Copertina
Autore Jeremy Rifkin
Titolo L'era dell'accesso
SottotitoloLa rivoluzione della new economy
EdizioneMondadori, Milano, 2000, Saggi , pag. 405, dim. 150x224x40 mm , Isbn 978-88-04-47803-4
OriginaleThe Age of Access [2000]
TraduttorePaolo Canton
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe sociologia , economia , comunicazione , lavoro
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Indice


    Parte prima

    LA PROSSIMA FRONTIERA DEL CAPITALISMO

  5 I    Entrare nell'era dell'accesso

    Fra due mondi, 11 - Lo scontro fra
    cultura ed economia, 15 - Proteiformi
    e proletari, 17

 22 II   Dai mercati alle reti

    L'economia connessa, 25 - Il modello
    organizzativo hollywoodiano, 32

 41 III  Un'economia priva di peso

    La contrazione dello spazio
    immobiliare, 42 - Scorte
    «just-in-time», 44 - La
    dematerializzazione del denaro, 48 -
    La fine del risparmio, 51 -
    Un'esistenza presa a prestito, 56 -
    Proprietà in out-sourcing, 61 -
    Capitale intangibile, 69 - La mente
    domina la materia, 74

 78 IV   Monopolizzare le idee

    Accesso in franchising, 79 -
    Il DNA in leasing, 88

101 V    Tutto è servizio

    Ascesa e declino della proprietà
    materiale, 105 - La nascita dell'
    economia dei servizi, 113 - La
    trasformazione dei beni in servizi,
    117 - La fine delle vendite, 125 - I
    nuovi fornitori di servizi, 127 -
    Regalare i beni per vendere i servizi,
    128

131 VI   I rapporti umani come merce

    Il cliente è il mercato, 132 - Dalla
    prospettiva di produzione a quella di
    marketing, 138 - Nuovi tipi di
    comunità, 147

154 VII  UL'accesso come modo di vita

    Comunità cintate, 155 - Affittare uno
    stile di vita, 166 - Comunità in
    multiproprietà, 170 - Proprietà
    permanente e proprietà temporanea, 174

    Parte seconda

    RECINTARE I TERRITORI COMUNI
    DELLA CULTURA

183 VIII La nuova cultura del capitalismo

    Comunicazione e cultura, 185 - La
    crescita della produzione culturale,
    187 - La più antica industria
    culturale, 195 - La cultura dei centri
    commerciali, 205 ~ Dalla cultura all'
    intrattenimento, 214 - Ogni business è
    show business, 219

225 IX   Lo sfruttamento del patrimonio
         culturale

    Commercializzare la cultura, 229 - I
    nuovi guardiani, 237 - Intermediari
    culturali, 243

249 X    La fase postmodema

    La modernità, 251 - La postmodernità,
    254 - Mutevoli forme di coscienza, 263
    - La maschera proteiforme, 267 -
    Riprogrammare la mente, 271 - I nuovi
    seguaci di Tespi, 277 -Tutto il mondo
    è un palcoscenico, 284

290 XI   Connessi e non

    I nuovi leader del mondo delle
    imprese, 291 - La fine dello
    Stato-nazione, 297 - Fuori dai
    cancelli elettronici, 305 - La destra
    e la sinistra dell'accesso, 309

313 XII  Verso un'ecologia della cultura e
         del capitalismo

    Una nuova teoria dei diritti, 314 -
    Due tipi di accesso, 320 - Far
    risorgere la cultura, 328 - Una nuova
    missione per la scuola, 336 - La
    politicizzazione del terzo settore,
    339 - La dialettica di un ethos del
    gioco, 345

355 Note
381 Bibliografia
399 Ringraziamenti
401 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 5

I
Entrare nell'era dell'accesso
[...]

Nella nuova era, i mercati stanno cedendo il passo alle reti, e la proprietà è progressivamente sostituita dall'accesso. Imprese e consumatori cominciano ad abbandonare quello che è il fulcro della vita economica moderna: lo scambio su un mercato di titoli di proprietà fra compratori e venditori. Questo non significa che, nell'era dell'accesso prossima ventura, la proprietà privata sia destinata a scomparire. Piuttosto, è vero il contrario: continuerà a esistere, ma è molto improbabile che continui a essere scambiata su un mercato. Nella new economy, il fornitore mantiene la proprietà di un bene, che noleggia o affitta o è disposto a cedere in uso temporaneo a fronte del pagamento di una tariffa, di un abbonamento, di una tassa di iscrizione. Lo scambio di proprietà fra compratori e venditori - l'aspetto più importante del moderno sistema di mercato - cede il passo a un accesso temporaneo che viene negoziato fra client e server operanti in una relazione di rete. Il mercato sopravvive, ma è destinato a giocare un ruolo sempre meno rilevante nelle attività umane.

In un'economia delle reti, è più facile che sia negoziato l'accesso a una proprietà fisica o intellettuale, piuttosto che venga scambiata la proprietà stessa. Così, nel processo economico, la proprietà del capitale fisico - un tempo fondamento della civiltà industriale - diventa sempre meno rilevante. Anzi, è probabile che sia considerata dalle aziende un mero costo operativo più che un patrimonio; qualcosa da prendere a prestito più che da possedere. È il capitale intellettuale la forza dominante, l'elemento più ambito della nuova era.

[...]

Fra venticinque anni, è probabile che un numero sempre maggiore di imprese e di consumatori percepirà l'idea stessa di proprietà come un limite, qualcosa di obsoleto, fuori moda. In parole semplici, la proprietà è un'istituzione che si adatta con ritmi troppo lenti alla velocità travolgente della cultura del nanosecondo. Essa si fonda sull'idea che il possesso di un bene materiale per un prolungato periodo di tempo rappresenti, in sé, un valore; che «avere», «possedere», «accumulare» siano concetti positivi. Oggi, però, la rapidità dell'innovazione tecnologica e il ritmo stordente dell'attività economica mettono in discussione la nozione di possesso. In un mondo di produzioni personalizzate, di continue innovazioni e aggiornamenti costanti, di prodotti con un ciclo di vita sempre più breve, tutto invecchia molto in fretta: in un'economia la cui unica costante è il cambiamento, avere, possedere, accumulare ha sempre meno senso.

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Pagina 13

Il viaggio del capitalismo, cominciato con la mercificazione dello spazio e della materia, terminerà con la mercificazione del tempo e della durata della vita.

La vendita di cultura, sotto forma di attività a pagamento, sta rapidamente conducendo alla creazione di un sistema in cui relazioni umane basate su scambi economici si sostituiscono ai tradizionali rapporti sociali. Immaginate un mondo in cui quasi ogni attività, al di fuori del ri- stretto ambito familiare, è un'esperienza a pagamento; un mondo in cui gli obblighi reciproci e le reciproche aspettative - mediate da sentimenti di fiducia, empatia e solidarietà - sono sostituiti da rapporti contrattuali quali, per esempio, associazioni a pagamento, abbonamenti, biglietti d'ingresso, ecc.

Provate a pensare a quanta parte della nostra vita quotidiana, dei nostri rapporti con altri esseri umani è già strettamente connessa a relazioni di natura economica. Sempre più spesso acquistiamo il tempo degli altri, la loro considerazione, il loro affetto, la loro simpatia e la loro attenzione. Acquistiamo apprendimento e divertimento, assistenza e cura, e tutto ciò che sta nel mezzo: perfino lo scorrere del tempo sull'orologio. La vita sta diventando sempre più mercificata e le barriere che separano comunicazione, condivisione e commercio sono sempre più labili.

[...]

Negli anni Ottanta e Novanta, la deregulation delle funzioni e dei servizi pubblici era praticamente una parola d'ordine. In meno di vent'anni, il mercato globale ha assorbito con successo nel dominio economico una larga parte di ciò che, in passato, era compreso nella sfera statale, inclusi i trasporti pubblici, i servizi di pubblica utilità e le telecomunicazioni. Oggi, l'economia ha rivolto la propria attenzione sull'ultima sfera dell'attività umana rimasta indipendente: la cultura. Gli eventi collettivi, i movimenti sociali, l'impegno civile, le arti, gli sport, i giochi divengono con sempre maggiore frequenza parte della sfera economica. La grande questione che si porrà nei prossimi anni è se la civiltà riuscirà a sopravvivere in una situazione in cui la sfera culturale e quella statale sono ridotte ai minimi termini e l'insieme delle relazioni economiche svolge il ruolo di principale mediatore della vita umana.

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Pagina 16

L'assorbimento della sfera culturale in quella economica segnala un cambiamento radicale nelle relazioni umane, con conseguenze devastanti per la civiltà del futuro. Dagli albori della storia a oggi, la cultura ha sempre avuto la priorità sul mercato. Le persone creano comunità, costruiscono elaborati codici di comportamento, trasmettono significati e valori condivisi, e costruiscono rapporti di fiducia in forma di capitale sociale. Solo se la fiducia e lo scambio tra gli individui sono ben sviluppati le comunità si dedicano al commercio. Se ne deduce che la sfera economica è sempre stata derivata - e dipendente - da quella culturale. Questo perché la cultura è la sorgente da cui provengono le norme di comportamento condivise: sono tali norme che, a loro volta, creano un ambiente affidabile, dove commercio e scambi possono avere luogo. Quando la sfera economica comincia a divorare la sfera culturale - come vedremo più approfonditamente nella seconda parte del libro - le fondamenta sociali che hanno reso possibili e incentivato le relazioni commerciali rischiano di essere distrutte.

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Pagina 41

III
Un'economia priva di peso


L'economia, almeno in termini fisici, si sta contraendo. Se l'era industriale si caratterizzava per l'accumulazione di capitale fisico e di proprietà, la nueva era privilegia forme intangibili di potere, raccolte in pacchetti di informazione e di capitale intellettuale. I beni materiali, ormai è un fatto assodato, si stanno progressivamente smaterializzando.

Nell'ottobre 1996, Alan Greenspan, governatore del Federal Reserve Coard, notava che un radicale cambiamento stava interessando l'economia americana e quella mondiale: la progressiva perdita di peso. Nuovi e più leggeri materiali da costruzione, miniaturizzazione, sostituzione del contenuto fisico con l'informazione e ruolo crescente dei servizi sono tutti fattori che contribuiscono simultaneamente alla perdita di fisicità di quanto l'economia produce. Greenspan osservava che, oggi, «la massa di quanto prodotto dall'economia è di poco superiore a mezzo secolo fa, mentre il valore aggiunto, depurato dell'inflazione, è più che triplicato».

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Pagina 53

Il risparmio privato (uno dei parametri chiave in un regime fondato sulla proprietà privata) sta progressivamente scomparendo, dato che milioni di consumatori, grazie alle carte di credito, spendono più di quanto gradagnino. Oggi, secondo il Federal Reserve Board, nelle famiglie americane le uscite superano le entrate: per la prima volta, dopo la Grande Depressione, il risparmio nazionale ha valore negativo. Si corsideri che, nel 1944, al netto di tasse, l'americano medio risparmiava il 25,5% del proprio reddito; nei primi anni Novanta, il tasso di risparmio era già sceso al 6% del reddito netto; nell'ottobre 1998, l'americano medio spendeva lo 0,2% in più di quanto guadagnasse. Al contrario, la famiglia giapponese media, al netto di tasse, attualmente risparmia il 30% del proprio reddito.

[...]

Nonostante l'esplosione dell'indebitamento, dalla fine degli anni Settanta la qualità della vita della famiglia media americana non è aumentata di molto. Tuttavia, sembra che gli americani gi sentano perfettamente a proprio agio continuando a spendere più di quanto guadagnino, come dimostra il fatto che, mentre il Federal Reserve Board registrava per il 1999 un tasso di risparmio privato negativo, le ricerche condotte dalla University of Michigan e dal Conference Board continuavano a evidenziare un elevato livello di fiducia del consumatore.

