Copertina
Autore Gianni Riotta
Titolo N. Y. Undici settembre
SottotitoloDiario di una guerra
EdizioneEinaudi, Torino, 2001, Gli struzzi 542 , pag. 148, dim. 115x195x10 mm , Isbn 978-88-06-16205-4
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe politica , storia contemporanea , paesi: USA , citta': New York
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  3 I.    C'è chi dice che si sia avvertito
          un gigantesco cigolio

 16 II.   La democrazia sul volo 93

 25 III.  Volava con il berretto calcato in testa.

 32 IV.   Dice Jay, Glenn Winuk è tornato dentro
          per dare una mano

 39 V.    Libertà o sicurezza? chiede il maggiore
          Sonya Finley di West Point

 47 VI.   «Perché proprio New York, papà?»

 54 VII.  Dau Tranh, gli uomini del presidente
          a lezione dal generale Giap

 62 VIII. Bin Laden può convivere con i nostri
          vizi, non con le virtú

 70 IX.   La «prima guerra asimmetrica mondiale»

 77 X.    Pasta al nero di seppia, ravioli alle
          erbe amare, downtown Manhattan

 83 XI.   Capire perché ci odiano è cruciale
          per vincere la guerra

 91 XII.  Dopo l'undici settembre, l'ombra amica
          di Lord Keynes

 97 XIII. L'ora del generale Antrace

105 XIV.  «Perché non scrivete che nessun ebreo
          è morto al World Trade Center: venduti!»

114 XV.   Addio alle Torri gentili

121 XVI.  Il mondo dopo l'undici settembre

129 Cronologia dei principali avvenimenti


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina

V.

Libertà o sicurezza? chiede il maggiore Sonya Firley di West Point

La professoressa Sonya Finley, maggiore dell'Esercito degli Stati Uniti d'America, indica sulla sua lavagna bianca due curve opposte. Su una c'è scritto «Liberty», libertà. Sull'altra parabola «Security», sicurezza. «Non equivocate: se una curva cresce, l'altra, inevitabilmente, decresce». Il maggiore Finley insegna antropologia all'Accademia militare di West Point. Tutto intorno è una splendida giornata del settembre americano. I cadetti hanno appena ascoltato il loro comandante in capo, il presidente George W. Bush, dichiarare che «il paese è in allerta di guerra». Le forze armate americane sono in stato di allarme massimo, in codice Def Con Delta. Questo weekend, due giorni di vacanza ancora estiva, niente barbecue sulla spiaggia. Il campionato di calcio dei bambini è fermo a New York. Cinquantamila americani e americane passeranno il fine settimana a spiegare ai figli perché devono lasciarli: «Hanno distrutto il World Trade Center, mi hanno richiamato alle armi». Sono i primi riservisti, civili che ritornano in divisa. Con la National Guard un totale di un milione e trecentomila persone. Ai tempi della Guerra nel Golfo ne furono mobilitati duecentosessantacinquemila. Come difendersi? È l'America civile, l'America che passa il weekend a fare shopping, a costruire un gazebo nel giardino, a lavare l'auto, ad accompagnare i figli a danza e a baseball che si prepara alla guerra, «campagna lunga e sostenuta» dice il vice ministro della Difesa, il falco Paul Wolfowitz. E tutti hanno da rispondere alla domanda che Sonya Finley impone ai suoi studenti, futuri ufficiali: «Guerra o libertà? Libertà o sicurezza?»

[...]

