Copertina
Autore Patrick Robinson
Titolo USS Shark
EdizioneLonganesi, Milano, 2002, I grandi libri d'azione 18 , pag. 438, dim. 140x210x40 mm , Isbn 978-88-304-1968-1
OriginaleThe Shark Mutiny [2001]
TraduttoreAndrea Molinari, Paolo Valpolini
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe narrativa inglese , thriller
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Pagina 11

PROLOGO



* Estate 1987. Hunter Valley Farms, allevamenti di purosangue. Lexington, Kentucky.


Faceva maledettamente caldo per il baseball. La leggera brezza scompigliava appena i grandi prati di gramigna cintati di quello splendido allevamento lungo il vecchio Iron-Works Pike, nelle vicinanze del villaggio di Paris.

Il giovane Dan Headley non riuscì a colpire la palla veloce di Rick Hunter e a salvarsi. «Piano, Ricky... rallentala un po'... non riesco a prenderla.» Ma una dopo l'altra le palle da baseball arrivavano veloci, basse e lontane, e colpivano la base del muro del capannone rosso alle spalle del battitore.

Il lungo lanciatore sedicenne continuò a ridere ad alta voce mentre il suo migliore amico batteva e mancava nuovamente la palla. «Ti devi concentrare, Danny.»

«Su cosa?»

«Sulla palla, stupido.»

«Come faccio, se non riesco nemmeno a vederla? Nessuno la può vedere.»

«Pete Rose riuscirebbe a vederla», disse con solennità Ricky, riferendosi all'ex leggenda dei Cincinnati Reds.

«Pete Rose sarebbe riuscito a vedere la granata di un obice.»

«Okay, un'altra?»

«No. Ne ho abbastanza. Torniamo a casa e beviamoci una bibita. Sto sudando come un toro.»

Rick Hunter si tolse il guantone, infilò la palla nella tasca dei jeans e annodò le maniche del giubbino intorno alla vita. Saltò la staccionata e si avviò in un ampio recinto che ospitava una mezza dozzina di cavalle e puledri. Dan Headley lo seguì, dondolando la mazza Louisville Slugger e osservando i puledri: i migliori di quei cavallini da corsa del Kentucky avrebbero potuto un giorno ascoltare l'urlo della folla al Belmont Park, al Royal Ascot, a Saratoga, a Longchamps. Forse persino a Churchill Downs.

«Non riesco proprio a capire perché non te ne stai qui a diventare ricco», disse Dan. «Ad allevare cavalli e a venderli a prezzi esorbitanti, come tuo padre. Gesù, Rick! Hai la pappa fatta, proprio qui.»

«Danny, abbiamo parlato di questa faccenda molto sovente nel corso degli ultimi tre anni. E la mia risposta non è cambiata. Non m'interessa. Inoltre, a mio parere, questo mercato al rialzo dei purosangue non durerà in eterno.»

«Be', dura da oltre dieci anni. E non dà segno di rallentamento.»

«Crollerà, vecchio mio. Alla fine tutti i mercati rialzisti lo fanno. E a quel punto ci sarà qui intorno un mucchio di vecchi stivalacci al verde, gente che pensava che la propria fortuna fosse una specie di diritto di nascita.»

«Va bene, ma questo non c'entra con le ragioni per cui te ne vai. Te ne vai perché ti stufi... nonostante tutti quei soldi in cui sguazzi. Ma perché diavolo vuoi diventare un ufficiale della US Navy invece di cavalcare qui intorno come un qualche dannato zar, il padrone della Hunter Valley, proprio qui nella capitale mondiale dell'allevamento dei purosangue? Non riesco a capirti.»

«Be', pensi di venire via con me, vero?»

«Certo, Ricky. Ma, Cristo, mio padre qui fa solo lo stalliere. Il tuo vecchio è il proprietario di tutta la baracca. E non hai nemmeno fratelli e sorelle. Sarebbe tutto tuo. Tutti i duemila acri. E tutti di prim'ordine.»

«Dai, Danny. Conosci l'allevamento dei cavalli meglio di me. Se tu volessi potresti farne il tuo avvenire. Tuo padre possiede già un paio di cavalle. Tutti devono cominciare da un punto di partenza.»

«Ricky, non riuscirei a metter via abbastanza soldi per un posto come questo in mille anni. Finirei per diventare un altro stalliere. Chiunque può capire perché preferisco diventare il capitano di vascello Dan Headley, comandante di un incrociatore della US Navy, anziché Danny Headley, stalliere della Hunter Valley.»

«Anche tu ti stufi ad allevare cavalli, vero?» disse Ricky, ghignando, con la certezza di avere un amico che la pensava come lui.

«In parte. Ma soprattutto non ne godo i vantaggi.»