Una parte di questa fiducia, osservano gli economisti, può essere attribuita ai guadagni record fatti registrare dal mercato azionario che, nonostante il risparmio negativo, hanno dato agli americani, la sensazione di un maggiore benessere. Eppure, afferma Lester Thurow, ex preside della Sloane School of Management, presso il MIT, dobbiamo rammentare che il 90% dei guadagni realizzati dal mercato azionario è finito nelle tasche del 10% delle famiglie più ricche, mentre il 60% delle famiglie più povere non ha tratto alcun beneficio dal rialzo del corso delle azioni, dal momento che non ne possiede. Ovviamente, devono essere altri i fattori che determinano la coesistenza di un elevato livello di fiducia con un saggio di risparmio negativo.

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Pagina 56

Un'esistenza presa a prestito

La smaterializzazìone della proprietà e del denaro, la corsa alla riduzione dello spazio di lavoro, delle scorte e degli immobili, e la scomparsa del risparmio privato sono accompagnate da un cambiamento ancora più drastico. Il capitale fisico, la forma di proprietà più importante in un sistema capitalistico, la pietra su cui è stato innalzato l'intero edificio, in molti settori viene eclissato o relegato in posizione secondaria.

Quando pensiamo al capitale fisico, ci vengono in mente utensili, macchine, attrezzature, stabilimenti: l'infrastruttura che ci mette nelle condizioni di produrre beni e di somministrare servizi. Una nuova generazione di consulenti e di economisti, però, sta consigliando alle aziende di evitare, nei limiti del possibile, l'accumulazione di capitale fisico.

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Pagina 64

Nella nuova economia delle reti, quello che in realtà viene venduto sono immagini e idee. La forma materiale che queste idee e queste immagini assumono sta diventando sempre più irrilevante ai fini del processo produttivo. Se il mercato dell'era industriale era caratterizzato dallo scambio di oggetti, la new economy è caratterizzata dall'accesso a concetti, contenuti in forma materiale.

Nike è, forse, il miglior esempio di come funzionino le nuove regole commerciali. Per natura e scopo, Nike è un'impresa virtuale: probabilmente il pubblico pensa all'azienda come a un produttore di calzature sportive; in realtà, si tratta di uno studio di progettazione e design con una fonnula sofisticata di marketing e un meccanismo di distribuzione. Sebbene sia il più grande produttore di calzature sportive, Nike non possiede fabbriche, macchinari, attrezzature o stabilimenti; ha coltivato, invece, nel Sudest asiatico un intricato reticolo di fornitori (chiamati «partner produttivi») che fabbricano centinaia di modelli di scarpe, oltre a tutto il resto. Nike ha anche appaltato a terzi gran parte delle proprie attività di marketing e di pubblicità: anzi, il grande successo del marchio, negli anni Novanta, è in buona misura attribuibile alle innovativi campagne pubblicitarie create da Weiden & Kennedy, l'agenzia di pubblicità che ha aiutato Nike a diventare la scarpa sportiva più desiderata del mondo.

Nike vende un concetto, quindi appalta la fabbricazione della forma materiale di tale concetto a una miriade di anonime industrie dell'Asia sudorientale. Questo nuovo tipo di approccio reticolare all'attività di impresa, con il suo affidarsi a produttori anonimi per realizzare il prodotto fisico, può avere, come allarmante corollario, lo sfruttamento dei lavoratori.

Nike è solo uno fra i numerosi «produttori virtuali» che hanno dovuto affrontare denunce e processi, boicottaggi e condanne pubbliche per essere stati coinvolti nello sfruttamento indiscriminato della forza lavoro. Recentemente, le proteste dei lavoratori di alcuni appaltatori asiatici hanno portato alla ribalta della cronaca questioni scottanti come abusi fisici e sessuali ai danni dei dipendenti, condizioni di lavoro inumane, ambienti di lavoro a rischio, salari da fame e sistemi illegali nell'assunzione del personale. Sono più di 450.000 i lavoratori asiatici impegnati nella produzione delle celeberrime Nike. Nel 1998, nei soli Stati Uniti, l'azienda ha fatturato più di 4 miliardi di dollari, ma i dipendenti delle ditte appaltatrici, in Vietnam, guadagnano cifre comprese fra 1,60 e 2,25 dollari al giorno: meno di quanto si deve spendere per procurarsi un pasto decente. In alcune di queste fabbriche, ragazzine di tredici anni lavoravano sessanta ore alla settimana, e molte di loro dovevano subire molestie sessuali. Purtroppo, spesso, le deplorevoli condizioni di lavoro nelle aziende appaltatrici non riescono a ottenere l'attenzione del pubblico, anche perché le reti dei fornitori sono strettamente sorvegliate e nascoste.

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Pagina 67

Questo genere di accordi di outsourcing ha un'apparenza abbastanza innocua ma, spesso, maschera intenti inconfessabili. L'appalto di funzioni aziendali a terzi è stato spesso utilizzato dal management delle aziende per indebolire le organizzazioni sindacali. Affidando i servizi a imprese non sindacalizzate, o utilizzando manodopera di appaltatori non sindacalizzati per eseguire funzioni al proprio interno, le aziende possono evitare i vincoli posti dalla contrattazione collettiva. Negli Stati Uniti e in alcuni altri paesi del mondo, buona parte della perdita di potere delle organizzazioni sindacali è attribuibile al fenomeno dell'outsourcing.

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Pagina 74

La mente domina la materia

L'impegno teso a riformulare i metodi contabili è solo un riflesso dei grandi cambiamenti che si stanno compiendo nel corso della transizione da un'epoca caratterizzata dalla potenza fisica a un'altra fondata sulle capacità mentali. L'era industriale si caratterizzava come un mondo di forza bruta, corpi e sudore; un'epoca in cui l'uomo pensava e costruiva macchine gigantesche per scoprire, estrarre e trasformare la materia, e farne bei materiali; un'epoca in cui i risultati dell'attività umana venivano misurati in altezza, peso e densità, nella convinzione che «grande» fosse anche «bello». Nell'era industriale, l'uomo ha colato cemento su ogni spazio disponibile della crosta terrestre, per creare un gigantesco pavimento fra se stesso e il mondo naturale; ha tracciato autostrade nei grandi spazi; ha costruito fino all'altezza delle nuvole e oltre la linea dell'orizzonte, trasformando intere aree naturali in proprietà lottizzate. L'odore pungente della combustione dei materiali fossili, le nubi degli scarichi industriali che oscurano il cielo e il suono inarrestabile delle macchine che sibilano, martellano e ronzano incessantemente sono i simboli del gigantesco esperimento faustiano con cui l'uomo ha creduto di poter trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza. Egli ha poi ricostruito un simulacro di natura attraverso la giustapposizione di minuscoli frammenti di proprietà privata, trasformando ogni individuo in un dio minore, padre e padrone del proprio Eden in formato tascabile, stipato all'inverosimile di totem e simulacri della creazione primigenia.

In un'era di proprietà e di mercati intrisi di valori materiali, essere onnipresenti era ciò che rendeva l'uomo simile a Dio; ed essere in grado di espandere la propria presenza fisica, impadronendosi quanto più possibile dell'esistenza materica, era ciò a cui tutti tendevano. Si trattava davvero, come cantava Madonna, di un «mondo materiale».

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Pagina 76

I bilanci sociali raccontano la storia. La proprietà di beni materiali sta diventando meno importante e contribuisce sempre meno alla creazione di valore; la proprietà intellettuale, invece, è la nuova ricchezza. Nella nuova era, la mente domina la materia. Prodotti più leggeri, miniaturizzazione, contrazione degli spazi di lavoro, scorte just-in-time, leasing e outsourcing sono le prove della svalutazione di una visione materiale del mondo che ha posto l'accento sulla fisicità. Questo, però, non deve creare l'illusione che egoismo, avidità e sfruttamento stiano per scomparire: anzi, l'età dell'accesso rischia più che mai di nascere sotto il segno dello sfruttamento. Nel mondo di oggi, controllare le idee dà più potere del controllo sullo spazio e sul capitale fisico: la disponibilità della comunità finanziaria a investire nel capitale intellettuale nella sua forma più pura, a colpi di centinaia di miliardi di dollari, testimonia il cambiamento delle priorità del sistema capitalistico, la cui identità troppo a lungo è stata vincolata al capitale fisico.

L'aumento dell'importanza delle idee nella sfera economica rivela una terribile minaccia: quando il pensiero diventa una merce tanto richiesta, cosa accade alle idee che, pur essendo importanti, non sono economicamente attraenti? Che spazio rimane per le visioni, le opinioni, le nozioni e i concetti non economicamente ortodossi, in una civiltà in cui la gente sempre più si affida alla sfera economica per attingere le idee a cui ispirare la propria vita? In una società in cui tutte le idee sono privatizzate, in forma di capitale intellettuale controllato da aziende globali, che effetti si produrranno sulla coscienza collettiva e sul futuro del dibattito sociale?

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Pagina 101

V
Tutto è servizio

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Pagina 109

Locke credeva che la proprietà privata fosse un diritto naturale, non qualcosa che l'autorità della Chiesa o dello Stato potessero conferire come privilegio, condizionato all'esecuzione concordata di obbligazioni sociali. Il filosofo affermava che ogni uomo crea il proprio patrimonio aggiungendo alla materia bruta il proprio lavoro e trasformandola così in oggetti di valore. Locke riconosce che, nello stato di natura, la terra e tutte le sue creature sono condivise fra gli uomini, ma aggiunge immediatamente che, a sua volta, «ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessuno altro che lui». Locke continuava, asserendo che «il lavoro del suo corpo e l'opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua». Stando in questo modo le cose, concludeva Locke, «poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri». E, a proposito di quanta proprietà un individuo possa reclamare a sé, dice: «Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua».

La teoria lockiana del diritto naturale alla proprietà divenne popolarissima fra la nuova generazione di agricoltori indipendenti, mercanti, bottegai e piccoli capitalisti che stavano trasformando la vita inglese e strappando il paese alle vestigia del potere feudale. Ma con la teoria del diritto naturale i suoi trattati offrivano più di una semplice giustificazione alla proprietà: Locke elevava il lavoro dell'uomo e glorificava l'accumulazione in quanto massime espressioni dell'esistenza. Diversamente dagli uomini di Chiesa del Medioevo, che lo consideravano un obbligo da eseguire per necessità, Locke vedeva nel lavoro un'occasione che ogni uomo poteva sfruttare. A sua volta, la proprietà diventava il segno del trionfo di ogni individuo sul mondo. Lo spostamento dalle relazioni funzionali ai rapporti di proprietà mutò la struttura delle relazioni fra gli uomini, contribuendo a creare l'uomo moderno - con il suo senso di identità e il suo sogno di un regno personale - e le nuove istituzioni, come lo Stato nazionale e le forme costituzionali di governo.

Mentre John Locke rifletteva sui modi con cui l'uomo creava la proprietà, Adam Smith cominciava a interessarsi ai sistemi con cui questa veniva scambiata sul mercato.

[...]

Smith focalizzò gran parte della sua attenzione sull'economia dello scambio della proprietà. Affermò che una mano invisibile governa il mercato, definendo nei minimi dettagli la vita economica. La mano invisibile era paragonata al pendolo di un orologio, che regolava con meticolosità la domanda e l'offerta, il lavoro, l'energia e il capitale, garantendo automaticamente l'equilibrio fra produzione e consumo delle risorse della terra. Se non fosse stata condizionata dall'intervento del governo, la mano invisibile avrebbe rappresentato un meccanismo efficiente di scambio continuo di proprietà fra venditori e compratori.

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Pagina 131

VI
I rapporti umani come merce


Quello che per qualcuno può essere un'utopia, per altri è un incubo. Provate a immaginare di svegliarvi, una mattina, e di scoprire che ogni cosa che vi riguarda è a pagamento, la vostra vita è diventata un'esperienza di natura esclusivamente commerciale.

