Copertina
Autore Angelo Maria Ripellino
Titolo Praga magica
EdizioneEinaudi, Torino, 1998 [1973], Tascabili Saggi 71 , pag. 352, dim. 120x195x17 mm , Isbn 978-88-06-12761-9
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe storia , narrativa ceca , viaggi , critica letteraria , storia letteraria , citta': Praga
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Pagina 5

1.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hasek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell'obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Vítézslav Nezval ritorna dall'afa dei bar, delle bettole alla propria mansarda nel quartiere di Troja, attraversando la Vltava con una zàttera. Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, i massicci cavalli dei birrai escono dalle rimesse di Smíchov. Ogni notte, alle cinque, si destano i gotici busti della galleria di sovrani, architetti, arcivescovi nel triforio di San Vito. Ancor oggi due zoppicanti soldati con le baionette inastate, al mattino, conducono Josef Svejk giú da Hradcany per il Ponte Carlo verso la Città Vecchia, e in senso contrario, ancor oggi, la notte, a lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da panoptikum, due automi in finanzíera e cilindro accompagnano per lo stesso ponte Josef K. verso la cava di Strahov al supplizio.

Ancor oggi il Fuoco effigiato dall'Arcimboldo con svolazzanti capelli di fiamme si precipita giú dal Castello, e il ghetto si incendia con le sue scrignute catapecchie di legno, e gli svedesi di Königsmark trascinano cannoni per Malá Strana, e Stalin ammnicca malèfico dal madornale monumento, e soldatesche in continue manovre percorrono il paese, come dopo la sconfitta della Montagna Bianca. Praga «fu sempre città di avventurieri», si legge in un dialogo di Milos Marten, «per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami. Venivano a frotte dalle quattro parti del mondo a predare, a spassarsela, a spadroneggiare»: «e ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa di questa misera terra, la quale dava sino a esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto».

Troppo spesso asservita ed afflitta da ruberie e da soprusi, troppo spesso teatro alla spocchia di prepotenti stranieri, di masnade bruttissime di lanzichenecchi e gradassi, che ne fecero strazio e si lupeggiarono ogni sua sostanza. Quanti grugni porcini, impacciandosi nelle occorrenze di Praga, vi si sono accampati nel corso dei tempi: squassapennacchi dalle armature dorate e dal gonfio petto tintinnante di ciondoli, fratacchioni di tutte le confratèrnite e prelati del porta inferi, Obergauner che piombavano in side-car, seminando rovina, e machiavellisti e fratelli traditorissimi, e ceffi mongolici come in racconti di Meyrink, e qualche assessore di collegio caucasico, preposto a imbavagliare il pensiero, e ciurme di regolisti e di sgherri che, puntando il mitra, sbaiaffano fagiolate ideologiche, e interi conclavi di generali capocchi, tra i quali sia ricordato; per le innumere placche e medaglie che lo avviluppano, lo zelante Episciòv, coglione in crèmisi.

Alla soglia della seconda guerra mondiale Josef Capek, che sarebbe perito in un Lager nazistico, narrò in un ciclo di caricature la storia di due protervi stivali, due neri viscidi guitti che, moltiplicandosi come le salamandre, spargono per l'uníverso menzogna, sfacelo e morte. Ancor oggi pesanti stivali calpestano Praga, ne strozzano l'inventiva, il respiro, l'intelligenza. E, sebbene ciascuno di noi non si stanchi di sperare che queste sciagurate scarpacce, come quelle che disegnò Josef Capek, finiscano tra le cianfrusaglie di Chronos, il Gran Rigattiere, tuttavia molti si chiedono se, data la brevità della vita, ciò non accadrà troppo tardi.


2.

Detlev von Liliencron era convinto di esser già vissuto una volta nella capitale boema, non come poeta, ma come capitano dei lanzichenecchi del Wallenstein. Anch'io ho la certezza di avervi abitato in altre epoche. Forse vi giunsi al séguito della siciliana principessa Perdita che, in The Winter's Tale di Shakespeare, va sposa al principe Florizel, figlio di Polissene, re di Boemia. Oppure come scolaro dell'Arcimboldo, «ingegnosissimo pittor fantastico», che dimorò per molti anni alla corte di Sua Maestà Cesarea Rodolfo II. Lo aiutavo a dipingere i suoi ritratti compòsiti, quegli inquietanti e scurrili mostaccí, rigonfi come di porri e di scròfola, che egli imbastiva ammucchiando frutti, fiori, spighe, paglie, animali, cosí come gli Incas mettevano pezzi di zucca nelle guance e occhi d'oro ai cadaveri.

Oppure, nello stesso torno di tempo, ciarlatano in una baracca a Piazza della Città Vecchia, spacciavo lettovari ed intrugli ai babbioni e, quando gli sbirri scoprirono i miei ingannamenti, feci un leva eius, tornando da Praga come una gazza scodata. O piuttosto vi giunsi con un Caratti, un Alliprandi, un Lurago, con uno dei tanti architetti italiani, che diedero inizio al Barocco nella città vltavina. Ma se guardo il quadro in cui Karel Skréta effigiò (1653) Dionysius Miseroni con una coppa di ònice in mano, mi sembra di aver lavorato, io che amo limar le parole come pietre dure, nella bottega di questo intagliatore, che fu anche custode delle collezioni imperiali.

O forse non c'è bisogno di risalire cosí lontano: semplicemente ero uno dei molti figurinai è stuccatori italiani, che nel secolo scorso affluirono a Praga, aprendovi negozi di statuette di gesso. Benché sia piú probabile che io appartenessi alla folta schiera di quelli che, a ogni ora del giorno, giravano per le viuzze e i cortili della capitale boema con un organetto, nella cui parte anteriore splendeva un teatrino invetriato. Posavo l'organetto su un tréspolo, alzavo la tela di cànapa che lo ricopriva e, al volgersi della manovella, nella bacheca raffigurante una fuga di piccole sale con sfondo di specchi danzavano a coppie minuscoli vagheggini in marsina e calzoni bianchi, bianche damine con la crinolina e la pettinatura a paniere ed esigui ventagli.

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Afferma Nietzsche in Ecce Homo: «Se cerco un'altra parola per dire musica, trovo sempre e solamente la parola Venezia». Io dico: se cerco un'altra parola per dire arcano, trovo soltanto la parola Praga. È torbida e malinconiosa come una cometa, come un'impressione di fuoco la sua bellezza, e serpentina ed obliqua come nelle anamòrfosi dei manieristi, con un alone di lugubrità e di sfacelo, con una smorfia di eterna disillusione.

Osservandola di sera dalla sommità di Hradcany, Nezval notò: «Se guardi di lassú Praga, che accende ad una ad una le sue luci, ti senti come uno che volentieri si getterebbe a capofitto in un lago chimerico, nel quale gli sia apparso un castello incantato con cento torri. Questa sensazione, che in me si ripete quasi sempre ogni volta che su quel nero lago di tetti stellati mi sorprende lo scampanio vespertino, un tempo nella mia mente si univa all'immagíne di una defenestrazione assoluta». Lampeggianti parole che colgono il nesso tra la mestizia di un paesaggio intriso di un lutto cosmíco, un lutto aggrandito dai rispecchiamenti fluviali, e la sostanza franosa, la trama di crolli, le inibizioni, i precipizi della storia praghese.

