Copertina
Autore Maria Roccasalva
Titolo Il Danubio non parla latino
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2010, , pag. 552, cop.fle., dim. 14,5x21,2x4 cm , Isbn 978-88-7937-484-2
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe narrativa italiana , storia antica
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Pagina 7

Premessa



Il Danubio è l'aorta dell'Europa.

Nasce al centro del suo cuore e porta il sangue dell'Europa a tutte le terre che feconda. Ma il punto esatto dove nasce è ignoto.

Con cinico realismo, i Romani dicevano: mater semper certa. La sua era incerta, ieri come oggi. Nessuno, infatti, è mai riuscito a capire da dove venga fuori quel gigante che percorre quasi tutta l'Europa in lungo e in largo, come una gamba ripiegata in procinto di dare un calcio a un ostacolo per allontanarne la minaccia: si sa solo che ha avuto in sorte un ben triste destino: la nascita in un luogo imprecisato della Foresta Nera, e la morte in un altrettanto Mar Nero. Pertanto, non potendo essere misurato dalla testa, come ogni altro fiume, cioè dalla sorgente, è stato contato dai piedi, dalla foce.

Il Danubio è un fiume anomalo.

A differenza di tutti gli altri fiumi europei, che appartengono a una sola nazione, esso ne possiede molte, e tutte amandole con uguale trasporto. Ma la sua eccezionalità è un'altra: se tutti gli altri fiumi del mondo, con il loro incessante fluire rappresentano il divenire, lui non diviene: è.

Il Danubio è il fiume più tragico dell'Europa.

Non solo per le sue acque, teatro di epiche battaglie, spesso tinte di rosso, ma per la scissione che ha dovuto subire. Una scissione che è quasi ontologica quanto quella dell'uomo. Col quale ha dovuto, suo malgrado, identificarsi associandosi ai suoi conflitti interiori.

La colpa è della Storia se il Danubio è sempre stato diviso; oggi in senso della latitudine, ieri in quello quella longitudine: riva destra della civiltà e riva sinistra della Barbarie. Di qua l'assetto ordinato del Diritto Romano; di là l'Anarchia di popoli misteriosi.

Forse le cose sarebbero andate diversamente se gli ostinati Romani, anziché spendere energie e decimare legioni nel tentativo di oltrepassare l'altro fiume fatidico, il Reno, per portare ai Germani i vessilli della loro lex e della pax romana, che quei riottosi non volevano – e soprattutto la lingua latina – non avessero ritenuto il Danubio semplicemente una comoda frontiera, trascurandolo del tutto.

Col senno di poi fu un grave errore; un errore che pagò tutta l'Europa, perché nei secoli a venire essa, cercando disperatamente e con dispendio di molto sangue di organizzarsi in democrazia, al di là del Danubio – senza il Diritto Romano, che nel bene e nel male era stato il catalizzatore della civiltà occidentale e l'essenza stessa di questa civiltà – perdurò immutata la teocrazia, e con essa la gerarchia, il feudalesimo, il nomadismo: due visioni del mondo assolutamente inconciliabili.

Eppure, quei popoli stanziati sull'altra riva appartenevano tutti all'Europa: con o senza il Diritto Romano, erano europei a tutti gli effetti, e lo dimostrarono fermando eroicamente, proprio sulle acque del Danubio, l'avanzata di popoli che volevano imporre un altro Dio, un'altra civiltà e un'altra lingua.

L'Europa ha un debito con questi popoli.

Da quel momento, malgrado la molteplicità dei linguaggi al suo interno, le diverse forme di organizzazione politica, sociale e religiosa, essa parlò con una sola voce, riconoscendosi unita nello stesso destino.

Non più diviso in riva destra e riva sinistra, il destino del Danubio sarebbe stato lo stesso destino dell'Europa: l'Europa germanica, slava e anche latina, perché nelle sue acque erano andate a confluire tutte le tradizioni, le culture e la storia dei popoli europei.

Il Danubio diventò così l'avamposto della civiltà occidentale, il caposaldo di questa civiltà. Lui – al quale era stato negato di parlare latino – insieme alle lingue germaniche e slave, con la magnanimità di un dio, salvò anche quelle latine. Compreso lo sdegnoso Diritto Romano.