La caratteristica distintiva del capitalismo moderno è la progressiva acquisizione di molteplici ambiti della vita umana nella sfera economica. La terra, il lavoro, le funzioni produttive e le attività sociali, un tempo incentrate sulla casa, sono stati assorbiti dal mercato e trasformati in merci. Ma, finché i rapporti di scambio si configuravano come transazioni discrete e sporadiche fra venditori e compratori, il processo di trasformazione in merce era limitato nel tempo e nello spazio alll'atto della negoziazione e dei trasferimento del bene o al momento della somministrazione del servizio. Tutti gli altri momenti non erano occupati dal mercato né soggetti a considerazioni economiche. Con l'emergere dell'economia del ciberspazio, le reti si stanno appropriando del tempo non ancora soggetto al mercato, inserendolo nell'orbita dell'economia e coinvolgendo istituzioni e individui in una «commercializzazione» a tutto campo.

L'era dell'accesso si definisce, soprattutto, attraverso il crescente asservimento delle esperienze alla sfera economica.

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Pagina 138

Dalla prospettiva di produzione a quella di marketing

Lo spostamento dell'attenzione dalla fabbricazione e dalla vendita di prodotti alla creazione e al consolidamento di relazioni economiche a lungo termine pone la prospettiva del marketing al centro della vita economica. L'imperativo di produzione, che nell'era industriale ha regnato sovrano, è considerato con sempre maggiore frequenza una funzione accessoria del marketing. Quando perfino i beni si trasformano in piattaforme per gestire servizi, e i servizi diventano il motore trainante dell'economia globale, stabilire un rapporto con il consumatore finale diventa fondamentale. Nella nuova economia delle reti, il marketing è l'asse portante di un'economia in cui l'obiettivo primario è il controllo del consumatore.

Il controllo del cliente è lo stadio finale di una lunga odissea economica segnata dal progressivo abbandono della proprietà e dal passaggio del controllo della vita economica dalle mani delle masse a quelle delle istituzioni aziendali.

Si rammenti che, nelle prime fasi del capitalismo di produzione, le attività economiche svolte nelle case e nelle botteghe artigiane furono progressivamente marginalizzate e trasferite nelle fabbriche degli imprenditori capitalisti. Assumendo la proprietà e il controllo degli strumenti di produzione, questi sono stati così in grado di trasformare le famiglie e gli artigiani da entità prevalentemente autonome a dipendenti dal sistema salariale per quanto concerne sopravvivenza e benessere. Nei primi decenni del Novecento, poi, i lavoratori furono spogliati anche delle ultime vestigia del controllo sulla funzione produttiva attraverso l'introduzione della divisione del lavoro e l'avvento della catena di montaggio. Frederick Winslow Taylor ha introdotto i suoi sistemi di organizzazione scientifica del lavoro in fabbrica e negli uffici, rivoluzionando la produzione. Servendosi di un cronometro, Taylor analizzava ogni movimento del lavoratore in un'ottica di miglioramento dell'efficienza e con l'obiettivo di conquistare un controllo quasi assoluto sulla manodopera nell'ambito del processo produttivo.

Oggi che il marketing ha guadagnato ascendente e l'attenzione delle imprese si è concentrata sulla mercificazione dei rapporto con il cliente, il controllo del consumatore acquisisce la stessa importanza e la stessa urgenza che il controllo del lavoratore aveva nell'epoca in cui prevaleva la prospettiva della produzione. Se il cronometro e la catena di montaggio hanno rappresentato lo strumento tecnologico che ha permesso il controllo del lavoratore, gli anelli di feedback informatico e i codici a barre rappresenteranno gli strumenti attraverso cui esercitare il controllo sul consumatore.

In questo secolo, l'organizzazione del consumo diventa importante quanto, nel secolo scorso, lo è stata l'organizzazione della produzione. Il concetto è rendere la totalità delle esperienze del singolo riconducibili a un agente economico: sebbene l'utente finale sia coinvolto nel processo, per la soddisfazione dei propri bisogni deve diventare sempre più dipendente da un intermediario economico. Controllare il cliente significa quindi essere in grado di catturare e orientare la sua attenzione e riuscire a gestire la sua esperienza esistenziale fin nel più reconditi recessi. L'agente economico viene così ad assumere un ruolo affettivo.

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Pagina 151

In anni recenti, si è sviluppato un acceso dibattito pubblico sulla deregolamentazione dei servizi e delle attività esercitate dallo Stato, e sul loro conseguente assorbimento nella sfera di dominio dell'economia. Meno attenzione è stata dedicata alla progressiva inclusione della sfera personale nel dominio del mercato. La trasformazione delle relazioni in merce è un'impresa ciclopica. L'assegnazione di un lifetime value agli individui, con l'obiettivo di mutare completamente le loro esperienze di vita in fatti economici, rappresenta la fase finale delle relazioni capitalistiche di mercato. Cosa accade all'esistenza umana, a livello profondo, nel momento in cui è completamente avviluppata da un'intricata ragnatela di rapporti di natura economica?

La migrazione dalla mercificazione dello spazio e dei beni a quella del tempo e dell'esperienza si manifesta con sempre maggiore insistenza nel mondo che ci circonda. Ogni istante della nostra vita è influenzato da qualche forma di rapporto economico; e questa influenza trasforma il tempo nella risorsa più scarsa. I fax, la posta elettronica, le segreterie vocali, i telefoni cellulari, l'operatività sui mercati ventiquattro ore su ventiquattro, i servizi bancari online, l'e-commerce, i servizi cercapersone, i notiziari ogni mezz'ora ci incalzano, cercando di attirare la nostra attenzione e scavandosi la strada attraverso le nostre coscienze, appropriandosi del nostro tempo di veglia e invadendo buona parte dei nostri pensieri, lasciandoci ben pochi attimi di tregua.

Quando ogni attività è trasformata in un servizio a pagamento, corriamo il rischio di cadere in una sorta di trappola malthusiana del tempo. Una giornata dura solo ventiquattro ore, ma i nuovi servizi e le nuove relazioni economiche arrivano fin dove arriva la capacità di immaginare modi per mercificare il tempo. Già in questa fase iniziale della transizione verso l'era dell'accesso, la mercificazione del tempo si sta saturando: ogni istituzione e ogni essere umano sono contesi e connessi a qualche forma di servizio o relazione di natura economica. Dopo aver inventato ogni possibile sistema e strumento per risparmiare tempo e lavoro, e ogni servizio pensabile per soddisfare desideri ed esigenze di natura economica, cominciamo a sentire di avere, per noi stessi, meno tempo di quanto ne abbiano avuto i nostri antenati. Questo accade perché la straordinaria proliferazione di servizi e strumenti che permettono di risparmiare tempo e lavoro ha il solo esito di aumentare la quantità, la varietà e l'invadenza delle attività di natura economica che ci coinvolgono.

Un'economia basata sulle reti aumenta la velocità delle connessioni, ne diminuisce la durata, ne migliora l'efficienza e rende la vita più comoda, trasformando tutto in un servizio a pagamento. Ma, quando la quasi totalità delle relazioni acquista natura economica e la vita di ciascuno è trasformata completamente in merce, cosa sopravvive delle relazioni non economiche: dei rapporti familiari, di quelli fondati sul vicinato, la comunanza di interessi culturali, il sentimento religioso, l'identificazione etnica, il coinvolgimento solidaristico e civico? Quando il tempo viene venduto e comprato e la vita di ciascuno si riduce a poco più di una sequenza di transazioni economiche, tenuta insieme da contratti e strumenti finanziari, cosa accade delle infinite relazioni reciproche tradizionali, fondate sull'affetto, l'amore, la devozione? Il fatto che professionisti del marketing e aziende siano seriamente impegnati nella costruzione di quella che hanno battezzato «intimità con il cliente» e stiano sperimentando mezzi e strumenti per realizzare profondi «legami di comunità» con i consumatori è, in sé, abbastanza spaventoso. Ma è ancora più agghiacciante che questi sforzi su vasta scala per costruire surrogati della sfera sociale avviluppati in involucri commerciali siano, in massima parte, passati inosservati e, nonostante le enormi e profondissime conseguenze che possono avere sulla società, non abbiano sollevato critiche. Quando quasi tutto quello che ci riguarda diventa un'attività a pagamento, l'esistenza si tramuta nella più sofisticata forma di prodotto commerciale, e la sfera economica nell'arbitro finale della nostra vita personale e sociale.

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Pagina 154

VIII
L'accesso come modo di vita

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Lo storico e critico dei media Joshua Meyrowitz afferma che i media elettronici disorientano completamente il nostro senso di «geografia storica». «Quando comunichiamo attraverso il telefono, la radio, la televisione o il computer, la nostra collocazione fisica non determina più dove e chi siamo a livello sociale», scrive Meyrowitz. E questo concetto è particolannente vero nel nuovo mondo del ciberspazio, in cui un numero crescente di persone trascorre una parte sempre più ampia del proprio tempo integrata in una rete di relazioni prive di riferimenti geografici di qualsiasi tipo. L'indirizzo virtuale (quello della posta elettronica) sta rapidamente soppiantando l'indirizzo geografico: la facilità con cui la gente ha accettato di eliminare quasi completamente i riferimenti geografici nelle proprie intraprese economiche e sociali è notevole ed è un'ulteriore testimonianza della perdita di significato del luogo nella vita delle persone.

Una porzione rilevante della nostra esistenza cosciente è giá migrata, nella più totale indifferenza, nella dimensione più temporale delle relazioni fondate sull'accesso; ma una parte primordiale della nostra natura resiste, e rimane radicata alla terra e alla nozione di territorio. Quello con la terra rimane il nostro legame più profondo, anche in un mondo di connessioni elettroniche. Perfino il nostro essere fisico è preso a prestito dalla terra su cui viviamo. Il grande fisico Erwin Schrödinger ha definito l'essenza del nostro essere, scrivendo:

Chi lo comprende, allora potrà gettarsi al suolo e stringersi alla madre terra con questa certezza: Tu e lei siete una sola cosa, come lei tu sei saldo e invulnerabile, come lei e anzi mille volte di più; domani ti inghiottirà, certamente, ma con altrettanta certezza ti darà di nuovo alla luce, a nuove lotte e dolori.

La nostra natura più profonda è radicata tanto nello spazio quanto nel tempo: siamo legati alla terra quanto lo siamo al tempo. Il territorio, dunque, è molto più che una banale convenzione sociale: è uno stato dell'essere. Ecco perché, forse, la proprietà della casa è così pervasiva: perché permette di provare l'ancestrale senso di radicamento a un luogo, a una terra, alle origini.

Eppure, per i milioni di individui che hanno scelto di vivere in un CID, la proprietà della casa e della terra diventa secondaria rispetto all'accesso a strutture, servizi ed esperienze mercificate. Il CID manca completamente del radicamento storico delle comunità tradizionali: è costruito in serie, progettato su richiesta e catapultato in un lotto libero di terreno senza alcun riferimento storico; è una comunità astorica. La gente che ci abita non riesce a pensare al CID come al «posto da cui veniamo»: se c'è un riferimento geografico, di solito è funzionale a stabilire la direzione e la durata del pendolarismo quotidiano. Pochi avvertono nei confronti del CID quell'appartenenza tanto profondamente sentita da chi abita in una comunità tradizionale. In quest'ottica, il profondo valore del possesso del luogo in cui si abita, come senso tangibile del proprio radicamento nello spazio, è stato smarrito da un numero sempre più elevato di persone. Al suo posto c'è il più banale valore temporale della garanzia di accesso a pagamento a una rete sociale di esperienze condivise che fanno riferimento a uno stile di vita.