Ma già prima di Nezval, in modo analogo, Milos Marten aveva adombrato l'ontología Praga-mistero, che meglio si avverte, scrutando la città dal poggio di Hradcany al tramonto: «Fra poco divamperanno nel nero cristallo della notte le luci, centinaia di occhi che guardano in su, malsicuri»: «Li conosco tuttí! I custodi del fuoco dei lungofiume, duplicati nello specchio della scintillante Vltava, questo ardente viale che sale per la collina come nell'infinito, e là, in alto, il cespuglio di candele accese sul catafalco di un cadavere ogni giorno diverso. E la pupilla fosforescente di un uccello rapace gíú accanto al ponte e lo sguardo sghembo di una casetta simile al volto di un cinese che rida».

L'ambigua città vltavina non giuoca a carte scoperte. La civettería antiquaria, con cui va fingendo di essere ormai solamente natura morta, taciturna sequela di trapassati splendori, spento paesaggio in un globo di vetro, non fa che accrescere il suo maleficio. Si insinua sorniona nell'anima con stregamenti ed enigmi, dei quali solo essa possiede la chiave. Praga non molla nessuno di quelli che ha catturato. Dunque pensaci fino a carnevale.

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Pagina 22

7.

Questo non è, signori, un Baedeker, sebbene molte vedute della città vltavina vi compaiano, scattando come i vetrini a colori di un View-Master, di un Guckkasten. Non farò l'accompagnatore saccente, che caca le sue imparaticce parole come un graziano.

Questo mio dittamondo praghese è un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell'insicurezza e nei mali, con disperàggine e con pentimenti continui, con l'infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flánerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa. E perciò scorrerà traballante come le vecchie pellicole, che si proiettavano al Bio Ponrepo, il primo cinema a Praga, nello santán «Al luccio azzurro»: un libro incrinato da strappi e sobbalzi e lacune e da accessi di accoramento, come la musica del Sax Alto di Charlie Parker. Del resto, come afferma Holan: «Sei senza contraddizioni? Sei senza possibilità».

Qualcosa di irreparabile si è abbattuto in un agosto già lontano sulla capitale hoema, qualcosa che ha stravolto la nostra vita. E questo libro mi guarda con gli occhi lacrimosi della mia vecchiaia, me lo trascino ansimando, con una profonda stanchezza. Fatico a mettere insieme gli innumeri appunti, a raccogliere i foglietti di molte stagioni felici, volati in aria come fanfaluche rapite dal vento. La penna sergente si sforza di allineare le sornione parole soldati. Frattanto Jirka e Zuzanka hanno avuto un bambino, si chiama Adam: vuol dire che, dopo le traversie, ricomincia tutto daccapo? Ma quanti sono in prigione? Quanti sono morti di crepacuore? Quanti si sono dispersi nell'oscurità dell'esilio? Quanti hanno indossato un ignòbile abito servigiale?

E perciò come potrei scrivere con distaccata e sussiegosa dottrina, in bell'ordine, un esauriente trattato, soffocando la mia irrequietezza, il mio argentovivo col rigor mortis dei metodi e con la lana caprina delle pedanti disàmine? Vado invece intessendo un libro a capriccio, un agglomeramento di meraviglie, di anèddoti, di numeri eccentrici, di brevi intramesse e di pazze giunte: e sarei felice se, a differenza di tanta ciurmaglia di carta che ci circonda, non fosse governato dal tedio. Come Jirí Kolár nei suoi collages e nelle sue «poesie evidenti», incollerò in queste pagine brandelli di quadri e di dagherròtipi, antiche acqueforti, stampe rubate dal fondo di cassapanche, réclames, illustrazioni di vecchi periòdici, oròscopi, brani di libri di alchímia e di viaggi stampati a caratteri gotici, storie di spettri senza annodomini, fogli d'album, chiavi dei sogni: i cimèli di una cultura svanita.

La capitale hoema non è infatti soltanto vetrina di preziose pietruzze e di lampeggianti reliquie e ostensori, che fanno vergognare il sole della morta sua luce. C'è un'altra faccia di Praga, il suo aspetto infetto, arruffato di tandlmark (o tarmark), ossía di mercato di cianfrusaglie e di roba consunta e di scarti da ferrivecchi, tra i quali magnificenze di gemme sfavillano. L'antico tandlmark della Città Vecchia dilaga come una zizzània per tutti i quartieri, sino all'estrema cisposa periferia.

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Pagina 31

Tutte queste attinenze però non attenuarono l'Inseldasein, l'incapacità di adattarsi degli ebrei tedeschi di Praga. Il pellegrinaggio di Jirí Langer nei medievali villaggi degli zadíkim va forse considerato come un tentativo di fuga dalla città vltavina, alla stregua dei tentativi falliti di Kafka. L'adesione di Brod al sionismo, di cui Praga fu uno dei primi centri all'inizio del secolo, l'accanimento di Werfel nel contrapporre Verdi al Wagner prosperato dalla minoranza germanica, il girovagare di Kisch per il globo, l'entusiasmo di Kafka per i guitti jiddisch della compagnia di Jizchak Löwy: tutto ciò sembra attestare il desiderio che li torturò: di sottrarsi agli «artigli» di Praga, cambiando orizzonte. Ma la fuga fisica non equivale a liberazione: anche lontani dalla città vltavina, essi provarono sempre, sino alla fine, un immutabile senso di estraneità, un'insulare sradicatezza. Eppure fu appunto questo paradossale viluppo di contrasti e di commessure, questa vita apprensiva nel vacuo di una città di frontiera a far nascere la fitta schiera di grandi scrittori tedesco-praghesi sullo scorcio della monarchia.

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Pagina 46

Nel Processo, nel piú praghese dei romanzi cechi e tedeschi, Praga non è mai nominata. Ma il pudore che vieta la nominazione non toglie che essa traspaia in filigrana, in una luce di fieno. La presenza di Praga, assottigliata ai suoi tratti essenziali, è qui di gran lunga piú forte che nella topografia verseggiata di Rilke, nei Larenopfer, in cui Hradcany, San Vito, Loreta, Vysehrad, Malvazinky, Smíchov, Zlíchov, la Vltava, la cúpola di San Nicola compaiono a tutto tondo, come in un organetto di vedute a colori. A render piú arcana e piú onirica la città vltavina nel Processo concorre la stessa scrittura sobria e precisa, la scrittura monòdica, vitrea, aliena da orpelli, la secca, oggettuale argomentazione talmudica. Questa avvocatura trascendentale contrasta col gonfio e infiammato linguaggio dei neoromantici e degli espressionisti praghesi, sebbene, come Adorno ha notato, partecipi anch'essa dell'espressionismo e risenta della pittura di quel movimento.

