Copertina
Autore Nerea Riesco
Titolo La ragazza e l'inquisitore
EdizioneGarzanti, Milano, 2008 , pag. 440, cop.ril.sov., dim. 165x222x37mm , Isbn 978-88-11-68615-6
OriginaleArs Magica
EdizioneRandom House Mondadori S.A., -, 2008
TraduttoreStefania Cherchi
LettorePiergiorgio Siena, 2008
Classe narrativa spagnola , storia medievale , storia criminale , paesi: Spagna
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Indice

        A mo' di prologo                                         11

I.      Di come pregare affinchè le streghe non strappino
        i bambini dai loro letti e di come metterle in fuga      25

II.     Di come confezionare potenti talismani di protezione,
        di come rendersi invisibili                              35

III.    Di come fermare un attacco d'asma,
        di come purificare il latte appena munto,
        di come curare le distorsioni,
        di come guarire catarri ed erisipele                     50

IV.     Di come evitare che le streghe anneghino i neonati,
        di come tenerle fuori di casa                            70

V.      Di come acquisire poteri stregoneschi,
        di come preparare un unguento per gli occhi,
        di come impedire all'Inguma di saltarci addosso
                nel sonno                                        85

VI.     Di come raccogliere la mandragora senza rischiare
                di morirne,
        di come preparare un rimedio per annullare un
                maleficio tossico                               104

VII.    Di come evitare che la luna ci rubi la luce degli occhi,
        di come impedire alle streghe di aggredirci nel sonno,
        di come far sì che i nostri nemici vedano in sogno
                centinaia di diavoli                            118

VIII.   Di come preparare un unguento per volare,
        di come far sì che la gente parli bene di noi
                quando non ci siamo,
        di come sapere se si è una strega                       137

IX.     Di come fare un incantesimo di protezione prima
                di un viaggio,
        di come esorcizzare un uomo-asino,
        di come trasformarsi temporaneamente in animale         154

X.      Di come liberarsi dei sogni voluttuosi,
        di come sapere prima del parto se il nascituro
                sarà maschio o femmina,
        di come guarire il viso dall'acne e dar colore
                alle guance,
        di come eliminare per sempre i peli del corpo,
        di come ottenere che gli spiriti dei bosco ci
                rendano più saggi                               176

XI.     Di come preparare un unguento per impedire a una donna
                di innamorarsi di un altro,
        di come far litigare gli amanti                         192

XII.    Di come mitigare gli effetti negativi di un veleno
                e accrescere la saggezza                        208

XIII    Di come scrivere e decodificare messaggi segreti,
        di come rovinare il raccolto dei vicini,
        di come raggirare le streghe affinchè facciano
                per noi i lavori di casa                        223

XIV.    Di come far sì che tutto ciò che si trova in una
                stanza sembri nero, di come far sì che una
                stanza sembri piena di serpenti                 236

XV.     Di come fare un incantesimo di incombustibilità         254

XVI.    Di come riconoscere una strega dal marchio del diavolo  271

XVII.   Di come avere capelli lucenti,
        di come preparare una polvere per sbiancare i denti,
        di come confezionare un filtro d'amore                  282

XVIII.  Di come ammaliare una persona                           298

XIX.    Di come preparare un filtro per disinnamorare
                e un altro filtro per dimenticare un amore      312

XX.     Di come eliminare le verruche                           326

XXI.    Di come implorare santa Barbara affinchè ci protegga
                dalla tormenta                                  337

XXII.   Di come offrire i denti da latte di un bimbo
                alle streghe affinchè non si offendano          345

XXIII.  Di come curare il singhiozzo,
        di come evitare che i geni del bosco ci gettino
                il malocchio                                    361

XXIV.   Di come viaggiare per mare senza pericolo,
        di come evitare che un fulmine ti schianti in due,
        di come curare la stitichezza e i problemi renali,
        di come sconfiggere la paura e le ossessioni,
        di come creare stelle artificiali                       376

XXV.    Di come le streghe trasmettano i loro poteri            395

        Epilogo                                                 416
        Qualche dato da tenere a mente                          435
        Ringraziamenti                                          437
        Bibliografia                                            439