L'equazione della professoressa Finley, una bruna con le spalline e la fama di severissima agli esami, chiede agli Stati Uniti d'America: «Che paese volete essere? Come volete guidare il mondo? Che futuro darete ai vostri figli?» Chi non ama gli americani li dipinge come una nazione di ciccioni viziati, che sfrutta il resto del mondo, bombardando chiunque osi alzare la testa. È una caricatura, ma di certo la sconfitta subita a Manhattan davanti a un nemico senza volto elimina tanti equivoci sul futuro e la strategia degli Usa, in pace e in guerra. In polvere, con il World Trade Center, l'illusione del ministro Rumsfeld che lo Scudo spaziale possa isolare gli americani dai mali del mondo, colpendo, come birilli, i missili lanciati dai paesi «pirati». Non sarà cosí e Rumsfeld, un pragmatico che già aveva collaborato con il presidente Ford, è il primo a rendersene conto, raffreddando gli entusiasmi per le Guerre stellari. La sicurezza degli Stati Uniti, dell'Europa e del resto del mondo libero si conquista faticosamente, ogni giorno, con la politica, la diplomazia, e le armi. Le campagne aeree indolori della Guerra del golfo e dei Balcani, appartengono al secolo passato. Il presidente Bill Clinton aveva lanciato raid isolati contro basi terroristiche in Africa e in Asia nell'estate del 1998. Ronald Reagan aveva fatto bombardare dalla vecchia corazzata New Jersey la costa dei Libano nel 1983, in rappresaglia per l'attentato che aveva distrutto la caserma dei marines a Beirut. Gli esperti concordano adesso nel giudicare inutili questi blitz. Visti alla sera sul video, alla Cnn, i bombardamenti danno un senso di potenza all'opinione pubblica, ma il loro risultato è per lo piú di uccidere donne e bambini innocenti, civili inermi, offrendo nuove leve al terrorismo e argomenti alla sua propaganda e ai supporter in Occidente.

«Libertà o sicurezza?» La sfida davanti agli Stati Uniti è terribile. Occorre mobilitare il consenso della Russia e la neutralità della Cina. Occorre che la Nato sia unita, non dalle belle parole sull'Articolo Cinque, che impone a ogni Stato membro di schierarsi con gli altri, se attaccati, ma da una seria disposizione a battersi. È necessario ricordare all'Onu che c'è agli atti una risoluzione da tutti condivisa contro il terrorismo come metodo di lotta politica, e dunque ricordare al segretario generale Kofi Annan, che nel corso della guerra sarà insignito dal Premio Nobel per la Pace, che è stata colpita la città da sempre ospite del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite e la piú vicina alla sua filosofia multiculturale e multirazziale. Non sarà la «guerra di vendetta degli americani»: può essere, con il protocollo già concesso dall'Onu, una campagna solidale contro il terrorismo e l'intolleranza. Il Pakistan del dittatore Pervez Musharraf è un altro tema difficile. Senza un suo - sia pure cauto - aiuto, ogni azione militare in Afghanistan sarebbe non soltanto difficile, ma pressoché impossibile. Aiutare il regime pakistano, intollerante e autoritario, potrebbe rinnovare l'errore commesso a Kabul, quando la Casa Bianca di Reagan, per contrastare i sovietici invasori, sviluppò la mostruosa creatura del terrorismo di Osama bin Laden. Senza contare che l'India, che stava ravvicinandosi agli Usa, è preoccupata dall'intesa con Musharraf. Quando chiedete agli esperti di strategia: «Qual è l'area piú pericolosa del mondo?», la risposta dei piú accorti è: «La frontiera indopakistana in Kashmir». E adesso, tutto intorno, la guerra si addensa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 114

XV.

Addio alle Torri gentili

«Le fatiche del cronista non fanno notizia» è lo slogan che ogni studente della scuola di giornalismo della Columbia University, sul campus con i prati verdi alla frontiera di Harlem, deve imparare subito. E non solo: le emozioni del cronista, i suoi sentimenti, i sorrisi, le lacrime, le paure, le incertezze, i dubbi, le soddisfazioni e le nostalgie non fanno notizia, mai. È il cardine del mestiere e violarlo mette a rischio l'equanimità e il rapporto di franchezza e lealtà con lettori e lettrici. Eppure, scrivendo questo diario dalle macerie di New York, mi è spesso sembrato che solo negando la massima del mio professore Ken Goldstein alla Columbia, potessi davvero restituire l'impatto, la violenza, la brutalità dell'attacco che ha sterminato 6398 vite innocenti.