Naturalmente, si potrebbe affermare con altrettanta convinzione che il radicamento nello spazio geografico e la distinzione fra mio e tuo, così intimamente legati al possesso della casa e alla proprietà terriera, avrebbero dovuto sparire dalla faccia della terra già da tempo. Dopotutto, l'odissea umana è intrisa del sangue di milioni di persone, sacrificate nella lotta per usurpare e proteggere la terra. La proprietà della casa e della terra lega le persone alle radici della loro esperienza terrena; ma, nello stesso tempo, crea fratture e promuove la xenofobia: conflitti, sofferenze, guerre sono il lato oscuro dell'imperativo territoriale. Alcuni potrebbero arrivare ad affermare che solo riducendo il significato dei luoghi e aumentando, parallelamente, quello dell'esperienza e del rapporto, potremo elevare la convivenza fra gli uomini. Altri, però, potrebbero ribattere che nella nuova era dell'accesso, in cui il problema del mio e del tuo comincia a perdere terreno, rischiamo di smarrire il nostro radicamento e il senso di comunione con il mondo fisico e biologico a cui dobbiamo la nostra esistenza.

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Parte seconda

Recintare i territori comuni della cultura


VIII
La nuova cultura del capitalismo
[...]

Ci stiamo affaccendo a una nuova era, dominata dall'ubiqua presenza delle tecnologie di comunicazione digitali e del commercio culturale: i due fondamentali elementi del nuovo, potentissimo paradigma economico. Con sempre maggiore frequenza la nostra vita quotidiana è mediata dai canali digitali di comunicazione e, dato che la comunicazione è il mezzo attraverso cui gli esseri umani trovano significati comuni e condividono il mondo che contribuiscono a creare, la trasformazione in merce di tutte le forme di comunicazione digitale va di pari passo con la trasformazione in merce di molte fra le relazioni che fanno parte dell'esperienza vitale, della vita culturale degli individui e della comunità.

Dopo migliaia di anni di esistenza in un dominio semindipendente, occasionalmente toccato, ma mai completamente assorbito dal mercato, la cultura, cioè l'esperienza umana condivisa, viene ora trascinata all'interno della sfera economica, grazie alla presa che le nuove tecnologie di comunicazione hanno cominciato a esercitare sulla vita quotidiana degli individui. Nell'economia globale, sempre più dominata da una rete di comunicazione elettronica a pagamento, oltre che da ogni genere di merce e produzione culturale, garantirsi l'accesso alle proprie esperienze è tanto importante quanto, in un'epoca dominata dalla produzione industriale di beni, lo è stato disporre di beni di proprietà.

Comunicazione e Cultura

Neppure i sostenitori più fanatici della nuova rivoluzione della comunicazione hanno ancora compreso appieno la stretta relazione esistente fra comunicazione e cultura. Se, secondo la definizione dell'antropologo Clifford Geertz, la cultura è «la ragnatela di significati» che gli esseri umani tessono intorno a se stessi, la comunicazione - linguaggio, arte, musica, danza, scrittura, cinema, software - è lo strumento che gli uomini usano per interpretare, riprodurre, arricchire e trasformare questa ragnatela. «Essere uomo» scrive il teorico dei media Lee Thayer «è essere in comunicazione con una cultura umana; ed essere parte di una cultura umana è vedere e capire il mondo - cioè comunicare - in modo da ricreare quotidianamente quella particolare cultura.» L'antropologo Edward T. Hall ci rammenta che «la comunicazione è il nucleo della cultura, se non della vita stessa». C'è, dunque, un collegamento inestricabile fra comunicazione e cultura; «la cultura comunica», era solito affermare l'antropologo Edmund Leach.

Ingegneri e specialisti di informatica tendono a considerare la comunicazione secondo una prospettiva più limitata, come semplice trasferimento di messaggi. Si concentrano, così, sulle modalità di codifica e decodifica fra mittente e destinatario e sull'uso efficiente del canale, con il minimo rumore possibile. Questo approccio tecnico alla comunicazione, che risale ai lavori pionieristici di Norbert Wiener e di altri cibernetici a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, si preoccupa di come un individuo usi la comunicazione per influenzare il comportamento o lo stato mentale di un altro individuo.

La scuola antropologica, al contrario, considera la comunicazione come generazione di significati sociali attraverso la trasmissione di testi. La semiotica, un campo che ha visto, fra i suoi pionieri, il linguista Ferdinand de Saussure e il filosofo Charles Saunders Pierce, si preoccupa di come la comunicazione definisca significati, riproduca valori comuni e leghi gli individui in relazioni sociali. Gli strutturalisti sono interessati a come il linguaggio, il mito e altri sistemi simbolici vengono utilizzati per dare un senso a esperienze sociali condivise. È questa l'interpretazione in cui comunicazione e cultura divengono reciprocamente l'una espressione dell'altra.

Non è un caso, dunque, che comunicazione e comunità abbiano la medesima radice linguistica: le comunità esistono attraverso la condivisione di significati comuni e di forme comuni di comunicazione. Questa relazione, così ovvia, viene spesso trascurata nel dibattito sulla comunicazione, nell'implicito assunto che la comunicazione sia un fenomeno in sé e per sé, indipendentemente dal contesto sociale che interpreta e riproduce. Gli antropologi affermano che la comunicazione non può essere disgiunta da una comunità e da una cultura: l'una non può esistere senza le altre. Se questo è vero, quando tutte le forme di comunicazione vengono trasformate in merce, la cultura - materia della comunicazione - diventa inevitabilmente una merce. E questo è proprio ciò che sta accadendo: la cultura - cioè le esperienze condivise che attribuiscono un significato alla vita dell'uomo - viene spinta inesorabilmente verso il mercato dei media, dove viene rielaborata secondo parametri commerciali. Quando gli esperti di marketing e i guru del ciberspazio suggeriscono di utilizzare le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione come strumenti relazionali e predicano un vangelo economico fondato sulla vendita di esperienze personali; quando parlano di trasformare in merce il rapporto a lungo termine con il cliente, e di istituire comunità di interesse, in realtà, coscientemente o meno, stanno dicendo di recintare i territori comuni della cultura, per sottoporli al dominio dell'economia.

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Norman Denzin, professore di sociologia alla University of Illinois, riprendendo le posizioni di Guy Debord, è più critico nel descrivere questo monumentale cambiamento nelle relazioni fra uomini indotto dalle forze del capitalismo culturale, e scrive: «L'esperienza vissuta è l'ultimo stadio della reificazione della merce. In altre parole, l'esperienza umana ... è diventata la merce finale nella circolazione del capitale».

Nell'era dell'accesso, si acquista accesso all'esperienza di vita: chi si occupa di previsioni economiche e di consulenza già parla della nuova «industria dell'esperienza», una definizione che, solo pochi anni fa, non esisteva. L'industria dell'esperienza, che comprende uno spettro di attività culturali che si estende dal turismo all'intrattenimento, è destinata a dominare la new economy. Il futurologo James Ogilvey osserva che «la crescita dell'industria dell'esperienza è il segnale che il mercato è saturo di roba prodotta dalla rivoluzione industriale». Sempre Ogilvey afferma inoltre che «i consumatori di oggi non si domandano più "Cosa vorrei possedere che ancora non ho?", ma, invece, "Cosa voglio provare che non ho ancora provato?"».

Come molti altri analisti delle tendenze del capitalismo, Ogilvey comincia ad avvertire il significato della transizione da un'economia industriale a un'economia dell'esperienza, e sottolinea che «l'industria dell'esperienza si fonda sulla produzione e lo scambio di ciò che fa accelerare il battito del cuore». Sebbene riconosca che molti, criticamente, potrebbero «obiettare alla mercificazione delle emozioni», afferma che «le emozioni sono più sicure» confinate nel dominio del mercato di quanto possano essere «se si scatenano attraverso la sublimazione nella politica o nella religione».

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IX
Lo sfruttamento del patrimonio culturale

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La rivoluzione digitale ha il potenziale per rendere fungibili, come merci nel ciberspazio, le esperienze culturali, proprio come il denaro ha reso fungibile lo scambio di beni nello spazio geografico. Manuel Castells descrive l'impatto che la rivoluzione digitale e il commercio elettronico stanno avendo sulla cultura: «tutti i messaggi di tutti i generi vengono integrati in un mezzo, perché il mezzo è diventato così esauriente, diversificato e malleabile da assorbire nel medesimo testo multimediale l'intera esperienza umana passata, presente e futura».

Dato che il ciberspazio è un ambiente di comunicazione così avvolgente, altre forme tradizionali di comunicazione, che nella cultura condivisa si svolgono attraverso interazioni vis-à-vis - rituali, cerimonie, feste, rappresentazioni teatrali, arti, funzioni religiose, impegno civile -, diventano meno rilevanti e hanno sempre meno impatto sulle relazioni umane.

[...]

Il ciberspazio è il nuovo palcoscenico del mondo, sul quale, in futuro, verranno messe in scena produzioni culturali di ogni tipo immaginabile. E, come accade per tutte le altre forme commerciali di rappresentazione, si dovrà acquistare un biglietto, pagare un abbonamento o iscriversi a qualcosa per potervi accedere. Diversamente dal teatro tradizionale, però, le rappresentazioni messe in scena saranno esperienze vissute da ciascuno dei possessori del biglietto di ammissione. «Siamo sul punto di avere il potere di creare ogni esperienza che desideriamo» afferma lo scrittore e giornalista Howard Rheingold. Mark Slouka concorda con lui:

Trascorrendo un numero sempre maggiore di ore in ambienti sintetici ... la vita si trasforma in una merce. Qualcuno la fabbrica per noi, e noi la compriamo: diventiamo, così, consumatori della nostra vita.

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Commercializzare la cultura

Non sorprende che, con l'avvento della produzione culturale come settore trainante dell'economia, il marketing assuma un'importanza che travalica l'ambito del commercio. Il marketing è la somma degli strumenti attraverso cui si sondano i territori collettivi della cultura alla ricerca di significati culturali che abbiano il potenziale per essere trasformati, attraverso le arti, in esperienze mercificate, acquistabili sul mercato.

Lo spostamento di prospettiva dalla produzione al marketing - fenomeno già ampiamente analizzato - rappresenta uno fra gli eventi più importanti della storia del capitalismo. Alla metà degli anni Novanta, le sole imprese americane spendevano più di mille miliardi di dollari all'anno (un dollaro ogni sei di prodotto interno lordo) in attività di marketing. In questo bilancio, la pubblicità contava per 140 miliardi, mentre le promozioni alle vendite assommavano a 420 miliardi. Il marketing è lo strumento che il capitalismo usa per trasformare norme, pratiche e attività culturali in merci. Attraverso le arti e le tecnologie di comunicazione, i professionisti del marketing attribuiscono valori culturali a prodotti, servizi ed esperienze, e fanno in modo che i nostri acquisti siano intrisi di significati culturali. Controllando le tecnologie dell'informazione e delle telecomunicazioni utilizzate dalla gente sempre più massicciamente per comunicare, i professionisti del markenng sono arrivati ad attribuirsi il ruolo di interpreti, riproduttori, creatori di espressioni culturali e di consolidatori di categorie culturali, un tempo spettante alla Chiesa, alla scuola, alle associazioni sociali, alla comunità locale e alle istituzioni civiche.

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X
La fase postmodema


Un nuovo archetipo umano ha fatto la sua apparizione. L'uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro che l'hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell'era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell'economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata).

Lo psicologo Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione «proteiforme»: uomini e donne cresciuti nei common-interest developments, la cui salute è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing, acquistano online, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia d'attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che industríosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di frasi, ma superiori nell'elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri», considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra sovranità del consumatore e democrazia. Trascorrono con personaggi di fantasia, nei film, nei programmi televisivi e nel ciberspazio, tanto tempo quanto ne dedicano ai propri simili nella vita reale; anzi, arrivano perfino a inserire tali personaggi nella conversazione e nell'interazione, rendendoli parte della propria storia personale. Il loro mondo è più fluido, segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e partecipativa che lineare e obiettiva. Non si preoccupano della localizzazione geografica delle persone a cui abituabnente mandano e-mail, delle quali conoscono solo l'indirizzo virtuale. Pensano al mondo come a un palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni teatrali. Cambiano in continuazione, a ogmi passaggio fondamentale della propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Provano tutto e amano l'innovazione. D'altra parte, nel loro ambiente in rapido e costante mutamento, costumi, convenzioni e tradizioni sono quasi inesistenti.