Nel Processo dunque la capitale boema è velata ed anònima: anònima e priva di anamnèsi come il protagonista, trama di schemi di luoghi, di luoghi-archètipi. Eppure nell'ordíto astratto del suo tracciato molti punti reali sono identificabili. Potremmo congetturare che la banca, in cui lavora Josef K., rimandi all'edificio delle Assicurazioni Generali a Piazza San Venceslao, dove Kafka fu impiegato, prima di essere assunto come procuratore legale all'Arbeiter-Unfall- Versicherungs-Anstalt für das Königreich Böhmen, o piuttosto, se si tien conto del bugigàttolo ingombro di vecchie cartacce e di vuote bottiglie da inchiostro, dove un frustatore scudiscia i due guardiani, al fatiscente palazzo percorso da labirinti in penombra della Böhmische Unionbank (Ceská Banka Union) a Na Príkope. Il quartiere nel quale si acquatta l'enorme edificio, dove Josef K. subisce il primo interrogatorio, con le sue informi catapecchie, con le sue finestre piene di materassi, con le sue botteguzze al di sotto del livello stradale, benché sia detto che sorge in periferia, fa pensare alla diroccata Città ebraica. L'ancor piú sudicio e grigio sobborgo, in cui, arrampicata in cima a ripide scale, si annida l'opprimente bicocca di Titorelli, potrebbe essere quello proletario di Zizkov, amato da Kafka.

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Pagina 49

11.

L'eroe precipuo della dimensione magica di Praga è il pellegrino, il viandante, che riappare costantemente nelle lettere boeme con nomi diversi: «poutník» (pellegrino), «chodec» (passante), «tulák» (vagabondo), «krácivec» (camminatore), «kolemjdoucí» (giròvago), «svédek» (testimonio). Il capostipite di questa numerosa famiglia è il «Poutník», il Pellegrino, del romanzo allegorico Labyrint svéta a ráj srdce (Labirinto del mondo e paradiso del cuore), che Jan Amos Komensky scrisse a Brandys nad Orlicí, nel 1623, dopo la disfatta della Montagna Bianca.

Le terre ceche e morave, percorse da soldatesche e masnade di sbricchi e di sgherri, erano allora campo di atroce battaglia, lago di vivo sangue, sepoltura di infelici ossa, arena di arsioni e di ruberie. Nelle memorie di Dacicky z Heslova, all'anno 1620, si legge: «Poi gli imperiali, visto che non c'era più resistenza in Boemia, si misero a predare, a saccheggiare, a sottrarre qua e là per l'intera terra ceca, frugando tutti gli angoli e catturando la povera gente, col laccio al collo o altrimenti col fuoco tormentandola, torturandola e massacrandola, per scoprirne e scovarne il denaro nascosto, sicché terribile e compassionevole era il racconto di queste cose. E cosí non v'era nient'altro che: ahi, ahimè e poveri noi, e dammi e prendiamo! Nemmeno ai cattolici di religione romana fu concesso perdono e compatimento; dacci ogni avere e tieniti pure la tua fede! Molti, fuggendo nei boschi assieme ai bambini, vi trovarono morte».

Komensky, giovane sacerdote dei Fratelli Boemi, dové lasciare Fulnek: i bravi gli avevano incendiata la biblioteca, la peste gli prese la moglie e due figli. Dal disgusto per la brutalità e dal dolore nasce il suo «labirinto». Il Pellegrino di Komensky si reca nel mondo, per conoscere ceti e mestieri. Gli vengono incontro due guide: Onnisciente Dappertutto (Vsezvéd Vsudybud), che gli mette al collo le briglie della Curiosità e alla bocca il morso di ferro dell'Ostinatezza, e Abbaglio (Mámení), stranamente camuffato e avvolto di nebbia, il quale gli fa inforcare gli «oculari» di vetro del Dubbio con le stanghette di corno dell'Abitudine, perché la regina del mondo, Moudrost (Saggezza) o Marnost (Vanità), non vuole che gli uomini guardino ad occhi nudi. Occhiali mirabolanti: «a chi guardava attraverso di essi - asserisce il Pellegrino - la cosa lontana pareva vicina e la vicina lontana; la piccola grande e la grande piccola; la noiosa bella e la bella noiosa; la nera bianca e la bianca nera...». Cosí conciato, il Pellegrino diventa una sorta di fantoccio allegorico, un ibrido, un uomo-cavallo, da porre vicino ai mascherati dell'Arcimboldo. Ma gli occhiali (questa sella da naso, che nel teatro folclorico del Barocco boemo sarà segno di regalità) non gli calzano bene, sicché, alzando lo sguardo, egli può ancora vedere naturalmente, anche se con la coda dell'occhio, di sghembo. «Benché mi abbiate serrata la bocca e velati gli occhi, mi rimetto al mio Dio che non vorrete legarmi la ragione e il pensiero».

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Pagina 60

16.

Della solitudine di Kafka nella sua terra natía. Dell'ebreo praghese di lingua tedesca, che vive come in contumacia in un mondo slavo. Che soffre tragicamente la sua alterità, estraneo in ugual misura ai tedeschi, di cui pur condivide il linguaggio, e ai cechi, dai quali è considerato un tedesco, un forestiero. Del malessere dell'ebreo non ammesso ma tollerato, con l'animo ingombro di un senso di insondabile colpa e come costretto ad attendere perennemente un decreto di accoglimento. Di tutto questo abbiamo scritto.

Il groviglio è arruffato dalla stregheria stessa di Praga, mantice di solitudine e di paura e di perdimento. E in questa luce la situazione dell'ebreo praghese acquista intime analogie con quella dell'Homo Bohemicus, il cui albergo nel punto cruciale d'Europa diventa spesso ghetto e prigione. I due principali romanzi di Kafka sono specchi della dimensione praghese, e poco cambia se l'Agrimensore viene respinto dal Castello, mentre con moto inverso Josef K. è chiamato al tribunale.

Con rimandi kafkiani si può rinvenire lo stesso disagio di creatura sui margini in ogni creatura praghese, straniera nella sua terra e soggetta agli abusi di autorità inaccessibili, a una solerte e sfuggente inquisizione, che scruta e braccheggia e manipola l'uomo. Intrappolato in tortuose macchinerie, il pellegrino non può decidere della propria sorte, di lui decide una burucrazia misteriosa, a lui, si chiami Josef Svejk oppure Josef K., non resta che cercar sotterfugi e stratagemme ingegnose, per passare attraverso il soffocante rituale di regole e di imposizioni.

C'è un piccolo passo dalla condizione di pellegrino a quella di accusato innocente. E l'accusato non ha alternative: deve acquietarsi alle risoluzioni e ai soprusi di arcani giudici e funzionari, contro cui nulla valgono i criteri della consuetudine, i razionali argomenti. Non solo, ma, nel subire l'arbitrío, ovvero l'assurda logica dei loro cavilli, lui stesso finisce col credere che la sua anima sia imbrattata di imperscrutabili colpe. E cosí accade che accetti la propria colpevolezza e, sentenziato a morte, si faccia persino complice dei suoi manigoldi.

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Pagina 67

Orten partecipa di alcuni motivi dominanti della demonía praghese: l'ossessione del nulla, l'eterno errore («sbagliare eternamente, fino ad essere puri»), l'incubo di un muro insormontabile, il senso della vanità (egli dice a un canarino: «Sono anch'io come te. Di Canarinia. - Venuto al mondo per la vanità»), la coscienza della colpevolezza. Orten, che vive come Josef K. tra le strettoie di una camera di subaffitto, è anche lui un condannato innocente. Nella Poslední básen (Ultima poesia, 24.IX.40) si autoaccusa:

        - Sono colpevole per l'odore che odora,
    per il vano desiderio di un padre,
    per i versi, lo so, per l'amore perduto,
    per il pudore e il silenzio e la terra
                                      infelice,
    per il cielo e il Signore che ha accorciato
                           severo i miei giorni
    in un paradiso morto all'apparenza -.