Sulle sue acque il Danubio avrebbe respinto chiunque nutrisse la velleità di conquistarlo. Se volevano possederlo, dovevano diventare europei, perché la sua patria non sono soltanto le nazioni che bagna, è l'Europa.

Il Danubio è l'Europa.

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Capitolo I



La nebbia densa e bianca si adagiava sul terreno gelato e avvolgeva le gracili vite nel tepore di una culla. Una coltre di neve era distesa sopra la steppa e la cingeva come per preservarla dall'abbraccio del cielo che, all'orizzonte, le gravava addosso con tutto il peso del suo mistero.

In lontananza, oltre il filare delle betulle, il cristallo di un pioppo isolato riluceva sotto la luna, trasparente e rigido, e svettava a sfidare la bruma raccolta ai suoi piedi rasoterra, orientando lo spazio inanimato e senza un brivido intorno a un punto fisso.

Le voci del bosco tacevano e le luci, attutite da ombre e profondità, sollevavano dal fondo della notte forme spettrali, che si allungavano e si tendevano tremolanti a confondere la visione.

Winifrido, assorto, gli occhi strizzati nello sforzo di perforare quel muro felpato che gli si ergeva davanti, la pelle lucida di grasso per adescare la preda, i muscoli contratti come i suoi pensieri, sembrava vivere in quell'altrove che la bruma nascondeva, in quell'ammasso di tronchi recisi coperti di neve, dove il cinghiale aveva fatto la sua tana.

Per ore aveva osservato il volo del falco, che planava assecondando le folate e le sacche dell'aria, per poi piombare in picchiata, a capofitto, sulla preda. La sua freccia doveva volare sicura e diritta come il falco. Il falco volava nel vento, e tra il vento e quell'avventuriero del vuoto esisteva una sorta di complicità: l'uno lo sorreggeva e l'altro gli dava un senso per orientarsi.

Ora, nel bosco, il respiro del vento era cessato per accrescere la sua tensione, e lui, a sua volta trattenendo il respiro, aspettava immobile.

Due giorni prima, era andato a caccia con gli uomini del villaggio, e insieme avevano atterrato due cervi. Ma il cinghiale doveva abbatterlo da solo, era il suo sacrificio a Donar-Thor. Il fumo dell'arrosto sarebbe salito al cielo a impetrare protezione per il nuovo arrivato nella tribù e tutti avrebbero festeggiato con le carni fragranti e le focacce di miglio col miele e lo jogurt, il cibo preferito dai Goti di quella regione. Le donne avevano raccolto nei boschi fragole e mirtilli e qualche mela.

Tutto dipendeva dal cinghiale che avrebbe abbattuto, ma doveva restare calmo, la mano ferma, non lasciarsi prendere dall'ansia, e più cercava di concentrarsi, più veniva assalito da una piena di ricordi, copiosa quanto gli uccelli che popolavano la regione.

La madre del bambino era romana e cristiana. E la cerimonia dell'accoglienza nella tribù di un nuovo membro era un fatto della massima importanza. Tra i Goti, entrare in una tribù o esserne allontanati, era un atto di così grande significato che a decidere era il re-giudice in persona.

Sarebbe stato così magnanimo, il thjudans, da concedere anche a suo figlio il privilegio di appartenere alla tribù? Sarebbe stato accolto, il piccolo Wulfila, tra i Goti?

Una volta accolto, da qualunque luogo venisse, diventava un Goto a tutti gli effetti. Questo non dovevano mai dimenticarlo, né la sua sposa Pamezia, né i genitori di lei.

«Vecchio», aveva detto ad Agapito, quando si era ritrovato solo con lui, «io amo tua figlia e per questo vi ho liberati dalla schiavitù. Ma l'essere libero non ti dà il diritto di intrometterti nell'educazione di mio figlio».

L'uomo, come non avesse udito, continuò a camminare per i campi, davanti a lui. Poi si fermò e lo guardò diritto negli occhi.

«In quale fede vorrai allevare tuo figlio?».

Che domanda oziosa: certo che voleva allevarlo nella fede degli Asi. Era questo il solo presupposto perché suo figlio venisse accolto nella tribù.

«Ascoltami bene, vecchio...».