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Nel mondo postmoderno, le trame e le rappresentazioni diventano altrettanto importanti - o, forse, più importanti - dei fatti e dei numeri. La nuova era si nutre di semiotica - lo studio dei segni e dei significati - ed è tanto interessata alle leggi della grammatica e della semantica quanto l'epoca moderna era interessata alle leggi della fisica. Per gli studiosi, l'interesse scientifico nei confronti della verità è meno importante della ricerca personale e collettiva di significati. Il linguaggio, in quanto veicolo per comunicare pensieri e sentimenti, è la chiave per esplorare i significati. Il linguaggio, come dice lo psicologo William Bergquist, è «esso stesso una realtà primaria nelle nostre esperienze di vita giornaliere».

Nell'era moderna, la gente era alla ricerca di uno scopo; nell'epoca postmoderna è interessata alla giocosità: in ogni sua manifestazione, l'ordine è considerato un vincolo, una forma di prigionia, mentre, d'altra parte, l'anarchia creativa è tollerata, se non perfino ricercata. La spontaneità è l'unico ammissibile ordine del giorno: nell'ambiente postmoderno, dove tutto è meno serio, ironia, paradosso e scetticismo la fanno da padroni. Non ci si preoccupa di fare la storia, bensì di elaborare storie interessanti da vivere. E, mancando una architettura storica che spieghi interamente la natura o la società, l'interesse per la storia svanisce. La storia non è più uno strumento per la comprensione del passato e l'interpretazione del futuro, ma un'accozzaglia di frammenti di racconti che possono essere riciclati e integrati nella trama sociale contemporanea.

Il ritmo serrato della cultura iper-reale del nanosecondo riduce l'orizzonte temporale individuale e collettivo all'immediato. Le tradizioni e le eredità sono di secondario interesse: ciò che conta è «adesso»; ciò che è importante è avere la possibilità di vivere e godere il momento. Climax e catarsi prendono il posto di efficienza e produttività tanto nella vita privata quanto nell'esperienza sociale. È un mondo pieno di spettacoli, divertimenti e rappresentazioni molto sofisticate eseguite su palcoscenici complessi. In questa nuova era il «principio di realtà», che ha governato la condotta umana dalla rivoluzione protestante alla rivoluzione industriale, è stato detronizzato o, meglio, abbandonato. Il «principio del piacere» regna sovrano.

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MTV, meglio di qualsiasi altra emittente televisiva, esprime tutte le caratteristiche del nuovo ethos postmoderno. In tutto il mondo, milioni di ragazzini e di adolescenti trascorrono il proprio tempo libero guardando le sue trasmissioni: principalmente video promozionali di gruppi rock. Su MTV, tutte le distinzioni elaborate con estrema cura nel corso dell'era moderna si stemperano: in questo senso, si tratta di una forma d'arte rivoluzionaria; non bisogna, però, dimenticare che si tratta di una realizzazione di marketing il cui obiettivo è vendere musica. Il giornalista di «Rolling Stone» Stephen Levy sottolinea che «il risultato più notevole ottenuto da MTV è stato rinchiudere il rock and roll nel video, dove non è più possibile distinguere fra intrattenimento e promozione delle vendite».

MTV abbatte confini di ogni sorta; livella le molteplici sfaccettature dell'esperienza umana in un'unica, piatta dimensione in cui tutti i fenomeni esistono in forma di pure immagini che si susseguono a velocità fulminea, senza contesto né coerenza. L'intera cultura prodotta dall'uomo viene saccheggiata alla ricerca di immagini, che vengono poi mescolate per generare un Blitzkrieg di stimoli visuali coinvolgenti ed evocativi, pensato per disorientare lo spettatore e catturarne, nello stesso tempo, lo sguardo. Tutte le categorie vengono ridefinite, tutte le divisioni superate: la separatezza delle cose nel tempo e nello spazio - cioè, ciò che le rende uniche - è eliminata. Ann Kaplan, direttore dello Humanities Institute presso la State University of New York a Stony Brook, osserva che «MTV rifiuta ogni riconoscimento chiaro dei confini precedentemente ritenuti sacri: immagini dell'espressionismo tedesco, del surrealismo francese, del dadaismo ... vengono mescolate a quelle rubate ai film noir o di gangster o dell'orrore, in modo da obliterare le differenze».

MTV non è parodia, ma pastiche. Non offre giudizi, non esprime critiche; anzi, non crea alcun punto di riferimento da cui, eventualmente, commentare; solo una infinita processione di frammenti culturali che realizzano quella che Jean Baudrillard chiama «l'estasi della comunicazione».

MTV è un'esperienza privata di contesto. Ha le sembianze dell'inconscio: un regno senza tempo in cui fantasie di ogni genere ribollono sullo schermo per dissolversi l'una nell'altra senza soluzione di continuità. MTV è intrattenimento onirico, libero dal peso di qualsiasi zavorra storica o geografica. MTV riconfeziona brandelli di cultura in forma di fantasie simulate che divertono, eccitano e offrono una sorta di esperienza virtuale a milioni di giovani. Èil significante ideale del postmoderno.

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L'ultimo grande cambiamento nella coscienza umana avvenne all'alba dell'era moderna, in corrispondenza della nascita della borghesia. Prodotto delle nuove città, che rappresentavano il centro motore del nascente capitalismo, la borghesia era composta da mercanti, proprietari di fabbriche, commercianti, accademici e professionisti, vere teste di ponte del nuovo modo di vita. In un mondo che assisteva alla trasformazione delle caste in classi, la borghesia era nel mezzo e spingeva verso l'alto, chiusa fra una moribonda aristocrazia feudale e un proletariato operaio instabile e oppresso e piccoli contadini e braccianti non affrancati. Erano borghesi gli imprenditori e gli accumulatori di capitali, i campioni dello Stato nazionale e dei mercati senza confini, i positivisti convinti che la ragione umana avrebbe rivelato i segreti della natura e codificato le verità di una realtà conoscibile e oggettiva. Era borghese la classe che, gradualmente, abbandonò la teologia per l'ideologia e la salvezza celeste per l'utopia terrena. Erano borghesi gli apostoli del vangelo del materialismo e i cantori delle virtù della proprietà.

Al contrario della vita medievale, che si svolgeva per lo più all'aperto, in spazi pubblici, la vita dei borghesi si dipanava principalmente dietro porte chiuse, all'interno di case e botteghe. I borghesi organizzarono la loro vita nello stesso modo in cui strutturarono la proprietà: ogni aspetto della loro esistenza era cintato, privatizzato, controllato, definito nei contorni, categorizzato, protetto, ammassato e nascosto all'attenzione del pubblico. Tutto, in questo mondo privato, era composto e organizzato. Niente era fuori posto.

L'internalizzazione della vita materiale fu accompagnata dall'interiorizzazione della coscienza: fu in epoca borghese che l'uomo cominciò a rivolgere attenzioni a se stesso. Anche se il concetto del sé si è sviluppato lentamente e progressivamente nel corso di tutta la storia della cultura occidentale, fra i borghesi fu l'oggetto di un'attenzione quasi ossessiva. Nelle case dei rappresentanti della nuova classe vi erano specchi ovunque: l'ispezione e il riflesso di sé costituiva nel medesimo tempo una preoccupazione e un passatempo. Parole come autostima, carattere, ego, coscienza, assursero a punti di riferimento nello sviluppo personale e nel dibattito sociale. Autoritratti e autobiografie divennero espressioni culturali molto popolari.

[...]

In età medievale, quando l'attenzione degli individui era maggiormente concentrata sulla vita ultraterrena, ogni buon cristiano aspirava alla virtù. Condurre un'esistenza terrena virtuosa ed essere modello di virtù garantiva la salvezza eterna. In epoca moderna, la virtù è sempre più scivolata ai margini della considerazione, in una società sempre più orientata alla produzione. La borghesia cominciò a sostituire il carattere alla virtù. Nel diciannovesimo secolo, «carattere» divenne uno dei termini più importanti del vocabolario: avere carattere era uno dei complimenti più lusinghieri che si potesse tributare a un borghese, uomo o donna. Più di ogni altro elemento, il carattere concorse alla definizione dei concetti di autocontrollo e padronanza di sé. La parola «carattere» fu associata ai concetti di cittadinanza, duro lavoro, industriosità, determinazione, frugalità, integrità e, soprattutto, maturità: rappresentava la secolarizzazione dei valori espressi dall'etica protestante del lavoro e una riaffermazione di quel genere di valori legati alla produzione considerati di importanza fondamentale per la crescita dei capitalismo e del regime di proprietà.

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La metafora della proprietà è stata ancor più indebolita da quella che gli studiosi definiscono «caduta della coscienza storica», e dall'avvento della coscienza terapeutica. I borghesi del diciottesimo, del diciannovesimo e della prima metà del ventesimo secolo, si consideravano in termini storici: si percepivano come attori nella grande rappresentazione della storia, il cui termine sarebbe stato segnato dal raggiungimento di un'utopia materiale. Per i capitalisti, la fine della storia corrispondeva con la definitiva recinzione degli immensi territori comuni della terra e la capillare diffusione della proprietà fra gli individui. Per i marxisti, la fine della storia corrispondeva alla dissoluzione del regime della proprietà privata e alla sua sostituzione con una organizzazione sociale in cui risorse materiali e capitale fossero posseduti collettivamente. Nonostante questa radicale differenza, tanto i capitalisti quanto i socialisti consideravano i rapporti di proprietà la forza dominante della storia, e gli esseri umani come comparse nella rappresentazione di una immensa metanarrativa. Fu, quella, un'epoca dominata dall'ideologia e dalla certezza che gli sforzi produttivi di ciascun individuo avrebbero condotto, inevitabilmente, alla futura cornucopia.

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Riprogrammare la mente,

Tra i fattori che hanno contribuito ai cambiamenti intervenuti nella coscienza umana, nessuno, forse, ha avuto l'importanza del progresso delle tecnologie di comunicazione, con il passaggio dalla carta stampata al computer. Tali cambiamenti, infatti, sono sempre stati accompagnati da mutamenti nelle forme di comunicazione impiegate dagli uomini per creare relazioni sociali. L'ultimo grande avanzamento nelle tecnologie della comunicazione avvenne con il passaggio dalla trasmissione manoscritta e orale della cultura alla stampa: una rivoluzione databile agli albori dell'era moderna, che contribuì a cambiare per sempre la coscienza dell'uomo. La rivoluzione del libro e della stampa facilitò la diffusione di un nuovo modo di pensare, congeniale a una società organizzata intorno al concetto di rapporti di proprietà privata e di scambi sul mercato.

In primo luogo, i nuovi media a stampa ridefinírono le modalità di organizzazione della conoscenza: la ridondanza mnemonica della trasmissione orale e le eccentricità soggettive della scrittura medievale furono eclissate da un approccio più razionale, analitico e calcolato alla conoscenza. La carta stampata sostitui la memoria con indici, sommari, note a margine, richiami, liberando il cervello dalla necessità di dover tornare di continuo al passato per fissarlo nel presente e nel futuro. Il cambiamento della coscienza preparò il terreno al nuovo ideale mercantile di profitti materiali illimitati e di progresso umano.

[...]

La stampa organizza i fenomeni in modo ordinato, razionale e obiettivo e, nel farlo, incoraggia un modo di pensare lineare, sequenziale e causale. Il concetto stesso di «comporre» i pensieri si collega perfettamente all'idea di una progressione lineare ben congegnata di idee che si susseguono in sequenze logiche: una modalità molto diversa da queiia della comunicazione orale, dove ridondanza e discontinuità rappresentano la regola.

Eliminando le ridondanze della lingua parlata e rendendo possibili misurazioni e descrizioni precise, la stampa gettò le basi della moderna visione scientifica del mondo. Ricorrendo a standard e protocolli precisi, i fenomeni possono essere osservati e descritti con rigore, e gli esperimenti diventano replicabili: qualcosa di difficilmente realizzabile in una cultura trasmessa in forma orale o manoscritta.