Solo parlando come si usa con i familiari a cena, «Hai saputo? M. aveva fatto colazione alle Torri la stessa mattina e, bevuto il caffè, si è salvato per una manciata di minuti». Solo riportando le voci dirette di New York, «Cari genitori, vi comunichiamo che la piccola A. è stata ritirata dai genitori dalla classe di asilo frequentata da vostra figlia. Suo papà è scomparso nella distruzione delle Torri, l'undici di settembre e la famiglia ha deciso cosí...», solo cosí potessi raccontare una strage che ha mutato il mondo e fatto debuttare il secolo nel buio. Ogni mattina, accompagnando mia figlia sull'autobus giallo che la porta a scuola, non riesco, legandole la cintura di sicurezza sul grembiulino verde chiaro, a non dare un'occhiata al posto vuoto dove sedeva A.

Le fatiche del cronista non fanno notizia, non lo dimenticate. E quindi non posso scrivere della scuola di vela, sotto le Torri Gemelle, un'istituzione cosí tipica di New York, volontari, ragazzi e ragazze appassionati di mare che dànno lezioni ai marinai della domenica. Le virate sotto il World Trade Center, vele spiegate al ponte di Brooklyn, lasciarsi alle spalle la Statua della Libertà, a dritta Ellis Island, dove sbarcavano gli emigranti. L'esame con il recupero del fantoccio, «uomo in mare!», l'equipaggio promosso o bocciato tutto insieme, agguantare la sagoma nell'acqua rugginosa, mentre il compagno timoniere cerca di evitare i giganteschi traghetti verso Staten Island, 25 centesimi, 500 lire, la crociera piú economica al mondo. Sullo sfondo la Casa del marinaio, l'ospizio per vecchi lupi di mare che fu diretto dal fratello di Melville, Moby Dick a Manhattan.

Dopo ogni manovra, fradici di spuma, alzare gli occhi e vedere la mole argentata delle Torri brillare benigna come un faro, certezza di approdo, di stabilità, di sicurezza, eleganza e progresso. Le ho riviste ieri le Torri, sono andato a salutarle. Ho rimesso i piedi sulla cenere gialla, cemento, intonaco, polvere di arazzi di Mirò carbonizzati, schegge dei mobiles di Calder fusi, documenti vaporizzati e naturalmente, come non pensarci? polvere di uomini e donne come nei crematori nazisti. All'angolo tra Broadway e Maiden Street, un passaggio che hanno battezzato «Canyon degli eroi», si cammina in punta di piedi, come nelle cattedrali antiche dove il pavimento è lastricato di tombe in marmo. Il popolo del World Trade Center vola intorno a noi con la brezza dal mare. Per vedere il cratere con il milione e duecentomila tonnellate di macerie fumanti per il rogo che arde ancora sottoterra e che ancora brucia acre la gola, la postazione migliore è dietro Liberty Street, la vera culla di New York.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 121

XVI.

Il mondo dopo l'undici settembre

Queste pagine sono nate come un diario tenuto sul quotidiano «La Stampa», dal giorno dell'attacco a New York e Washington in avanti. Il loro solo valore è di notazioni personali svolte in pubblico, nel tentativo di comprendere che cosa davvero stia accadendo, condividendo con i lettori e le lettrici analisi, aneddoti, spunti di riflessione. Si tratta di uno strumento giornalistico tradizionale, la cronaca, caduto in disuso da qualche tempo ma che invece è, quando la Storia decide di mutare pagina, ancora assai utile.

L'undici di settembre 2001 la Storia ha davvero voltato pagina. Credo che nessuno di noi, ancora, riesca a comprendere fino in fondo come la nostra vita non sarà mai piú uguale. Come le nostre esistenze, individuali e di comunità, siano per sempre mutate. Guardate lo scacchiere internazionale. Gli Stati Uniti perdono l'illusione di essere la sola superpotenza superstite al mondo. Nel 1988 il professor Paul Kennedy aveva fatto scalpore con il suo saggio su The Rise and Fall of Great Empires che ombreggiava il declino dell'impero americano sulla falsariga delle potenze europee. L'anno dopo il filosofo Francis Fukuyama aveva argomentato nel suo saggio La fine della stotia che, caduti il Muro di Berlino e il comunismo, l'avvenire era un quieto governo liberale diffuso. «Sai cosa mi preoccupa di piú?» mi disse Fukuyama a Washington, corrugando il suo gentile volto dai lineamenti giapponesi: «Che ci annoieremo. Ci annoieremo moltissimo. Non accadrà piú nulla». Cinque anni piú tardi Samuel Huntington divenne il pupillo intellettuale dei media con il suo The Clash of Civilization, lo scontro delle civiltà. Il mondo ridotto a pochi bacini politico-culturali in lotta tra di loro, con Islam e Cristianità ai ferri corti.