Agapito ebbe un moto di stizza: non si sentiva affatto vecchio, aveva quarant'anni, era ancora prestante nella figura, ma suo genero continuava a rivolgersi a lui con quell'appellativo che suonava non come il segno di rispetto di una generazione verso un'altra più matura, bensì denunciava l'arroganza di chi si sente superiore solo perché appartiene a una classe sociale più elevata. Winifrido era infatti un nobile.

L'ellenico-cappadoce cristiano Agapito aveva sempre sorriso di questa assurda gerarchia vigente tra i Goti: che significava per loro essere nobili? Non lavorare la terra e vivere di privilegi intorno al re, di solito il condottiero dell'esercito, ecco cos'era la nobiltà dei Goti! Nella loro lingua i draugthiuts, i guerrieri, costituivano il centro sacro intorno al sovrano, il piudhans. E Winifrido era un draughiuts, ma un guerriero che non aveva ancora partecipato a nessuna campagna militare, perciò non possedeva nemmeno schiavi.

Agapito, i cui padroni erano stati contadini, non si capacitava di questa assurda oligarchia che andava fiera del suo status sociale, anche se tutte le decisioni erano prese dal re. Prima che la forza fisica e l'armatura, era l'orgoglio a tenere in piedi questi nobili, un'alterigia incomprensibile, costretti com'erano a vendere se stessi all'Impero come carne da macello. Ma l'obbedienza al loro capo era connaturata, ed essi l'assolvevano con dignità e fierezza.

«Ascoltami bene», disse Winifrido truce in volto, «il thjudans ha dato il consenso alle mie nozze, sebbene Pamezia sia ellenica e cristiana e figlia di schiavi, solo per rispetto a mio padre, che è morto in battaglia per lui. E per tutta risposta tua figlia non ha mostrato la minima gratitudine, non ha mai sacrificato agli dei, né mangiato le carni ad essi consacrate; non ha mai indossato la veste corta come tutte le altre ragazze della tribù, e inoltre, cosa davvero stravagante, sa leggere e scrivere».

«Leggere e scrivere è una grande virtù che tutti i giovani dovrebbero coltivare...».

«E così in guerra brandiscono lo stilo, anziché la spada!», lo schernì Winifrido. «Ma lasciamo perdere questo argomento che tu non puoi capire. Oggi ho colpito un cervo e mi sono impegnato con i più solenni giuramenti perché mio figlio cresca nella tradizione dei suoi avi, e tu non devi ostacolarmi».

Gli si leggeva in faccia un miscuglio di trepidazione e di rabbia.

Agapito, non sospettato, lo aveva osservato a lungo nelle interminabili sere seduti accanto al fuoco. Amava molto la sua sposa, ne era certo, ma si sentiva vivere e palpitare solo in mezzo al gruppo, nella sua tribù. La tribù non era niente di per sé, soltanto un ordine di cose, una vita nella vita; un certo modo di agire e di sentire, un pugno di uomini che, come asteroidi nel cielo, seguivano una loro orbita misteriosa senza curarsi del grande ordine dell'universo. E proprio perché, come tutti i Goti, si erano posti fuori dalle regole della civiltà, era difficile domarli.

Provò una tenerezza paterna verso quel giovane esuberante e istintivo. In fondo, era un solitario per orgoglio. Agapito gli si era affezionato, così come si era affezionato all'intero popolo dei Goti, molti dei quali aveva convertito alla sua fede cristiana, prima fra tutti i suoi vecchi padroni. Ma lui era irriducibile. E tuttavia non disperava di salvare dall'errore almeno il suo nipotino goto. Non volendo inquietarlo ancora di più, gli rispose col più affabile dei sorrisi.


Sotto la pallida luce dell'alba la nebbia cominciava a evaporare verso l'alto. Sui tronchi neri la brina bianca aveva disegnato strane figure che distraevano lo sguardo. Tutto sembrava congiurare contro di lui, quando d'un tratto, due fuochi gialli gli saettarono davanti.

Il cuore di Winifrido fece un balzo e sembrò fermarsi.

Il cinghiale, immobile, irsuto, lo guardava con occhi ottusi di ferocia, e Winifrido, atterrito, esitava davanti alla bestia che scalpitava con le zampe anteriori a raspare la neve, il muso fumigante ad annusare l'aria. La corda dell'arco si tese e per alcuni istanti i muscoli dell'uomo restarono contratti, le vene turgide come se il sangue non vi fluisse più. La freccia volò e si adagiò lieve sulla neve.