«A mio parere, non cambierebbe niente. Vuoi solo avventura, probabilmente, come me. I cavalli veloci ci mettono troppo a crescere. Non abbiamo il tempo di aspettare, vero?»

Dan fece una smorfia. Era molto più basso del grande Rick Hunter, e doveva camminare veloce per tenere il passo del suo amico d'infanzia. Attraversarono rapidamente la splendida prateria, salirono una collinetta osservando i puledri che si avvicinavano, curiosi, eccitati, mentre le giumente si muovevano dietro di loro con passo molto più tranquillo.

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Pagina 25

* Martedì 13 marzo. Comando della Flotta del mar Cinese Meridionale. Zhanjiang, provincia di Guangdong.


Le luci delle banchine lungo i moli facevano del loro meglio per illuminare la scura serata nuvolosa. La pioggia proveniente da ovest spazzava la base navale sotto le nubi basse e la fredda foschia. Sulla banchina 5 un'auto di servizio nera della Marina era parcheggiata nell'ombra, con il motore avviato, i fari accesi e i tergicristallo in lotta con la pioggia battente. I suoi due occupanti, gli ammiragli Zhang e Zu, stavano osservando quella che probabilmente era la prima partenza di una flotta d'altura cinese per una missione all'estero, oltre le acque territoriali, fin dai viaggi delle navi dell'eunuco ammiraglio Zheng He nella prima metà del XV secolo.

A quei tempi, i sette epici viaggi dell'ammiraglio Zheng attraverso l'oceano Indiano, sino al golfo Persico e alle coste dell'Africa, erano stati acclamati come i massimi successi della più grande Marina mai vista al mondo. Ed era veramente una grande Marina. Nei momenti di massimo splendore era stata formata da tremilacinquecento navi - duemilasettecento delle quali da guerra - di stanza nelle numerose basi navali principali e nei cantieri lungo la costa orientale della Cina. L'ammiraglio Zheng aveva portato oltre cento navi e quasi trentamila uomini sulle coste dell'Africa, in Kenya, in Arabia, su per il mar Rosso, fino al Golfo, attraverso lo stretto di Hormuz, dove avevano gettato l'ancora e scambiato sete e porcellane con le moderne medicine arabe e con la mirra, il conservante usato dagli egiziani. Dal Siam, sulla rotta verso casa, erano stati portati perle, oro e giada. L'ammiraglia di Zheng era una grande nave lunga centoventi metri, a nove alberi, cinque volte più grossa della Santa Maria che Cristoforo Colombo avrebbe usato sessant'anni più tardi. Il più grande esploratore della Marina cinese aveva preceduto di ottant'anni Vasco de Gama sulle coste dell'Africa orientale, ed era stato un bene che non fossero arrivati insieme perché le grosse navi da guerra dell'ammiraglio Zheng avrebbero certamente annientato le «minuscole» caravelle portoghesi lunghe ventiquattro metri che avevano doppiato a fatica il capo di Buona Speranza.

È difficile immaginare cosa portò l'imperatore della dinastia Ming, qualche anno dopo, a eliminare la sua potente flotta: l'eterna diffidenza cinese nei confronti degli stranieri, di tutti gli stranieri? La considerazione di se stesso e il suo antico senso di superiorità? Forse il suo malinconico senso d'isolamento? È possibile che la morte dell'immortale ammiraglio Zheng He, nel bel mezzo dell'oceano Indiano durante il suo ultimo viaggio verso casa nel 1433, possa aver creato nel comando della Marina cinese un vuoto troppo grande per poter essere colmato. Ma forse la verità ultima sull'incredibile decisione di proibire del tutto ogni avvetura navale oltremare la si può trovare nelle parole del giovane imperatore Ming Zhu Zhanji, che aveva sovrinteso a molti degli importanti viaggi di Zheng. In un'occasione aveva detto: «Non m'interessano gli affari stranieri».

Ovviamente non si riferiva al caro petrolio greggio proveniente dai vasti giacimenti del Kazakistan.

Adesso, nell'inverno inoltrato del 2007, l'ammiraglio Zhang non poteva ignorare gli affari stranieri e stava per stravolgere quasi 580 anni di politica navale cinese: la politica che quella grande nazione non aveva mai abbandonato. Fino alla prima guerra mondiale, nessuna grande potenza al mondo riuscì a competere in termini di dimensioni o di potenza di fuoco con le gigantesche flotte da combattimento degli imperatori Ming.

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Pagina 54

* Venerdi 27 aprile. Stretto di Hormuz.


Nemmeno un'increspatura disturbava le calme acque blu della parte meridionale dello stretto. Era una di quelle afose mattine arabe, quando il calore livido del deserto rende la vita sulla terraferma quasi impossibile e la vita a bordo delle navi non molto migliore.

