe molto coraggio da parte dei governi, a meno che non fossero fortemente sostenuti da un'opinione pubblica consapevole e determinata.

L'economia finanziaria è la negazione «estrema» dell'economia dei beni comuni, intesi non solo come beni naturali di sussistenza, ma come un sistema istituzionale, sociale e produttivo alternativo a quello delle merci. Un paradigma «altro» rispetto al mercato, che privilegia il locale e non il globale; la solidarietà e non la concorrenza; i consumi collettivi, e non quelli individuali; le energie rinnovabili decentrate e non quelle fossili controllate da una decina di multinazionali, localizzate in una decina di paesi; l'agricoltura contadina e di prossimità e i cicli corti, non quella industriale che distrugge la fertilità dei suoli, aumenta la fame nel mondo, crea insicurezza alimentare e minaccia la biodiversità; il controllo idrogeologico del territorio; la rigenerazione dei cicli vitali della natura; i saperi e le culture locali.

Per rispondere a questa sfida e impedire che le ragioni del capitale travolgano la società contemporanea, occorre rispondere al capitale sul suo stesso terreno, rilanciando l'esperienza dei beni comuni e delle comunità, dando voce alle popolazioni che le multinazionali espropriano e sfruttano. Occorrerebbe in buona sostanza mettere in campo risposte altrettanto radicali anche se non esaustive, una delle quali è sicuramente il ritorno dei beni comuni legati alle risorse naturali, incluse quelle minerarie ed energetiche, come chiedono decine di organizzazioni della società civile dei paesi del Sud tra cui Indonesia, Filippine, Sri Lanka, Nigeria, Ghana, Sudafrica ed Ecuador. Il ritorno dei beni comuni di cui si parla in questa sede è altra cosa dalla riappropriazione dei beni comuni, che esprime la rivendicazione delle popolazioni locali – in particolare nel Sud del mondo – per arginare il saccheggio delle risorse naturali dalle quali dipende la loro sopravvivenza.

Le associazioni e i movimenti che lottano in difesa delle risorse e della sostenibilità locale esprimono le istanze provenienti dal territorio e possono essere considerate come le nuove comunità. Sono i soggetti che già esistono e operano in tutti i paesi del mondo al Nord e al Sud, pur essendo privi di soggettività giuridica e di sovranità sulle risorse. E questo è vero dovunque, con poche eccezioni: Bolivia ed Ecuador, dove la nuova Carta costituzionale riconosce sia i diritti della Natura sia la sovranità delle comunità indigene, e i paesi ancora caratterizzati dalle comunità di villaggio come l'India. Altrove, le nuove comunità locali sono messe peggio di quelle «storiche», che ricevevano questa investitura dalla common law o dal diritto consuetudinario. Hanno pertanto vita difficile perché osteggiate in tutti i modi possibili: con l'indifferenza dei pubblici poteri, con il taglio dei fondi loro riservati, con l'esproprio per pubblica utilità delle risorse o dello spazio su cui operano, e soprattutto con il mancato riconoscimento della loro sovranità a decidere o co-decidere su quelle risorse o su quello spazio.

Occorre chiarire che la proposta di nuove comunità qui avanzata dovrebbe essere «problematizzata» per compensare le differenze naturali, storiche e geopolitiche dei territori e per tener conto del fatto che la natura umana e le comunità non sono sempre «buone». Il ritorno al territorio, in risposta alla globalizzazione e alla finanziarizzazione, non darà infatti i frutti sperati se le nuove comunità non saranno cosmopolite, aperte, solidali, capaci di valorizzare le specificità locali come leva per la valorizzazione delle differenze. È compito della politica fare in modo che ciò avvenga, ma non è detto che la buona politica esista sempre e dovunque: sarebbe però sbagliato – e soprattutto privo di efficacia – entrare nei dettagli operativi e redistributivi della proposta, prima che si sia consolidata la sua logica generale, tendente a limitare l'attuale centralizzazione del potere economico e di quello politico.


Il territorio e l'empowerment delle comunità

Per essere ancora più precisi, si avanza qui la proposta di rilanciare – riveduta e corretta – un'esperienza storica di organizzazione produttiva, sociale e istituzionale ancora vitale, capace di esprimere un'alternativa al mercato, basata sui rapporti concreti tra le persone e non su quelli astratti del mercato, che assicuri l'efficienza economica e la sostenibilità sociale ed ecologica delle risorse naturali, e favorisca nel contempo l' empowerment delle comunità quanto a decidere su quel che le riguarda. Il termine empowerment, coniato dal movimento femminista e dagli studi di genere, indica la capacità di un soggetto di contare, perché ha acquisito la consapevolezza della sua identità e forza, ottenendone il riconoscimento da parte degli altri soggetti. In estrema sintesi, la tesi che si avanza è che sia necessario e possibile rilanciare i beni comuni naturali come antidoto alla mercificazione e alla distruzione del mondo e quindi alla crisi globale del capitalismo in questa fase storica.

La ragione principale di questa proposta sta nella convinzione che il recupero dei diritti delle comunità sui beni comuni e la riappropriazione da parte delle comunità di risorse naturali come l'acqua e le fonti energetiche (rinnovabili e non rinnovabili) e delle risorse minerarie — i beni demaniali di proprietà statale, di cui gli Stati concedono lo «sfruttamento» alle multinazionali, spesso senza limiti né condizioni — configurano un nuovo paradigma di società organizzata a livello locale e partecipazione democratica, integrativo e in parte sostitutivo di quello del mercato. L'agricoltura organica di prossimità, i cicli corti, la riduzione dei costi energetici dei trasporti, la gestione comunitaria dell'acqua, e più in generale il controllo democratico del territorio e delle risorse locali da parte delle comunità, possono fare la differenza e rilegittimare l'intervento pubblico, oggi ridotto alla copertura di interessi privati, distruttivi della natura e spesso dominati dalla corruzione e dalle mafie, nazionali e internazionali. A condizione che le moderne comunità siano aperte verso l'esterno e cosmopolite, non arroccate in difesa di interessi locali corporativi: che siano capaci di perseguire vantaggi collettivi permanenti vincendo la tentazione di agire in modo opportunistico, come dice Elinor Ostrom nel passo riportato nella Introduzione.

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