Il cinghiale fece un balzo indietro, sempre guardando l'uomo, la testa oscillante di qua e di là, come in preda alla follia, cercando con gli occhi pieni di terrore una via di fuga. Impedito dai tronchi ammassati che gli ostacolavano i movimenti, sembrò soppesare l'ultima possibilità, e a testa bassa balzò alla carica. Fu un attimo, e la freccia si conficcò sul suo collo arcuato.

Con un grugnito straziante che lacerò il silenzio spaventando i tordi e le cornacchie, il cinghiale cadde in una pozza di sangue.

Winifrido, inginocchiato davanti alla bestia, levò gli occhi al cielo pieno di gratitudine agli Asi. Il primo colpo era fallito in segno di riprovazione per aver impalmato una donna a essi estranea, ma poi lo avevano perdonato. Con uno sforzo inaudito sollevò la bestia da terra e se la caricò sulle spalle. Si sarebbe caricato sulle spalle tutto il peso del mondo, tanta era la sua felicità.

Il thjudans accolse il neonato e Winifrido poté finalmente sollevare il suo rampollo da terra, dove era stato deposto nudo e urlante e tremante di freddo.

La sera della festa erano tutti radunati intorno al fuoco. Gli uomini coi capelli impomatati di burro rancido – che a loro piaceva molto, e più era maleodorante più era gradito – e le donne con le loro vesti più belle e i gioielli d'oro massiccio. Non conoscendo la danza, cantavano le gesta vittoriose dei loro antenati accompagnandosi con tamburi e corni. Gli antenati per i Goti erano altrettanto importanti che i loro dei, e ogni tribù o famiglia aveva i suoi idoli. Eroi erano anche gli antenati paterni del nuovo arrivato.

Naturalmente avevano bevuto parecchio meet, la loro birra. Era effervescente come i loro cuori, il meet, metteva allegria. Chissà poi perché, si chiedeva Agapito, i Romani lo disprezzassero tanto da definirlo l'urina dei Barbari. A lui il meet piaceva, e i Goti dicevano che teneva lontane le hajarunne, le quali preferivano le gioie di Diòniso il Liberatore di tutte le responsabilità e signore delle illusioni, tracannando il vino che rende pazzi. Senza queste ossesse la tranquilla ebbrezza degli uomini non si sarebbe trasformata in quell'orgia che seguì, e il malocchio non avrebbe colpito il bambino.

Pamezia sorrideva di queste favole, ma i Goti erano talmente adusi a confondere il vero col falso, la realtà con la fantasia, il mito con la storia, la vita con la morte che ogni cosa detta da loro sembrava contenesse sempre una favilla di verità.


Wulfila era un bel bambino, anche se dei Goti non possedeva la robustezza né il carattere violento. Era alto e biondo come suo padre, e aveva gli occhi neri di sua madre.

Viveva con i genitori e i nonni materni in una vera casa, cioè in una capanna di tronchi e paglia all'interno della fortezza che difendeva il villaggio. Anche la fortezza era fatta di giganteschi tronchi con lunghi camminamenti per le sentinelle e torri di avvistamento.

Il piccolo Wulfila aveva paura di suo padre, dei suoi folti capelli raccolti a coda di cavallo, delle borchie di cuoio che gli serravano i polsi, e soprattutto della sua possente statura. Quando si avvicinava per prenderlo in braccio, scoppiava in un pianto dirotto. Winifrido se ne rammaricava, e attribuiva questa timidezza all'influenza dei suoi nonni. Anche se il suo orgoglio gli impediva di ammetterlo, non era escluso che provasse una sorta di umiliazione per il comportamento di suo figlio. Ma bastava il sorriso dolce di Pamezia a rasserenarlo.

La vita, nel villaggio, scorreva tranquilla.

Ma per il bambino già allora cominciavano i piccoli drammi dell'infanzia. La sua compagnia non era gradita agli altri bambini, che giocavano a fare la guerra con le spade dì legno, sì azzuffavano per un nonnulla, e si divertivano a colpire gli uccelli con le fionde. Lui non partecipava mai alle sassaiole o alle lotte, era riflessivo e taciturno. Trascorreva ore e ore seduto su una pietra assorto in chissà quali fantasie. I compagni lo prendevano anche in giro con i nomignoli più cattivi per via della sua timidezza. Così non gli rimaneva altro conforto che rifugiarsi nelle braccia di suo nonno.