 

 

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A mo' di prologo



Plaza de Santiago, Logrono, domenica 7 novembre 1610



Undici persone condannate a morte per stregoneria venivano condotte al patibolo in una fila penosa e vacillante che avanzava tra due ali di folla esaltata. Cinque di loro - Maria de Echalecu, Estevanfa de Petrisancena, Juanes de Odia, Juanes de Echegui e Maria de Zozaya - avevano lasciato il mondo dei vivi già da qualche tempo, ma il Sant'Uffizio non aveva permesso all'insignificante dettaglio della morte di interferire con i suoi piani, e la loro effigie lignea a grandezza naturale, opera di un certo Cosme de Arellano, stava per ricevere la purificazione del fuoco insieme agli altri. Cosme si era stupito molto che l'Inquisizione lo avesse scelto per quell'incarico: più volte infatti gli uomini di chiesa avevano rifiutato le sue sculture perché l'esaltato realismo con cui rappresentavano lo strazio mortale dell'Addolorata o i segni delle frustate sul corpo dell'Ecce Homo provocava anche nelle beghine meno dotate d'immaginazione mancamenti e brutti sogni. Per questo Cosme era stato nervoso al momento di accettare l'incarico. Ma era la sua grande opportunità. Finalmente tutti i concittadini, più una folla di forestieri giunti per l'occasione, avrebbero potuto ammirare la sua opera. Nemmeno nei suoi sogni più favolosi aveva osato immaginare di poter avere, un giorno, un pubblico così nutrito. Si era messo al lavoro con tutta l'anima. Si era recato anche nelle segrete, e aveva interrogato il carceriere e i compagni di cella dei deceduti: voleva sapere che occhi avessero da vivi, come fossero i loro capelli, la corporatura, l'espressione che avevano al momento del trapasso... Non voleva che le sue statue fossero semplici simulacri, e più volte l'alba l'aveva sorpreso intento a conferire alle figure intagliate tutto il tragico realismo che l'occasione sembrava richiedere. Aveva scolpito espressioni contrite, teste scarmigliate, occhi fuori dalle orbite che fissavano il vuoto e mani con dita ricurve come artigli levate al ciclo in invasati gesti di supplica, fino a ottenere un effetto spaventoso che faceva pensare alle anime in pena nel giorno di Ognissanti. Cosme era entusiasta di questo raccapricciante risultato, ma con suo grande dispiacere aveva dovuto tenere le sue sculture nascoste sotto un telo per tutto il tempo che erano rimaste in bottega perché sua moglie, quando vagabondava sovrappensiero nella casa in penombra e all'improvviso si trovava davanti lo spettacolo di quel legno contorto, sentiva che il cuore le si stringeva in petto come un chicco d'uva passa, gettava un grido di terrore e lasciava cadere ciò che aveva in mano con un fracasso di pentole e tegami. Nonostante ciò dimostrasse l'alta qualità del suo lavoro, Cosme aveva provato una punta di delusione nell'apprendere che sarebbe stato un pittore professionista a occuparsi della policromia, in modo da evitare almeno la chiassosità della sua tavolozza, famosa soprattutto per i suoi sanguinolenti vermigli e per i suoi indaci rabbiosi. Il Sant'Uffizio voleva che i rei deceduti fossero rappresentati con severità, ma senza cadere nel ridicolo. Per il suo lavoro Cosme aveva guadagnato in tutto 142 reales.

La necessità di scolpire delle effigi da bruciare al posto di cinque dei condannati era stata imputata a una misteriosa epidemia di febbre accompagnata da dolori addominali che, qualche mese prima dell'auto da fé, aveva colpito le segrete della Santa Inquisizione portandosi via molti dei detenuti. Un'infermità che dava anche delirio e agitazione, rendendo impossibili gli interrogatori. Di tanto in tanto il malessere sembrava concedere una tregua; un mattino i prigionieri si svegliavano improvvisamente lucidi, con le gote colorite e un vigoroso appetito; ma poi, non appena gli inquisitori andavano nella loro cella, si verificava una ricaduta, i detenuti deperivano rapidamente, ricominciavano a comportarsi in modo strano, presentavano vuoti di memoria e febbre, e tutti i progetti inquisìtoriali concepiti per la giornata andavano a farsi benedire. Particolare che aveva insospettito non poco i funzionali del tribunale.