Se soffro, non è possibile che io sia privo di colpa. Sono colpevole, perché condannato. E accetto una pena di cui non so la ragione. Accetto le colpe del prossimo, proclamandomi colpevole. Invitati ad esprimere l'ultimo desiderio, i condannati a morte - afferma Orten nella Prima Elegia - non chiedono clemenza per la vergogna e la paura di mettere il giudice nell'impaccio di non poterli accontentare. Chiedono piuttosto tabacco e una cena ed un sorso «che inumidisca la gola, - la gola che sarà strangolata». «Comprensivi, solleciti», fingono di aver gustato quel vino «per buona pace del boia». «Compatire i carnefici, andare diritto al patibolo - e cantare, cantare fino all'estremo!».

In quella situazione senza scampo scriver poesia fu per Orten come respirare. Soltanto la poesia, vergata giorno per giorno, gli permise di non crollare dallo sconforto. La poesia, che gli nasceva in un flusso melodico, sebbene non schiva dei trucchi e delle scaltrezze, era per lui l'unica difesa possibile dell'esistenza minacciata, e insieme un rimedio alla perdita della libertà. Già nel 38 aveva scritto a Halas: «voglio esser poeta con tutto il cuore e ancor piú, e voglio morire per questo». Ma nel triennio delle persecuzioni, nella doppia estranía di pellegrino praghese e di ebreo senza patria, si fa piú accanito l'attaccamento di Orten alla «cosa chiamata poesia», groviglio terribile che assorbe l'intero organismo, risucchia i nervi, dissangua. Poesia come caparbietà, argine che respinge ancora la morte, anche se ne vèrmina tutto, ricerca dell'essenza dell'uomo nell'impenetrabile nulla che lo avviluppa, ma insieme barlume di speranza, anche quando ormai la candela brucia da entrambi i capi, perché «dopo l'infinito resta la Nona ancora».

Orten supera il vuoto di quegli anni flagizíosi con una sorta di furia poetica. «Solo questo è il mio mondo, la mia speranza, la mia fede, scrivere, scrivere fino al termine estremo». Quanto piú cresce l'orrore all'intorno, tanto piú aumenta il suo spasimo di trasformare in atto creativo l'esasperante tensione, come se tutto quello che accade e che lo minaccia fosse solo uno stimolo perché egli scriva. Il pellegrino sa bene che non cambierà niente, perché la poesia non è ellèboro per risaldare il cervello agli scatenati, perché tutto è predestinato e immutabile: «La pietra fu data, - la pietra fu data!». Ma ciò nonostante bisogna aderire al proprio destino, guizzare nell'inestricabile assurdo, trovando salvezza in se stessi, dare un senso a ciò che è piú disperato. Bisogna compiersi fino in fondo, essere, prima che vengano a prenderti.

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Pagina 78

23.

Nel suo viaggio per il labirinto del mondo, il pellegrino comenico incontra balzani astronomi e astrologhi che, studiando le congiunzioni e le opposizioni dei corpi celesti, inventano pronostici e oròscopi. Onnisciente lo guida a un'altana, di dove gli astronomi appoggiano scale al firmamento, per afferrare le stelle e misurarne i percorsi con régoli, corde, pesi, compassi. Il pellegrino prende diletto a quel giuoco, ma ben presto si accorge che le stelle danzano diversamente da come costoro vorrebbero. Per cui essi si lagnano dell'anomalitas coeli.

L'astrologia giudiziaria è un attributo costante della natura di Praga, in specie di Praga dell'epoca di Rodolfo II. Nelle sue memorie, che si riferiscono appunto al periodo tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, Mikulás Dacicky z Heslova accenna piú volte a stelle precipitanti, a fantasme codate, a dragoní volatici, a fuochi pazzi, che appaiono nel firmamento.

L'età di Rodolfo II brulica di meteoristi e di astrologhi e di «indovini di nuvole» che, fiutando le cose future come cani venatici, desumono dalle stelle presagi di calamità. Praga offre rifugio a Tycho Brahe e a Keplero. Il passaggio di torbide e malinconiose impressioni di fuoco annunzia morbi e lacci e tracolli e rotte di eserciti e disertamenti delle campagne.

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Pagina 82

26.

Degli astrologisti e professori di sortilegi, Tycho Brahe soprattutto (1546-1601) si è fuso con la demonía di Praga, dove giunse per desiderio di Rodolfo II nel 1599. E non importa se egli trascorse la piú parte del soggiorno ceco, non a Praga, ma a Benátky nella Boemia orientale, in un castello di caccia trasformato in uno sfarzoso osservatorio, consimile a quello di Uranienburg (Arx Uraniae) sull'isoletta di Hveen nell'Oresund, che in tempi felici gli aveva donato re Federico II di Danimarca.

Se il tuffarsi del mergo nell'acqua pronostica pioggia, il nome Tycho preannunzia quella cascata di nebbie che chiamano Praga. L'umorista tedesco Albert Brendel (1856) lo chiamò Tíchodejprág. Egli appartiene al mistero di questa città, non solo per la scenería di astrolàbi, clessidre, armille, sestanti, fra cui si muove, ma anche per il grande naso posticcio, che gli dà aspetto sinistro e lo agguaglia al manichino spettrale di un compendio di rinoplastica. Secondo Max Brod, una pròtesi d'oro e d'argento sostituiva il naso, da lui perduto, quando era studente a Rostock, in un duello per una dama. A Tycho piaceva lasciarselo palpeggiare dagli altri, e i suoi avversari insinuavano che egli se ne servisse come di un'alidàda per compiere le osservazioni celesti, quasi il suo volto fosse composto di attrezzi da astronomo, alla maniera dei quadri dell'Arcimboldo. Ad aggrandire il grottesco si aggiunga che egli sarebbe morto per aver troppo a lungo trattenuto l'urina durante un banchetto. La «loquacità di Ticone», cui accenna Galileo, sembra anch'essa confarsi alla sostanza della città vltavina.

La lastra tombale di Tycho nella chiesa gotica di Tyn balugina come sorgente di stregoneria in molte storie di sfondo praghese: scolpita in rosso marmo di Slivenec, la parvenza dello studioso degli astri vi si aderge alquanto distorta come per un torcicollo, nella pesante armatura di cavaliere, paflagonica e pettoruta, con barbetta a punta, poggiando la destra su una sfera armillare e con la sinistra impugnando una spada. «Cette église contient la tombe de l'astronome Tycho Brahé»: sussurra ad Apollinaire l'ebreo errante Isaac Laquedem, mentre attraversano la Città Vecchia. Il Manfred Macmillen di Karásek ze Lvovic si aggira nella penombre del tempio di Tyn accanto a quel sepolcro. Nel romanzo The Witch of Prague di Crawford il Pellegrino contempla due volte la tomba: all'alba, quando la chiesa è affollata di pallida gente dagli occhi afflitti, e al tramonto, nella chiesa deserta, incontrando vicino alla lapide il bieco Kyjork Arabian.