La stampa ha anche introdotto il fondamentale concetto di autore. Prima della stampa, gli autori riconosciuti erano pochissimi: i manoscritti erano spesso anonimi, risultato del contributo di diversi copisti in un periodo di tempo prolungato. Il concetto di autore ha elevato il singolo a uno status unico, separandolo dalla voce collettiva della comunità.

L'idea di autore va di pari passo con il concetto di proprietà delle parole. Per la prima volta nella storia, le leggi sul copyright trasformarono in merce la comunicazione fra individui. L'idea che qualcuno potesse reclamare la proprietà di pensieri e parole, costringendo gli altri a pagare per poterle ascoltare, segnò un punto di svolta fondamentale nella storia dei rapporti umani.

[...]

La comunicazione elettronica è organizzata ciberneticamente, non linearmente: i concetti di sequenzialità e causalità sono sostituiti da un campo totale di attività continue e integrate. In un mondo di comunicazioni elettroniche, soggetti e oggetti cedono il posto a nodi e reti; strutture e funzioni vengono sostituite da processi. La modalità organizzativa del computer -- soprattutto dell'elaborazione parallela - rispetta il funzionamento del sistema culturale, in cui ogni parte è un nodo in una rete dinamica di relazioni che si riaggiusta e si rinnova di continuo, a ogni livello della propria esistenza.

La comunicazine elettronica, inoltre, organizza la conoscenza in modo diverso da quello utilizzato dalle tecnologie tipografiche: l'iper-testo sostituisce il sistema di referenze tipico dei testi a stampa; il libro, che contiene un numero limitato di dati e di fatti, cede il posto a un campo di informazione aperto, in cui ogni nota, rimando o referenza si espande, creando nuovi sottotesti e metatesti.

Il libro a stampa è lineare, rilegato e fisso; l'ipertesto è associativo e, potenzialmente, illimitato. Il libro a stampa è esclusivo per natura e autonomo nella forma; l'ipertesto, invece, è per natura inclusivo e relazionale nella forma. In altre parole, il libro a stampa possiede un inizio e una fine, è completo; l'ipertesto non ha un vero inizio, né una fine, ma solo un punto di partenza da cui gli utenti possono avviare un percorso di connessioni fra materiali correlati; l'ipertesto è in continua metamorfosi e non è mai finito. Il libro a stampa è un prodotto; l'ipertesto, un processo. Il primo si presta a essere posseduto, mentre il secondo è adatto a un accesso su base temporanea.

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In un'epoca in cui la sfera economica sta spostando l'attenzione dalla vendita di beni e servizi alla cessione, su base temporanea, dell'accesso a relazioni, produzioni culturali ed esperienze mercificate, la prospettiva drammaturgica offre una chiave perfetta per attribuire senso a questo nuovo modo di esercitare l'attività economica: mette la comunicazione al centro dell'attività umana, ridefinisce il sé in termini relazionali, rende l'esperienza una questione puramente teatrale, trasforma la proprietà in un simbolo con funzione di assistere la persona nella messa in scena dei vari ruoli teatrali interpretati nelle reti in cui è integrata, ciascuna delle quali rappresenta solo un aspetto della sua storia. La prospettiva drammaturgica è, in ultima analisi, una vivida descrizione dello stato della mente che si associa alla più recente fase del capitalismo. La nostra percezione del comportamento umano viene trasformata: questa volta per adattarsi ai requisiti richiesti dalla produzione culturale e dalla mercificazione dell'esperienza.

Per i giovani, cresciuti davanti a uno schermo, immersi in mondi virtuali, la natura proteiforme e la coscienza teatrale sono strumenti necessari per affrontare i molteplici, difficili ruoli che dovranno recitare sul palcoscenico elettronico. Possiamo essere certi che, davanti al cancello, esperti di marketing, pubblicitari e intermediari culturali saranno pronti a offrire accesso, a pagamento, a ogni sorta di merce culturale e di esperienza: scandaglieranno le culture locali alla ricerca di nuovi frammenti di esperienze culturali che possano essere sfruttati commercialmente e trasformati in merce; ripercorreranno la storia alla ricerca di trame intorno a cui creare esperienze nuove, eccitanti e divertenti; inneggeranno alla storia personale di ciascuno come alla parte più importante della realtà; e creeranno nuovi mondi simulati a cui chiunque, disposto a pagare, potrà accedere. Vi sono milioni di rappresentazioni che devono essere sceneggiate e recitate: ciascuna di queste costituisce un mercato dotato di ampio potenziale economico. In questi nuovi mondi, le uniche vestigia della proprietà personale che hanno probabilità di sopravvivere saranno le scenografie che creano ii contesto della rappresentazione in atto. Per i seguaci di Tespi della nuova era, l'accesso continuo alle trame, ai palcoscenici, agli attori e al pubblico, offerto (a pagamento, beninteso) dalla sfera economica sarà fondamentale per nutrire le loro molteplici personalità. Essere in grado di recitare e di essere trasformato, diventerà, dunque, la condizione sine qua non dell'esistenza.

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Dunque, quale sarà il destino dello Stato nazionale in questa nuova era? Fino a oggi, i governi sono stati legati alla territorialità: sono istituzioni pensate e costruite per amministrare un territorio. Ma quando gran parte della vita sociale ed economica si svilupperà nel mondo immateriale del ciberspazio, come potranno istituzioni politiche radicate nel territorio non perdere importanza e visibilità?

In un mondo in cui una parte sempre più rilevante dell'attività economica e sociale di primo livello si svolge nel ciberspazio, e ha forma di esperienza virtuale a pagamento, i governi vedono il proprio ruolo drasticamente ridimensionato. Questo ruolo sarà ulteriormente limitato se gli Stati rinunceranno alla propria attività di controllo sulle frequenze e sui canali di comunicazione, che rappresentano i collettori del ciberspazio. Nel ciberspazio, le uniche proprietà che vale veramente la pena di possedere sono le radiofrequenze, le reti di cavi a fibre ottiche, i satelliti per le comunicazioni, le tecnologie hardware e software che compongono i canali di comunicazione, oltre ai contenuti che circolano attraverso tali canali. Con questi possedimenti saldamente in mano a un nucleo ristretto di reti economiche globali, qualsiasi altra forma di proprietà perde di significato: le proprietà personali e aziendali continueranno a esistere, ma saranno secondarie rispetto agli altri requisiti che garantiscono l'accesso ai canali di comunicazione e ai contenuti che collegano gli individui in reti di significati condivisi.

Il declino dello Stato nazionale sta diventando particolarmente evidente nelle questioni che riguardano il commercio. Le società multinazionali hanno efficacemente esercitato pressioni sui governi al fine di ottenere importanti concessioni che hanno indebolito la sovranità degli Stati. Trattati e convenzioni internazionali, come il NAFTA e il CATT, hanno spogliato i governi locali del diritto di imporre limiti e vincoli all'intemo dei propri confini su questioni come lo sfruttamento del lavoro e la salvaguardia dell'ambiente, se interferiscono con l'esercizio del libero scambio. Nuove istituzioni, come la WTO, i cui rappresentanti non rispondono delle proprie decisioni ad alcun governo, possono imporre sanzioni alle nazioni che violano gli accordi e le norme del commercio.

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I governi di tutto il mondo stanno deregolamentando e vendendo al miglior offerente le proprie infrastrutture di telecomunicazioni e di trasmissione via etere, lasciando che siano le leggi dell'economia a decidere chi sarà collegato al mondo della connettività. Chi può permettersi di pagare l'accesso al ciberspazio, alle reti condivise e ai mondi virtuali che costituiscono il nuovo, effimero piano dell'esistenza dell'uomo, sarà connesso; tutti gli altri saranno costretti a rimanere al di fuori del icancelli elettronici.

La disparità di reddito e di ricchezza fra il quinto più ricco della popolazione mondiale - quello che già sta cominciando a vivere molto del proprio tempo in mondi simulati - e gli altri sta crescendo tanto rapidamente che qualunque accenno a garantire universalmente l'accesso rischia di venire accolto con profondo sospetto, se non con cinismo, dalla maggior parte degli osservatori.

[...]

Nel mondo, più di seicento milioni di persone non hanno una casa o vivono in ambienti domestici malsani e insicuri; la World Bank stima che, nel 2010, più di 1,4 miliardi di persone vivranno in sistemazioni non dotate di acqua corrente e servizi igienici. Al 20% della popolazione mondiale che gode dei redditi più elevati fa capo l'86% dei consumi privati, mentre il 20% più povero consuma solo l'1,3% del prodotto mondiale. La dura realtà del differenziale di ricchezza è che gli americani spendono per i cosmetici (otto miliardi di dollari all'anno) e gli europei per i gelati (undici miliardi di dollari) più di quanto basterebbe per offrire un'istruzione elementare, acqua potabile e servizi igienici ai due miliardi di individui che, nel mondo, ancora oggi non possono permettersi un'istruzione e strutture sanitarie minime.

La crescente disparità nel reddito fra ricchi e poveri si manifesta non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli industrializzati. In Gran Bretagna, per esempio, negli ultimi vent'anni la disuguaglianza del reddito è aumentata più che in qualunque altra nazione. Negli Stati Uniti, il Census Bureau riferisce che, oggi, la disparità di reddito fra ricchi e poveri è più elevata di quanto sia mai stata dalla fine della seconda guerra mondiale. Attualmente, il 20% più ricco degli americani si appropria di più della metà del reddito prodotto dalla nazione, mentre il 50% delle famiglie americane ha un patrimonio finanziario inferiore ai mille dollari. L'aumento della disparità di reddito ha colpito prevalentemente la classe media e la classe operaia: nel 1996, il reddito della famiglia media americana era inferiore del 4% a quello del 1989.

Nel momento in cui la parte più benestante della popolazione sta migrando oltre i cancelli elettronici, un numero sempre crescente dei cittadini più poveri e meno istruiti della nazione si trova a vivere dietro i cancelli di una prigione. Attualmente, più di un milione e mezzo di cittadini americani si trova in prigione: gli Stati Uniti hanno la più elevata popolazione carceraria del mondo. In California la spesa statale per la gestione del sistema penitenziario è passata dal 2% del bilancio del 1986, al 9% del 1995, e si prevede che nel 2002 si avvicinerà al 18%. Già oggi la Califomia spende più per l'amministrazione penitenziaria che per l'educazione superiore.

Il dibattito sull'accesso alle reti globali, alla produzione culturale, al ciberspazio e alle esperienze simulate non trova ascolto presso quella enorme parte della popolazione americana che ancora non ha sperimentato su se stessa i benefici del possesso e della proprietà. La visione di Bill Gates di un mondo interconnesso è priva di senso per quegli oltre sette milioni di famiglie americane che non usufruiscono di servizi telefonici. Milioni di altre famiglie di lavoratori a reddito basso e medio-basso non dispongono di risorse finanziarie, di istruzione e di tempo per diventare parte attiva nei nuovi mondi elettronici creati dalle reti, e rischiano di rimanerne sempre più esclusi, mentre i ricchi si connettono fra loro costruendo reti di interessi economici e sociali condivisi che confinano chi non vi partecipa all'isolamento, alla solitudine, e lo costringono a lottare per sopravvivere in un mondo sempre più inospitale e degradato.

I poveri e gli esclusi di oggi saranno i non connessi del1'era dell'accesso.

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XII
Verso un'ecologia della cultura e del capitalismo


Fino a oggi, il problema dell'accesso al ciberspazio è stato affrontato in maniera parziale: sono stati sollevati interrogativi sull'accessibilità dell'hardware e del software, sulla disponibilità di servizi, sull'alfabetizzazione informatica, sui diritti garantiti dal Primo Emendamento, sulla privacy, sul controllo dei flussi di dati. Ma, per quanto importanti, tali questioni celano una preoccupazione più grave, ancora inespressa, che va direttamente al cuore della civiltà che vogliamo creare per noi stessi nel ventunesuno secolo.