Il giorno dell'auto da fé, l'effigie che apriva la fila dei condannati rappresentava la vedova Maria de Echalecu, lavandaia, di quarantanni, originaria di Urdax. Fino alla morte del marito, Maria era stata canterina e svagata. Quando nessuno la vedeva le piaceva staccare dalla parete scaglie di calce e infilarsele in bocca con ansia infantile per scioglierle sulla lingua. Ingeriva anche la terra, e si mangiava le unghie, sempre di nascosto. Aveva vissuto tutta la vita nella stessa casa, una fattoria appartenente alla sua famiglia e che lei, in quanto primogenita, aveva ereditato, secondo la tradizione ancestrale dei navarresi. La sua vicina era da sempre anche la sua migliore amica, quasi una sorella: le due avevano attraversato insieme le stupefacenti scoperte dell'infanzia e il tempo della prima mestruazione, avevano affrontato con commossa rassegnazione la morte dei rispettivi genitori sostenendosi l'un l'altra e avevano goduto insieme dei momenti buoni. Le due donne si erano amate come il cielo ama il sole, come gli alberi amano la terra. Ma i vicini avevano guardato con diffidenza questo loro affetto, poco disposti a credere alle amicizie incondizionate. Per far tacere le malelingue entrambe avevano finito con l'accettare un marito. I due uomini, che pure in un primo tempo sembravano andare d'accordo, a poco a poco avevano cominciato a guardarsi con diffidenza e a sentirsi minacciati dall'amicizia delle mogli, fino a proibir loro di vedersi. Le liti erano cessate solo con la morte del marito di Maria; ma poi il marito dell'amica l'aveva accusata davanti al Sant'Uffizio di aver gettato il malochio sulle sue vacche perché dessero latte acido e di aver provocato la grandine che gli aveva rovinato il raccolto di quell'anno.

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Pagina 70

IV
Di come evitare che le streghe anneghino i neonati, di come tenerle fuori di casa



Il tribunale inquisitoriale di Logrono aveva sede in plaza de Santiago. Era un edificio solido, a pianta rettangolare, fatto di pietroni squadrati color del burro che attorno a porte e finestre perdevano le loro precise linee rette per avvitarsi, slegarsi e attorcigliarsi in forme impossibili che movimentavano un po' la severità dell'insieme. Per completare la decorazione della facciata i costruttori vi avevano collocato le statue di un'infinità di santi, discepoli, angeli e arcangeli fra i quali spiccava un san Michele, comandante delle armate celesti, con la sua spada minacciosa. Quei personaggi se ne stavano appostati tra i fregi ornamentali allo scopo di sconfiggere il male, rappresentato per simboli in tutti i suoi abominevoli aspetti: con una sola occhiata al palazzo della Santa Inquisizione, anche il popolo analfabeta poteva ripassare tutta quanta la storia sacra.

Affacciandosi da fuori all'immenso portone d'ingresso si potevano vedere i porticati del patio interno e l'edera rampicante aggrappata alle colonne con una sinuosità svergognata che non poteva non richiamare alla mente il movimento serpentino del male così com'è rappresentato nella Genesi, il misfatto di Eva con la famosa mela, le tentazioni della carne e la debolezza femminile, colpevole di aver messo nei guai l'intero genere umano.

Qualche giorno prima alla sede del tribunale era stata recapitata una colossale fontana di pietra, dono del Vaticano, che un gruppo di operai, con molta fatica e assai scarsi risultati, stava ancora lottando per collocare nel centro del patio. Nella lettera di accompagnamento, scritta di proprio pugno dal Santo Padre, si assicurava ai destinatari del dono che la canora fluidità dell'acqua cristallina di quella fontana avrebbe allietato la quiete delle stanze inquisitoriali, rinfrescandole nei caldi pomeriggi estivi; ma per il momento, nonostante gli sforzi profusi dal personale, dalle bocche degli stupefatti pesci di pietra era schizzata fuori solo una pappetta fangosa color cioccolato piena di lombrichi, che aveva spaventato le rondini e sporcato le pareti del patio. Gli inquisitori Valle e Becerra stavano appunto discutendo con gli operai le cause del pessimo funzionamento della fontana quando, del tutto inatteso, si presentò Rodrigo Calderón.