Sei miglia a nord-est della penisola di Musandam l'acqua sembrava un olio, e la marea iniziò a tirare dal mare Arabico. Non c'era l'onda dell'oceano, non c'era una bava di vento sulla superficie, e nessun movimento nell'aria calda e ferma. Ma le onde stavano per giungere. Onde giganti della grossa prua bianca della nera nave gasiera da ottantamila tonnellate Global Bronco, che avanzava a 18 nodi in direzione sud-est. La nave lunga duecentosettanta metri trasportava 135.000 metri cubi di gas liquido, congelato a meno 160 gradi, un volume pari a quello di un edificio alto trenta metri, e largo e lungo sessanta. Una quantità di gas liquido che rappresenta, secondo il parere di tutti, il carico potenzialmente più pericoloso in circolazione sui mari del mondo.

A differenza del petrolio greggio, che non brucia all'istante, il gas liquido naturale è altamente volatile, compresso com'è, seicento volte più del gas normale. Le società di trasporto petrolifero sono paranoiche circa i regolamenti di sicurezza per il suo trasporto in giro per il mondo. Tutte le gasiere sono dotate di sistemi di sicurezza ridondanti. Non si tratta delle più grandi navi da trasporto che solcano gli oceani, ma nemmeno un siluro a testata nucleare è una bomba più grossa. E comunque, l'industria mondiale del trasporto del gas liquido non ha mai subito un incendio, e nemmeno un'esplosione.

In plancia, trenta metri circa sopra il pelo dell'acqua, l'attentissimo commodoro Don McGhee osservava le quattro gigantesche cupole color bronzo, che spuntavano di diciotto metri dal ponte dipinto di rosso. La prua della Global Bronco si trovava circa duecentosettanta metri davanti a lui, e il veterano comandante originario di Houston, il porto a sud-est del golfo del Texas, poteva vedere la grande gru a portale che correva come una passerella in acciaio sopra ogni cupola, fìno a prua.

La nave si stava ormai lasciando alle spalle la zona di traffico interno dell'Oman, con l'area riservata agli addestramenti a fuoco della Marina locale dieci miglia a poppa. Davanti a loro c'era la parte più angusta dello stretto di Hormuz e con un'aroa così limpida avrebbero visto chiaramente il promontorio omanita di Jazirat Musandam e, due miglia più a sud, Ras Qabr al Hindi. Erano invece troppo lontani per scorgere all'orizzonte le coste dell'Iran, che delimitavano a oriente il canale largo trenta miglia a forma di mezzaluna.

Il comandante McGhee stava parlando con il direttore di macchina Andre Waugh. Davanti a sé potevano vedere una gigantesca petroliera inglese da trecentomila tonnellate battente bandiera liberiana, diretta verso il Nord Atlantico. Le si erano pian piano avvicinati lungo la rotta dal nuovo terminal del gas al largo del Qatar, proprio dietro la penisola degli Emirati, superati Abu Dhabi e Dubai, e adesso si trovavano a meno di cinquanta miglia dalle acque aperte del mare Arabico. Tutti i comandanti di petroliere erano contenti di uscire dal Golfo, e McGhee non faceva eccezione. C'era sempre la minaccia delle navi iraniane di pattuglia, una minaccia cui si era aggiunta nei mesi precedenti un'altra minaccia militare iraniana, quella di posare un campo minato al largo delle proprie coste nel punto più stretto del canale d'ingresso.

Entrambi gli ufficiali della nave sapevano che il mondo intero era stato in allarme per diverse settimane a causa della presenza delle navi cinesi, ormeggiate attualmente nella base navale degli ayatollah a Bandar-e 'Abbas. Sapevano anche delle tensioni provocate dall'apertura della nuovissima raffineria cino-iraniana all'estremità dell'oleodotto costruito dai cinesi, che correva per millecinquecento chilometri dai giacimenti petroliferi del Kazakistan, lungo il Turkmenistan e attraverso il torrido deserto iraniano fino alla costa. Chiunque fosse coinvolto nel commercio del petrolio occidentale sapeva che quell'oleodotto dava alla Cina una sorta di «chiave» per il secondo deposito di petrolio al mondo di facile accesso.

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Pagina 111

«Signore, come sa, hanno un grandissimo impianto petrolchimico e petrolifero sulla costa meridionale iraniana. È collegato direttamente ai pozzi petroliferi del Kazakistan. Mi proponevo di consigliare la sua eliminazione.»

«La sua cosa?»

«Distruzione, signore. Una parola più adatta. Lo ammetto.»

«Intende dire bombardarlo?»

«Signore, per favore, cerchiamo di non essere violenti!»

«Bene, cosa vuole dire?»

«Propongo d'infiltrare delle forze speciali, e di mettere fuori uso per sempre quella raffineria.»

«Intende dire i SEAL?»

«Si, signore.»