Cosa significa vivere in un mondo connesso, in cui le transazioni di mercato sono sostituite da complesse reti commerciali? in cui disporre di beni di proprietà è meno importante che avere l'accesso? in cui gran parte della vita economica e sociale si svolge nel ciberspazio? in cui la cultura si trasforma in archetipo della merce? in cui le relazioni umane a pagamento sono la norma e l'esperienza vissuta diventa qualcosa da acquistare? in cui il sé autonomo cede il posto a personalità molteplici e a una coscienza «drammaturgica»? in cui la società acquisisce una dimensione teatrale e ciascuno percepisce la propria vita come la giustapposizione di infiniti testi e trame messi in scena su palcoscenici reali e virtuali?

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In questo quadro, dunque, l'accesso all'intero sistema di relazioni sociali che rende possibile una vita di qualità diventa il minimo comune denominatore per la strutturazione dell'attività umana. Naturalmente, bisogna ricordare che l'80% della popolazione mondiale sta ancora combattendo per riuscire ad accaparrarsi un minimo di proprietà materiale; ma in un mondo in cui l'abbondanza materiale è, in qualche misura, concepibile, l'idea che ogni persona abbia il diritto di non essere esclusa dalla totalità delle risorse e delle attività che rendono possibile la soddisfazione delle sue necessità psicologiche rappresenta una visione sociale di enorme forza. Tale visione, però, deve essere temperata da un'oculata considerazione dei giganteschi ostacoli che ancora si frappongono al raggiungimento di questo livello superiore di progresso: l'aumento della popolazione, la diminuzione delle risorse naturali, la perdita della biodiversità, l'incontrollata diffusione dell'inquinamento ambientale che minaccia la biosfera, sostegno di tutte le forme di vita. Se questi problemi non verranno risolti, qualunque discussione su una nuova visione sociale basata sull'abbondanza materiale e sull'emancipazione dell'uomo è destinata a rimanere, per la maggior parte degli abitanti del pianeta, fantasia più che realtà.

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Eppure, cosa incredibile, dobbiamo ancora cominciare a porci alcune fra le domande fondamentali relative al passaggio a una società postmoderna. Per esempio, espressioni «intimità con il cliente» e «realtà simulate» sono ossimori? Quali conseguenze collettive ha l'assorbimento della sfera culturale in quella economica? Se la vita dell'uomo è meno ideologica e più «teatrale», meno legata a grandi cosmologie e metafore universali e più espressione di miliardi di trame individuali, ciascuna delle quali scritta e messa in scena nelle reti commerciali del ciberspazio, cosa ne è della condizione e dello spirito umani? C'è ancora spazio per pensare allo scopo della vita o, in ultima analisi, l'unica cosa che rimane da fare è ascoltare i messaggi urlati della pubblicità, occasionalmente interrotti da un sussurro che avverte: «lo spettacolo riprende»?

Se la nuova era ha un tallone d'Achille, forse questo consiste nella mal riposta convinzione che le relazioni guidate dall'economia e le reti mediate dall'elettronica possano sostituire le relazioni e le comunità tradizionali. La premessa stessa di tale convinzione è distorta. Le due modalità di organizzazione delle relazioni umane sono prodotte da un insieme di assunti e di valori tanto diversi da essere, più che affini, inconciliabili. Le relazioni tradizionali scaturiscono da sentimenti e realtà quali la fratellanza, l'etnia, il territorio, fedi condivise; sono tenute insieme dal concetto di dovere reciproco e dalla prospettiva di un destino comune; sono sostenute da comunità la cui missione è riprodurre e garantire continuamente i significati condivisi che costituiscono la cultura comune. Tanto la relazione quanto la collettività in se stesse rappresentano fini.

Sul fronte opposto, le relazioni mercificate sono, per natura, strumentali: l'unico collante che le tiene insieme è il prezzo concordato della transazione. Tali relazioni sono contrattuali, non reciproche; sostenute da reti di interessi condivisi per il tempo necessario alle parti per soddisfare le obbligazioni contrattuali volontariamente sottoscritte.

La differenza fra contratto sociale e contratto commer- ciale è importante. Il primo ha un orizzonte temporale più esteso ed è legato, da una parte, ai costumi e, dall'altra, alla liberazione; è fondato sul concetto di debito dell'individuo nei confronti delle generazioni precedenti e successive, della terra, delle sue creature e di un Dio benevolente.

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Sebbene molti neoliberali e neoconservatori, oltre a uno stuolo di liberisti, continuino a proclamare che economie sane generano società solide e vitali, in realtà è più spesso vero il contrario: una comunità forte è il prerequisito di una economia sana, dal momento che è l'elemento generatore della fiducia sociale.

Negli Stati Uniti sono attive più di un milione e centoquarantamila associazioni prive di scopo di lucro, con un giro d'affari annuo di 621 miliardi di dollari. Oggi, quasi il 7% della forza lavoro americana è impiegata nel terzo settore; inoltre, nel 1995, 93 milioni di americani hanno volontariamente dedicato, in media, 4,2 ore settimanali ad attività del terzo settore (il valore equivalente di questo lavoro volontario è stimato in 201 miliardi di dollari).

[...]

Le organizzazioni del terzo settore sono al servizio di milioni di uomini appartenenti a comunità locali di tutto il mondo e, più di ogni altra istituzione, si preoccupano di conservare e promuovere le culture locali. La portata e l'importanza della loro attività spesso eclissa quella dello Stato e dell'economia. Le organizzazioni del terzo settore svolgono alcune funzioni basilari per il mantenimento delle società democratiche, dando forma al malcontento sociale, mettendo in discussione gli abusi di potere istituzionali e offrendo assistenza agli immigranti e ai poveri. Le organizzazioni non profit preservano la storia e le tradizioni culturali di un popolo, gestendo musei e biblioteche: sono i luoghi in cui, per la prima volta, molte persone imparano a mettere in pratica i valori civici e a esercitare le proprie prerogative democratiche. Le organizzazioni non profit religiose e terapeutiche rappresentano un rifugio in cui gli individui possono sperimentare la dimensione spirituale dell'esistenza, indipendentemente dalle pressioni dello Stato e del mercato.

[...]

È interessante notare come le grandi istituzioni bancarie intemazionali, come la World Bank, solo ora stiano cominciando a comprendere il rapporto che lega cultura ed economia: per decenni queste istituzioni hanno finanziato costosissimi progetti di sviluppo economico in paesi emergenti, nella convinzione che, creando un'economia solida, fosse possibile stimolare lo sviluppo sociale. Dopo anni di successi alterni e discutibili, e dopo molti tentativi falliti, tali istituzioni hanno cominciato a privilegiare il finanziamento di progetti di sviluppo sociale, nella convinzione che una comunità forte - cioè una solida cultura - sia un prerequisito fondamentale per lo sviluppo economico, e non viceversa.

Se il sistema capitalistico continuerà ad assorbire porzioni sempre più vaste dei territori della cultura nella sfera economica, sotto forma di prodotti, produzioni ed esperienze culturali, diventa reale il rischio che la cultura si atrofizzi, fino al punto di non riuscire più a produrre sufficiente capitale sociale da sopportare l'economia. Il delicato equilibrio fra cultura ed economia sarebbe scosso, dal momento che il capitale sociale - che è prodotto esclusivamente dalla cultura, ma rappresenta il lubrificante fondamentale dei meccanismi dell'economia - si consumerebbe fino ad annullarsi.

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La sfera commerciale sta cercando di offrire qualcosa che, in ultima analisi, non le appartiene: accesso a una vita di comunione profonda e di evoluzione personale. L'economia può fornire molti e preziosi beni materiali: benessere, comodità, alcune forme di conoscenza, di divertimento e di intrattenimento. Tutti elementi essenziali per vivere una vita piena e soddisfacente. Ma non può, assolutamente, produrre i due elementi più importanti - la fiducia sociale e l'empatia -, i valori e i sentimenti che forgiano l'umanità e danno forma alla cultura. Quando la sfera economica cerca di vendere l'accesso a un'accozzaglia informe, a un pastiche di brandelli di cultura e di esperienze vissute, rischia di avvelenare la sorgente a cui attingiamo valori fondamentali e sentimenti imprescindibili.

Far risorgere la cultura

Se questa nuova fase del capitalismo giungesse alle estreme conseguenze, sarebbe proprio il suo successo a creare i presupposti della sua completa distruzione. Se le forze dell'economia riuscissero a destrutturare, rielaborare, confezionare e vendere tutto ciò che rimane della sfera culturale, trasformando le attività umane in esperienze a pagamento, il loro trionfo, per le ragioni elencate nel paragrafo precedente, sarebbe effimero. Mercati e reti non sono in grado di reggersi da soli: sono istituzioni - è bene ribadirlo - secondarie e derivate, la cui esistenza dipende dalla pre-esistenza di forti comunità, fondate sulla fiducia sociale e temperate dall'empatia.

L'economia è un'istituzione derivata anche in un altro senso: non vi è autonoma produzione culturale nella sfera economica, perché questa dipende sempre dalla sfera culturale da cui trae la «materia prima», proprio come l'economia industriale si fondava su materie prime provenienti dalla terra. Entrambe le forme di produzione sono estrattive. La cultura, come la natura, può essere sfruttata fino all'esaurimenio, se verò viene troppo sfruttata e sprecata, il mercato rischia di perdere la proverbiale gallina dalle uova d'oro. La diversità culturale, dunque, è come la biodiversità: se tutta la varietà culturale delle esperienze umane viene sfruttata per realizzare guadagni di breve periodo nella sfera economica, senza che le venga lasciato il tempo e lo spazio dì riprodursi e rigenerarsi, l'economia è destinata a perdere l'enorme bacino di esperienze a cui attinge la produzione culturale.

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Una nuova missione per la scuola

Le scuole americane stanno cominciando a confrontarsi con la questione di come preparare gli studenti a un'economia globale basata sulle reti e alle realtà virtuali del ciberspazio, senza, con ciò, sacrificare la loro capacità di partecipare a una cultura più ampia. Negli Stati Uniti, e anche in altri paesi, ogni classe è collegata a Internet e dotata di computer e programmi perché i giovani acquisiscano la necessaria dimestichezza con la navigazione nei domini elettronici che costituiscono il nuovo mondo dell'e-commerce e dell'e-business. Eppure gli educatori, e un numero crescente di genitori, temono che se anche l'esperienza scolastica degli studenti si concentrerà sempre più sull'interazione con il computer o si svolgerà all'interno di mondi simulati, i giovani non potranno sviluppare le doti di socialità necessarie per essere membri a pieno titolo dei consesso umano.

[...]

La civil education si fonda sulla premessa che la principale missione dell'educazione scolastica sia preparare gli studenti alla cultura a cui appartengono e ad assumere nel suo ambito un ruolo attivo. I suoi sostenitori affermano che se questo metodo pedagogico viene applicato con rigore, e se studenti, genitori e organizzazioni della comunità contribuiscono a facilitare l'esperienza educativa, il rendimento scolastico migliora considerevolmente, perché gli studenti trovano l'attività di studio più divertente, utile e, in ultima analisi, significativa per la propria vita.

Secondo i fautori della civil education, finalizzare l'educazione alle competenze richieste dal mercato - per lungo tempo obiettivo principale del sistema scolastico americano - è come mettere il carro davanti ai buoi. Apprendere nozioni solo per riuscire a vendere il proprio lavoro sul mercato è, secondo loro, una visione troppo ristretta per il ventunesimo secolo; tale approccio crea persone che pensano a se stesse più in termini di valore di scambio che in quelli di individuo responsabile nell'ambito della società. I sostenitori della civil education affermano che, per dare maggiore profondità al senso di identità dello studente, è necessario trasmettergli il senso di appartenenza alla comunità. L'educazione, dichiarano, deve alimentare la fiducia sociale e l'empatia, oltre a promuovere rapporti di intimità con gli altri - e con le altre creature - rendendo gli studenti consapevoli del ruolo fondamentale svolto dalla cultura per la conservazione della civiltà. Le abilità richieste dal mercato del lavoro, sostengono, sono secondarie e derivate dalle capacità richieste dalla società, proprio come i mercati sono secondari e derivati dalla cultura; per quanto importanti, non devono prendere il sopravvento a spese della civil education, di cui possono invece essere un necessario complemento.