Il segretario del plenipotenziario del re arrivò solo, con un rullio di zoccoli che riecheggiò per tutto il patio del palazzo inquisitoriale, e scese di sella con agilità da saltimbanco prima ancora che il cavallo fosse fermo, ostentando la sua eccellente forma fisica. Il palazzo lo conosceva come le sue tasche; quindi entrò senza alcuna formalità, sfilandosi con disinvoltura i guanti di pelle nera e incamminandosi a grandi falcate verso la sala delle udienze, che si apriva alla destra della fontana. In quel preciso istante nelle viscere del sistema di tubature si produsse un rumore di colica intestinale che esplose in un nuovo scaracchio fangoso, inzaccherando l'ospite da capo a piedi. Agli inquisitori Valle e Becerra quasi si fermò il cuore dallo spavento quando i domestici andarono ad avvisarli dell'incidente.

«Per l'amor di Dio, eccellenza, come mai non ci avete avvisato della vostra visita?» dissero, mentre cercavano di ripulirgli il viso dal fango scoprendo la sua espressione irritata.

Le buone e le male lingue giuravano che Calderón era di umili natali, e che la cosa lo mandava su tutte le furie. Originario di Valladolid, era stato paggio del padre del duca di Lerma, e grazie a questo primo rapporto di lavoro aveva saputo conquistarsi la fiducia della famiglia; finché il duca stesso non aveva deciso di nominarlo segretario della camera del re in segno di apprezzamento. Poi aveva conquistato uno a uno altri gradini della scala gerarchica, diventando infine recettore dei memoriali e delle lettere indirizzate al re o al suo plenipotenziario. In questo nuovo incarico pareva mandasse avanti e mediasse profittevolmente le pratiche di chi era in grado di compensarlo con maggior generosità, e correva voce che proprio a ciò fosse dovuto il lievitare del suo patrimonio. Il duca di Lerma, da uomo intelligente qual era, si faceva rappresentare da lui alle udienze in cui le petizioni venivano respinte. Molte persone dunque avevano cominciato a nutrire una pericolosa animosità nei suoi confronti, e ben presto Rodrigo Calderón era diventato famoso come il più intrigante, orgoglioso e antipatico di tutti i cortigiani. A un certo punto, grazie a un matrimonio di convenienza, aveva assunto il titolo di marchese di Sieteiglesias. Perfino Quevedo si faceva pubblicamente beffe di lui e del suo desiderio di diventare nobile, dicendo a chiunque avesse voglia di ascoltarlo che il segretario del duca di Lerma raccontava un mucchio di frottole sulle proprie origini. Rodrigo Calderón infatti giurava che, da alcuni documenti ritrovati nelle Fiandre, risultava senza possibilità di dubbio che la sua nascita fosse dovuta a un'avventura carnale di don Fernando Alvarez, il vecchio duca d'Alba: evidentemente preferiva rovinare la reputazione di sua madre piuttosto che accettare di essere il figlio legittimo di un semplice capitano delle truppe spagnole di stanza nelle Fiandre.

Gli inquisitori Valle e Becerra ci misero un bel po' a ripulirlo dal fango e a fargli passare il cattivo umore; quindi lo presero gentilmente per il gomito e lo allontanarono dalla fontana, che continuava a brontolare minacciosamente.