Nella narrazione di Brod la misteriosità di Tycho è dilatata dalla vicinanza di un nano che lo accompagna, un gobbo rossiccio da libretto di Boito, lo scricciolo Jeppe, che gli saltella attorno e schiattisce come un bracco. L'astronomo ha salvato dal rogo questo aborto coperto di pustole in un accampamento zigano messo a fuoco da una masnada di lanzichenecchi. Durante i patriarcali banchetti, con uno scarlatto abito da giullare, Jeppe se ne sta accovacciatto ai piedi di Tycho, che ogni tanto gli getta un boccone. Un vincolo arcano unisce l'abominevole storpio all'astronomo dal finto naso.

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Salendo per via Thunova verso le scale del Castello, «chi conosce la storia di Praga - afferma Jirí Karásek nel romanzo Ganymedes - ricorda senza volerlo il malinconico regno dell'agonizzante Rodolfo II, che seppelliva da vivo la propria persona sotto le ombre pesanti dell'astrologia, della magia e dell'alchímia». Sette anni dopo l'ascesa al trono, nel 1583, Rodolfo II (1576-1611) trasferí infatti la sua sede al Castello praghese.

Deliri di alchimisti, oroscopía genetliaca, elisirvite e pietra filosofale, Tycho Brahe e Keplero, la Viuzza d'Oro, le fisionomie ortolane e belluine dipinte dall'Arcimboldo, Rabbi Löw col suo omuncolo Golem, il ghetto spaurito e sbilenco, l'antico cimitero ebraico, la «Kunstkammer» dell'imperatore: ecco le componenti e le immagini di quel maleficio, di quel caleidoscopio, che chiamiamo Praga rodolfina.

Domicilio del re boemo e ungherese, signore d'Austria e imperatore romano, fu Praga allora in ogni pregio di civiltà e di magnificenza. Attorno a Rodolfo convennero distillatori, pittori, alchimisti, botanici, orafi, astronomi, astrologhi giudiziari, professori dell'Arte Speculatoria, - brulicò un núvolo di spiritisti, di presagenti, di coniettori, e in specie di cerretani e maestri di poltronerie da donar volta ai cervelli. La città era tutta un accorrere, non solo di barbassori e di dulcamara, che in baracche di legno vendevano pillole di turbitto e di reubarbaro di ermodàttili, contando frottole e ciance, - ma anche di sgherri, di spadaccini, di bravi di ogni contrada, ai quali Praga appariva un paese di cuccagna, una sorta di bruegeliano «Luilekkerland». Attraeva, la residenza imperiale, avventurieri e furfanti, che spesso venivano a briga, finendo nelle prigioni della Torre Bianca sopra il Fossato dei Cervi. Sembra persino che una combriccola di banditi italiani tenesse bordone all'intrigante gran ciambellano Philipp Lang z Langenfelsu.

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Nel romanzo di Max Brod, ragionando con Tycho Brahe, il sovrano dubbioso e malato afferma di cercar nelle pietre, nei metalli, nei quadri la perfezione. E in realtà tutti i pezzi della sua raccolta, gli orologi, i gioielli, persino gli strumenti astronomici e le bizzarrie naturali recavano il segno di un'abile rifinitura che ne faceva preziose opere d'arte. L'ansia di compiutezza, il perfezionismo si univano in lui a un raro amore del raro, delle cose eteròclite, esotiche, «indiane», delle appariscenti, delle quisquilia che sapessero di avventura e di prodigio.

Del resto questa predilezione per il meraviglioso concorda col gusto di un'epoca incline al manierismo. Infervorava i collezionisti la mercatanzia che le carovane marittime portavan dalle Indie: Cocus de Maledivia, coquiglie, corni da caccia d'avorio, frutti esotici di terra e di mare, terraglie dei Chini, uova di struzzo, pelli di uccelli, pitture giapponesi su carta e su seta. E tutto questo era detto «indianisch».

Le Schatz- und Wunderkammern ambivano i piccolissimi oggetti costruiti con microscopica ricercatezza, i minuti lavori in avorio, su gusci di noce, su nòccioli di ciliegia, su nicchi, le esigue ornature di smalto. A tanto amore della minutería potrebbe fare da emblema uno splendido quadro della galleria di Rodolfo, in cui Joris Hoefnagel addensò fiori, frutti, farfalle, arvícole, rospi, lumache, una locusta, ogni sorta di insetti attorno a una bianca rosa, una sfatta rosa da poesia halasiana.

Gli òrafi, cosí numerosi alla corte di Praga, incastravano denti di squalo nll'oro come lingue di serpi. I cesellatori intagliavano in forma di paesaggi e calvari e miniere grezzi cristalli di minerali («Handsteine»), considerati portenti della natura. Le cose insolite, le pellegrine erano talismani di «réverie», pretesti di analogie. E perciò in un aguzzo dente di narvàlo la fantasia ravvisava il corno di un lunicorno amorevole con le pulzelle o un coàgulo di ambra o una massa rappresa di ètere cosmico o la secrezione di arcani animali. Nell'osso di una bestia antidiluviana l'osso di un gigante. Nelle cave corna di un'antílope africana gli artigli di un grifo.

Scontraffatte parvenze, pietre e piante di strana figura ferina e di colore inusato erano per Rodolfo sorgenti di forza soprannaturale, «huaca» come per gli Incas. Egli aveva nella sua raccolta gran copia di cammei e rarità litologiche, «Donnersteine» (martelli di selce preistorici), due bulloni dell'Arca di Noè, mostri bicèfali, un coccodrillo e campioni di bezoar, concrezione calcarea degli intestini di camosci e stambecchi, pietra gastrica dalle virtú misteriose, che il tocco degli òrafi tramutava in amuleti e monili.

Tra le altre cose balzane da lui possedute notiamo il coltello inghiottito da un contadino durante una cràpula ed estratto dopo nove mesi, nel 1602, da mastro Florian, barbiere; una sedia di ferro («Fangstuhl»), che imprigionava chi vi si fosse seduto; un «artefatto» sonoro, sulla cui cima indorata si moveva una caccia di camosci e di cervi; un «Orgelwerk», che eseguiva da solo «ricercari, madrigali, e canzoni»; struzzi impagliati; calici di rinoceronte, in cui le bevande ribollono se avvelenate; un medaglione votivo di argilla di Gerusalemme; un grumo di creta della valle di Ebron, con cui Jahve Elohim plasmò il protoplasto Adamo; e grosse radici di mandragora (Alraune) in figura di omini, poste sul morbido velluto di piccoli scrigni come in lettucci di bambole. Il sortilegio di questa pianta delle solanacee cresceva se era trovata sotto un patibolo. Alraune, vegetale fantoccio del teatro di Praga: della stessa famiglia di manichini, cui appartengono il Golem, i robot, Odradek.