«Siamo in grado di infiltrarli? E di riportarli fuori?»

«Certamente. Possiamo fare tutto.»

«Ma di certo tutti sapranno che siamo stati noi, vero?»

«Così come noi sappiamo chi ha minato il Golfo. Ma nessuno dice niente, almeno non in modo conflittuale. Non accusiamo nessuno, almeno in pubblico. Loro non ammettono nulla. Semplicemente, facciamo quello che facciamo.»

«Ma quei dannati cinesi andranno su tutte le furie se facciamo saltare in aria la loro raffineria.»

«No, signore. Si sentiranno come se stessero per andare in bestia. Ma riceveranno da noi un messaggio molto tranquillo: 'Voi avete iniziato a fare gli stronzi con i rifornimentí petroliferi americani? E noi vi facciamo vedere cosa vuol dire davvero fare gli stronzi'.»

«Arnold, a volte la sua brutalità mi lascia senza fiato. Ma mi piace. Mi fa sentire sicuro nella mia poltrona.»

«Il mio lavoro, signore, è far sentire sicuro ogni americano, indipendentetnente da quanto grande sia la sua sedia.»

«Posso mettere fine a questa riunione strategica?»

«Signor presidente, non si tratta di strategia. Si tratta di azione diretta. Liberare lo stretto. Proteggere i dragamine. Poi difendere lo stretto da ogni possibile minaccia. Per questo intendo avere quattro gruppi da combattimento di portaerei presenti nella zona del Golfo e nella nostra base di Diego García. Qualunque nave da guerra si muova in quella zona senza la nostra espressa autorizzazione entra a far parte della storia della marineria.»

«Arnold, la prego, faccia come ritiene opportuno.»

«Non è tutto, signore.»

«Ah, no? Cosa c'è d'altro? Ha pianificato di conquistare la Russia o altre cose simili?»

«No, signore. Ma sono preoccupato per l'evidente espansione navale cinese: non è un segreto che vogliano una Marina d'altura per la prima volta da cinquecento anni a questa parte, e non è un segreto che la stiano rafforzando a un ritmo elevato e apparentemente sostenibile. Negli anni recenti hanno creato una nuova flotta di sottomarini. Hanno acquistato due portaerei, tre caccia russi e tonnellate di materiali dalle vecchie imprese missilistiche sovietiche. Si stanno allargando, signore. E la cosa non ci piace proprio.»

«Non ci piace?»

«Signore, ci troviamo di fronte a un grosso problema. La Cina si sta muovendo. Ci ha ingannato per molti anni e continuerà a farlo finché lo vorrà. Ma quando deciderà che è pronta e a posto per sfidarci, per dominare l'Oriente e alterare l'equilibrio delle forze a proprio favore, sarà allora che vedremo la vera faccia della Cina. Mi creda.»

«E, allora, cosa intende fare al proposito?»

«Voglio arrestare questa espansione globale sui due piedi. Voglio che la loro dannata Marina se ne ritorni nei mari della Cina.»

«Ma come intende farlo, senza dare inizio a una guerra?»

«Signore, come facciamo noi ad assicurare la nostra presenza globale? Come facciamo a mantenere la nostra Marina in giro per gli oceani del mondo garantendo che nessuno abbandoni la retta via? In questo momento il mondo gode della pax Americana, così come un tempo godeva della pax Augusta. Quella era la pace secondo il modello romano. Oggi c'è quella secondo il modello americano. E la manteniamo assicurandoci di avere basi statunitensi in tutte le regioni del mondo: nell'oceano Indiano, nel Pacifico, nelle isole del Giappone e, con i nostri amici di Londra, nell'Atlantico. È l'unico modo. Una catena di rifornimenti e di alleati. È questo che la Cina non ha. Per ora. A eccezione di un posto. La Birmania.»

«Intende quella nuova base nelle paludi a ovest di Rangoon?»

«Proprio quella, signore. Quella sull'isola nel fiume Bassein. È grande. Ha grossi impianti per assistere e rifornire navi da guerra di ogni dimensione, compresi i sottomarini. I cinesi dominavano un tempo l'oceano Indiano e l'istinto mi dice che intendono farlo di nuovo, perché questo gli darebbe il controllo dell'estrema rotta orientale del petrolio attraverso lo stretto di Malacca. Al momento attuale quella stretta e poco profonda autostrada, con il suo dannato fondo in granito, si trova troppo lontano dalla Cina per consentire loro d'influenzare il traffico delle petroliere.»

«Bene, e come si propone di scoraggiarli dall'usare la base birmana?»

Arnold Morgan sorrise. «Non sia troppo precipitoso, signore. Abbiamo problemi più grossi. Ma se lei possiede azioni relative alle operazioni navali cinesi sull'isola di Haing Gyi, nel fiume Bassein, le consiglio di venderle.»

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