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Pagina 137

VIII
Di come preparare un unguento per volare,
di come far sì che la gente parli bene di noi
quando non ci siamo, di come sapere se si è una strega



Ormai la maggioranza degli abitanti di Santesteban aveva cominciato a guardare con sospetto ai bizzarri metodi di Salazar; quando poi lo videro entrare come una furia, interrompendo la veglia di Juana de Sauri, tutti si convinsero definitivamente che quell'uomo non era del tutto in sé. La scena si svolse davanti a tutto il villaggio riunito. Il corpo della defunta era stato esposto in casa di sua figlia, e una processione di amici, parenti e vicini, nonché di molte persone che quando era in vita non l'avevano quasi conosciuta, si era presentata a renderle omaggio. Gli uomini facevano capannello fuori dalla porta con facce di circostanza, e bisbigliavano fra loro del fatto che ormai non si sentivano più in grado di proteggere le loro madri, mogli e figlie da un simile pericolo. A un certo punto uno propose di organizzare delle ronde notturne: gruppi di uomini giovani e robusti armati di torce, randelli e picconi, che si impegnassero a tenere lontane le persone malvagie e a vendicare la povera Juana. Così, anche se forse non sarebbero riusciti ad acchiappare le streghe, si sarebbero sentiti un po' meno inetti e avrebbero sfogato in parte la loro collera. Tutti si dissero d'accordo.

Le donne, vestite di nero dalla testa ai piedi, sembravano uno stormo di corvi. Avevano messo delle sedie attorno alla bara di pino, con quattro ceri agli angoli, e se ne stavano lì per ore e ore, un po' recitando il rosario, un po' piangendo, perché molte di loro approfittavano della veglia funebre per sfogare dispiaceri personali che nulla avevano a che fare con la morte di Juana o con la minaccia delle streghe. La figlia della defunta, invece, era fredda e silenziosa, con lo sguardo perso nel vuoto, e se ne stava rigida sulla sua sedia senza né piangere né sospirare; non reagì nemmeno quando il parroco Borrego Solano andò a farle le condoglianze, la prese per il braccio costringendola ad alzarsi e l'accompagnò sulla porta a prendere una boccata d'aria, cercando di farla rilassare un po' e mormorandole all'orecchio che sua madre si trovava ormai alla presenza del Signore. Per fortuna erano entrambi fuori quando Salazar fece irruzione nella stanza trascinandosi dietro il povero Inigo, e non videro l'inquisitore afferrare la mano della morta, confrontarla con una piccola croce di legno, e poi girare sui tacchi e andarsene con l'espressione più soddisfatta del mondo.

Dopo tutti questi avvenimenti la povera Juana fu innalzata quasi alla dignità di martire, e dal giorno in cui fu sepolta le sue qualità non fecero che moltiplicarsi: i vicini dimenticarono completamente le umane debolezze che l'avevano caratterizzata in vita, e ben presto le venne tributato un vero e proprio culto. I compaesani, non contenti di portare il lutto stretto, per un'intera settimana addobbarono di crespo nero porte e balconi in segno di duolo cittadino, si fecero degli scapolari con brandelli dei suoi vestiti e le accesero dei ceri supplicandola di intercedere per loro, poveri mortali, costretti a restare ancora su questa terra esposti alla collera di Satana.

Salazar doveva affrontare ogni giorno un parroco esaltato e una popolazione inquieta, la quale ormai non credeva più che lui e i suoi metodi potessero liberarla dal malefico influsso del demonio. In paese si mormorava che l'inquisitore era di tutt'altra pasta del suo collega che aveva visitato la regione un paio d'anni prima e che indubbiamente corrispondeva più di lui all'immagine sanguinaria che la gente si era fatta del lavoro inquisitoriale. A un certo punto, senza consultarsi con nessuno, gli abitanti del villaggio cominciarono a cacciar via dalle proprie case tutti i forestieri venuti per chiedere la grazia dell'editto, nella convinzione che fra loro si nascondessero i responsabili sia della morte di Juana sia di tutte le altre disgrazie che avevano funestato il circondario. Del decreto regio che imponeva di accoglierli, ormai, non importava più nulla a nessuno. E così streghe e stregoni pentiti dovettero accamparsi fuori dal villaggio, e qualche giorno dopo furono costretti a cercare riparo nelle grotte perché, mentre aspettavano l'atto ufficiale di riconciliazione, arrivarono le piogge. La cosa finì con l'esasperare ancor più la popolazione, che nel buio della notte vedeva brillare tra gli alberi le lucine tremolanti dei falò e fantasticava sull' akelarre che le streghe stavano celebrando a pochi passi dall'abitato. Agitati com'erano, i vicini cominciarono ad accumulare croci, immaginette e reliquie, e la notte tornarono a portare i bambini in chiesa, finendo con lo sconvolgere del tutto il fragile equilibrio del parroco Borrego Solano. «È solo una perdita di tempo voler sapere com'è morta Juana de Sauri», disse frate Domingo a Salazar. «È morta, e questo fatto nessuno lo può cambiare. Faremmo meglio a cercare di catturare le streghe che l'hanno assassinata, e che devono avere l'anima più sporca della coda puzzolente del demonio. Perché sul fatto che siano state le streghe non possono esserci dubbi. Di fatto la gente le ha viste, e tutti da queste parti hanno sentito raccontare vicende non molto diverse. Io stesso riconosco le loro pratiche, so di cosa sono capaci.»

