Copertina
Autore Gianni Riotta
Titolo Ultima dea
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1994, I Narratori , Isbn 978-88-07-01476-5
LettoreRenato di Stefano, 1995
Classe narrativa italiana
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Pagina 9 [ inizio libro ]

Per mandare in villeggiatura il professar Thomas Diognetus furono necessari la fine del comunismo, un padre in odore di santità e un'intrattabile giovane amante. Era ormai una tradizione: ogni anno, verso maggio, i colleghi chiedevano sorridendo, "E tu dove vai in vacanza, Tom?". Diognetus si schermiva, li lasciava parlare di safari fotografici nel Serengeti, escursioni in canoa lungo il Colorado, passeggiate in Provenza, poi, messo alle strette, bofonchiava: "Ecco, veramente io andrei volentieri in vacanza, ma ho un seminario ad Algeri e mi sono già impegnato con Berkeley per un convegno". Gli amici del college ridacchiavano, e gli spedivano, puntuali e sfottenti, le cartoline con "Ci manchi... cosa ti perdi...".

A Diognetus le vacanze facevano paura, troppi giorni senza ordine, privi di calendario: era gíovedi o sabato? Ci si dimenticava di rasarsi, liberi di nuotare, passeggiare, poltrire. Se lui non scriveva ogni giorno un paio di pagine, non faceva un salto in biblioteca o magari correggeva una tesi di laurea, si sentiva immorale. Gli esami, per i colleghi un obbrobrio e una perdita di tempo, a lui piacevano, lo facevano sentire come un calciatore veterano che passi il pomeriggio del lunedi a riprovare le finte e i passaggi dei novizi. Ogni estate trovava perciò una scusa per non andare in vacanza.

Sempre, tranne quest'anno. Quest'anno, dopo un quarto di secolo senza ferie, il professar Diognetus, sessantacinque anni passati, decise di imbarcarsi in una bellissima giornata, e di tornare a casa.

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Pagina 76

Willy confondeva un incontro frettoloso dopo un comizio, i saluti al bar della stazione, con anni di lavoro comune. "Lei ha abbracciato Sonia Pavlovna? Ma si rende conto? La Pavlovna era la prediletta della Dolgukarova, la confidente della zarina!". E toccava il polso di Diognetus quasi a stabilire un contatto medianico con l'Impero russo, Pietroburgo, l'ottocento. La timidezza lo riagguantava e per nasconderla lanciava in aria uno zuccherino e l'ingoiava al volo. Il suo feticismo lusingava e allarmava Diognetus: "Possibile che tanta distanza si sia aperta in così poco tempo?". Si metteva gli occhiali e spiegava, come a lezione: "Eravamo vivi, cosa credi? Non era mica il museo delle cere. La gente credeva nel comunismo, moriva solo per scriverne su un volantino. Erano idee terribili, capisci? Da una parte del mondo ti massacravano perché le condividevi. Dall'altra, per il motivo opposto. Non era un gioco, Willy".

Chissà se capiva. Forse aveva ragione Sapphire, quando lo irrideva: "Tu credi ancora alla Storia, Giusto e Sbagliato. Non capisci che viviamo per caso? Gli storici sono letterati incapaci di inventarsi una trama: si attaccano alle date, per arrangiarsi. Il tuo comunismo di ragazzo può venir descritto come eroico o balordo. La santità di tuo padre come una fola di pinzochere o come sete di assoluto. Non cambia nulla". Spesso perciò Diognetus preferiva conversare con Cinzia. Dei totem del Novecento lei se ne infischiava. L'affascinava il potere criminale. Chiedeva a Diognetus delle serate con Ruiz, voleva notizie sui dittatori del Centroamerica o sul traffico di armi nel Terzo Mondo. Lo guardava con occhi tranquilli, senza soggezione. Fosse la lontananza di Sapphire, la lunga solitudine o la voglia di vivere che gli ridavano le vacanze, Diognetus ne era attratto. Lei andava in giro seminuda, canottiera, pantaloni stracciati alle ginocchia. Quando uscivano con il gozzo, si liberava del reggiseno come di una benda inutile. Willy lo drappeggiava sulla testa, fasciandosi un occhio, "Sail Ho, Look Alive Men, I'ts the Queen Ann's Revenge" e giocava ai pirati.

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Pagina 94

"E l'inglese?".

"L'inglese? Ah si, vede com'è la guerra, signorina? Si comincia a parlare di una cosa e si finisce per parlare di guerra", e il vecchio incassò la testa col suo gentile gesto da testuggine. "Ho imparato l'inglese perché mi occupavo di libri, tutto qui. La guerra poi...", e si mise la pipa in bocca.