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Rodolfo Il affastellava a capriccio e senza un sistema le preziosità della sua raccolta su mènsole e tavoli, dentro innúmeri armadi e forzieri. Perché i lettori abbiano una breve contezza degli altri oggetti che popolavano quel «verzauberter Raum», tenteremo di elencarne ancora qualcuno in una sorta di scompigliato inventario che, per essere appunto manchevole, rispecchierà meglio il disordine della collezione.

Calchi di lucertole in gesso e di altre béstie in argento, «Meermuscheln», corazze di tartarughe, madreperle, noci di cocco, pupazzetti di cera a colori, figurine di argilla egizie, finissimi specchi di vetro e di acciaio, occhiali, coralli, scatole «indiane» con piume sgargianti, vasi «indiani» di paglia e di legno, pitture «indiane» ossía giapponesi, noci «indiane» d'argento battuto e indorato, e altre esotiche cose che le gran caracche portavano a vele tese dalle Indie, un torso mulièbre di gesso color carnicino, di quelli che piaceranno ai surrealisti praghesi, tavolieri d'ambra e d'avorio per giocarvi a dadi, un teschio di gialla ambra, càlici d'ambra, zampogne, «paesaggi» di diaspro di Boemia, una tavoletta d'argento smaltato, nicchi di àgata, diaspro, topazio, cristallo, un quadro d'argento montato nell'èbano, una pittura su alabastro orientale, pietre dipinte, mosaici, un altarino d'argento, un pècchero di cristallo con coperchio d'argento, una caraffa di topazio donata a Rodolfo da un'ambascería moscovita, un'anguistara di «pietra stellare», un bellicone di àgata boema con anse d'oro, un tónfano di topazio in foggia di leone, posate d'oro con rubini, orci di terra sigillata (alcuni dentro un involucro di velluto rosso), una nave di corallo con figurine, una nave di legno indorata, una nave maiuscola di Cocus de Maledivia rivestita d'argento, un cofanetto di cristallo di rocca, una cassetta di madreperla, un liuto d'argento, làmine di lapislàzzuli, corni di rinoceronte, corni da caccia in avorio, vistosi coltelli guarniti con oro e con gemme, porcellane, tarli di drappo, mappamondi di varie guise: uno indorato, uno argenteo su un ippogrífo, sfere armillari, strumenti di misurazione, vetreria veneziana, un'antica testa di Polifemo, Deianira e il centauro in argento, medaglie, maiòliche a molti colori, preparati anatomici, finimenti, speroni, brighe, bardelle, cupole di trabacche, farsetti ed altro bottino preso ai turchi nel rigettare le loro gualdane, arnesi di venazione, bandiere, museruole e collari, ogni specie di vasellamenti, coppe di uova di struzzi, sciabole, daghe di manigoldi, moschetti, stiletti, stocchi, spingarde, pistole, verdughi. E automi, e meccanismi melodici. E orologi, orologi. In forma di barca d'argento, di torre con trombettieri... . Come nel sogno di Kubin a Perla nel romanzo Die andere Seite: «... sentii intorno a me un ticchettare molteplice e scorsi una quantità di orologi piatti, di grandezze svariate, da quella dell'orologio della torre a quella degli orologi da cucina, fino ai piú piccoli orologi da tasca. Avevano piccoli mozziconi di gambe e si trascinavano come tartarughe, qua e là per il prato, disordinatamente, con un ticchettio eccitato». Nella raccolta di Rodolfo era appunto una tartarughina con un congegno di orologeria.

Dai granati di Boemia alle selle da naso, dagli àrbori petrigni del mare alle caraffelle di corno di rinoceronte, dalle perfide lame con occhirubini sui mànichi agli «ushebtis» e alle piume di colibrí: Dio mio, quanti stimoli per la fantasia. Abbracciando i diversi regni della natura e le lontananze geografiche, quel guazzabuglio, quell'attrezzeria conviviale, quel repertorio di gioie e di artefatti e di argenti e di utensíli e di inutilezze voleva essere un «orbis pictus», riflettere il libro di Dio. D'altronde la promiscuità degli oggetti di vari campi e di varie contrade corrispondeva al brulichio pittoresco di gente eterogenea nella città rodolfina. A tutto questo si aggiungano le statue antiche e moderne e la numismatica e stormi di quadri. E non siano dimenticati i cavalli che Rodolfo collezionava con grande fervore, non foss'altro che per farsi ritrarre in arcione, con l'armatura pesante e l'aspetto marziale.

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Nel romanzo di Brod, visitando la «gackomora» rodolfina, Tycho Brahe tutto si raccapriccia in considerare l'oppressione e l'angoscia che suscita «questo cumulo confuso di oggetti»: pareva all'astronomo «che lo stesso imperatore tremasse di spavento di fronte a quell'immensa ricchezza».

La febbre di oggetti nasce in Rodolfo dalla bramosia di riempire il vuoto che lo avviluppa, di soperchiare la paura della solitudine. Egli congrega avidamente una selva di rari ordigni, come a innalzare muraglie contro la morte. Il suo collezionismo maniaco esprime tanatofobía. Se è vero, come Gogol' afferma nel Ritratto, che una vendita all'asta somiglia a un uffizio funebre, per la penombra e la lugubre voce del banditore che batte col martelletto, - le prodigiose raccolte di Rodolfo hanno anch'esse qualcosa di sepolcrale, e le sue gallerie sono arche di morti piú che stanze di vivi.

Ma quell'inerzia, quella fissità è soltanto apparente. Le morte cose rivelano una sinistra inquietudine. Lo guardano con maleficio dalle loro tane come bestie in agguato. E alcune, troppo guardate da lui, hanno assunto il suo volto, quasi fossero specchi della sua ipocondría.

Agli ipocondriaci molto avvantaggiosa è la mutazione dell'aria, che le fibre del cervello fortifica, il sugo nervoso purifica ed i fermenti tutti coi fluidi corregge. Ma Rodolfo non riesce a sottrarsi agli oggetti che lo tengono schiavo. Egli torna tra loro anche nel cuor della notte alla fosca vampa di grandi doppieri. Ed ecco sembra mutarsi in uno degli uomini-oggetti delle «bizzarrie» dei Bracelli, in un corpo tutto scomparti e cassetti, per nascondervi pèccheri, gemme, monili. Il ranocchiesco cric-crac degli armadi, l'ammiccare dei cristalli e degli amuleti, l'idiozia da santone dell'abinzoar, i terribili occhi dei quadri, il sugnoso luccichio delle stoffe, i bisbigli delle pietre sono per lui piú attraenti degli affari di stato. In quella dispensa di «huaca», in quel «dreamland» di feticci egli legge il mistero delll'universo, come nelle cucúrbite e negli oròscopi.

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Quando il tenente Lukás gli chiede se si è mai mirato allo specchio, Svejk risponde: «Una volta dal cinese Stanék avevano uno specchio convesso e quando uno vi si guardava, gli veniva voglia di vomitare. Il muso cosí, la testa come un acquaio per le sciacquature, la pancia come in un canonico ubriaco, insomma una figura». A «figure» riflesse negli specchi magici di un baraccone metafisico fanno pensare i ritratti compositi dell'Arcimboldo, che tengono anch'essi della sostanza di Praga, quei volti di verdure, di frutti, di volatili, di selvaggina, di arrosti, di libri, di utensili e arnesi rurali da cucina e cantina: «musaico di spropositi insieme commessi», supremo conseguimento di quel «lavorare a grottesco», di cui parla il Bartoli nella Ricreazione del savio.