Frate Domingo de Sardo, infatti, non era del tutto nuovo al tema delle sette sataniche, avendo già accompagnato l'inquisitore Valle nella sua precedente visita in quelle regioni e avendo predicato contro le streghe per tutto l'inverno davanti a chiunque avesse i nervi abbastanza saldi da sopportare le sue terrificanti descrizioni. Il francescano non era un tipo molto amichevole. Perdeva facilmente le staffe, e per controllarsi si sottoponeva alla tirannia quotidiana di mille piccole cerimonie che eseguiva in gran segreto: non poteva passare sotto un portone senza mormorare un «amen», non andava a letto se prima non aveva spruzzato d'acqua benedetta lenzuola e coperte e non masticava mai il pane prima di ingoiarlo perché, benedetto o no, lo riteneva sempre e comunque il corpo di Cristo.

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Pagina 298

XVIII
Di come ammaliare una persona



Don Rodrigo Calderón non era abituato a essere contraddetto. Aveva cominciato come paggio e ora la gente, quando lo incontrava nei corridoi del palazzo reale, doveva inchinarsi al suo cospetto, sventolare i cappelli adorni di piume e chiamarlo signor marchese. La vita gli sorrideva, era un uomo fortunato. Per questo, ascoltando a un tavolo d'osteria il racconto di quei quattro ridicoli individui, borbottava fra sé bestemmie incomprensibili. Non era molto bravo ad accettare il fallimento. Aveva istruito lui stesso la giovane Catalina perché recitasse davanti a Salazar una pantomima ricca di rituali diabolici e sette sataniche che avrebbe fatto rabbrividire chiunque, e quei quattro incompetenti avevano sbagliato tutto, spingendo gli abitanti di Elizondo a organizzare una battuta di caccia che aveva rischiato di finire in un bagno di sangue.

Alzò lo sguardo e incrociò quello del ragazzo dall'occhio biancastro: aveva metà del viso coperta da una crosta scura e purulenta, conseguenza dello sfortunato scontro con un tizzone ardente il giorno della rissa. Il ragazzo gli sorrise, lui fece una smorfia di disgusto.

«Ditemi esattamente cosa avete lasciato laggiù quando siete scappati.» Calderón parlava molto lentamente, nella speranza di farsi capire meglio.

«Ecco, vedete, signore, alcune carte di nessuna importanza...» balbettò l'uomo più anziano, «qualche mappa, la bisaccia che avevamo rubato al novizio, il tubetto con la polvere che ci avevate dato per addormentare Salazar...»

«Tutto quanto!» lo interruppe bruscamente Calderón, sferrando sul tavolo un pugno terribile che fece accorrere il proprietario della locanda. I quattro sussultarono. «Non siete riusciti a prendere la lettera di Juana e ora avete perso tutto quanto! Siete un branco di incapaci, buoni a nulla!»

«Ma forse sua eccellenza Salazar non le ha nemmeno viste, quelle carte», osò interromperlo l'uomo con la barba. «Magari il vento le ha fatte volare via... c'era una gran confusione. Forse sono andate distrutte.»

«Pregate Iddio che le cose siano andate effettivamente così, perché da quei documenti potrebbero risalire fino al Patrono o a me, non lo capite?» E poi, mormorando fra sé: «Ma cosa vuoi mai che capiscano, questi idioti?».