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La politicizzazione del terzo settore [...]

La dialettica tra forze dell'economìa globale e interessi delle culture locali implica una nuova politica. Nell'era industriale, le ideologie politiche spaziavano da destra a sinistra e, in massima parte, si preoccupavano di questioni attinenti alla proprietà. La battaglia per definire i confini del proprio e dell'altrui ha consumato le passioni politiche di innumerevoli generazioni: la politica moderna è stata caratterizzata dalla lotta di classe più che da qualsiasi altra questione; piccoli e grandi borghesi, lavoratori e proletari si sono scontrati per stabilire quale fosse il modo migliore di sfruttare il capitale fisico, produrre beni e servizi e distribuire la ricchezza. La dilaniante questione di chi dovesse controllare i mezzi di produzione e determinare l'allocazione dei frutti del lavoro ha definito l'agenda politica per più di trecento anni.

Nell'era dell'accesso, la dialettica destra/sinistra è progregsivamente oscurata da una nuova dinamica sociale che, nell'arena politica, oppone il valore intrinseco al valore-utilità. Nel suo senso più profondo, l'identità culturale riguarda solo valori intrinseci: una cultura condivisa non è mai un mezzo, ma sempre un fine. Le risorse, i rituali e le attività culturali rappresentano un valore in sé e per sé; non sono cose riducibili a parametri quantificabili, che possono essere comprate e vendute su un mercato: non si può attaccare un cartellino del prezzo a un'esperienza culturale condivisa senza danneggiare in maniera irreversibile le relazioni che l'hanno generata. Quando la cultura perde il radicamento nella collettività e si riduce a puro intrattenimento a pagamento, il suo valore intrinseco si annulla: nei mercati domina l'utilità.

A un livello più profondo, dunque, la dialettica fra economia e cultura è una lotta fra valore intrinseco e valore d'uso. Negli ultimi secoli, entrambe queste espressioni del valore hanno avuto un ruolo nel dibattito sociale; solo in tempi molto recenti, il valore intrinseco è diventato, nella considerazione dell'uomo, secondario rispetto a quello d'uso. La prevalenza dello schema di valutazione utilitaristico testimonia il dominio crescente della sfera economica e il lento declino dell'importanza della cultura.

Solo trasformando la cultura in una forza politica coesa e consapevole di sé sarà possibile ristabilire il suo ruolo critico nella strutturazione della società. Decine di migliaia di comunità fortemente radicate sul territorio, legate al loro interno da relazioni sociali integrate e connesse le une alle altre da una comune percezione dell'importanza di tutelare la diversità culturale, rappresentano una potente forza sociale, oltre che un antidoto contro la politica delle reti economiche globali operanti nel ciberspazio.

I movimenti più importanti del ventunesimo secolo saranno quello per la conservazione della diversità biologica e quello per la salvaguardia delle differenze culturali.

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In conclusione, è necessario un avvertimento: la restaurazione della cultura può portare a una reviviscenza della diversità culturale, ma anche, altrettanto facilmente, a nuove e virulente forme di fondamentalismo. In tutto il mondo, oggi, i movimenti fondamentalisti religiosi e politici sono in forte crescita: partiti politici ultranazionalisti, gruppi separatisti, movimenti di pulizia etnica e integralismi religiosi rappresentano l'espressione estrema della reazione alle forze della globalizzazione e della postmodernità. I movimenti fondamentalisti tentano di chiudere le comunicazioni con un mondo che ritengono perverso e peccaminoso; desiderano purgare la cultura a cui appartengono dalle influenze contaminanti del mondo esterno. Al cuore di questi movimenti vi è una mentalità da assediati, caratterizzata da frenetici sforzi per difendere la «vera fede» (che sia ideologica, teologica o etnica) da traditori, infedeli o altre venefiche influenze.

I movimenti fondamentalisti sono sempre caratterizzati da un fortissimo legame con lo spazio geografico; infatti, la difesa del territorio è un elemento comune a quasi tutti i fondamentalismi. Difendere la terra ancestrale, la Terra Santa, la patria è ciò che unisce gli individui in una lotta all'ultimo sangue contro forze «sataniche»: dietro a ciascuno di tali movimenti vi è l'idea di ripristinare l'ordine in una realtà caotica, erigendo barriere ai confini; è questa l'ultima reazione a un mondo sempre più aperto, fatto di reti globali e di flussi di comunicazione. I fondamentalisti cercano la stabilità in una società in perpetuo cambiamento e tentano di tenere a bada ogni evoluzione risacralizzando il territorio. In un mondo sempre più legato alla dimensione del tempo, rimangono fieramente fedeli allo spazio: sono chiusi per natura e considerano ogni forma di accesso un'influenza contaminante.

Questa prospettiva mette i fondamentalismi in aperto contrasto con la maggior parte delle organizzazioni della società civile (Civil Society Organization, CSO) che, pur favorevoli alla difesa della cultura locale, sono sensibili e rispettose dei diritti delle altre culture a esistere, in un mondo caratterizzato dalla diversità culturale. Il detto «pensare globalmente, agire localmente», seppure un po' usurato da anni di usi e abusi, continua a riflettere con efficacia la filosofia delle organizzazioni del terzo settore di tutto il pianeta. Come i movimenti fondamentalisti, le CSO hanno profonde radici nel territorio e sono strettamente integrate nella cultura locale; ma credono anche che tutte le culture, insieme, contribuiscano a creare un'ecologia condivisa dell'esistenza umana. Mantenere la propria identità, pur difendendo l'idea di un mondo culturalrnente variegato, è la caratteristica che più di ogni altra identifica il movimento, che ha sempre più seguito, delle CSO.

Quando disse: «Non voglio che la mia casa sia cinta da un muro su tutti i lati e le mie finestre sbarrate. Voglio che le culture di tutte le terre circolino nella mia casa con la massinta libertà. Ma mi rifiuto di lasciarmi dominare da una sola di queste», il Mahatma Gandhi espresse il sentimento di molte CSO attuali. Garantire libertà di accesso alle altre culture, pur preservando le caratteristiche e le qualità che rendono unica la cultura a cui si appartiene, è ciò che differenzia il movimento delle CSO da ogni fondamentalismo. La forza che riuscirà a mobilitare e politicizzare le culture locali di tutto il mondo determinerà buona parte della politica e della geopolitica della nuova era.

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La dialettica di un ethos del gioco

Negli ultimi tempi, la lotta tra le forze dell'economia globale e i sostenitori del terzo settore si è concentrata sulla questione di chi controllerà l'accesso alle molte categorie culturali incluse nell' ethos del gioco che caratterizzerà il nuovo secolo. Come abbiamo visto, nell'era industriale la lotta fra parti contrapposte per il controllo dell' ethos del lavoro ha improntato la politica per alcuni secoli. L' ethos del lavoro va di pari passo con i rapporti di proprietà: il lavoro coincide con l'asservimento delle risorse naturali, la loro estrazione e trasformazione in beni; la proprietà è la forma finale acquisita dalla natura, dopo essere stata parcellizzata, manipolata e trasformata in merce. La proprietà è una tecnica di allocazione della natura fra sé e gli altri. Il controllo sull' ethos del lavoro, in larga parte determinato dal modo in cui la proprietà è stata allocata nell'era industriale, è stato un fattore decisivo nella creazione delle distinzioni di classe.

Oggi, mentre il mondo sta migrando dal capitalismo industriale a quello culturale, l' ethos del lavoro sta cedendo il posto all' ethos del gioco. Giocare è ciò che gli individui fanno nel creare cultura: è la liberazione dell'immaginazione, finalizzata alla creazione di significati condivisi; è una categoria fondamentale del comportamento umano, senza la quale la civiltà non esisterebbe.

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Infine, la dimensione dello spazio e quella del tempo separano il gioco dal lavoro: il primo richiede una sospensione dal tempo normale; il suo mondo esiste in un universo senza tempo, come sa bene chiunque si sia lasciato prendere da un gioco e abbia perso la comune nozione del trascorrere delle ore.

Il gioco si svolge in ambiti speciali, separati dal mondo normale: in questi ambiti consacrati, i giocatori sono legati da regole diverse e si comportano in modo differente dal solito. Lo spazio del gioco è un porto sicuro, in cui i partecipanti possono aggregarsi senza paura di rappresaglie, eppure è sempre, per propria natura, temporaneo: quando il gioco si ferma, esso perde il proprio valore intrinseco. Lo spazio del gioco non è un territorio che a qualcuno è dato possedere, ma un ambito virtuale che alcuni individui condividono per qualche tempo. Il gioco, dunque, si svolge in una dimensione spaziale e temporale, ma, spesso, è percepito svincolato da spazio e tempo: ha, simultaneamente, una dimensione mondana e una ultramondana; è materiale e, nel contempo, lieve ed elusivo. I giocatori si concedono con generosità «per amore del gioco»: l'obiettivo è la gioia, la riaffermazione dell'istinto vitale. Così, il gioco è in aperto contrasto con il lavoro, il cui obiettivo è espropriare, appiattire, manipolare e trasformare. La produzione è, sempre, un atto di sfruttamento.

Nell'epoca moderna, l'umanità ha invertito il rapporto di forza tra gioco e lavoro: il lavoro è diventato l'arbitro di ogni attività, e il gioco un'attività marginale a cui ci si dedica nel tempo che rimane dopo il lavoro e il riposo. Questo cambiamento rispecchia quello intervenuto nel rapporto tra sfera culturale e sfera economica: quando il mercato ha conquistato il dominio sullo scambio sociale e il capitale fisico ha eclissato il capitale sociale, il lavoro ha cominciato a crescere nella considerazione degli uomini, mentre il gioco è stato banalizzato e relegato alla funzione di attività da svolgere nel tempo libero.

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Libertà e gioco, dunque, sono un terreno comune. È attraverso l'esperienza del gioco puro che si apprende a interagire apertamente con gli altri. Diventiamo davvero uomini rivelandoci agli altri. Gli uomini non possono essere liberi fino a quando non sono in grado di abbandonarsi completamente al gioco. Come ha scritto Jean-Paul Sartre, quando l'uomo si sente libero e vuole usare la sua libertà... gioca.

Rammentiamo che, per gran parte dell'era moderna, abbiamo associato al concetto di libertà quello di autonomia, e fatto coincidere l'autonomia con la capacità di offrire il nostro lavoro sul mercato. I frutti del lavoro - la proprietà - sono stati considerati simboli della nostra libertà. Il diritto di escludere gli altri da ciò che ci appartiene è stato considerato il miglior modo di proteggere la nostra autonomia e la nostra libertà personale. La vera libertà, però, è figlia della condivisione, non del possesso: non si può essere davvero liberi, se non si può condividere, provare un sentimento di empatia nei confronti dell'altro, abbracciarsi.

Il gioco maturo - opposto al divertimento passivo - si svolge sempre nella sfera culturale. Quando un individuo si impegna volontariamente con gli altri - per il tramite di organizzazioni solidaristiche, civiche, religiose, artistiche, sportive, ambientalistiche - si abbandona al gioco maturo. I suoi scambi sociali creano un'isola di fiducia e arricchiscono il capitale sociale. Il gioco maturo riunisce le persone in comunità: è la più intima e, nello stesso tempo, la più sofisticata forma di comunicazione umana che esista. Il gioco maturo è anche l'antidoto migliore all'esercizio sfrenato del potere istituzionale, politico o economico.

 

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Riferimenti

Bibliografia
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