I racconti di suo nonno erano la sua gratificazione.

In obbedienza alla promessa fatta a Winifrido, Agapito non gli parlava direttamente di Gesù, ma glielo lasciava intuire dai suoi racconti, che ne erano la più palese glorificazione.

Gli raccontava del naufragio, e con immagini e colori così vivi – le acque livide che si sollevavano come montagne, i gorghi paurosi che si aprivano, le vele che sbattevano e si laceravano sotto le sferzate del vento di aquilone, il cielo nero e gonfio di pioggia, le urla dei pirati, i gemiti dei prigionieri – che il bambino sì rannicchiava per la paura, come fosse scaraventato anche lui nel bel mezzo della tempesta.

«E così, quando i pirati ostrogoti ci presero prigionieri, noi ragazzi fummo separati dai nostri genitori...».

«E vi trovaste da soli?». Wulfila lo ascoltava accovacciato ai suoi piedi, gli occhi sbarrati e le braccia serrate sul petto. «E avevate paura?».

«Eravamo in ansia per i nostri genitori, che si trovavano su un'altra nave, ma per noi non avevamo paura: avevamo il nostro libro nascosto tra le vesti».

«Un libro che toglie la paura?».

«Era il Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. In esso è scritto: "Chi crede in me sarà salvato"».

«Perciò vi salvaste? E i vostri genitori annegarono perché non credevano?».

«Essi credevano, ma perirono nel mare del Ponto Eusino perché questa era la volontà di Dio».

«La nonna Sossia mi ha raccontato che con voi c'era anche un ragazzo che credeva in un altro Dio e si salvò lo stesso».

«Quel ragazzo era un ebreo, cioè uno che crede solo nel Padre di Gesù. Ma sempre dello stesso Dio si tratta. Anche lui aveva con sé il suo libro, che si chiama Torah. Ma questa storia te l'ho raccontata tante volte...».

«Sì, però non mi hai mai detto come finiste schiavi».

Agapito trasse un lungo sospiro. Bevve un sorso di meet e si portò la mano sul volto. Possibile che avesse già la barba? Possibile che qualche ruga già gli solcasse la fronte? Era passato più di un quarto di secolo e lui non se ne era accorto... E sì, che la vita era stata dura! Sentì gli occhi che si inumidivano mentre riandava col ricordo a quel tempo.

«Racconta, nonno».

Il bambino era eccitato e teso, voleva che la storia non finisse mai. Vagamente riusciva a intuire che non era come quelle che si raccontavano nella tribù, dove tutti i guerrieri morivano gridando. In quelle storie non aveva mai sentito parlare della paura e della fede che salva da un naufragio. Spesso, nelle storie che udiva dagli amici di suo padre accadevano degli incantesimi: un drago che sputava fuoco sui nemici, una folata di vento che rapiva un guerriero e lo trasportava sul cavallo bianco cavalcato da una fanciulla... ma si trattava sempre di guerrieri, mai una volta che avesse udito la storia di un bambino che soffre perché è stato separato dai genitori. I racconti di suo nonno erano veri, perché lui aveva veramente sentito ciò che narrava.

«Allora, per rifarsi della perdita di una nave, i pirati ostrogoti vendettero i prigionieri della nave superstite a una tribù di Goti che si chiamavano Tervingi. Questi non erano così feroci come gli Ostrogoti. Ci accolsero bene. Tua nonna e io fummo destinati a una coppia di contadini, mentre il nostro compagno, Jakob, quello che aveva la Torah, capitò in una famiglia dove c'erano già dieci figli da sfamare».

«E lavoravate tutti?».

«Tutti, padroni e schiavi. Dormivamo sul loro stesso carro, nella bella stagione, e d'inverno nelle buche scavate sotto terra con loro. Come le talpe», e rise. «Tua nonna e io cominciammo poi a insegnare ai nostri padroni a leggere e scrivere in greco. Si divertivano come bambini, e impararono presto. Ci volevano un gran bene, come fossimo stati loro figli, e anche noi gliene volevamo. Poi, quando ci sposammo, regalarono a Sossia una bella collana d'oro e a me due pecore. Jakob, invece, ebbe il permesso di andare via per il mondo a commerciare, perché i suoi padroni non ce la facevano più a sfamarlo. Ma tornò presto con due carri carichi di granaglie. Disse che si era sposato a Nicomedia, e aspettava un bambino. Anche noi avevamo avuto una bella bambina, la tua mamma».