Calderón rimase a lungo in silenzio, meditando e accarezzandosi il mento. Ormai era tardi per trovare un'altra banda cui affidare l'incarico. Bisognava accontentarsi di quegli idioti, e pregare che strada facendo diventassero un po' più svegli.

«D'ora in poi dovrete fare più attenzione», disse, rassegnato. «Ormai Salazar vi ha visti in faccia, soprattutto Catalina, che quindi non dovrà più mostrarsi.» La ragazza lo guardava svogliata. «Se ci scoprono siamo perduti. Il Patrono non dovrà sapere niente di tutto ciò. E ora ascoltatemi bene: stavolta non voglio errori né sorprese dell'ultimo minuto.»

Così dicendo Calderón tese loro un altro tubetto di vetro pieno di polvere ocra; l'uomo con la barba fece per prenderlo, ma lui tirò indietro la mano e lo afferrò per i risvolti della giacchetta, tirandolo verso di sé. Gli parlò fissandolo negli occhi, e cercando di dare alla sua frase il tono del massimo rigore.

«Il medico dice che stavolta ci vorrà una dose maggiore di quella che avete dato a Salazar: dovrete versargli in bocca tutto il contenuto del tubetto. L'uomo deve morire entro questa settimana.» E Calderón li guardò uno per uno, senza troppa speranza. «Avete capito?» Tutti annuirono.

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Pagina 435

Qualche dato da tenere a mente



Papa Gregorio XI creò il Tribunale della Santa Inquisizione nell'anno 1231. Domenicani e francescani divennero il braccio armato dell'organizzazione, nata per ricondurre sulla retta via tutti coloro che si allontanavano dalle regole stabilite dalla chiesa cattolica.

L'Inquisizione spagnola non si sottomise, come quella di altri paesi, alla giurisdizione diretta di Roma, ma ebbe un suo inquisitore generale designato dal re di Spagna. Divenne così uno strumento dello stato che serviva solo lo stato, e i religiosi che vi lavoravano erano funzionari pubblici a tutti gli effetti. L'Inquisizione spagnola non castigava: si limitava a decidere quale castigo fosse da applicarsi e a consegnare i condannati al braccio secolare.

Sul rogo morirono migliaia di persone. Il reato di stregoneria era una preoccupazione seria in tutta Europa, e furono soprattutto le donne a pagarne le conseguenze. Contrariamente a ciò che generalmente si crede, l'Inquisizione non era particolarmente interessata alle streghe: si occupava soprattutto di eretici e di convertiti ebrei e, più tardi, musulmani. Ciononostante domenica 7 novembre 1610, nella città di Logrono, si celebrò quello che sarebbe passato alla storia come «l'auto da fé delle streghe»: undici condannati, originari dei villaggi di Zugarramurdi e Urdax, subirono la pena capitale per aver avuto rapporti con il demonio.

Ancor oggi, camminando per le vie di Zugarramurdi, il viaggiatore ne avverte il carattere di paese frontaliero e osserva incantato le sue case, che sembrano uscite da un libro di fiabe; ma basta avere un minimo d'interesse e di voglia di ascoltare e subito torna a galla la storia di quei famosi compaesani che, qualche secolo fa, il Sant'Uffizio fece giustiziare. Qualcuno può addirittura indicarci dove abitavano, perché alcune di quelle vecchie case sono ancora in piedi.

Le grotte che circondano Zugarramurdi e Urdax non hanno perso nulla della loro inquietante bellezza, e ancora oggi, un paio di volte l'anno, la gente vi si reca per celebrare la magica simbologia di cui la regione è ricca. Il sabato più vicino alla notte di San Giovanni, nella grotta principale, si tiene la gran festa delle streghe; e il 18 agosto, ultimo giorno delle solennità patronali, vi ha luogo la festa del maialino arrosto, rallegrata da un concerto di musica celtica particolarmente prestigioso.

Le date, le descrizioni di luoghi e i particolari storici citati in questo libro sono veri, così come le formule magiche, gli scongiuri e i sortilegi, che a quei tempi erano di uso comune; molti sono tuttora utilizzati, come lascito di una tradizione antichissima della quale non si è persa memoria, anche se nessuno si chiede più da dove venga.

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