"Libri?", intervenne Roman Gamarekian.

"Libri", confermò il vecchio. "Ne ho stampati, venduti, censurati, riscritti, letti, mandati al macero. Ho lavorato in biblioteca, in libreria, in casa editrice, all'ufficio culturale del partito, ho perfino corretto bozze in un periodo di magra. Alle brutte saprei rilegare un libro, in pergamena, in marocchino, in plastica. E quello invece, quello," disse indicando il suo compagno, "se legge un giornalino per bambini della seconda elementare, suda come a risolvere il teorema di Gödel. Colpa della guerra? Nah, colpa sua...".

Il ragazzo pistonò a ripetizione su una manopola, fece cilecca e il suo impegno si spostò su una levetta attaccata a una molla rotta. Armeggiando, faceva il verso all'anziano sergente: "Noi di un'altra generazione con gli ideali. Noi sapevamo fare si, noi sapevamo fare no. Noi senza pane, noi senza dischi, noi con un libro in mano. La guerra è la guerra. Tu parli di guerra e ne hai fatta, lo ammetto. E sei contento, così puoi confrontarla con i libri. Era meglio Giubo Cesare o il generale Patton? Attila o chi so io? E invece, perché io faccio la guerra? Lo sai? Dillo ai nostri amici, diglielo, se hai coraggio".

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Pagina 122

Gibson non gli badò: "Vediamo se ricorda due nomi: Bocardo e Bourbakí".

"Entrambi riguardano la logica matematica. Se sa di deduzioni quanto di musica, si rammenterà di Bocardo, una parola che i padri della Scolastica usavano per indicare il quinto modo diretto della terza figura nei sillogismi. 'O' sta per particolare negativo, 'Qualche A non è B' ...".

"Lasci perdere. Bourbaki?".

"Un gruppo di matematici che voleva costruire l'algebra perfetta. Teoremi e prove, teoremi e prove, nessun errore, nessun paradosso. Una specie di Paradiso in terra con i numeri".

"Interessante", disse piano Gibson, "lei sa di matematica".

"Mio padre era un grande matematico e logico. La logica è una scala per gli uomini. La matematica per gli angeli".

"Suo padre era un angelo?", si sorprese a dire Bolliger e subito si guardò intorno, come scusandosi.

"No. Però era l'uomo migliore che io abbia conosciuto", rispose serio Graham.

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Pagina 139

Nessun amore è uguale a un altro. Thomas Diognetus era stato innamorato tante volte, "troppe", diceva. Ma che cosa chiamava "amore"? Una volta il desiderio, un'altra volta una sorta di tenerezza. Da ragazzo, innamorarsi era un impegno, costruire qualcosa insieme. In montagna, nel 1944, aveva conosciuto Rose: che ci faceva lì una fondista arrivata dalla Nuova Zelanda, con un falso passaporto ungherese? Voleva vivere con lei, dopo la Liberazione, fare dei bambini, mettersi a cena davanti a una tovaglia a scacchi bianchi e blu. Una vita di riunioni politiche, di gite sul fiume, tennis con i figli. Niente di tutto questo: dovevano vedersi a Milano, in via Paolo Sarpi, Chinatown, il giorno di Ognissanti del 1945. Pioveva, lui l'aveva aspettata fino a mezzogiorno. Magari lei aspettava dietro l'angolo di via Canonica. Non si erano più visti.

Sparita Rose, il gioco delle tovaglie a scacchi, delle volée insegnate ai bambini, gli era parso subito ridicolo. Era un amore di guerra, se non speri in qualcosa di rassicurante, di semplice, dove trovi il cuore per combattere? Negli anni scialbi del dopoguerra si era innamorato di Elena, ballerina scampata ai tedeschi e ai russi. Al mattino presto si esercitava sul parquet del soggiorno, il disco girava scombiccherato, lei stendeva le gambe sottili, si chinava e le vertebre apparivano una per una, come uno strumento musicale. Allungava le mani oltre le caviglie, oltre il piede, verso la punta delle scarpette rosa pallido.

Non ballò mai più. Da Parigi e Edimburgo le arrivarono offerte, rispose sempre di no. Si preparava ogni giorno, mangiava la sua ciotola di riso, due cucchiaiate di verdura, poi vomitava in bagno. Anoressia, disse il medico. Una parola che Thomas non aveva mai sentito. L'amava come si amava in quegli anni, prima venivano il lavoro, la politica, senza più pensare ai figli.