«La mamma mi ha detto che voi avete convertito i vostri padroni alla fede cristiana».

«È vero, ma si può dire che la loro conversione fu una conseguenza...».

«Di che cosa?».

«Della loro istruzione. Vedi piccino, quando una persona diventa istruita, non si accontenta più di credere nelle favole, vuole credere in qualcosa di vero...».

«Come io credo nella storia del tuo naufragio?».

«Quel naufragio era un evento reale, e non dubito che un giorno esso sarà scritto nella storia, così tutti leggeranno e sapranno. Perché esista la storia, è necessario che le cose accadute vengano scritte, altrimenti resta una favola. Si può credere o non credere in una favola, ma la storia deve essere creduta assolutamente, perché è stata scritta».

«Come la storia di Gesù?».

Avrebbe voluto parlargli di Gesù, della sua promessa di redenzione... Ma aveva promesso a Winifrido...

«Io so già leggere e scrivere, sono quindi cristiano?».

Che le due cose si identificassero nella mente del ragazzo era un ottimo auspicio per Agapito, che lo desiderava ardentemente. Più di ogni altra cosa al mondo. Ma doveva agire con cautela: Winifrido era stato generoso con loro, non poteva tradire la sua fiducia apertamente; eppure, il bambino doveva essere salvato dall'errore. La situazione non gli poneva conflitti. Col tempo, e con l'istruzione, sarebbe stato lo stesso suo nipote a decidere.

Per ora, si accontentava di raccontare le sue esperienze e i suoi sentimenti, conscio che i racconti riescono a modellare una mente infantile e a trarre da una materia grezza un essere consapevole, più di quanto posano le astratte parole dei libri.

E a Wulfila, i racconti di suo nonno piacevano. Ne era sedotto, stregato.

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Dei racconti del suo precettore era affascinato anche un bambino romano. Viveva sulla sponda opposta del Danubio, a Naisso, in una lussuosa villa tutta colonne e statue e giardini, insieme ai genitori e a uno stuolo imprecisato di servitori. La famiglia vi si era trasferita quando il suo bisnonno, proconsole, aveva assunto il comando militare di quella regione all'epoca dell'imperatore Claudio II, il vincitore dei Goti.

L'aristocratico Claudio Minucio Severino, suo nipote, che militava nella V Legione Macedonica, l'unica rimasta, con l'altissima qualifica di magister militum per Orientem, cioè generale di corpo d'armata, aveva lasciato il suo unico figlio maschio, Claudio Teodato alle cure del precettore Sofronio.

Sofronio era un liberto greco, non molto alto, ma ben proporzionato nella figura. Tutto era bianco in lui, la barba, i lunghi capelli che gli scendevano ondulati sulle spalle, le mani che avevano conosciuto solo il lavoro dello stilo, la tunica che indossava con eleganza. Solo gli occhi, di un azzurro profondo e pensoso, tradivano il colore. Nessuno, vedendolo per la prima volta, avrebbe potuto dubitare che fosse un filosofo.

Anche Claudio Teodato Severino era un bambino taciturno: occhi intensamente azzurri e vivacissimi, capelli neri riccioluti che lasciavano scoperta la nuca diritta tipica dei Romani, e un fisico abbastanza muscoloso per la sua età. Duellare con un subalterno di suo padre, o di uno schiavo particolarmente versato, al ragazzo non piaceva affatto: preferiva lo studio dei classici e le scienze naturali, oppure il gioco dei dadi con lo schiavo preferito, il sarmata Sigbaude, nome difficile per un bambino, e così per lui era diventato Bobo.

E poiché abitava ai confini dei due Imperi, padroneggiava dalla più tenera età sia la lingua madre, il latino, che il greco. In questa lingua aveva letto Esiodo e Omero; in latino gli scritti di Cicerone. Aveva un bell'insistere Sofronio perché leggesse almeno il De Bello Gallico di Giulio Cesare: niente, le guerre al ragazzo non interessavano punto, specie quelle che avevano posto le basi perché Roma, da Repubblica, si fosse trasformata in quel mastodontico impero che faceva paura al solo udirne il nome.