Giuseppe Arcimboldo (1527-93), «ingegnosissimo pittor fantastico», prese nel Sessanta del XVI secolo il posto di ritrattista alla corte di Vienna, lasciato, per debolezza d'occhi, da Jakob Seisenegger. Regnava Ferdinando I (1526-64). Vi rimase con Massimiliano II (1564-76). Con Rodolfo II si trasferí poi a Praga. Si fuse a tal punto con l'atmosfera rodolfina, da entrare nella mitologia di quel tempo, lui stesso assumendo qualcosa di quella magica ambiguità e malinconia saturnina, che contraddistinsero gli alchimisti. Come si vede del resto dall'autoritratto, in cui appare ieratico e duro, con gabbano nero, alto berretto a pan di zucchero, colletto inamidato sotto la barba. Nella commedia Rabínská moudrost' (La saggezza rabbinica, 1886), ambientata nell'epoca di Rodolfo II, Jaroslav Vrchlicky ha fatto di lui (col nome Arcimbaldo) un pittore scavezzacollo, un avventuriere bohémien, che rivela i segreti delle stregonerie di Rabbi Löw.

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L'arte dell'Arcimboldo è dunque fortemente connessa con le predilezioni di Rodolfo II: col suo amore degli Automaten e dei fantocci meccanici, col mondo bizzarro ed esotico che lo attorniava, col senso alchimico dell'amalgama di corpi diversi, col marionettismo golemico, e in specie con l'ansia di collezionare che incalzò questo sovrano. C'è un intenso rapporto tra i ritratti ibridi dell'Arcimboldo e la Kunstkammer di Rodolfo, gabinetto di naturalia, di rarità e anomalie. In quanto fastelli di oggetti, di frutti, di fiori, di bestie, le figure arcimboldesche sono collezioni esse stesse. Non a caso l'Arcimboldo contribuì pure lui ad arricchire le raccolte dell'imperatore e, quando fatto vecchio, si ritirò dalla vita di corte a Milano (1587), continuò a provvedere all'acquisto di «curiosità» per il gran museo rodolfino.

Le Quattro Stagioni, ad esempio, sono vere raccolte di elementi vegetali. L' Estate (1563): un profilo costruito di frutti: chicchi d'uva per denti, una pera per mento, la guancia una mela, un cetriuolo per naso, l'orecchia-pannocchia, e una rigogliosa natura morta per cappello. L'applicazione dei frutti alle membra «è tanto ingegnosa, che la maraviglia conviene che passi in stupore». Collezioni e nomenclature sono i ritratti del Cantiniere (1574), groviglio di fusti, caratelli, bottiglie, bicchieri, cavatappi, cannelli, e del Cuoco (1574), composto di pentole, scodelle, padelle, frissore, colabrodo, gusci d'uovo, lumache, - nel gusto della Bauernhochzeit, la parodia nobiliare dei costumi contadini.

Il collezionismo si avverte in particolare nel Bibliotecario, caricatura dello storiografo imperiale Wolfgang Lazio (1514-65), raccoglitore di tomi e di in folio e numismatico. Tutto un commesso di libri: un libro aperto per capelli, un naso-libro, di libri la testa, nastri segnalibro per orecchi, il busto di libri rilegati e digesti voluminosi. Il modello è il Narrenschiff (La nave dei pazzi) di Sebastian Brant (1494). Viene in mente, guardando quella «figura», la descrizione della biblioteca nel Labirinto di Comenio: biblioteca-apoteca, dove si conservano medicine contro i mali del pensiero, con scatole chiamate libri, scatole-libri, apoteca con scatole e dotti che si ingozzano di libri. Il Bibliotecario arcimboldesco ha una cubicità scatolosa, che rimanda alle parvenze geometriche, ai robot cubici di altri campioni del manierismo, Luca Cambiaso, il Bracelli. Ma non dimenticheremo che, tra i personaggi incontrati da Svejk al manicomio, «il piú furioso era un signore, il quale si spacciava per il sedicesimo volume dell'Enciclopedia scientifica Otto e pregava ciascuno di aprirlo e di trovarvi la voce "Cucitoio di quinterni", altrimenti sarebbe andato in rovina. Si calmava soltanto quando gli mettevano la camicia di forza. E allora era tutto contento di esser finito in un torchio da rilegatore e pregava che gli facessero una rifilatura moderna».

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        e nella calma delle rosee sere
        tintinna il fogliame di vetro,
        che le dita degli alchimisti sfiorano
        come il vento.
                      JAROSLAV SEIFERT, Praha

Quando Rodolfo II trasferí a Praga la sede imperiale (1583), - la città vltavina divenne teatro e liceo di arte ermetica. Come moscini al vin dolce, vi accorsero alchimisti da ogni parte d'Europa. Nella speranza di poter rinsanguare con l'oro alchimico le finanze stremate dagli acquisti di rarità e di ottenere un elettuario che gli allungasse la vita, Rodolfo amò circondarsi di uno stuolo di stravaganti distillatori, che magnificava e colmava di doni, per poi ripudiarli e rinchiuderli in un arto carcere, se lo deludevano.

I vasi lutati, i matracci, gli andrògini, le perturbazioni, gli sposalizi, le copule degli elementi, la catàbasi nelle contrade infernali, il coito del re solforoso e della regina mercuriale, che genera l'oro filosofico, l'identità fra la tortura dei metalli negli alambicchi e la passione di Nostro Signore, l'uovo, le sfere di vetro, gli alberi cavi, simbolo dell'athanor: tutto il meraviglioso dell'alchímia infervorava sino al delirio la sua fantasia, distogliendolo dalle cure di stato.

Si tramanda che fosse lui stesso un adepto della doctrina di Ermete e che portasse sempre, appeso al collo in uno scrignetto d'argento avvolto nel velluto nero, un inutile elisirvite. Quando egli si spense, il ciambellano Kaspar Zrucky z Rudz rubò quello scrigno, assieme a tesori e tinture, ma finí in prigione, si impiccò ad un cordino di seta, venne squartato, perché si aggirava come fantasma, le sue ceneri furono sparse nella Vltava.

L'alchimia si innesta mirabilmente nel mondo rodolfino, che predilesse i capricci del manierismo, gli íbridi, le bizzarrie, le esperienze sinistre, il compòsito, gli andròidi d'argilla. Del resto la stessa malinconia saturnina di Rodolfo II, quella sua morbosa mestizia, in cui sembra di cogliere già le premesse della lugubrità del Barocco e di Mácha, corrisponde al nero della putrefazione, alla nigredine, durante la quale la materia della Grande Opera assume un colore di morte, - è la malinconia dell'adepto che attende infinitamente l'esito delle sue mistioni e cozioni.