"Perché non la convinsi a tornare sul palcoscenico? Perché smise di ballare? Per i ricordi di Oranienburg-Sachsenhausen, il lager dove i tedeschi l'avevano rinchiusa? Per gli interrogatori dei sovietici a Berlino? L'amavo, come avevo amato Rose, ma senza più speranza. Un giorno tornai a casa e la trovai con la testa infilata nel forno. Aveva lasciato un bigliettino sulla porta, "Non accendere la luce, amore". Fu seppellita a Musocco, al campo quindici. Non sono più tornato in quel cimitero. Ero l'uníco che le avesse voluto bene".

Thomas Diognetus pensava ai suoi amori, a Rhea, la donna che aveva posseduto fino a desiderare di ucciderla. Rhea riversa, con i ricci sul lenzuolo. Rhea che ti faceva dolere le ossa dal piacere. Rhea che piegavi come una marionetta, ma che non coglievi mai davvero, perché ti sfuggiva con i muscoli elastici. "Forse ho fatto scontare a ogni mia donna le delusioni dell'amore precedente, passando le mie colpe dall'una all'altra, comportandomi con Arnie come avrei dovuto con la ragazza in montagna, chiedendo a Rhea la vitalità cui Elena aveva rinunciato. Chiamo tutto amore: ma ogni volta è stato diverso. Non ci sono due esseri umani che si amano provando lo stesso sentimento". Perfino chi s'era accompagnato con la stessa donna per tutta la vita, non poteva dire di aver amato allo stesso modo: "Se avessi sposato la ragazza della Nuova Zelanda avrei ancora desiderio, speranza, voglia di vivere con lei? O le sorriderei una volta al mese?".

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Pagina 206 [ fine libro ]

"Si sente bene?", disse a voce alta Gentili.

"Vuole un taxi?", disse la segretaria. Li ignorò, tornando sui suoi passi fino alla panchina del Luxembourg. Accanto a lui uno studente italiano dall'aria perbene leggeva un libro. Graham voleva dirgli: "Scappa ragazzo mio, scappa. Ti prendono, ti storpiano, ti ammazzano. Io, noi, i preti, chiunque. La tua giovinezza è in pericolo", ma quello lo guardò sorridendo con tale cortesia che Graham distolse gli occhi turbato.

"Qui e ora è tutto", pensò. "In ogni momento puoi fare la cosa giusta o sigillare il tuo fato nel male. Papà, ti ho delegato la mia salvezza e ho perso me stesso e il tuo ricordo. Non ti vedrò beato, non vedrò più neppure quello stupido di Thomas. L'Anticristo, Satana, ecco chi si celava dietro la tazza dell'uomo di New York: io".

Sbavava schiuma dalla bocca. Il ragazzo lo guardò spaventato, "Si sente male signore?", gli chiese in italiano. Graham gli afferrò le mani: "Scappa. Sei in tempo. Scappa. Prendi la tua vita migliore e vivila. Nient'altro. Non hai un destino, non crederci".

Dal fondo del giardino, verso Place Saint Sulpice, sentì uno strepitio, passi di corsa, voci, il rumore di folla che conosceva bene. "Sarà padre Xante con le donne, ci salveranno, salveranno il ragazzo con il libro, monsignor Gentili e me, torneremo a vita nuova, parlerò lingue mai parlate, parlerò la tua lingua, papà". Appoggiandosi al preoccupatissimo ragazzo, guardò speranzoso verso i viali estemi.

La rumorosa processione si avvicinò e Graham, tremando, Vide che le donne tenevano tra le braccia grandi fasci di gigli candidi e gli uomini, con un nastro a lutto sulla giacca, sventolavano bandiere con lo stemma monarchico. "Evviva il Re. Evviva!", gridava una isgnora rossa di capelli. "A morte Saint-Just. Torni il Re. Abbasso i regicidi", urlava un signore accanto a lei, alto e spettrale, agitando un vessillo. Due giovani distribuivano volantini ai passanti e il ragazzo italiano ne appallottolò uno, rassicurando Graham: "Monarchici. Ce l'hanno con la Rivoluzione che ha ucciso il re. Sono dei poveretti".

"Torni il Re, signore. Torni la tradizione in Europa", urlava l'uomo. Graham Ramsey, scosso dalle convulsioni, non capiva più. "Si sente male?", ripeté il ragazzo italiano. "Preghi per il Re, Monsieur. Preghi perché Dio confonda la Rivoluzione", lo implorò la donna dai gigli bianchi. "Siamo ancora in tempo".

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