«Tu conosci Roma, Sofronio?», aveva chiesto al vecchio maestro.

«Ci sono nato».

«Quindi sei un romano».

«Sono un greco. Come sai, la cittadinanza romana vale solo per i liberi; io sono nato schiavo, perciò resto un greco, perché tale è la mia origine».

«E io che sono nato a Naisso, sono un illirico, un romano o un greco?».

«Sei un romano», rise Sofronio, «come l'imperatore Costantino, che è nato qui, a due passi dalla villa di tuo padre».

«Questo non mi consola affatto», fece il ragazzo imbronciato. «Ma dimmi, è bella Roma?».

«Più di quanto tu possa immaginare. Ci sono templi meravigliosi, e giardini profumati, e piscine, e strade grandi. E vedessi i tramonti! Sono i più belli del mondo, così dolci e struggenti da commuovere l'anima».

E allora perché il suo bisnonno si era trasferito in quella cittadina in mezzo alle montagne, che non offriva niente, che era così noiosa e triste? Il suo bisnonno era stato proconsole nella stessa legione di suo padre. Per tradizione, i maschi della sua famiglia difendevano i confini danubiani dell'Impero. Lui, di difendere i confini danubiani non aveva alcuna voglia.

«Quando sarò grande», disse, «andrò a studiare a Roma».

«A Roma?». Stavolta il sorriso di Sofronio era d'orgoglio. «Ma se tutti i patrizi di Roma vanno a studiare all'accademia di Atene! È là, che dovrai andare, se hai intenzione di diventare un erudito».

Che noia!... Da piccolo in Dacia, da grande ad Atene, quando avrebbe mai visto Roma?

«Non aver fretta di crescere. Su, prendi il libro e continuiamo lo studio dei poeti latini. Oggi leggeremo Orazio».

«Quello che dice che la vita è breve e l'arte è lunga, ars longa, vita brevis?».

«Non lo ha detto lui, lo ha detto il grande medico greco Ippocrate. A Orazio serviva quest'espressione e l'ha fatta sua».

La pignoleria di Sofronio era irritante. Ma se la vita è breve, avrebbe avuto tempo, lui, di vedere Roma?

«Il poeta vuole dire che l'arte oltrepassa il tempo della vita naturale e la rende immortale. O almeno finché durerà nella memoria degli uomini», concluse con un sospiro Sofronio.

Il precettore, però, gli aveva detto che l'anima è immortale. Non bastava l'anima a rendere un uomo immortale?

Le domande che il ragazzo gli poneva erano sempre difficili. Bisognava armarsi di pazienza con lui. Con dolcezza gli aveva spiegato un giorno che l'immortalità dell'arte è legata a quella che per gli antichi Greci era la fama. L'opinione pubblica, per Agamennone e Achille, era più importante del valore militare e della forza. Perdere la faccia era la più grande vergogna per un uomo, perché in quel caso le sue gesta non sarebbero state tramandate con gloria ai posteri. Ecco, l'arte era la capacità di tramandare qualcosa alle generazioni future. Si poteva tramandare un poema, una scoperta scientifica, un atto di eroismo, un'opera d'arte, ma purtroppo anche un'azione vile che aveva reso quella viltà esemplare. L'insieme di tutte queste cose tramandate era la storia.

Chi aveva tramandato di più, Roma o i Greci? E il maestro gli aveva risposto che entrambi avevano tramandato cose diverse: i Greci il pensiero e la poesia, Roma l'azione e il Diritto. L'uno e l'altro congiunti formavano la civiltà. Il pensiero senza l'azione era sterile, e l'azione senza il pensiero, irresponsabile.

«I Barbari tramandano?», aveva chiesto il ragazzo.

«A modo loro anch'essi, con i canti e le leggende. Ma poiché non conoscono la scrittura, le loro gesta sono destinate a essere dimenticate. Senza la scrittura non esiste la storia, e senza la storia non esiste l'immortalità».

Quella notte Teodato ebbe sonni agitati. Vedeva Roma scossa da un terremoto, le statue degli dei che crollavano insieme ai templi. Si svegliò sudato, col cuore in gola e spaventato. La paura che Roma fosse perduta per mano dei Barbari lo terrorizzava. E da quella notte questo pensiero diventò il suo unico assillo: come difendere quelle statue.

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