Gli agenti sguinzagliati da Rodolfo nei paesi stranieri in cerca di oggetti d'arte avevano anche il mandato di scovare alchimisti e con regali e promesse attirarli a corte. Per i ciarlatani, che percorrevano allora in lungo e in largo l'Europa come gli Englische Komödianten e piú tardi i guitti della commedia improvvisa, la Boemia fu una sorta di California della scienza spargirica. Un'incisione emblematica avrebbe potuto raffigurare cosí la città vltavina in quegli anni: nell'aria viziata da vapori di zolfo, sotto un torbido sole androcefalo, che ha l'effigie di Rodolfo, Trismegisto Secondo, nei giardini imperiali fioriscono alberi di metallo con neri corvi sui rami e, spaventando gabbiani e anatroccoli, una flottiglia di strampalati vascelli-athanor naviga per la Vltava, mentre, bardata di ferro, la stomacosa megera di Bruegel corre giú dal Castello verso l'inferno.

Alla prova si conoscono i meloni, e perciò Rodolfo, prima di assumere un alchimista al suo servizio, lo faceva esaminare dal protomedico Taddeo Hagecio (Tadeás Hájek z Hájku). Ma molti arcadori riuscivan lo stesso con gherminelle a uccellare come pippioni lui e il protomedico. Usavan crogiuoli con falsi fondi d'argilla o di cera, sotto cui era nascosta polvere d'oro. O rimescolavano il contenuto del caldo crogiuolo con una bacchetta cava che racchiudeva qualche oncia d'oro sotto uno strato di cera. O nel crogiuolo mettevano carboncini con dentro limatura del superbo metallo occultata da cera nera, che al fuoco si sarebbe dissolta.

Rodolfo si inebriò spesso di imbroglioni, che menavano il can per l'aia, senza che mai nel Castello dalla continuata coniunctio di zolfo e mercurio, di fissi e volatili, nascesse l'oro. Ma ugual cosa accadeva ai patrizi e ai ricchi borghesi di Boemia, che andavano in cimbalis per i coàgoli e le sublimazioni e, divorati dalla passione di «tingere» come il sovrano, depauperando le proprie sostanze, tenevano fornaci alchimiche nei loro palazzi e manierí. Abbindolatí dalle inintelligibili algarabie e dai prestigi di falsi distillatori, che li rendevano vedovi delle loro borse, speravano di fabbricare il giallo metallo e di raggiungere una giovinezza perenne, come i grulli delle fiabe aspettano le cacarelle d'oro e le dissenterie di rubini degli asini degli orchi. Come un feticcio malèfico li attraeva il Lapis philosophorum.

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57.

Il lezzo, l'umidità, la sporcizia nauseante, la decrepitudíne delle casupole sovraffollate, causa di contagi e di alta tnortalità, la carenza di servizi igienici e di acqua potabile, l'angustia delle straduzze malconce e senz'aria e senza un filo di sole, la miseria e la prostituzione e la malavita che vi si annidavano: tutto ciò indusse gli amministratori di Praga a distruggere il ghetto. In séguito all'«asanacní zákon» (legge sul risanamento) dell'11 febbraio 1893, la Città ebraica, ad eccezione di alcune sinagoghe e del municipio e del camposanto, fu interamente rasa al suolo e cassata.

Sparirono le storte catapecchie, e le balere, i bordelli, le méscite, i saloni, le bettole: «Lojzícek», «Luskovic», «Jenerál», «La vecchia signora» («Stará paní»), «La stella diana» («Denice»), «Le tre carpe» («Tri kapri»), «U Liskú», «Alla bestia astuta» («U chytrého zvírete»): rovinò nella polvere la Babilonia, in cui si infognava la melma di ciurmadori, lenoni e relitti. Anche se erano valide le ragioni del díroccamento, si demolí tuttavia con soverchia implacabilità e leggerezza un complesso cosí pittoresco. Se non sapessimo che in questa impresa di smantellamento ebbe gran parte la speculazione edilizia, potremmo quasi supporre che il desiderio di cancellare l'umiliazione del ghetto aumentasse la furia sterminatrice dei demolitori. Le viuzze si trasformarono in larghi boulevards di tipo parigino, alle infami spelonche si vennero sostituendo lussuosi palazzi di stile Secese, che appagavano l'ansia di fasto della grossa borghesia.

[...]

Sebbene lo zelo del risanamento abbia dissolto questo palcoscenico di sortilegi, tuttavia il tanfo e la malsanía e il mistero del Quinto Quartiere sono ancora presenti nell'aere grasso di Praga. «Dentro di noi - disse Kafka a Janouch - vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è piú reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati».

A volte, in certe ore magiche, il sentore del ghetto diroccato sembra diffondersi in ogni cantuccio di Praga, come l'afrore della birra, come la muffa del fiume. Già Nezval notò che di tanto in tanto, «specie nei giorni in cui i cieli si aggrondano per la tempesta ma la tempesta non viene», l'incantesimo della Città ebraica si espande a tutti i quartieri, «come un'ala troppo a lungo tesa al volo in uno dei vecchi musei». Lo stesso Nezval rammemora una passeggiata notturna con Jindrich Honzl nello stralunato distretto dell'antico Josefov che, ormai con vedute a suo dire dechirichiane, gli fornisce la chiave per una diversa concezione emotiva di Praga. Il fitto assieparsi di febbrili stamberghe si è dunque mutato nella nostalgica rarefazione di un circondario da Pittura Metafisica.

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62.

Chi avrà pazienza di leggere tutto questo volume, sicuramente una cosa piacevolissima vi troverà: la parola Fine. Ma quali caratteri contraddistinguono il Golem praghese? Le leggende legittimano la sua creazione con la necessità di difendere i contumacissimi ebrei dai pogròm che i cristiani scatenavano contro di loro, accusandoli di omicidio rituale. Il piú accanito nemico della gente del ghetto di Praga è in quelle leggende un certo Taddeo, un fanàtico frate, architetto di calunnie e macchinazioni, un furfante che sarebbe stato dànno alle forche l'impiccarlo.

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65.

Il Golem di Gustav Meyrink (1915) ha in fondo ben poco in comune con lo smisurato spauracchio di Rabbi Löw. Non è un manichino d'argilla, ma una sembianza sfuggente, nebbiosa, enigmatica, uno Spuk, uno spettro, che ricompare ogni trentatré anni nelle viuzze del ghetto praghese, suscitando scompiglio. Il fantasma si annida fra gli abitanti della Judenstadt, senza che essi lo percepiscano, e di tanto in tanto, per influsso di astrali pneumi, di congiunzioni sidèree, preceduto da segni premonitori, assume apparenza sensibile.

Questo Golem è dunque l'indizio di un'epidemía spirituale, che si propaga a periodi fulmínea, l'incarnazione di torbidi umori, che in eterno fermentano nella soffocante strettura del ghetto, prorompendone a volte, per spargere una malia tremendíssima, un'oscura psicòsi. In altre parole, sono le paure e le angosce del piccolo ebreo perseguitato a dar corpo al Golem. Prolungamento dell'atmosfera lúgubre e intossicata del Quinto Quartiere, delle sue fatiscenti casupole che digrignano i denti, delle sue pietre unte come pezzi di grasso, - lo spettro attraversa ogni trentatré anni i sordidi vicoli immersi in un ambiguo Zwielicht, prendendo l'aspetto di uno sconosciuto dal viso giallo e dai tratti mongolici, vestito di uno stinto abito altmodisch, dall'andatura cespicante, «come se a ogni attimo volesse cadere in avanti».

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