Kennedy, Fukuyama e Huntington sono studiosi seri. Ognuno di loro ha individuato un seme, un filo, un'onda della nuova Storia. Nessuno ha avuto ragione in pieno ma intrecciare le loro prospettive è utile. In un certo senso è proprio la pars destruens delle loro teorie che ci viene in soccorso, piú che le tesi impugnate. È vero che l'America declina. Ma proprio mutando, gli Usa assorbono culture e modi di vita prima estranei che, anziché dividerli, li rendono piú forti. È vero che il divide, lo spartiacque ideologico è venuto meno. La vittoria nella Guerra fredda non si è ottenuta solo per il fallimento economico e sociale dell'impero sovietico. Ma anche, soprattutto sostiene la saggista Barbara Spinelli, con la débacle morale del Pcus. Quando il commediografo e futuro presidente ceco Vaclav Havel denuncia la vacuità morale del breznevismo, la vittoria occidentale è già garantita. È stato facile per la sinistra europea piú goliardica irridere lo slogan del presidente americano Ronald Reagan: «L'Urss è l'impero del male». Ma tale appariva il dominio sovietico a tanti cittadini del mondo.

La Storia non è finita. L'undici settembre ha aperto una guerra che non passa solo dalle gole dell'Afghanistan o dalle metropoli insanguinate dai terroristi. Passa, soprattutto, dalle nostre coscienze. Quando Osama bin Laden sfida l'Occidente, non lo fa in nome della giustizia sociale. Bin Laden non è Che Guevara. Non ha la nobile utopia dei paesi afroasiatici riuniti in conferenza a Bandung nel 1955, in cerca di una direzione alternativa a quella coloniale. Rampollo di un clan miliardario, sia pure di recente ricchezza, convertito all'Islam ortodosso dopo una gioventú dissoluta, Bin Laden si forma combattendo in Afghanistan contro «l'impero del male» sovietico, grazie ai fondi, all'organizzazione e al training politico e militare della Cia. Tornato in patria, in Arabia Saudita, dopo la sconfitta sovietica, si scandalizza per la presenza di truppe americane, «infedeli», di stanza presso i luoghi sacri musulmani, soprattutto la Mecca. Ne chiede l'allontanamento, traffica ricatti e complicità con il regime saudita, finché non gli viene revocata la cittadinanza.

Bin Laden contesta la leadership di Riad, ma non contesterà mai le ingiustizie sociali imperanti a Riad. Non si interroga sui profitti del petrolio o del cemento, che hanno reso ricca la sua famiglia, né ha interesse a battersi perché si organizzino sindacati o rivendicazioni economiche. Insisto: il contratto che Bin Laden propone all'Occidente è nitido, ritiratevi dal mondo islamico, abbandonate Israele alla sua sorte, non impicciatevi e vi lasceremo in pace. È assai probabile che, se assumesse il controllo dei paesi musulmani, Bin Laden contratterebbe con gli Usa e l'Europa accordi sul greggio, piú o meno come hanno fatto finora gli altri raiss della zona.

Ma, e qui non funziona piú il paradigma di Huntington, Bin Laden è irriducibile contro i leader arabi e musulmani che non adottano la sua visione fondamentalista del Corano e del mondo. Con i leader occidentali, alla fine, i leader fondamentalisti possono anche coesistere, a malincuore. Ma devono muovere guerra senza quartiere ai «moderati». Un accordo di pace giusto e razionale in Medio Oriente, regimi arabi che permettano l'istruzione della donna, semplici misure di libertà di culto e di movimento, apertura minima al mondo esterno, sono per Bin Laden e i suoi seguaci, come per la setta dei Taleban a Kabul, eventualità sciagurate, da colpire con anatema.

| << |  <  |